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Quella cosa chiamata città. Rio de Janeiro e il raptus divino

Tudo e graça que se dele pode decir (tutto è grazia, che altro si può dire), così viene descritta Rio de Janeiro dai suoi scopritori nel Cinquecento, ma il suo nome potrebbe essere un equivoco. La flotta portoghese di Pedro Álvares Cabral, nel 1502 scopre la baia che gli Indios avevano denominata Guanabara (il senso da dove viene il mare, un gran entrante del mar) e la associano alla loro capitale.

Lisbona si affaccia su un fiume che sembra un mare, Rio sorge su di un golfo, di fronte all’ilha das Cobras, dunque, è mare e il “Fiume di Gennaio” diviene un detournement geografico.  Il Pão da Açúcar e la punta di Santa Cruz ne costituiscono la porta larga 1700 metri, mentre il golfo, ricco di isole e isolette ha una circonferenza di circa 140 km.

Secondo Massimo Bontempelli, Rio e la sua baia furono fondate da Dio in preda ad un raptus di frenesia creativa. Liquido e solido, increspamenti, riflessi e trasparenze, azzurro, verde e violaceo, forme di suolo, pezzi di cielo e mare, delirio di curve senza geometria. Le montagne appaiono disposte a caso, e quelle più indietro hanno spinto in avanti quelle più piccole, posizionandole sul mare. Mescolando tutto questo è nata una baia che rende sobrio il golfo di Napoli.

Le Corbusier andrà otto volte a Rio. La prima volta nel 1929 a bordo di uno Zeppelin e ci regalerà con i suoi schizzi dall’alto delle straordinarie suggestioni della baia, definita dai suoi caratteri geografici e topografici che condizioneranno il disegno delle infrastrutture e dei quartieri.

Stefan Zweig riprende, con altre parole, la meraviglia di Bontempelli e mette in forma di racconto gli schizzi di Le Corbusier, quando afferma che siamo di fronte a una città multipla, che nessun gioco di parole, scatti fotografici possono rendere, perché è troppo varia. Qui, in questo piccolo spazio, ci ricorda lo scrittore apolide, la natura in uno slancio di generosità ha riunito tuti gli elementi che normalmente distribuisce in un paese intero.

Eccoci di nuovo a Rio. Arriviamo alle 7:30 e al nostro appartamento, a Ipanema, dopo un’ora di taxi. Ciò che vediamo in questo transito rende ridicole le retoriche dei nostri boschi verticali o delle foreste urbane che la nostra stampa nazionale ed eco-impegnata ci propina quasi ogni giorno.

Rio de Janeiro, Ipanema, strada urbana

A Rio la foresta atlantica (la Mata atlantica) è oggi ridotta in ritagli di vegetazione densissima, alternati ai quartieri abitativi della devastante urbanizzazione del litorale della città. Qui anche un semplice viale alberato è molto più di un doppio filare. Gli innesti di orchidee, che si trovano sui tronchi dei ficus che ombreggiano le strade carioca, danno vita ad associazioni di mutuo soccorso, o convivenze che troviamo nelle foreste.

Nonostante l’urbanizzazione formale e informale sia stata pervasiva e si sia insinuata in ogni spiaggia, baia, morro o vallata l’impressione è che Rio non sia una metropoli con del verde urbano, ma un’ enorme foresta, dentro la quale è sorta una città, anzi molte città. Dunque, Rio de Janeiro si alimenta di contrasti.  Se nasce come una città dentro la foresta in seguito, incuneandosi nelle baie e arrampicandosi anche sui morros ne prende il sopravvento.

Le parti di città costruite lungo le spiagge di Copacabana, Ipanema e Leblon riproducono il medesimo schema. La città è organizzata ortogonalmente e le strade principali si allungano parallele alla costa. Si tratta di strade residenziali, anche quelle affacciate sul mare; di norma solo una è commerciale ed è interna.

La strada vicina alle montagne è in collegamento con le favelas retrostanti, arrampicate sopra, e ogni mattina molte persone scendono per far funzionare la città. La favela è ovunque, la vedi circondare la città quando scendi dall’aereo, la ritrovi arrampicata sui morros che bordano i ricchi quartieri affacciati sul mare.

Rio de Janeiro, La favela di Vidigal all’imbrunire

Vi è un rapporto di mutua assistenza tra la città dei ricchi e quella dei poveri. La favela di Vidigal a Rio de Janeiro mi è apparsa come la «Irene» di Italo Calvino: “la città che si vede a sporgersi dal ciglio dell’altopiano nell’ora che le luci s’accendono e per l’aria limpida si distingue laggiù in fondo la rosa dell’abitato…e se la sera è brumosa uno sfumato chiarore si gonfia come una spugna lattiginosa al piede dei calanchi.”

La foto della cover e quelle nel testo sono dell’autore

In Copertina: Rio de Janeiro, La spiaggia pubblica, la città, la mata atlantica

Per leggere gli articoli di Romeo Farinella su Periscopio clicca sul nome dell’autore

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Romeo Farinella

Romeo Farinella, architetto-urbanista e professore ordinario di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara. Si occupa di problematiche urbane e paesaggistiche da almeno trent’anni. Prima di approdare a Ferrara ha vissuto in diverse città, tra cui Roma e Parigi e quest’ultima è diventata uno dei suoi temi principali di ricerca. Oltre a Ferrara ha tenuto corsi anche in Francia (Lille, Parigi), Cina (Chengdu), L’Avana e São Paulo e Saint Louis du Senegal. È stato direttore per alcuni anni del Centro di Ateneo per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale di UNIFE.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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