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LA SEGNALAZIONE
I Camaleonti si raccontano: “Il gruppo è la nostra storia”

“Storia di un’idea” è il libro autobiografico dei Camaleonti, scritto da Paolo Denti che ha raccolto con passione i ricordi, gli aneddoti e i racconti di Tonino Cripezzi e Livio Macchia, i due fondatori del gruppo.

I Camaleonti sono forse il più longevo gruppo beat italiano: 30 milioni di dischi venduti, 17 album, 39 singoli, diverse compilation e antologie pubblicate anche negli Stati Uniti, Germania e Argentina. Agli inizi degli anni sessanta suonavano per ogni tipo di pubblico, con un repertorio che comprendeva polke, mazurke, tanghi, classici americani, shake, twist e rock per i giovanissimi. Ecco spiegata l’origine del nome di questo storico gruppo.
Negli anni Sessanta e Settanta le canzoni e i cantanti erano importanti nella vita delle persone, basta guardare i filmati dell’epoca che mostrano l’affetto dei fan durante il Cantagiro. Oggi la realtà è molto diversa, si vive la musica in solitudine, tra cuffiette e smartphone, compressa in file sempre più “essenziali”.
Il “racconto” inizia tra i banchi di scuola, quando il padre regala a Tonino un violino e Livio inizia a studiare il pianoforte, sino a giungere ai primi anni Sessanta e alle collaborazioni con i gruppi beat e rock milanesi dell’epoca: Beatnicks, I Demoniaci, I Marines, I Trappers, Le Ombre. Nel percorso s’incrociano personaggi quali Ricky Gianco, Mario Perego, Adriano Celentano, Teo Teocoli, Gil Ventura, Miki Del Prete, Lucio Battisti, Mogol, Paolo de Ceglie, Gerry Manzoli, Riki Maiocchi, Mario Lavezzi, Gabriele Lorenzi, gli ultimi cinque faranno parte, in periodi diversi, dei Camaleonti.

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Da sinistra Paolo de Ceglie, Livio Macchia, Riki Maiocchi, Tonino Cripezzi e Gerry Manzoli

Milano, 24 giugno 1965 Vigorelli, il concerto dei Beatles in Italia, punto di riferimento e genesi dei gruppi emergenti italiani compresi i Camaleonti che un anno dopo avrebbero partecipato al Cantagiro di Enzo Radaelli. Si trattò di un’esperienza importante, la prima occasione di confronto con gli altri e l’ingresso nella scena musicale italiana.
Nel capitolo “Il grande salto” si parla del primo grande successo: “L’ora dell’amore” cover di “Homburg” dei Procol Harum, incisa in gran fretta per anticipare l’eventuale versione dei Dik Dik, che l’anno precedente avevano sbancato con “Senza luce” (A whiter shade of pale). I Camaleonti, famosi per gli scherzi, quella volta ne fecero uno di quasi due milioni di copie vendute.
Ogni parte del libro è accompagnata da una documentazione fotografica di ottima qualità, che mostra il gruppo milanese insieme ai loro colleghi, circondati dai fan, sul palco durante i concerti e in pose pubblicitarie.
Non mancano curiosità, aneddoti e riferimenti storici, come quelli legati alla fortunata incisione di “Mamma mia” scritta da Battisti-Mogol, in cui suonarono anche Dave Summer (ex-Primitives e futuro Camaleonte), Franz di Ciocco e Franco Mussida (Premiata Forneria Marconi).
L’entrata negli anni Settanta passa attraverso “la perdita dell’innocenza dell’Italia”, con la strage della Banca dell’Agricoltura di Milano, ricordata da Livio che, in quel momento, si trovava nelle vicinanze di Piazza Fontana.
All’inizio degli anni Settanta, dopo la fortunata partecipazione al Festival di Sanremo con “Eternità”, in coppia con Ornella Vanoni, il gruppo conosce un calo di popolarità, causato anche dal fenomeno del rock progressive italiano (Area, Pfm, Orme, The Trip, Banco). Il periodo di annebbiamento durerà poco, grazie al successo di brani quali “Come sei bella”, “Perché ti amo”, “Il campo delle fragole”, “Amicizia e amore”.
In quegli anni, il periodo della sperimentazione coincide con l’album “Che aereo stupendo la speranza” al cui interno furono “convinti” a inserire “Cuore di Vetro”, un brano estraneo a quel progetto innovativo.

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“L’ora dell’amore”, cover di “Homburg” dei Procol Harum

Nella parte finale del “racconto” le fotografie sono a colori, si entra negli anni Ottanta e i cambiamenti sono all’ordine del giorno. Nel gruppo escono Gerry Manzoli e Dave Summer (scelte di vita) ed entra il chitarrista Vincenzo Mancuso, con Livio che “passa” al basso. Qualche anno dopo la band rinnoverà il proprio sound con l’ingresso di Massimo Brunetti alle tastiere e Valerio Veronese alla chitarra.
Nel 1993 tornarono a Sanremo insieme a Maurizio Vandelli e i Dik Dik con il brano “Come passa il tempo”, la canzone fu eliminata, ma ottenne un buon successo di pubblico e di vendite.
Nel 1969, sull’onda del grande successo di “L’ora dell’amore”, i Camaleonti sbarcarono negli Usa, ospiti d’onore allo Statler Hilton Hotel di New York, per una serata di “Buon Natale all’italiana”. Il gruppo milanese ritornò in America nel 1978, in una lunga tournée con tappe a Boston, Filadelfia, New York, Toronto, nel 2009 (Canada) e 2010.
Nel 2004, in occasione del quarantennale di attività del gruppo, fu registrato un live poi pubblicato su Dvd, purtroppo non poterono festeggiare la ricorrenza Paolo de Ceglie (il batterista) e Riki Maiocchi, scomparsi a distanza di un mese l’uno dall’altro. Massimo Di Rocco, insegnante di percussioni, fu scelto come nuovo batterista.
Da allora sono passati altri 10 anni e l’attività del gruppo è un po’ “diminuita”, non prima di avere pubblicato un doppio Cd live, avere scritto questo libro e continuato a suonare con successo in giro per l’Italia.
Tonino e Livio ci guidano nel tempo, dal 1964 sino ai giorni nostri, senza mai perdere il contatto con la realtà, grazie all’appassionante racconto della loro vita on the road: “E’ la nostra storia normale, la nostra storia di sempre … la storia di un’idea”.
Il libro contiene un’interessante appendice con “pensieri e parole” di amici e colleghi, la discografia completa e un Cd con due brani inediti: “Storia di un’idea” (musica di Alberto Ferraris e testo di Eliana Vinciguerra) e “Due ali verso un’isola” (musica di Alberto Ferraris e testo di Paolo Denti). Se avete vissuto quell’epoca o se volete conoscerla non perdetevi questo libro, forse il futuro è proprio qui.

LA NOTA
Luci d’angelo

Il Natale è passato, le feste hanno calato il loro sipario discretamente e silenziosamente. Le luci si spengono, ma non ovunque, nella città. In un bellissimo giardino di via Cassoli, piccoli gnomi dispettosi ancora si aggirano fra pini e caprifogli rosso acceso.
Non vogliono smettere di saltellare qua e là, non si rassegnano ancora alla fine di quel periodo che li aveva visti grandi protagonisti, perché, allegri e spensierati, avevano distribuito regali, pacchetti e anche qualche piccolo, ma benevolo, dispetto. Avevano fatto anche qualche scherzetto a Babbo Natale, che era cascato ingenuamente nel tranello da loro preparato all’entrata del camino scoppiettante. La Befana, invece, non ci era cascata (forse perché donna?), proprio no, dopo l’esperienza dell’anno scorso…

luci-angeloL’elegante e austera ghirlanda sulla porta rimane lì con loro, allora, ancora un po’, ad accogliere passanti e sognatori, a dare il benvenuto a chiunque, fermandosi anche per un attimo, abbia voglia di immaginare cosa fanno quegli gnomi del giardino. Alcune candele intarsiate e multiformi costeggiano una fontana ghiacciata, un lampione fioco ma volitivo lascia ombre quasi magiche sull’uscio accogliente. Quegli gnomi sono piccole anime che vogliono trattenere ancora un po’ di gioia e serenità, per distribuirla a chiunque ne voglia e soprattutto a chi, passando, la sappia vedere e cogliere. Per questo stanno lì ancora, per questo aspettano a ritirarsi per preparare il prossimo Natale. Corrono, si rincorrono, scherzano, giocano, ridono, mangiano, fischiettano e canticchiano. C’è tempo per andarsene, perché non aspettare un po’.
Il padrone di casa è sicuramente un uomo generoso perché lascia fare quegli esseri fiabeschi e li rende liberi, perché tiene acceso il suo giardino, perché lascia che luci d’angelo illuminino, per qualche tempo, il cammino di chi abbia ancora bisogno di una scia.

(Fotografie di Simonetta Sandri)

Né con gli dei né con il capitale

Intanto che ogni religione esca dalle nostre scuole. Sia le religioni degli dei, sia le religioni secolari del capitale. È inutile piangere, è inutile spaventarsi, è inutile recriminare. Il fanatismo si combatte con la ragione. Ma se si inculca fin dalla più tenera età che ci sono ragioni superiori alla ragione umana, allora non stupiamoci se in nome di un dio qualunque si può uccidere e dichiarare guerra, sia quello un dio divino o un dio materiale come il denaro.
La religione è da sempre nemica della scuola, perché riconosce una sola scuola, la sua: il catechismo. Ogni religione è contro l’individuo, poiché l’individuo non ha senso se la religione non glielo attribuisce. E poi ci stupiamo?
La nostra scuola è aconfessionale ma non laica, insegnamento della religione e educazione laica non possono coesistere se non in contraddizione.
Se la vita non è conoscibile attraverso la scienza ciò che si studia a scuola a cosa serve se non al secolarismo di un mondo che non conosceremo mai, che non ci appartiene, perché il mondo è un altro, è quello dello spirito, della fede, della teologia, degli dei? È questa l’impossibile coabitazione tra scuola e religione, se non a costo di compromessi che tolgono o valore alla religione o valore alla scienza.
L’aveva scritto, inascoltato, nel 1996, circa vent’anni fa, il filosofo statunitense Samuel P. Huntington nel suo libro “Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”, tradotto in 39 lingue. I futuri conflitti nel mondo non saranno né economici né ideologici ma culturali, mentre gli stati-nazione resteranno gli attori principali, lo scontro sarà tra civiltà. La civiltà attraversa gli stati-nazione e rappresenta i gruppi di persone che condividono gli stessi valori culturali.
Ma Huntington fu contestato di aver sottovalutato la forza della modernità e della secolarizzazione. Altri affermarono la capacità di far trionfare i valori dell’Occidente nell’arena del mondo. L’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Jean Kirkpatrick osservò che i valori dell’Occidente sarebbero stati innestati in tutte le culture altre: “Huntington non considera quale monumento potente siano la modernità, la scienza, la democrazia, la tecnologia dell’Occidente e il libero mercato. Egli sa che la grande questione per le civiltà non occidentali è poter essere moderne senza essere l’Occidente.”
Ma la risposta più inquietante sul trionfo dell’Occidente venne da Gerard Piel, ex presidente del Scientific American, una delle più antiche e prestigiose riviste di divulgazione scientifica, nel suo articolo dal titolo “L’Occidente è meglio” scrive:” Tutti i popoli del mondo aspirano al modello Occidentale […] Più essi procedono alla loro industrializzazione, più essi abbracceranno il progresso e le idee occidentali di individualismo, liberalismo, costituzionalismo, diritti umani, uguaglianza, libertà, leggi, democrazia e libero mercato. L’educazione di massa, che consegue alla industrializzazione occidentale, produrrà il contributo decisivo”.
Ecco una versione dell’istruzione non laica, altrettanto confessionale quanto una religione. La religione della propria cultura e della propria civiltà. Che impedisce di guardare in faccia con gli strumenti della ragione e dell’intelligenza a quanto ci sta accadendo intorno. Un altro fondamentalismo non differente da quanti uccidono in nome del loro dio.
Da tutto ciò dobbiamo difendere le nostre scuole e i nostri giovani, far sì che mai l’intelligenza e lo sforzo alla comprensione si arenino nelle fallaci illusioni dei miti della superiorità di una religione o di una cultura, mai che tutto ciò possa schiacciare il dubbio, il bisogno di sapere e di ricercare.
È questa la laicità di una scuola, coerente in tutta la sua organizzazione e nei suoi insegnamenti con il compito di crescere generazioni autonome nel pensiero da ogni condizionamento ideologico, morale o religioso, cacciando ogni virus in grado di minacciare la libertà, soprattutto delle menti più giovani, da ogni sorte di incubo irrazionale.
Terrificante è il solo pensare di affrontare la deriva del fanatismo religioso con il fanatismo dell’Occidente, di un Occidente che si proponga di dominare sulle culture e le civiltà del mondo, di un Occidente contro tutti.
Molte delle religioni del mondo, nessuna esclusa, contengono germi di fanatismo che possono portare allo scontro di civiltà paventato da Huntington. Tutti i fondamentalismi ritengono che la modernità e la secolarizzazione degli stati siano la causa della defezione dalle dottrine religiose. Uno dei loro obiettivi è ristabilire lo stato teocratico, governato dalle leggi della religione e della teologia.
Ma occorre anche liberarci dal fanatismo della religione del capitale umano, per cui lo scopo delle nostre esistenze dovrebbe risiedere nei mercati, nell’accumulare ricchezze e nella crescita economica.
Se riflettiamo bene non è molto differente da quello delle religioni che considerano la vita come mezzo per realizzare la volontà di un dio o degli dei. Solo che il nostro dio è molto materiale e risiede nei beni di consumo.
Se questi fossero i valori, il modello di educazione che l’Occidente intende globalizzare nel mondo, dovremmo veramente preparare noi e i nostri figli ad affrontare uno scontro di civiltà.
Ma la ragione nel mare dell’irrazionalità può ancora trionfare. Dipende da noi, dalle nostre scuole.
C’è solo una religione a cui dobbiamo educare i nostri giovani, pienamente laica, una religione nel significato etimologico della parola, di unire insieme, di legame che unisce gli uomini in una comunità civile.
La religione della giustizia sociale, la religione dell’uguaglianza di tutti di fronte alla ricchezza, allo star bene, alla libertà dal bisogno e dallo sfruttamento. L’idea che il mondo e i suoi beni non sono solo di qualcuno, ma appartengono allo stesso modo a tutti. Che non abbiamo bisogno di difendere questa cultura o quella religione, ma il valore inestimabile di ogni vita che si muove su questa Terra, che lo scopo della vita non è accumulare ma condividere, distribuire tra i miliardi che siamo, perché nessuna condizione sociale di uno solo tra noi possa essere diversa da quella degli altri, far parti diseguali per essere uguali, per dirla parafrasando don Milani.
Solo questa sarà la lotta che ci potrà vedere vincenti contro ogni fanatismo, contro ogni integralismo religioso o meno.
Intanto perché non incominciamo a lasciar fuori dalle scuole dei nostri figli qualunque religione, quella degli dei e quella del capitale, insegniamogli ad essere laici, ad avere il pensiero libero da ogni ombra irrazionale.

La rivoluzione di papa Francesco, le foto e l’audio integrale dell’intervista a Massimo Faggioli

Un pubblico attento e partecipe, composto da un centinaio di persone, ha assistito sabato all’intervista in pubblico di Massimo Faggioli (docente di Storia del cristianesimo all’Università di St. Thomas di Minneapolis) realizzata dal direttore di Ferraraitalia Sergio Gessi. L’incontro si è svolto al museo Ugo Marano e ha visto la presenza, fra gli altri, del sindaco Tiziano Tagliani e dell’assessore alle Politiche familiari Chiara Sapigni.

 

Pubblichiamo qui l’audio integrale dell’incontro:
(per ascoltare, clic sul titolo o play sul triangolo della barra di riproduzione)

 

Introduzione di Sergio Gessi (Ferraraitalia), saluto di Maurizio Pesci (Asp), e prima parte dell’intervista al prof. Massimo Faggiol (Università di Minneapolis) – 36 minuti

 

Seconda parte dell’intervista al professor Massimo Faggioli – 38 minuti

 

Intervento del sindaco Tiziano Tagliani – 4 minuti

 

Domande del pubblico e risposte del prof. Faggioli – 20 minuti

 

LA PROPOSTA
Un nuovo volto per piazza Cortevecchia e nuove ‘vasche’ in città

Oltre vent’anni fa l’architetto Mario Botta aveva immaginato di aprire il retro del porticato di piazza Municipale per consentire il passaggio pedonale diretto a una riqualificata piazza Cortevecchia. Qualche anno fa la proposta è stata rispolverata dal sindaco Sateriale, ma non se n’è fatto nulla.

Qualcosa però andrebbe realizzato per rendere più gradevole la piazzetta. Magari non sarà proprio quella di Botta la soluzione de adottare, ma il ragionamento va sviluppato.
In questo caso i termini della questione sono sostanzialmente diversi rispetto a quelli da noi considerati in precedenza per altri ambiti del centro come piazza Savonarola, via della Volte o il Giardino delle duchesse.
Piazza Cortevecchia è oggettivamente bruttina e non c’è un patrimonio storico-monumentale da salvaguardare. Però è uno spazio a ridosso dei principali monumenti cittadini e deve essere rivivificato. Il parcheggio è utile, su questo si può essere d’accordo. Se non c’è modo o volontà (come da anni ipotizzato) di trasferirlo, per esempio, nell’area del mercato coperto (altro contenitore da ripensare), ecco che per piazza Cortevecchia si può ipotizzare un utilizzo promiscuo che riservi alle auto uno spazio di sosta parziale o sotterraneo o limitato ai giorni feriali. Quantomeno nei week end e in occasioni particolari la piazza potrebbe magari essere adibita a spazio mercatale: per uno stabile mercatino delle erbe e della frutta che a Ferrara mancava (e si è in parte recuperato in piazza Municipale di cui Cortevecchia nel caso risulterebbe un’estensione) o per altre attività commerciali. Oppure la piazza potrebbe diventare luogo di incontro e di conferenze al’aperto durante i tanti eventi che interessano la città… Prospettive di questo tipo e le tante alternative che si possono immaginare, impongono ovviamente un maquillage preventivo in termini di arredo urbano della zona: luci, piante, installazioni, pavimentazioni…

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Un progetto di trasformazione di piazza Cortevecchia nel ‘rendering’ dello studio di architettura Giuseppe Serrao

Il senso dell’operazione sta nel ricucire una cesura. Via Cortevecchia e via Garibaldi sono due fra le principali arterie pedonali di accesso al centro storico. Andrebbe chiuso il cerchio, motivando ferraresi e turisti a completare il giro, percorrendo cioè anche il secondo tratto – ora snobbato – di via Cortevecchia fino a via Santo Stefano per poi immettersi in Garibaldi.

L’idea della ‘vasca’ andrebbe prima di tutto a vantaggio dei commercianti della zona e consentirebbe al contempo un piccolo ampliamento del centro.
Operazioni analoghe, sviluppate in scala, risulterebbero significative. La vasca per eccellenza attualmente è una: corso Martiri, Listone, Bersaglieri per poi richiudere il giro in corso Giovecca perché proprio si deve (ma quel tratto del corso pedonalizzato sarebbe mille volte più attraente!).
Ma non basta: è necessario diversificare e moltiplicare i percorsi, rendendoli appetibili. Tanto per esemplificare, via Mazzini è affollatissima, ma arrivati in Terranuova si torna indietro: bisognerebbe invece indurre il passaggio verso via Scienze e via Carlo Mayr con rientro in San Romano. E sull’altro versante favorire il ritorno dalla gradevole via Contrari o da via Romei in contiguità con Voltapaletto. Analoga logica vale per Porta Reno, via Volte, via Santo Stefano…

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Piazza Cortevecchia oggi

L’idea di centro, in sostanza, va dilatata coinvolgendo nella pianificazione e nell’indispensabile adeguamento degli arredi urbani le tante suggestive vie che fanno da cornice al nucleo monumentale. Gioverebbe, questo, per ridefinire l’ormai stantia configurazione dello spazio centrale e fornire nuove suggestioni di fruizione e di visita. A vantaggio della città e dei vari suoi operatori economici: negozianti, esercenti, ristoratori, artigiani…

Nell’immagine in primo piano, un’ipotesi di riassetto di piazza Cortevecchia nel ‘rendering’ dello studio  di architettura Antonio Ravalli

LA NOTA
Dietro la porta, una finestra

Quella porta misteriosa si era, infine, aperta e ci eravamo ritrovati in un antico androne dal sapore di lontano e curioso mistero.
Le scale alte e ripide ci avevano introdotto in un ambiente degno di una scena dove solo Lucrezia Borgia poteva venirci incontro.
Una ragazza di altrettanta grazia e bellezza ci accoglieva, avvolta da una mantella leggera bianca di soffice lana ricamata. I lunghi capelli ricci le avvolgevano le esili spalle, un fiore fra le mani, proprio come la giovane figlia di papa Alessandro VI. Sorriso sereno.

dietro-porta-finestraL’androne era avvolto da un profumo particolare, una via di mezzo fra un delicato incenso orientale e un bouquet primaverile fiorito.
La giovane, che ci aveva visto fotografare il suo portone d’ingresso, ci aveva aperto incuriosita e aggraziata, pronta a svelarci cosa ci celava dietro di esso. Le spiegavamo la nostra curiosità, lei era ben felice di soddisfarla. Libri antichi riscaldavano le pareti di antica pietra, vasi di fiori e di piante accarezzavano e avvolgevano i lunghi corridoi. Alle pareti, quadri di antenati e di paesaggi lontani. Alcuni rappresentavano scene nordafricane, altri scene indiane. Nonni e bisnonni erano stati grandi viaggiatori, oltre che scrittori e poeti. Tutto sapeva di passato, di un passato magnificente. L’atmosfera era d’incanto, ci tenevamo a farvi penetrare con noi in quelle sale d’altri tempi ma così vive.
Non mancavano candelabri e candele, lampade e lampadari degni della sala da ballo di Cenerentola. E, in effetti, nell’immenso e caldo salone ci accoglieva il principe, un ragazzo elegante e raffinato, innamorato della giovane padrona di casa. Entrambi l’incarnazione della felicità, della serenità e dell’amore puro. Del bello.
Dietro quella porta c’era un altro mondo, allora, molto diverso da quello fuori, quasi un tempo fermatosi per stare solamente con se stessi. Un’isola felice. Le scale ci conducevano a una sala da pranzo finemente apparecchiata, fino a una camera da letto che si svelava unicamente ai tetti. Da lì una tenda ricamata ci apriva la mente al cielo. Potevamo sognare e immaginare quello che volevamo, da quel luogo da favola. Quello che c’era, in realtà, dietro quella porta, era una finestra sul mondo. Una finestra che si apriva solo alle sue bellezze e che si chiudeva quando il buio tentava di entrare e portare pensieri cattivi. Una finestra sempre aperta per la bellezza e la serenità e che faceva filtrare solo la luce a chi voleva vederla e trattenerla. Una finestra che accoglieva unicamente le stelle. Una finestra che lasciava fuori i malvagi, che era aperta per tutti coloro che volevano respirare e volare. Una finestra magica.

I saldi e il fascino perduto degli Shopping Mall

Sui saldi faremo bilanci più avanti. Dagli Usa, dove la prova dei saldi è anticipata al Black Friday, il giorno seguente al Ringraziamento, arrivano notizie simili, anzi sembra che i centri commerciali siano in crisi. Come sempre, guardare fuori casa ci fa capire che quello che accade a Ferrara, in via San Romano, in via Bersaglieri del Po, al Castello, non è un fenomeno locale. I primi dati nazionali segnalano performance diversificate: migliori nei centri urbani rispetto alle periferie e migliori nelle città turistiche. Si conferma il rapporto tra consumo e consumo del tempo, anzi per lo più solo di questo ci accontentiamo quando le risorse scarseggiano. Si conferma la straordinaria fonte di ricchezza che può derivare per il nostro Paese dal turismo.
Le gallerie dei centri commerciali restano affollate: le persone le attraversano con i carrelli della spesa e danno occhiate annoiate ai negozi. Le giovani coppie investono nell’acquisto di gettoni per le giostre dei bambini. Ma altro che cattedrali del Consumo, come Ritzer aveva definito, agli esordi gli Shopping Mall, luoghi in cui l’incanto delle merci ci lasciava in religiosa ammirazione, come di fronte ad uno spettacolo di grandezza sovraumana. Le merci, e soprattutto i centri commerciali non sono più una novità, il format standardizzato che da Rovigo a Ferrara, a Parma, sembrava la geniale scoperta di economie di scala a partire dalla progettazione, propone merci seriali, tutte uguali, dello stesso colore e dello stesso informe tessuto, una patetica parodia della moda.
La questione del consumo non può essere ricondotta alla dimensione economica. La crisi ha inciso non solo sulle tasche, ma inducendo un cambiamento di valori. Il lusso ha perso smalto, anche per coloro che possono permetterselo, e si è affermata una certa sobrietà. In tempi di preoccupazione e di incertezza. il lusso diventa sinonimo di futilità.
Ma non tutti i consumi sono compressi: aumentano i “beni relazionali”, in primo luogo le tecnologie della comunicazione, e tutte le spese che hanno a che fare con la convivialità. La convivialità sostiene il successo di una nuova tipologia di negozi: quelli che propongono articoli per l’arredo della tavola e per il cucinare. Questo Natale ha visto l’esplosione di pirottine, stampi per impiattare, formine per i finger food, posate e stoviglie per le più svariate destinazioni, segna posto e altri ammenicoli. Si sa che i periodi di difficoltà economica sono segnati dalla ricerca di piccole gratificazioni: è il ‘lipstick effect’ segnalato dagli economisti fin dalla crisi americana del 1929.
Così oggi cerchiamo di rendere confortevole il luogo in cui ci rifugiamo, più o meno smarriti. La casa è il bene rifugio, non certo in termini di investimento economico, ma come luogo caldo, dove condividere cene con amici, dove esibire le proprie prodezze in cucina. E chi non ne ha da vendere, con tutte le trasmissioni di cucina!
Bisognerà capire che i consumi riflettono i baricentri della vita e che, quindi, hanno a che fare con le persone prima che con il mercato. D’altra parte i sentimenti dei consumatori dovrebbero interessare le istituzioni pubbliche e le associazioni di categoria (ma qualche corso per dire che la merce deve avere un’anima, proprio no?). Tutta la distribuzione è in una crisi profonda, di cui vi è ancora un troppo vago sentore, se pensiamo che basti un po’ più di liquidità! Gli sconti ci sono tutto l’anno, negli outlet e non solo, il commercio online si diffonde con straordinaria rapidità e perché non dovrebbe essere così se cresce la capacità di accesso delle persone e l’uso dei mobile; e cresce l’efficienza delle catene online che consegnano prodotti personalizzati in pochissimi giorni. Affidare le speranze alla ripresina, è davvero miope.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi e Social Media Marketing. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Vite di donne prigioniere della paura

Non si sa se sia più misterioso il futuro che le attende o il passato da cui provengono. Le storie del primo romanzo della trilogia “Muchachas” di Katherine Pancol (Bompiani, 2014) sono vite di donne in fuga o tremendamente paralizzate dalla paura.
Hortense, Joséphine, Zoé, Léonie e Stella amano, stanno in bilico tra rinuncia e azzardo, ma riescono anche a compiere l’inaspettato. Stella e Léonie, soprattutto. Le loro vite ne hanno dietro e dentro altre, legami di sangue riscoperti o spezzati solo grazie al tempo. Stella e Léonie sono madre e figlia, unite nella violenza subita da un uomo bruto, Ray, che ha fatto della mortificazione agli altri il gusto della propria esistenza. Lui crede di averle distrutte dentro per possederle per sempre, ma entrambe riescono a fuggire, con l’anima anche se non il corpo.
Stella è giovane e bella, non capisce perché tutta quella violenza domestica, non capisce cosa possa impedire questa assuefazione al male. Qualcuno, un giorno, le dirà che sta solo in lei decidere se essere felice e che, se ci riuscirà, sarà la più forte.
Stella fa domande fino a risalire alla verità su Ray, nulla potrà mai più legarla a lui, la verità sarà la sua forza, finalmente sente parole che chiariscono e non che offuscano. Stella può ricominciare e scrollarsi di dosso tutto quel dolore, il maleficio è finito e può darsi nuovi obiettivi, “abbiamo tutti, a un certo punto della vita, il privilegio di afferrare un inizio di felicità. Vogliamo tutti prenderlo delicatamente e farlo durare il più a lungo possibile. È questo il difficile, farlo durare”.

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Katherine Pancol

Léonie ha un segreto che l’ha resa libera pur nella schiavitù di Ray, ha passato tutta la vita cullando ciò che nessuno sapeva e che lei aveva vissuto: una manciata di giorni d’amore, di emozioni e di rispetto, a questo ricordo si aggrapperà ogni istante, anche quando sarebbe stato meglio morire sotto le percosse e le umiliazioni di Ray. Fu per Léonie una parentesi brevissima, l’unico momento di vita vera, l’unica intimità che Ray non avrebbe mai potuto violare, Ray non l’avrebbe mai saputo. Non ce ne sarebbero stati altri di giorni così, ma quel ricordo le valse per sempre. La verità rivelata, dopo tanti anni, a Stella diventerà liberatoria anche per Léonie, verrà finalmente spezzato tutto il male subito.

NOTA A MARGINE
I commenti ai tempi della collera

LA CASSIERA DELLA CONAD
Delle vicende di questi giorni ho inteso che, al tempo dei social network, occorrerebbe imparare l’arte del tacere. Non si può esprimere un’opinione su tutto. La cassiera della conad, invece, mentre lavora, sostiene che gli arabi “non si sa cosa abbiano nella testa”. Da del “tu” alla zingara, e non lo fa per confidenza. Lei ha fretta di andare, la zingara. Vorrebbe superare una cliente indecisa perché rischia di perdere il treno, e la cassiera è lì, a dirle che no, che una zingara non ha impegni, ha tutto il tempo che vuole, perché non lavora. Non ho la forza di difenderla. La collera sale in ritardo in mezzo a queste piccole rivincite di provincia.

PINO DANIELE
Pino Daniele è stato un vero artista. Negli ultimi vent’anni, abbandonando la sperimentazione, ha prodotto buoni dischi pop. Con la sua dipartita abbiamo perso l’interprete, l’icona. Quello ancora dava i brividi, non mi pare poco. Ma abbiamo tutta la sua produzione musicale, il meglio che potesse produrre. La prematura scomparsa di Troisi, a cui pure è stato associato, fece molto più male. Massimo, a circa quarant’anni, aveva tanto ancora da fare e dire. La sua è stata una carriera spezzata, fortunatamente quella di Pino no. Il clamore della morte di Daniele ha a che fare con un pezzo della nostra vita. La musica di Pino ci ha accompagnati. Nel funerale celebriamo e seppelliamo parte della nostra vita. Qualcosa ci dice che il tempo, inesorabile, passa.

L’ISLAM
Di sicuro questo periodo storico ciarliero, in cui anche la comunicazione non è altro che un modo come un altro per apparire, e spesso apparire meglio di ciò che siamo, ha come smarrito l’abitudine alla filosofia intesa come ricerca delle cause prime. Quindi il terrorismo non viene contestualizzato e bene ha fatto Massimo Fini a ricordare come mai e perché esista. Bene ha fatto Emanuele Severino sulle pagine del Corriere a ricordare come il modello capitalista, dominato dalla tecnica, abbia stroncato il sacro nell’Occidente cristiano, e altrettanto farebbe con l’islam, qualora questa parte di mondo raggiungesse l’evoluzione del nostro mondo. Questo rimastico nella mente da giorni, mentre mi dico “non aprire Facebook, non farlo”. Non staranno zitti nemmeno per la morte di Pino. Non si fermeranno di fronte all’idiozia spietata. Marceranno sull’odio, sulla paura, sul terrorismo, sulla religione. E’ la pioggia della comunicazione, così ha scritto il mio amico Domenico Carrara nel suo ultimo libro. Apro, e Salvini denigra Pino Daniele. Sì! Denigra un morto, che non potrà rispondergli.

LO SAPEVO
Piove, guarda, come piove, piovono ricordi e pareri, illazioni e distinguo. Si cerca il bandolo, il rivolo, l’equilibrio sul cordolo dell’originalità. Tutto scorre. L’importante è il commercio della parola, la raccolta dei dati, dei gusti. Si comunica più di ciò che si vive. Svuotando di significato l’una e l’altra.
Ecco! Ci sono cascato pure io. Avrei fatto meglio a tacere. Ho detto la mia su Pino Daniele, Islam, social network, la cassiera conad, ai tempi della collera.
Chiedo venia.

dal blog di Sandro Abruzzese “Racconti viandanti” [vedi]

LA RIFLESSIONE
Considera che questo è stato

Considera l’aragosta, scriveva David Foster Wallace. Considera il suo punto di vista. Considera come si sente quando viene additata da un americano medio alla sagra dell’aragosta del Maine, e scopre che quel dito è la miccia che innesca sua morte. Che avverrà con patimento e lentezza, tra il cambio di colore causato dal calore estremo, e la codardia di un cuoco che esce dalla cucina isolando le sue urla con un coperchio.
Considera che può avercela non solo con il genere umano, ma con categorie ben precise: con il cuoco, con l’americano del Maine, con Obama, con i clienti del ristorante che serve menù a base di pesce e crostacei. Puoi capirla, quella specie di ragno marino. Puoi provare compassione, puoi diventare vegetariano o animalista convinto, puoi unirti a Greenpeace.

Considera persone di dubbio, se non imbarazzante, se non moralmente sbagliato, credo personale. Considera che possano pensarla in modo differente da te e che possano avere prodotto qualcosa di intelligente, provocatorio, profetico. Qualcosa di bello e di giusto, nonostante la tragedia che questo termine, insieme al suo fratello giuda, si porta dietro – “Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato c’è un campo: ti aspetterò laggiù”, scrive Jalaluddin Rumi, nel tredicesimo secolo.
Considera che Walter Disney è stato membro della massoneria, che Martin Heidegger fu antisemita, che Salvador Dalì è stato simpatizzante franchista, che Luis Férdinand Céline ne ha pensate un po’ di tutti i colori. E nega – se puoi – che Disney è stato genialmente visionario nel mettere in piedi una industria del sogno tirando un paese fuori dalla guerra; che Heidegger ha ispirato la filosofia del Novecento; che Dalì è stato un gigante dell’arte, simbolo di unicità; che Céline ha scritto assoluti capolavori letterari.
Considera che hanno prodotto, materialmente e intellettualmente, cose fuori dall’ordinario, che facevano il loro mestiere degnamente, che facevano cultura. Che resterà.

Considera persone armate che uccidono giornalisti, fumettisti, satiristi, durante una riunione di redazione. Persone che ignorano le più elementari basi dell’essere libero di esprimersi. Dove esprimersi significa parlare, scrivere, disegnare. Indurre le persone a pensare. Dare strumenti. Prendere il mondo tra le mani e saperne ridere. Non il riso della scuola elementare, ma quello della satura ianx. Non il riso di scherno, ma la sorpresa del bambino che ti mostra il re nudo, finalmente.
Anche quella è un’arma, come si può pensare il contrario? Ma è l’arma del poeta e della ragione, della fantasia e del coraggio. E una guerra, o una battaglia, o una discordia, dacchè mondo è mondo si combatte ad armi pari. Fucili contro matite, urla contro risa, questo non è giocare ad armi pari.

Considera che, nonostante i roghi nazisti dei libri, il libro esiste ancora. Di carta, digitale. In tutte le lingue del mondo.
Considera che i pompieri di Fahrenheit 451, alla fine, non l’hanno avuta vinta. Che qualcuno gli è sfuggito, e gli sfuggirà sempre.

…E di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio,
non conoscendo affatto la statura di Dio.
(Un giudice, F. De André)

Zeno, ovvero la consapevole inettititudine di primo Novecento

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, regia di Tullio Kezich, Teatro Comunale di Ferrara, dal 22 al 26 gennaio 2003

Giro di boa per la stagione di prosa 2002/03, stasera al Teatro Comunale, con un capolavoro: “La coscienza di Zeno”, di Tullio Kezich dal celeberrimo romanzo di Svevo. Ettore Schmitz, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Italo Svevo (1861-1928), è ricordato soprattutto per i suoi tre romanzi: “Una vita” (1892), “Senilità” (1898) e appunto “La coscienza di Zeno” (1923). La sua opera è forse, con il teatro di Pirandello, l’espressione più incisiva della crisi del realismo ottocentesco in Italia, disgregatosi nell’introspezione psicologica dell’individuo. E “La coscienza di Zeno” è l’amara, umoristica e paradossale storia di una “malattia”, una sorta di confessione psicanalitica a scopo terapeutico raccontata, nel romanzo, con l’afflato joyciano del cosiddetto “monologo interiore”. Dove l’antieroico protagonista, Zeno Cosini, alla fine conclude che la realtà della vita non è che un gioco assurdo, una brutta commedia in cui ciascuno è chiamato a recitare una parte.
La versione teatralizzata che andrà in scena questa sera risale al 1965 ed è di Tullio Kezich: autore certamente non nuovo a riduzioni drammaturgiche di tal genere, in specie per ciò che riguarda Svevo, ma senza dimenticare anche altri suoi adattamenti, uno fra tutti: “Il fu Mattia Pascal”, di Pirandello. Dopo la prima messa in scena, giudicata subito un evento, con la regia di Luigi Squarzina e l’interpretazione del compianto Alberto Lionello, “La coscienza di Zeno” si è guadagnato nel tempo l’attribuzione di “classico”: impegnativo banco di prova per i grandi attori. Il più recente passaggio al Comunale di quest’opera risale alla stagione di prosa 1987/88, con un allestimento a cura della Compagnia Giulio Bosetti. Lo spettacolo vede Massimo Dapporto nel ruolo del protagonista e porta la regia di Piero Maccarinelli.
Se è vero che il più celebre dei tre romanzi di Italo Svevo, “La coscienza di Zeno”, compie giusto ottant’anni, è altrettanto vero che l’omonimo adattamento teatrale di Tullio Kezich ne ha ormai quasi quaranta. In entrambi i casi, portati piuttosto bene. Sarà perché l’opera, con una buona dose di preveggenza, ha messo in ridicolo il più colossale bluff del secolo scorso: la psicanalisi, oppure perché il tema dell’“inetto” è oggigiorno più che mai attuale, o ancora perché la “consapevole inettitudine” di primo Novecento appare quasi “eroica” alle nostra inconsapevole e mediocre epoca. Fatto sta che “La coscienza di Zeno” sembra davvero inossidabile al tempo.

La Presentazione

Pronto, Ada, come stai? Come hai passato le feste? Noi bene, benissimo, anche perché sono cominciate con la Presentazione. Ma come, cos’è la presentazione? La presentazione è quando quel sant’uomo di mio marito pubblica un nuovo libro e qualcuno organizza di presentarlo, cosa vuoi, in tanti anni di matrimonio felice me ne sono fatta forse un centinaio di presentazioni e talvolta le confondo (quella del saggio sulla strage di Bologna con quella delle liriche alla luna, per esempio) e il sant’uomo si arrabbia: “Curati, mia adorata, curati, ti stai rincoglionendo!”. Ma la presentazione dell’altra sera non potrò mai confonderla. Intanto era in teatro, dove siamo stati convocati per le ore 20; puntualissimi, veniamo dirottati verso il réservés, che è già una bella soddisfazione, però mi guardo intorno: poca gente, sipario chiuso e il mio animo romagnol sfrontatore esplode: “Come si fa invitare la gente per le otto, non verrà nessuno!”. Mentre blatero a vanvera (il sant’uomo non batte ciglio) la sala si riempie: ciao, ciao, buonasera a questo e a quello. Poi, chissà da dove, nel brusìo che si spegne, la voce di uno speaker invita a salire sul palco, perché? Perché nel frattempo il sipario del palcoscenico si è aperto e al pubblico stupito si presenta un tavolo e lungo quanto il proscenio, imbandito di ogni leccornia, salata e dolce, e vino e fanta e gassosa a volontà. Il pubblico è invitato a salire per un buffet. Mi sembra un’idea grandiosa. Figurati se mi perdo un buffet, ma devi sapere che la scala per salire sul palcoscenico è piuttosto malferma e senza appoggi, come fare con la mia gamba sinistra che non mi corrisponde? Ricorro, allora, all’arte millenaria delle donne, adesco un giovanotto e lo invito a salire con me. Finita la festa viene il bello. Il sipario di nuovo si chiude, il tavolone sparisce, qualche colpo di tosse, poi silenzio in sala: dalla cortina caravaggesca color ocra sbuca il sant’uomo, che a me in quel momento sembra Gesù Bambino. Mancava soltanto la stella cometa. Lo intervistava il Direttore, bravo, con la sua aria un po’ fanée, gli occhi di cielo, la barba incolta, il capello scapigliato che piace tanto alle contemporanee. Diceva bene il Direttore, così bene che non te lo so ripetere. E ogni tanto cedeva la parola alla Profe, chissà se più bella o più brava la fanciulla, pensa che legge Aristotele in greco e pare anche che lo capisca. Gli intermezzi erano eseguiti con arte dalle letture dell’Attrice venuta da Roma: a me i brani scritti dal sant’uomo giungevano come musica. E poi dicono che a Ferrara non si fa cultura.

presentazione
La presentazione dell’ultimo libro di Gian Pietro Testa ‘Interviste infedeli’ alla Sala estense, Ferrara [clic per ingrandire l’immagine]
“Interviste infedeli” di Gian Pietro Testa è stato presentato martedì 23 dicembre alle 20 in Sala estense nell’ambito della rassegna Autori a corte, dal direttore di ferraraitalia Sergio Gessi, con l’intervento di Riccarda Dalbuoni ed Elena Felloni.

SETTIMO GIORNO
C’è buio in città, la poesia è morta

IL GRATTACIELO – Era un mattino di molti anni fa, Roberto Soffritti pensava di dover edificare la nuova Ferrara, una Ferrara orgogliosa con le sue mura restaurate, nuova viabilità, comode strade d’accesso al centro cittadino e poi con la cultura, proseguendo la politica delle grandi mostre inaugurata da Franco Farina e, infine, con l’apporto di un personaggio qual era il maestro Abbado; e poi, ancora, un nuovo ospedale e via sognando. Sappiamo com’è finita: palazzo degli specchi, una speculazione come l’ospedale di Cona, dove il cittadino non riesce ad arrivare se è vecchio, ammalato (come dev’essere chi va all’ospedale) e ha bisogno di un intervento urgente. Sarebbe bastato mantenere un buon pronto soccorso, ma la grandeur da cui i ferraresi a volte vengono presi ha chiuso la porta al buonsenso. Non erano sprechi sufficienti, la licenza per innalzare l’inutile cittadella dei dieci cinema è la dimostrazione di politiche diciamo dissennate e la nuova Ferrara rimase al palo. Nemmeno il grande porto che doveva prendere il posto della Darsena ebbe la possibilità di essere varato. Ma torniamo a quel mattino primaverile: ero nell’ufficiio del sindaco con il famoso architetto Bruno Zevi e, da una delle finestre della sala, guardavamo lo stupendo scenario su cui eravamo affacciati: architetto – gli chiesi – ricorda quel suo articolo pubblicato sull’ Espresso, con il quale denunciava l’irresponsabile scempio di una delle più belle piazze d’Italia, sconciato dal palazzo di Piacentini appena inaugurato? Ricordo, rispose Zevi, ma di scempi ormai… E che dice del grattacielo? Ma, sentenziò, ora che l’hanno ridipinto, insomma… e tacque rassegnato, come a dire c’è di peggio, anche se allora la scritta pubblicitaria al neon di un apertivo che ricopriva quasi tutta l’altezza di una delle due torri, aveva sostituito e avvilito il placido calar del sole su Porta Po, come avevano voluto Pellegrino Prisciani e Biagio Rossetti. Con il grattacielo, la sera su Ferrara ora arriva più presto. Insomma, c’è più buio.

LA POESIA E’ MORTA – Hanno un bel da dire e abbiamo un bel coraggio a bandire premi letterari e a festeggiare vincitori di nulla: la poesia è morta, i mille e mille poeti sono stati sepolti sotto una valanga di insulsaggini, l’unica voce che si ode è quella del kalashnikov e le urla disperate delle vittime e dei loro familiari: il grido che giunge da Parigi è lacerante, è colpita la nostra società, la nostra amata cultura, ma nessuno si dispera per i migranti che annegano ai nostri piedi o per i duemila morti ammazzati dagli integralisti in Nigeria, quelli non contano, sono neri, con la loro pelle si possono far scarpe griffate, no, nessuno più canta il dolore, dicono che non è poesia, lo diceva anche un amico, molto noto, durante la discussione finale di un premio per giovanisimi poeti, “no questa lirica no, sentenziò, non ha un messaggio”. Non ho mai capito perchè la poesia dovrebbe lanciare messaggi: cantami o diva l’ira funesta del Pelide Achille che infiniti addusse lutti agli Achei, è l’unico messaggio possibile per uscire dall’orrore, essere consapevoli di che cosa siamo, di che cosa abbiamo fatto nel nostro sovente lurido passato e, forse, per liberarci dal furioso, disumano liberismo spesso assassino da cui il nostro animo poetico è stato sconciato. Non c’entra con il terrore di Parigi? C’entra, eccome se c’entra. Basta pensare un poco, abbiamo cancellato ogni valore, abbiamo deciso che il più forte vince sempre, non sappiamo inventare altro che storie popolate da mostri umani coperti d’oro e abbiamo esportato questo trionfante pensiero nazifascista in tutto il mondo: ci aspettiamo forse che dal raccapriccio nasca la solidarietà?

IL FUNERALE – Quando ancora giravo il mondo a raccattar notizie, mi venne in mente di andare a intervistare un poeta scrittore, tra i maggiori della prima metà del Novecento, Marino Moretti: tranquili, è già stato dimenticato. Moretti, ormai un vegliardo senza speranze, abitava a Cesenatico, sulla strada che dal porto-canale conduce al cimitero. Dal giardinetto, dove Marino mi aspettava, si vedevano le vele gialle e rosse delle barche, tenute lì a galleggiare in quell’impareggiabile museo marinaro. Parlavamo del più e del meno, io gli chiedevo notizie di quel mondo che aveva cantato e che mi aveva incantato, parlavamo delle donne romagnole pie e coraggiose, quelle che pregavano “buzarè, buzarè l’anma de pchè” quando sentivano i loro uomini sanguigni e brilli passare davanti a casa bestemmiando, parlavamo di letteratura, poi ci fermammo improvvisamente: fuori, per strada stava passando un funerale accompagnato dalla banda: “vede – mi disse Moretti – la gente è completamente pazza, suona e canta quando uno muore, un funerale…” e tacque. Ora di funerali ne fanno due, così il morto diventa più importante agli occhi della società e si canta, si applaude, un carnevale: chissà che cosa direbbe oggi Moretti?

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NOTA A MARGINE
Gramsci: pane e grammatica

Non è un caso che la conferenza tenuta ieri pomeriggio alla biblioteca Ariostea da Fiorenzo Baratelli sul principio educativo in Gramsci avesse come titolo “La formazione dell’uomo”: “una vera educazione è quella che prepara l’uomo alla sua epoca”, questa è la concezione gramsciana della formazione, che appunto deve formare menti consapevoli della propria funzione storica e sociale, non più passivamente soggette a condizionamenti. Una visione della scuola e del sistema educativo e culturale più in generale che si struttura nel tempo, partendo dagli articoli giovanili e arrivando agli scritti dal carcere: le Lettere e i Quaderni. Piccolo inciso: per entrambi Baratelli ha tessuto un prezioso legame con un altro ‘giovane favoloso’ della nostra cultura, Giacomo Leopardi, prendendo a prestito le sue parole per definire le Lettere la “storia di un’anima” e definendo i Quaderni un’enciclopedia aperta e non sistematica come lo Zibaldone di pensieri.
Gramsci non ha in mente un’educazione in senso astratto, bensì teoricamente fondata, ma pratica, operativa e sicuramente politica. Nei Quaderni, infatti, critica la concezione italiana di una cultura prettamente “prettamente libresca”, in cui “manca l’interesse per l’uomo vivente e per la vita vissuta”, mentre già nell’articolo “Socialismo e cultura” (1916) aveva scritto: “bisogna smettere di vedere la cultura come sapere enciclopedico […] questa non è cultura, è pedanteria […] la cultura è disciplina del proprio io interiore”.
Nell’umanesimo gramsciano il sistema formativo diventa uno strumento di emancipazione e di trasformazione della società perché contempera i valori classici e storici con le nuove avvisaglie dell’industrialismo moderno e perché forma le coscienze a una libertà responsabile e consapevole. Per questo fin dai suoi primi articoli si scaglia contro la scuola classista destinata a perpetuare la divisione fra chi deve guidare e chi si presuppone debba essere guidato, “polemizzando anche con il suo partito – come ha precisato Baratelli – che finisce per accettare questa organizzazione” in cui la formazione classica è privilegio di alcune classi, uniche in grado di aspirarvi, mentre per i figli delle classi lavoratrici ci sono solo le scuole professionali, dove si insegna a fare senza pensare. Da qui anche la forte critica non solo alla riforma di Gentile, ma anche alla concezione idealistica, che separano classicità e scienze esatte: per Gramsci “questa separazione rappresenta un impoverimento per entrambe ed è inattuale per i tempi”.
Anche in ambito pedagogico Gramsci rivela tutto il suo antidogmatismo e la sua lungimiranza, non solo attraverso alcune riflessioni critiche sull’educazione delle bambine, ma anche per l’importanza data al metodo, piuttosto che alle nozioni e alla memoria: “imparare a imparare, questa per lui è la funzione della scuola, prefigurando già quell’utopia della società dell’apprendimento in cui il rapporto pedagogico è una relazione che coinvolge in ogni momento tutta la comunità”, ha sottolineato Baratelli. Forse le sue più grandi intuizioni sono però il concepire la rivoluzione di una scuola di massa non calata dall’alto, ma richiesta da chi fino ad allora ne è stato escluso: l’analfabetismo non può essere debellato attraverso leggi e regolamenti, ma con la percezione, da parte del popolo, dell’istruzione come bisogno e necessità. E, parallelamente, la consapevolezza dei rischi di questa scuola di massa: primi fra tutti la semplificazione e la dequalificazione. “Forse per questo – ha scherzato Baratelli – Gramsci non è stato un autore del ‘68”. “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso […] è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandarne facilitazioni. Occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato”, scrive nei Quaderni.
La scuola di Gramsci è insomma una scuola che forma nuovi cittadini consapevoli del proprio ruolo nella società con metodo severo e rigoroso, “un luogo dove combattere i caratteri negativi degli italiani: l’improvvisazione, il dilettantismo, l’irresponsabilità morale e intellettuale, la pigrizia fatalistica e il cinismo che portano all’inazione”.

LA SEGNALAZIONE
Tributo: Bollani “shakera” Frank Zappa

Stefano Bollani è un musicista, pianista e cantante jazz, che ha iniziato a studiare pianoforte all’età di sei anni. Dopo il diploma al conservatorio di Firenze ed essersi fatto le ossa come turnista nel mondo della musica pop, si è affermato nel jazz collaborando con i grandi protagonisti della scena, tra cui Richard Galliano, Phil Woods, Lee Konitz, Aldo Romano, Michel Portal, Gato Barbieri, Pat Metheny, Chick Corea, esibendosi a Umbria Jazz, Festival di Montreal, Town Hall di New York, Fenice di Venezia, Scala di Milano. Dal 1996 collabora con il suo mentore Enrico Rava, uno dei jazzisti italiani più noti a livello internazionale.

Nel 2003 Bollani riceve il Premio Carosone, l’anno successivo il magazine giapponese Swing journal gli conferisce il New star award riservato ai talenti emergenti stranieri, per la prima volta assegnato a un musicista non americano. Nel 2006 per la rivista Musica jazz è il musicista italiano dell’anno. Nel 2009, nell’ambito del North sea jazz festival in Olanda, gli viene attribuito il Paul Hacket award; due anni dopo è la volta del Los Angeles-Italy excellence award, per la cultura italiana nel mondo.
In televisione è stato simpaticissimo ospite fisso del programma di Raiuno “Meno siamo meglio stiamo”, di e con Renzo Arbore, in cui si è esibito anche nelle irresistibili imitazioni di Paolo Conte, Franco Battiato, Marco Masini, Enzo Jannacci. “Sostiene Bollani” è il titolo del suo primo programma televisivo, interamente dedicato alla musica, andato in onda su Raitre nel 2011.
Il nuovo album: Sheik yer Zappa

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Il nuovo album di Stefano Bollani, tributo a Frank Zappa

Nell’ottobre del 2014 Stefano Bollani ha pubblicato il suo tributo a Frank Zappa, un grande mito della musica, in grado di fondere tutti i generi ottenendo risultati sorprendenti.
L’album raccoglie nove registrazioni live del 2011, i brani sono di Zappa ad eccezione di “Male male”, scritto da Bollani, e “Bene bene”, composto dal pianista milanese insieme al vibrafonista Jason Adasiewicz.
Lo “shaker” che dà il titolo all’album, si riferisce all’improvvisazione con cui sono stati realizzati i brani, che prendono spunto dall’opera di Zappa, per evolversi un direzioni differenti. Un preciso riferimento, se non una vera e propria linea rossa, al modo di comporre dell’artista americano, che mescolava musiche e generi provenienti da tutte le parti del mondo, per realizzarne commistioni originali. Una traccia ideale che viene però capovolta nel modo di sviluppare il tributo, preferendo la massima libertà espressiva al rigido perfezionismo di Zappa.

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Il chitarrista americano Frank Zappa

L’album nasce dai concerti che Bollani tenne nel 2011, con una playlist selezionata dai numerosi dischi del chitarrista americano: da “Uncle meat” a “Peaches en regalia”, passando per “Blessed relief”, quest’ultimo inserito nell’album “The grand wazoo”. Per la realizzazione di “Sheik yer Zappa” è stato formato un gruppo nuovo, con un vibrafonista conosciuto tramite YouTube (Jason Adasiewicz), Larry Grenadier al (contra)basso, Josh Roseman al trombone e Jim Black alla batteria. Ovviamente manca il chitarrista; il ruolo sarebbe stato ingrato per chiunque.
Il risultato finale è positivo, giudizio che probabilmente troverà d’accordo alcuni e decisamente contrari altri, secondo i gusti personali e le aperture necessarie per accettare rielaborazioni o evoluzioni del lavoro di Zappa.
Bollani ha compiuto un’operazione difficile, sapendo di prestare il fianco a chi segue rigidamente certi schemi, ma come ci ha insegnato Frank Zappa, la qualità “dell’alchimista” la si vede nel modo con cui utilizza gli “alambicchi”, talento che non manca al musicista milanese e al suo gruppo.
La vedova e la fondazione che tutelano il nome e la qualità della musica del grande chitarrista americano, hanno approvato l’operazione di Bollani, affermando che era in linea con lo spirito di Frank.

Fili d’erba

È arrivato gennaio con la sua aria gelida di giornate luminose. Da brava bambina ho fatto i miei propositi per l’anno nuovo, sono sempre gli stessi e non li mantengo, ma trovo allegro e scaramantico pensare che dovrei dimagrire, fare sport, diventare puntuale e tutte quelle cose che so, già in partenza, non realizzerò. Anche la cura del giardino fa parte dell’elenco, ma quest’anno non posso scantonare, per quanto possa permettersi un buon livello di autonomia, rimane sempre uno spazio con dei limiti e le mie piante li stanno sforando in tutte le direzioni. Nel 2015 compirà vent’anni e dovrò capire che cosa fare per mantenerlo con un po’ di equilibrio. In questi giorni scrivere di giardini, future potature e piantagioni, ha un suono strano, quasi stonato. Non dovrebbero esserci atrocità di serie A, eppure tra le tante notizie tremende che ci passano sopra la testa senza scuotere i nostri pensieri, ci sono tragedie che colpiscono il segno. La strage nella redazione parigina del Charlie Hebdo è una mattanza fra le tante, ma questa è una vigliaccata che ha avuto successo, ha centrato il nostro orticello di convinzioni e sicurezze facendo saltare in aria vite e quotidianità, radici culturali e simboli. Sulle macerie allargate di questo fatto non riesco ad esprimere nulla di più sensato di un preoccupato silenzio. Ascolto, cerco di capire, ma ho bisogno di spostare l’attenzione su qualcosa di bello e pulito e il mio giardino, in questo momento, non ha queste caratteristiche anche se lavorare con la terra e le piante fino allo sfinimento, è sempre un’ottima cura per alleggerire la testa. Andando alla ricerca di un pensiero positivo mi è venuta in mente una bella storia legata ad una fotografia di fili d’erba. In questa storia non ci sono macchine rimpicciolenti e inventori da strapazzo, ma c’è un ragazzino, un papà contento e una maestra con il vizio di fotografare. La maestra si chiama Olga, è una collezionista di attimi: non c’è raggio di sole, sguardo di gatto, foglia, rametto, sorriso di cane, sonnellino di parenti, che sfugga al suo obbiettivo. Come ogni collezionista è golosa e insaziabile, ma per fortuna è molto generosa e i suoi scatti di serenità vengono lanciati nel mondo e messi a disposizione di chi li vuole usare, come sto facendo io. Non contenta di tutto questo, grazie alla sua passione, Olga è riuscita a coinvolgere i suoi alunni in un laboratorio fotografico all’aria aperta, mettendo a disposizione la sua compatta per portarli alla scoperta della bellezza nascosta nelle cose, apparentemente insignificanti, che ci circondano. Non ho idea della burocrazia che abbia dovuto superare per portare in giro i suoi ragazzini, non conosco quali strategie abbia messo in pratica per coinvolgerli in questa avventura e come sia riuscita a farli lavorare insieme, ma ho visto lo splendido risultato: una serie di immagini dolcissime e piene di poesia. Una fra le tante, tutte belle e sorprendenti, è questa, che mi ha colpito per la grazia danzante di questi fili di erba che Nicola ha visto e ha saputo raccontare. La sua foto e quelle degli altri bambini, sono state adoperate per fare una mostra e un calendario, coinvolgendo così anche le famiglie nella parte conclusiva del laboratorio. In questa storia c’è tutto quello che vorrei per il nuovo anno, ed è un elenco lunghissimo di sogni in cui volano persone, grandi e bambini, che si divertono a stanare la bellezza nella quotidianità della natura più semplice; persone capaci di giocare, ridere, imparare, crescere e coltivare in pace un immenso giardino dove i fili d’erba sono verdi, vivi e luccicanti… poi mi sveglio, e le cose non funzionano così, ma la foto di Nicola, mi ha fatto sognare a occhi aperti, e lo ringrazio di cuore per questo piccolo grande regalo.

Foto di Nicola Mariani

 

Romeo, er mejo der Colosseo

“Pe’ arivacce qui da Roma ho fatto l’autostop
e ‘n Francia è già m’ber pezzo che ce sto…
Ma pure da emigrato, mica so cambiato:
io so’ Romeo, er mejo der colosseo!
Io fermo nun ce sto, proprio nun me va!
Se domani qui sarò, oggi chi lo sa?
Forse un po’ m’acchitterò e me ne andrò in città, già…
E poi laggiù tanta scena farò, ogni gatta che me vedrà dirà:
“ma che ber micione, che simpaticone, quello è Romeo
er mejo der colosseo!.”

aristogatti
La locandina

Sono appena finite le feste, durante le quali molti di noi hanno trascorso pomeriggi sereni davanti alla televisione o al cinema. I cartoni animati hanno sicuramente avuto la loro parte, in queste festività molto legate ai bambini. Ma non solo loro hanno riassaporato vecchi film d’animazione, quei capolavori disneyani che tutti noi abbiamo visto da piccoli ma anche rivisto da grandi.
Ecco allora che, un freddo pomeriggio, proiettano gli Aristogatti, film divertente e allegro che mi riguardo per l’ennesima volta, perché l’ho sempre adorato per due ragioni precise: Romeo e Parigi di inizi ‘900. Ho sempre amato la capitale francese, dove ho vissuto a lungo, e proprio oggi che soffre per i noti e tristi fatti di Charlie, amo ricordare le sue belle strade, quella Cattedrale di Notre Dame che nel film di Disney sfila pacifica nella notte mentre l’infido Edgar porta via i gattini. Le matite dell’epoca avevano disegnato, con loro consueti tratti leggeri ed eleganti, tetti e stradine, ponti sulla Senna e lampioni romantici. Niente 3D moderni o computer ma le origini dei cartoon, fatte di fine artigianato e sfondi dipinti a mano. Per questo le immagini sono delicate. Quasi acquarelli da belle époque, cornice ideale per una storia d’amore.

aristogatti
Matisse, Minou e Bizet

Oggi più di allora riconosco le strade e quell’atmosfera unica e galeotta che si respira solo a Parigi. E poi vi sono il tenero Romeo, con quel simpatico accento romanesco nel doppiaggio di Renzo Montagnani, l’elegante e affascinante Duchessa, i gattini Minou, Bizet e Matisse, per non dimenticare la banda di Scat Cat o il topolino Groviera (doppiato da Oreste Lionello), che aiuterà i gattini a ritornare dalla loro amata padrona, Madame Adelaide Bonfamille. Riscoperti solo ora, sono, poi, splendidi lo Zio Reginaldo e le oche inglesi Adelina e Guendalina Bla Bla. Qui si ritrovano amore e strada di casa, in una Parigi del 1910, dove il maggiordomo Edgar, che non vuole aspettare che i gattini muoiano prima di ereditare la fortuna di Madame Adelaide (che nel testamento gli lasciava tutto ma solo dopo i suoi gattini), complotta per rimuovere i gatti dalla posizione ereditaria. Un cattivo che lo addormenta, quindi, e che si dirige in campagna per abbandonarli.

aristogattiaristogattiDuchessa, però, incontra il randagio e allegro Romeo che, con simpatia e charme, si offre di riportarla a Parigi insieme ai gattini. Si incrociano, quindi, paesaggi da vera favola oltre che Adelina e Guendalina, fino ad arrivare a danzare e cantare senza freni, sui tetti di Parigi, con Scat Cat e la sua banda sgangherata. Le avventure sono tante e il perfido Edgar finirà in un baule spedito a Timbuktu, con un testamento che verrà riscritto da Adelaide, per includervi anche Romeo. La storia romantica di Duchessa e Romeo è accompagnata dalla colonna sonora cantata da Maurice Chevalier.
Un classico imperdibile. Belli i disegni, i colori, le atmosfere, le musiche, le auree di romanticismo e bontà. Un film che si rivede sempre con immenso piacere e gioia, a qualsiasi età. Perché ridà la serenità che tanto serve e perché “tutti quanti voglion fare jazz”.

Gli Aristogatti, di Wolfgang Reitherman, USA, 1970,78 mn.

Vittorio Sgarbi: la critica come volontà di bellezza

Secondo Oscar Wilde (“Il Critico come Artista”), il vero critico è un artista, un poeta. In Italia, e non solo, nessuno come Vittorio Sgarbi, forse ma strumentalmente più celebre come polemista e dandy moderno, incarna questa rara e nobile arte-vita.
Nei suoi libri d’arte, Sgarbi, con incredibile e rarissima quasi fotosintesi, mixa scienza della critica e poesia pura, archetipica ma dinamica: “una cosa bella è una gioia per sempre”, disse il grande poeta romantico John Keats; così la parola di Sgarbi come artista della critica.
Controcorrente, Sgarbi, come sempre: gioia e passione, scintillano nelle numerose esplorazioni estetiche; mai solo critica colta ed elevata al quadrato, quasi minuetti alla Mozart, per certa sublime leggerezza, e rara comunicazione, espressiva e profonda superficie psicologica e analitica sintetica.
Vera e propria arte-terapia contro certa estetica da addetti ai lavori, spesso autisticamente quasi criptici e morbosamente preda del dolore e della sofferenza incoronati essenza del fare bellezza, con focus a una dimensione, più pertinenti alla psicologia, semmai.
Malinconia e disperazione, il tragico della vita umana, naturalmente attraversa la dimensione umana, dell’artista forse in particolare: ma logica del senso dell’arte stessa è trasformare le lacrime in meraviglia, come fa Sgarbi.
“Piene di grazia. I volti della donna nell’arte” ( Bompiani, 2012), tra le numerosissime pubblicazioni, forse, è il vertice della penna desiderante e felice del celebre critico d’arte: un excursus stupefacente, attraverso capolavori dell’arte di ogni eone, dal Rinascimento al contemporaneo in particolare, del volto e l’anima e la bellezza e la sensualità della Donna.
Un inno alla Natura innamorante, incarnata dalla figura femminile: un inno in certa sinfonia quasi cosmica della Storia dell’arte, espressa, creata dal genio dei vari Cimabue, Masaccio, Van Eyck, Piero della Francesca, Antonello da Messina, Carpaccio, Leonardo, Raffaello, Gentileschi, Tiziano, Picasso, Klimt…
La donna, molto più dell’anima gemella Uomo, simultaneamente archetipo e corpo reale, Madonna e Madre e Amante, piena di vita, di futuro, di grazia e felice peccato di libertà…
“Piene di grazia” del libertino Vittorio Sgarbi è il manifesto del post femminismo del futuro prossimo, preludio geniale della Donna autenticamente libera, dal dolore e dalle paure non naturali, dal mito del femminismo stesso, libera da sé stessa, in quanto tale… la Donna, scienza della felicità e della creazione umana.

Sgarbi non ha bisogno, né sogno… di presentazioni: poeta come critico letterario, è forse il più creativo critico d’arte italiano contemporaneo… le parole sono fatti diceva Jonesco, basta scorrere ad esempio la sua bibliografia, di seguito solo alcuni testi, su Wikipedia l’elenco completo: “ll sogno della pittura” (1985, premio Estense 1985), “Davanti all’immagine” (1989, premio Bancarella 1990), “Il pensiero segreto” (1990), “Aroldo Bonzagni. Pittore e illustratore” (1887-1918), “Ironia, satira e dolore” (1998), “Giorgio De Chirico. Dalla Metafisica alla “Metafisica”. Opere 1909-1973″ (2002), “La stanza dipinta. Saggi sull’arte contemporanea” (2002), “Da Giotto a Picasso”, (2003), “Un paese sfigurato. Viaggio attraverso gli scempi d’Italia” (2003), Andrea Palladio. La luce della ragione. Esempi di vita in villa tra il XIV e XVIII secolo” (2004), “Dell’anima” (2004), “Guercino. Poesia e sentimento nella pittura del Seicento” (2004), “Le ceneri violette di Giorgione. Natura e Maniera tra Tiziano e Caravaggio” (2004), “Davanti all’immagine (2005), “Vedere le parole. La scrittura d’arte da Vasari a Longhi” (2005), “Le meraviglie della pittura tra Venezia e Ferrara dal Quattrocento al Settecento” (2006), “L’Italia delle meraviglie” (Bompiani, 2011), “Le meraviglie di Roma. Dal Rinascimento ai giorni nostri” (Bompiani, 2011) “Piene di grazia. I volti della donna nell’arte (Bompiani, 2011), “L’ombra del Divino nell’arte contemporanea” (Cantagalli, 2012), “L’arte è contemporanea. Ovvero l’arte di vedere l’arte” (Bompiani, 2012), “Nel nome del Figlio. Natività, fughe e passioni nell’arte” (Bompiani, 2012), “Il tesoro d’Italia. La lunga avventura dell’arte” (Bompiani, 2013), “Mattia Preti – Rubbettino” (2013), “Il punto di vista del cavallo. Caravaggio” (Bompiani, 2014), “Porto Franco. Gli artisti sdoganati da Sgarbi (EA Editore, 2014), L’Italia delle meraviglie. Una cartografia del cuore” (Bompiani, 2015).

Per saperne di più visita il sito di Vittorio Sgarbi [vedi] e la pagina di Wikipedia [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi]

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Montecarlo ‘coast to coast’

Si tratta di un road-movie del 1970, con protagonista la rock-progressive band The Trip di Joe Vescovi (scomparso recentemente), che si muove tra situazioni e scenografie hippy, sospeso tra musica, ironia e comicità, trattate con un gusto tipicamente italiano. Il film si divide in due parti, quasi fosse stato scritto da autori diversi. Nella prima parte i tempi comici sono più lenti, mentre il montaggio segue un ritmo veloce ed essenziale, nella seconda emerge il lato commedia, con un improbabile legame narrativo affidato a Mal, punto di riferimento per lo sconclusionato viaggio del gruppo di musicisti alla ricerca di Montecarlo. Quando tutto sembra finito e anche le gag si sono esaurite, il film si trasforma in documento o, per meglio dire, in “testimonianza”. Montecarlo diventa Roma e più precisamente le Terme di Caracalla, dove si sta realmente svolgendo il 1° festival rock Italiano, con The Trip tra i protagonisti.

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La locandina

Il film, diretto da Giulio Paradisi (per molti anni aiuto di Federico Fellini), rivisto con gli occhi di oggi e slegato dal contesto sociale e politico degli anni ‘70, acquista uno spessore diverso, riuscendo a fare apprezzare situazioni grottesche al limite del paradosso, rappresentando il passaggio dal periodo beat a quello del rock progressive italiano. Qualche “visione” felliniana del regista (gli uomini che fanno le uova), la futuristica fotografia di Gianfranco Romagnoli e la colonna sonora dei New Trolls, fanno passare in secondo piano qualche ingenuità narrativa.

La pellicola fu voluta da Alberigo Crocetta (manager e proprietario del Piper di Roma), con l’obiettivo di fare conoscere gli artisti della sua “scuderia” che compaiono nel ruolo di se stessi. Ecco spiegato come possano coesistere nella stessa trama il gruppo di Joe Vescovi, Mal e i Ricchi e Poveri. Compaiono e cantano anche Jody Clark, The Primitives, Four Kents e Sheila. Nel 1970 la Rca pubblicò un album con dieci brani tratti dalla colonna sonora del film.

“Terzo canale. Avventura a Montecarlo” di Giulio Paradisi, con i musicisti della band The trip, Mal, i Ricchi e poveri, road-movie, 1970, Italia.

Il film è occasionalmente trasmesso dal canale Iris del digitale terrestre e interamente visibile su Youtube a questo indirizzo [vedi]

Ai caduti sul fronte della libertà di stampa

da Ferruccio Giromini *

Cari Amici, la notizia del massacro nella redazione parigina di Charlie Hebdo è per me terribile.

Io sono cresciuto leggendo e ammirando gli autori satirici francesi, dai tempi di “Hara-Kiri” fino a “Charlie Hebdo”, appunto, e anche a “Siné Hebdo” e “Siné Mensuel”. Ho sempre ammirato il loro sempre sorprendente umorismo e il loro sempre ammirevole coraggio.

In una volta sola, vengono a mancare – a me e a tutti i loro lettori nel mondo – Wolinski, Cabu, Tignous, Charb… Con alcuni ho avuto a che fare direttamente, tutti comunque li considero indistintamente miei cari compagni di viaggio, miei amici cari.

Ma ora essi sono, e spero che ne convengano tutti al di là della facile retorica, anche veri eroi e martiri della libertà di parola. E sono sicuro che così verranno ricordati in futuro.

Non sia mai che questa tragedia venga strumentalizzata da chi fa di ogni erba un fascio e magari si erge a giudice a sproposito di imputati a sproposito. Qui i tanti immigrati onesti non c’entrano, qui è solo il fondamentalismo ideologico e religioso ad avere gravi responsabilità.

Perciò sarebbe auspicabile che, in questa tragica situazione, anche la società civile italiana ed europea avesse uno scatto d’orgoglio e fosse capace di mostrare la sua solidarietà alle figure degli
scomparsi in un modo non superficiale.
Ne va della nostra libertà di pensiero, di parola e di azione.
Credo che stavolta reagire – in modo responsabile, s’intende – si renda indispensabile per chi ha a cuore il presente e il futuro di una convivenza internazionale democratica e umana.

In una telefonata di poco fa con l’amico e collega Alfredo Castelli, è venuto fuori spontaneo l’auspicio sommesso che tutte – magari! – le testate giornalistiche europee pubblichino qualcosa ripreso dalle pagine di “Charlie Hebdo” (una vignetta, una copertina, possibilmente tra quelle incriminate dagli imbecilli boia terroristi) affermando con forza di essere dalla parte della stampa libera e non, giammai, da quella degli imbecilli, dei boia, dei terroristi.

Sarebbe bello, sarebbe giusto, sarebbe il minimo. Chissà se qualcuno avrà l’onesto coraggio di farlo. Io (e con me Alfredo e so pure tanti altri) voglio augurarmelo.

Scusate lo sfogo, grazie per avermi letto. E, se vorrete, grazie per diffondere ulteriormente questa espressione di dolore profondo e di lutto
Non lasciamo che il mondo continui a peggiorare così.

* Ferruccio Giromini, giornalista, critico e storico dell’immagine, ha anche esercitato attività di fotografo, illustratore, sceneggiatore, regista televisivo.

L’EVENTO
La ‘Pestilonza’ dilaga nel Paese. Cronache del Decamerone

Uno spettacolo per portare in scena, in un’Italia che non legge più, la giocosità, la leggiadria, l’arguzia e l’ironia delle storie boccacesche, tanto presenti nell’immaginario comune quanto ignote ai più nella loro singolarità. È “Decamerone. Vizi, virtù, passioni”, adattamento teatrale dell’opera trecentesca di Marco Baliani, che cura anche la regia, con la drammaturgia di Maria Maglietta: un’operazione coraggiosa, che si avvale della collaborazione di un volto famoso come quello di Stefano Accorsi, dal vivo forse ancora più bravo che sul grande schermo.
Questo Decamerone ruota intorno al valore della narrazione come “rito che permette di allontanare la morte” – così lo descrive Accorsi nell’incontro della compagnia con il pubblico nel ridotto del Teatro Comunale Claudio Abbado – e della parola, definita “sacro nutrimento”, secondo per importanza solo all’amore, “vero balsamo dell’alma stanca” in grado di “fomentar speranza ne lo tempo futuro”.
Ma se nell’originale le storie servono per sospendere il tempo e dimenticare ciò che accade intorno ai protagonisti, qui rivelano la “pestilonza” che, non più fisica ma morale, continua ad appestare il nostro Paese: le parole non servono a ottundere e confondere, ma a disvelare vizi e sotterfugi, e il gioco non è fine a se stesso, anzi è arguzia e ironia che induce alla riflessione e all’azione.
Un’attenzione alla parola che è anche lavoro di riscrittura di Baliani e della Maglietta, che rivisitano il linguaggio boccaccesco trasformandolo in un “italico di antica foggia”, capace di tenere alti nello stesso tempo il ritmo della recitazione e l’attenzione del pubblico. Sette novelle scelte, afferma Accorsi, “tenendo conto del potenziale teatrale e cercando la varietà nei contenuti e nella forma”. Per questo, in realtà, è come recitare “sette spettacoli diversi”, rivela l’attrice Silvia Briozzo. A metterle in scena non un gruppo di giovani, ma una compagnia di giro i cui componenti interpretano non tanto personaggi quanto “caratteri”, spiega Naike Silipo, proprio come si addice alla tradizione della commedia dell’arte.
Secondo episodio del progetto “grandi italiani”, che porta in teatro le opere di tre giganti della nostra letteratura, come Ariosto, Boccaccio e Machiavelli, per ricordarci dei nostri tesori linguistici intimamente legati a quelli artistici e paesaggistici, questo Decamerone ha il merito di far emergere la visione moderna e laica di Boccaccio riguardo tematiche come i ruoli di genere e l’ipocrisia di tutte le gerarchie.

“Decamerone. Vizi, virtù, passioni” è in scena al Teatro Comunale Claudio Abbado fino a venerdì 9 gennaio.

Parigi, gocce di memoria

Da DUBLINO – Del periodo passato a Parigi ricordo bene il quartiere di St. Germain Des Pres; i vicoli del Marais; l’area attorno ai Jardins du Luxembourg; il Boulevard St Michel. Proprio su questa strada di tanto in tanto mi fermavo a “Le Boulinier”, la grande libreria dai colori rossi all’angolo di Rue Serpente specializzata in fumetti, o bandes desinees come dicono i cugini d’oltralpe. Nei banchi sulla strada, fuori dal negozio, centinaia di libri accatastati e fumetti ingialliti a 50 centesimi. Decine di curiosi che sfogliano quelle pagine o che solamente si riparano sotto i tendoni della libreria dalla piogge improvvise, che anche qui non scherzano. Charlie Hebdo me lo ricordo bene. Facile trovare vecchie copie su quegli scaffali. E mi ricordo bene i disegni di Wolinski, Cabu, Tignous, Honoré. L’ultimo fumetto acquistato, circa un anno fa proprio ‘Le Cirque des Femmes” (Paulette va al circo), classe ’77, che desideravo avere nella mia misera raccolta. Una creazione di Wolinski. Ucciso in data 07.01.2015, non disegnerà più. Mi ricordo bene le vignette di Charbonnier (Chard): i suoi personaggi dagli sguardi pazzoidi, sotto sotto riuscivano a strapparti un sorriso anche nelle vignette più volgari, anche quelle che avrebbero potuto offendere il senso pudico o la sensibilità religiosa. Ucciso in data 07.01.2015. Nemmeno lui disegnerà più. Come anche Bernard Verlhac (Tignous) e Philippe Honoré. 07.01.2015. E anche tutti gli altri caduti in questo vile attacco, che Parigi sta sinceramente piangendo nelle sue piazze, e nel privato delle sue case. E questa volta davvero.
Di Parigi ricordo bene anche il Canal Saint Martin, i bar ed bistrot attorno alla metro di Oberkampf. Il vociare dei ragazzi seduti ai tavolini. Una demi di Stella Artois prima di andare a mangiare un couscous a La Chapelle, servito gratis al venerdì, basta conoscere i posti giusti. Poco più a sud la fermata di Richrad Lenoir, ed i nuovi uffici di Charles Hebdo. Parigi a primavera e stupenda se riesci a prendere il tempo di viverla lentamente, senza sentirti obbligato di correre da un museo all’altro. Mi piace immaginare che sia ancora così. Meglio una camminata per Rue du Temple con un amico che innervosirsi nel claustrofobico fiume umano al Louvre. A breve tornerò a Parigi a fare il turista, nonostante il Plan Vigipirate sia a livello massimo, evitando accuratamente il turismo del macabro. Ma evitando anche gli stand dei fumetti della libreria Boulinier; i locali di Oberkampf; i bordi del canale St Martin, la lunga passeggiata verso Place de la Bastille. Preferisco tenere intatto il ricordo di una Parigi meno triste di questi giorni. E se mi verrà dato spazio su queste pagine, inviare la mia vicinanza agli amici di Parigi. Anche una parte della mia infanzia si è spenta il 07.01.2015 assieme a Wolinski, Cabu, Tignous, Honoré e tutti gli altri caduti in questo attentato senza senso.

IL BRANO INTONATO: Giorgia, Gocce di memoria [ascolta]

LA STORIA
E intanto a Parigi si canta la musica del mondo: l’algerina Souad Massi

Souad Massi è una sensibile e raffinata cantautrice nata e cresciuta ad Algeri nel quartiere popolare di Bab El-Oued, reso famoso dall’omonimo film di Merzak Allouache.
Incoraggiata dal fratello maggiore, inizia a studiare musica in giovane età, cantando e suonando la chitarra. Crescendo apprezza sempre di più il rock e il genere country americano, stili musicali che avrebbero influenzato il suo modo di comporre. Souad canta in arabo algerino, francese e, occasionalmente, in inglese e cabilo, alcune volte impiegando più lingue nella stessa canzone.

Come molti algerini, durante gli anni dei disordini, Souad si trasferì con la famiglia in Cabilia, dove ebbe l’opportunità di diventare la front-woman del gruppo rock “Atakor”, con cui suonò per sette anni. La band, causa i testi politici e la crescente popolarità, divenne bersaglio di minacce, tanto che la cantante dovette trasferirsi in Francia a Parigi.

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La copertina di ‘Raoui’

La sua carriera ebbe una svolta importante nel 1999, grazie all’esibizione al “Femmes d’Algerie Festival” a Parigi, che le fruttò un contratto discografico con la Island Records. Due anni dopo uscì “Raoui”, il suo primo album da solista, accolto molto bene da critica e pubblico sino al punto di ottenere la nomination come Best newcomer ai World music awards del network inglese “Bbc Radio 3”.
La definitiva consacrazione arrivò con l’album “Deb” (Cuore spezzato) scritto con testi più personali e meno politici. Il disco divenne un successo mondiale, cosa abbastanza rara per un autore nord-africano. Tre anni dopo, nel 2006, fu la volta di “Mesk Elil” (Caprifoglio) in cui l’artista algerina ampliò i temi dell’amore, già esplorati in “Deb”, e cantò con Daby Touré e Rabah Khalfa (leggendario percussionista algerino).
Il suo più recente album si intitola “Ô Houria” (Libertà), prodotto da Francis Cabrel (chansonnier francese di origine italiana) e Michel Françoise (autore e chitarrista nato in Algeria). L’opera, che contiene il brano “Let me be in peace” cantato con Paul Weller, si distingue per i ritmi più vicini al pop occidentale. Imperdibile il duetto con Francis Cabrel nel brano “Tout rest à faire”.

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Alcuni cd e dvd di Souad Massi

Le atmosfere musicali di Souad oscillano tra folk (arabo-andaluso), rock e tradizione algerina (chaâbi), miscelando chitarre elettriche e flamenco, oud e liuto arabo, batteria, sintir (basso acustico sahariano) e karkabous (nacchere metalliche sahariane), una fusion che esalta la sua sensuale e potente voce che ben si amalgama con i testi politici e personali.
La cantante si esprime al meglio dal vivo, come si può constatare nel live acustico del 2007 (registrato al Théâtre la Coupole di Parigi) da cui furono tratti un cd e un dvd.
Nella scaletta di quel concerto non poteva mancare il brano “Raoui”, precedentemente inserito nel suo primo album: “Oh cantastorie, raccontami una storia, fa che sia un racconto, raccontami delle genti antiche, raccontami delle mille e una notte, di Lunjia Bent el Ghoula e del figlio del Sultano…”.

Da qualche tempo Souad Massi canta nel duo “Chœurs de Cordoue”, che ha creato col chitarrista Eric Fernandez. Il nome è un omaggio alla città di Cordova, in cui nel X° secolo, nonostante le differenze, convivevano uomini di scienza e artisti cristiani, musulmani, ebrei e atei.

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Immagine recente di Souad Massi

Il suo nuovo album, intitolato “El moutakalimoun” (Quelli che parlano), uscirà il prossimo 30 marzo. Si preannuncia come un lavoro aperto alle sonorità della world music, sulla scia di “Mesk Elil”, infatti, il suo “folk-rock algerino” incrocia ritmi africani, bossa e tradizione, pur essendo ancorato al mondo contemporaneo. I testi sono tratti dalle opere di grandi poeti arabi come il libanese Elia Abou Madi, il tunisino Abou El Kacem Chebbi e l’iracheno Ahmad Ibn al-Husayn Al-Mutanabbi.

“Houria” clip ufficiale [vedi]

Si ringrazia Souad Massi per la concessione dell’ultima fotografia.

L’OPINIONE
La forza e il coraggio di dialogare

Scrivere ancora sulla spaventosa strage di Charlie Hebdo potrebbe essere presunzione: in questi momenti solo il silenzio sarebbe consentito se non fosse che in certe situazioni estreme il foglio bianco, la mancanza di parole potrebbe essere segno di resa. Resa all’odio implacabile che arma la mano dei terroristi. Un commento di Corrado Augias ha portato la discussione su un binario percorribile e condivisibile. Anche gli italiani hanno avuto una stagione del terrore e quel terrore era sprigionato da una (falsa) concezione della sinistra. Solo quando la sinistra si è opposta alla strage ecco che la ragione, l’illuminismo come ora si è soliti dire, ha saputo prendere il sopravvento sulla irrazionalità del fatto, dell’odio come momento di scelta. Ma ci siamo dimenticati che dal nostro Paese è stato esportato nel mondo il metodo e la violenza della mafia? Ci siamo scordati che la discriminazione è stata l’incidenza più violenta di gran parte delle tragedie del Novecento: in America con le stragi degli anni Trenta, con i soprusi contro i neri. E in Europa sorgeva la violenza fascista fino alla tragedia della Shoah o dei campi di concentramento siberiani al tempo di Stalin. E nonostante questo dato storico serpeggia nell’opinione pubblica la convinzione che tutti i mussulmani siano colpevoli, come se in Francia la condizione degli immigrati dell’ex impero francese che ha portato cinque milioni di loro in quel Paese sia spiegabile con un stile di vita e di convinzioni anti illuminista. Siamo allora noi italiani tutti mafiosi? Sono allora tutti i francesi anti-mussulmani? Sono dunque i tedeschi tutti nazisti?. Sono infine tutti i russi stalinisti? Ovviamente no! Ma è la mancanza di razionalità che insorge feroce a condannare sbarchi di clandestini, il concetto stesso di famiglia diverso dal nostro, ma soprattutto le convinzioni religiose. Ha ragione Umberto Eco ad affermare che non i mussulmani sono un pericolo ma l’Isis la forma più odiosa di una rivendicazione di un credo religioso a sostegno di una politica feroce. Non sono d’accordo con un mediocre scrittore e debole pensatore come Houellebecq che viene indicato come l’origine della vendetta terrorista assieme ai disegnatori di Charlie Hebdo per le sue idee ora espresse nel romanzo-saggio “Sottomissione” il quale secondo le recensioni (non ho ancora letto il libro) immagina una sottomissione dell’Occidente al pensiero mussulmano. Ogni giustificazione del fanatismo religioso è di per sé accusa d’intolleranza. Qualcuno mi scrive che il fanatismo cristiano ha prodotto il pensiero più forte dell’Occidente: dalla poesia all’arte, dalla musica alla filosofia, alla scienza. E questo non sarebbe successo nel mondo mussulmano. Ma cosa ne sappiamo noi? E comunque nessuna forma di terrorismo ideologico e pratico può essere giustificato da questa dubitabile consequenzialità. Ciò che si richiede e che dovrebbe guidare il nostro pensiero, specie per chi pratica la cultura come mestiere, non è tanto – o non solo- la com-partecipazione al destino dei caduti di Charlie Hebdo come singoli, come individui, ma il tentativo di evitare nella banalità del giudizio (si ricordi “La banalità del male” di Hannah Arendt) un coinvolgimento generale che ottunde il pensiero e pigramente lo lascia in mano ai luoghi comuni: è un negro, è un meridionale, ora, è un mussulmano. Ricordo lo stupore con cui – era il 1962 – recandomi in Austria per partecipare a un grande convegno su “Industria e letteratura” organizzato dallo scrittore Paolo Volponi e dal filosofo Rosario Assunto, vidi nella stazione di Monaco, alla porta della toilette della stazione, la scritta “Proibito l’accesso ai lavoratori turchi e italiani”. Nel paese austriaco sede estiva dell’Università austriaca, Alpbach, il gestore dell’unico caffè non voleva servire gli italiani per l’odio che ancora nutriva per il nostro popolo dopo le vicende non della seconda, ma della prima guerra mondiale!
Alla fine aiutati da un musicista ungherese che parlava tedesco, allievo di Bèla Bartok e che diverrà tra gli amici più cari della mia vita ci siamo seduti ad un tavolo e abbiamo parlato, oste ed avventori, fino a stringerci la mano e gustare il più buon strudel che abbia mai mangiato.
Non sono racconti moralistici o peggio pietistici ma è il vero, credo, segno dell’opposizione del pensiero illuminista, basato sulla tolleranza verso qualsiasi forma di pensiero diverso dal nostro, all’odio, alla barbarie, alla violenza, all’ottundimento della ragione, a quella fede feroce che Montale cantava nella “Primavera hitleriana”, “Oh la piagata/primavera è pur festa se raggela in morte questa morte”. Così, come penso, è necessario si debba ragionare rispetto a simili mostruosità, quale quella della strage di Charlie Hebdo, attaccandosi alla speranza che Clizia, la donna amata dal poeta Montale, colei che porta in sé il pegno di una sconfitta della fede feroce che “ Forse le sirene, i rintocchi/ che salutano i mostri nella sera/ della loro tregenda, si confondono già/ col suono che slegato dal cielo, scende, vince-/ col respiro di un’alba che domani per tutti/si riaffacci, bianca ma senz’ali/ di raccapriccio, ai greti arsi del sud…”.

Ma tutti insieme.

LA NOTA
Dietro la porta

Le porte delle città medievali sono sempre particolarmente attraenti. Ferrara non fa certo eccezione. Camminando per la città ne scorgo tante, alcune più belle di altre, alcune più misteriose e accattivanti di altre. Ma tutte stupende, una vera calamita per me. Una mi colpisce particolarmente, in via Ragno, una deliziosa piccola strada nel cuore della città. Abbracciata da campanelli dorati e finestre serie, rigorosamente simmetriche, questo varco attira la mia attenzione e stimola la mia fantasia. Sento una musica celestiale provenire da dietro di lei. Un tocco magico e leggero di un pianoforte, forse a coda. La musica non c’è, ma io la sento. Non sono impazzita, ma la sento. Odo note melodiose, come sempre quando passeggio nel mio bel centro storico. Talora reali, talora meno, ma c’è sempre musica nelle mie orecchie sensibili e attente.
Dietro quella porta, seduto al piano, vedo un ragazzo molto giovane, esile e magro ma dalle dita nodose forti ed energiche. Tutta l’energia che può comunicare si trova ora distesa sulla sua tastiera. Allungata come un gatto persiano dal bianco pelo morbido.
Energia, energia e ancora energia. È tutto quello che percepisco.
Ma insieme a lui, cosa c’è dietro quella porta? Dietro una porta si possono immaginare tante cose, io lì vedo angeli, due, per la precisione, il pianista e un cherubino che lo accompagna, che guida le sue dita sulle ali della dolce musica che gli aleggia intorno.
Dietro quella porta potrebbe esserci una signora anziana, dai capelli innevati, che ricama un centrino all’uncinetto, come quelli che non se ne vedono più in giro, come quelli che la nonna faceva d’inverno di fronte al camino, modellando tela e sagome di gigli. Quegli stessi ricami candidi che ancora si trovano, nelle iniziali delle lenzuola di lino ricamate a mano, parte di un corredo antico che ancora, instancabile, attende qualcuno e qualcosa. Un corredo che non ha perso la speranza ma che si sta un po’ ingrigendo e raggrinzendo, con il passare del tempo e con la sua ottimistica attesa.
Dietro quella porta, potrebbe esserci una mamma che cucina un brodino di pollo per due allegri bambini appena rientrati dal catechismo domenicale. Qualche cappelletto aspetta di tuffarsi nel piatto bollente e fumante, mentre un cucchiaio d’argento appoggiato alla tovaglia di fiandra tintinna vicino al suo bicchiere di cristallo preferito. Una coppia vincente, affiatata, da sempre su quella tavola imbandita per il pranzo della domenica e le feste di famiglia. Sempre insieme, sempre uniti, sempre sorridentemente complici. Perché mi piace pensare che anche gli oggetti della nostra tavola abbiano un cuore e un’anima, pensieri e sentimenti. Perché ci accompagnano e stanno vicini a noi da anni. Quindi, ci conoscono e capiscono, ormai.
Dietro quella porta potrebbero esserci un Labrador affettuoso che attende impazientemente il suo padrone, un gatto che miagola.
Dietro quella porta, potrebbe esserci un giardino fiorito, che ospita alberi secolari e piante ben curate da una padrona attenta, delicata, longilinea e profumata. Magari c’è pure una coppia di tartarughe.
Dietro quella porta potrebbe esserci una coppia di fidanzati, che si ritrovano dopo lunghi mesi di lontananza e mari che li separano. Baci infuocati e teneri abbracci potrebbero svelare i volti di quegli innamorati, mentre quella porta medievale scricchiola leggermente.
Eccola, si apre…

La scienza osteopatica al servizio dello sport

“C’è un evidente rapporto tra il movimento e la salute” (A.T.Still)

L’osteopatia è una scienza, una disciplina che si occupa globalmente della salute dell’individuo. Si basa sulla ricerca degli squilibri e delle riduzioni di mobilità delle diverse componenti del corpo umano. Questo approccio correttivo delle alterazioni del sistema muscolo-scheletrico avviene attraverso tecniche manuali specifiche di normalizzazione che vengono portate a compimento dopo un’attenta fase di analisi e studio del caso specifico. L’osteopatia permette di ottimizzare il rendimento della ‘macchina uomo’, liberando l’organismo da tensioni che in vario grado limitano la prestazione. Il miglioramento che si ottiene dal punto di vista posturale riduce il consumo energetico e gli attriti interni, rendendo più fluidi i gesti tecnici.
In questo caso il trattamento osteopatico può intervenire su più livelli; l’osteopata può essere di grande aiuto nei confronti dello sportivo durante i periodi di allenamento molto intensi, ma anche in prossimità di appuntamenti agonistici importanti, infatti tramite un particolare approccio al sistema cranio-sacrale riesce a modulare l’attività del sistema nervoso autonomo migliorando:
– qualità del sonno;
– concentrazione agonistica;
– gestione dello sforzo;
– prevenzione del sovrallenamento.

Il termine osteopatia (dal greco osteon osso e pathos sofferenza), fu introdotto in origine dal dr. Andrew Taylor Still per definire quelle alterazioni organiche, funzionali o strutturali che coinvolgono l’apparato viscero-fascio-muscolo-scheletrico sotto forma di una eccessiva densità tissutale, provocando un alterato squilibrio e disallineamento posturale.

Principali indicazioni dell’osteopatia
L’osteopatia è indicata nella cura dei dolori e delle disfunzioni della colonna vertebrale: sciatiche, sciatalgie, dolori intercostali, mal di schiena nelle svariate forme, dolori cervicali del collo. Ma è possibile risolvere anche problemi agli arti (distorsioni, tendiniti, reumatismi), ai visceri (reni, fegato, intestino, colite), allo stomaco (gastrite). Poi problemi al cranio che generano il mal di testa, problemi alla mascella, nevralgie facciali, sinusiti, ma anche stress e ansia.

L’osteopatia nello sport
Il sostegno dell’osteopatia nella cura e nella prevenzione in ambito sportivo è di fondamentale importanza. Questa figura sta diventando sempre più importante e indispensabile per assicurare che la struttura organica dell’atleta sia tale da ottimizzarne l’attività sportiva e una preparazione fisica completa. Ad oggi, in Italia, circa il 20% delle società sportive vedono la presenza dell’osteopata nel loro staff. Il pensiero che si sta sviluppando è quello di seguire l’atleta, non solo quando gravita ai massimi livelli del professionismo, ma anche prima, durante la sua crescita.
Questo permette di condurlo lungo il percorso sportivo sfruttando pienamente le sue potenzialità e prevenendo alcuni inutili infortuni.
Da studi effettuati su atleti professionisti, si è constatato che un trattamento osteopatico mirato può prevenire traumi (dovuti a disequilibri impercettibili del comportamento strutturale) e, soprattutto, può migliorare la performance dell’atleta in maniera oggettiva ed evidente. Questo avviene attraverso alla possibilità che viene data all’atleta di avere a disposizione una struttura corporea in completo equilibrio, dove l’avvenuta correzione di ogni alterazione muscolo-scheletrica e posturale ne migliora la capacità di muoversi nello spazio e di rendere secondo una perfetta efficienza biomeccanica.

IL FATTO
L’attentato contro “Charlie Hebdo”, i giornali d’Europa fanno fronte comune

da Journalists helping Journalist (Ong JhJ, Giornalisti aiutano giornalisti)

Con Le Monde, La Stampa, El País, Süddeutsche Zeitung, The Guardian, Gazeta Wyborcza e
con gli altri quotidiani del progetto «Europa» abbiamo deciso di pubblicare un editoriale comune.

L’attentato contro «Charlie Hebdo» ieri a Parigi, e l’odioso assassinio dei nostri colleghi, inflessibili difensori della libertà di pensiero, non è solo un attacco contro la libertà di stampa e di opinione. È un attacco contro i valori fondamentali delle società democratiche europee.
La libertà di pensare e di informare era già stata messa nel mirino, in questi ultimi mesi, attraverso la decapitazione di altri giornalisti, americani, europei o dei Paesi arabi rapiti e uccisi dall’organizzazione dello Stato islamico.
Il terrorismo, qualunque sia la sua ideologia, rifiuta la ricerca della verità e ricusa l’indipendenza di spirito. Il terrorismo islamico ancora di più.
Rifiutando di cedere alle minacce dopo la pubblicazione, dieci anni fa circa, delle caricature di Maometto, il magazine «Charlie Hebdo» non aveva per niente cambiato la sua cultura irriverente. Allo stesso modo noi, giornali europei che regolarmente lavoriamo insieme nel gruppo «Europa», continueremo a far vivere i valori di libertà e di indipendenza che sono il fondamento della nostra identità e che condividiamo. Continueremo a informare, a fare inchieste, a intervistare, a commentare, a pubblicare e a disegnare su tutti i soggetti che ci sembreranno legittimi, in uno spirito di apertura, di arricchimento intellettuale e di dibattito democratico.
Lo dobbiamo ai nostri lettori. Lo dobbiamo alla memoria di tutti i nostri colleghi assassinati. Lo dobbiamo all’Europa. Lo dobbiamo alla democrazia. «Noi non siamo come loro», diceva lo scrittore cecoslovacco Vaclav Havel, oppositore vittorioso del totalitarismo diventato Presidente. E’ la nostra forza.

L’INTERVISTA
Sassi e parole: l’arte povera di Aurelio Fort “presentimento di un’altra logica”

Aurelio Fort, friulano di nascita, vive nelle montagne bellunesi. Fin da ragazzo ha intrapreso un percorso di sperimentazione artistica che ha riguardato fotografia, pittura, scenografia, musica e grafica; da circa trent’anni si è dedicato esclusivamente all’arte visiva. La sua ricerca espressiva coniuga materia, pensiero e tempo con chiare adesioni all’arte povera e all’arte concettuale, ma si estende liberamente anche in altri ambiti formali e nello spirito di diverse esperienze stilistiche. Dal 1980 a oggi ha realizzato un album di canzoni e più di ottanta tra mostre, installazioni, azioni, progetti e performance in Italia, Europa e Stati Uniti.

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Aurelio Fort

“Esistere per Ri/Esistere” è un progetto artistico Internazionale, culminato il 25 aprile 2013 con un’installazione urbana nel centro di Belluno…
Inizialmente, Alfonso Lentini ed io avevamo pensato a un’azione clandestina: spargere e disseminare a sorpresa la città di sassi e parole (le povere armi dei poveri), un “blitz” in un certo senso; poi, via via, si è fatta strada l’idea di estendere questo gesto fino a includere concretamente una moltitudine di persone. Così, grazie al blog che abbiamo aperto su Facebook e a un efficace passaparola, sono arrivate adesioni di artisti, scrittori, poeti, bambini, donne e uomini che si sono riconosciuti in questo progetto e che volevano “farne parte”, un po’ da tutta Italia e da oltre 40 nazioni nel mondo. Ogni sasso aveva dunque un’identità, un nome e un cognome e un’impronta digitale che suggellava la frase “Resistere per Ri/Esistere”. Rinunciando al “colpo d’effetto” era diventata un’installazione civile.

Quel giorno molte persone hanno portato con sé qualche sasso per continuare idealmente l’azione, una sorta d’installazione che prende corpo e vive di vita propria…
… un prolungamento spontaneo dell’opera e una simbolica moltiplicazione di gesti e significati. Era esattamente quello che stava accadendo, e che in parte è avvenuto, ma nella notte tra il 25 e il 26 aprile si è sovrapposto un fatto un po’ sgradevole e non preventivato: gran parte dei sassi vennero trafugati, prelevati, insomma fatti sparire. Questo gesto incivile interruppe brutalmente il “susseguirsi” dell’azione. In seguito i responsabili furono identificati e i sassi recuperati, ma questa è un’altra storia e mi fermerei qui.

L’arte povera porta inevitabilmente all’esplorazione di nuovi percorsi artistici?

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‘Decostruzione dell’attualità’ (2008), Stadt Museum, Bruneck

Ogni corrente artistica nasce dalla volontà di reagire contro un’estetica dominante e apparentemente imperturbabile. L’arte povera ha contribuito non poco a sconvolgere la sensibilità della cultura borghese che era appena riuscita ad accettare i processi elaborati dalle avanguardie dei primi decenni del Novecento. E’ un’arte dell’essenza delle cose. Più che ‘rappresentare’ la materia la ‘presenta’. L’arte povera produce ‘senso’ in un mare d’assurdo e lo fa attraverso la metamorfosi delle cose e dei materiali più insignificanti per poi riconsegnarli in sublimazioni splendenti. Devo ricordare che nel 1978 ho abitato un periodo a Umbertide, in Umbria, e che lì vicino, a Città di Castello, ho realizzato la mia prima “vera” mostra. Da quelle parti aleggiava prepotentemente il nome di Alberto Burri e quello fu il mio incontro formativo con l’arte povera, anche se poi ci furono altri incontri e altri cammini. Per quanto mi riguarda, ho sempre accettato tutte le influenze e tutte le infatuazioni.

Come si colloca, nella tua storia d’artista, il disco “Volano le canzoni”, pubblicato nel 1982?
La musica, il rock, il blues e la canzone d’autore hanno avuto grande importanza nella mia adolescenza e nella mia prima giovinezza, ero fortemente attratto da quel potenziale espressivo in tutte le sue sfumature artistiche, politiche e sociali. Così com’ero attratto dai fumetti, dalla fotografia, dal teatro, dalla letteratura. Scrivevo delle canzoni come tanti (con la chitarra e con la voce), poi venne il desiderio e anche l’intenzione di dare a queste canzoni una forma più completa e una struttura musicale più “corposa” quindi le feci ascoltare a un po’ di persone, piacquero a Mogol e al direttore della Rca. Il disco fu realizzato negli studi di registrazione “Il Mulino” di Lucio Battisti, fu un momento bello e gratificante, poi dovetti sopportare (mio malgrado) tutti i disdicevoli aspetti promozionali e così via. Mi resi conto che scrivere delle buone canzoni e confezionare un buon prodotto discografico costituiva forse un terzo del lavoro, il resto era ‘mestiere’ e altre cose. Il disco non andò neanche male e scrissi nuove canzoni per un secondo album ma ormai senza “godimento” e senza troppa convinzione… in realtà non avevo talento (non quel talento che forse con un po’ di velleità avevo segretamente pensato di avere) e di fare il cantautore per mestiere questo proprio non era nelle mie corde, mi sarei annoiato mortalmente, l’avventura non aveva più alcun fascino ed è finita lì.

“C’era una volta il mare” fa parte del “Trittico di pittura dolomitica”, una forma imponente che non ha bisogno di spiritualità?

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‘C’era una volta il mare’ (2011), Trittico di Pittura Dolomitica, Santo Stefano di Cadore

Abito qui, (non vivo qui… qui è solo lo ‘spazio’ in cui si svolge al momento la mia esistenza), in queste valli silenziose e gelide dove il corpo va in rovina e lo spirito “impietrisce” ai piedi di queste montagne spettacolari, celebri e ottuse che io detesto. Mi è stato chiesto di realizzare un’opera pittorica di grande formato che sarebbe dovuta restare esposta all’aria aperta un anno intero, abbandonata alle intemperie e maltrattata da grandi escursioni termiche. Questa richiesta ha provocato in me una certa eccitazione e ho subito pensato a un’opera come se fosse un deposito di “tempi”, un’opera costruita attraverso una stratificazione di materiali instabili che si sarebbero deteriorati e meravigliosamente compromessi entrando in una specie di simbiosi geologica con il paesaggio. Un paesaggio non ha niente di romantico, un paesaggio colpisce per il suo aspetto preistorico, per quello che suscita nel nostro profondo… da qui il riferimento al mare per dire di un tempo lontanissimo, inumano, al di fuori da ogni memoria, un tempo per noi inimmaginabile che annienta e che annichilisce, più spirituale di così…

I titoli delle tue mostre sono spesso dei giochi di parole non fini a se stessi ma tracce di un percorso teorico da cui ci si può discostare, come per esempio in “Recto/ Verso”…
I titoli delle mie mostre, così come quelli delle mie opere, sono solo il presentimento di un’altra logica, sono un “come se” non sono quasi mai analogici, quasi mai didascalici, non vogliono cioè illustrare né dire che cosa rappresentano, sono un omaggio al ‘senso’ perché vanno incontro al legittimo bisogno di senso (che è un problema dell’uomo). Si cerca di dare una forma a qualcosa che non ha una spiegazione, il mondo non ha alcun senso ma facciamo “come se” ne avesse uno. Per quanto riguarda i giochi di parole, beh, non escludo il piacere di un certo vezzo letterario.

Se è vero che ogni artista viene al mondo per dire una cosa sola, hai individuato quella piccola cosa su cui costruire il tuo mondo?

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‘Il silenzio del secolo nuovo’, (2008), mostra “Sichereit”, Concentart, Berlino

Un artista è quasi sempre uno speleologo. Deve addentrarsi, inoltrarsi in sé e nell’oscurità delle proprie visioni, questo a volte non è comodo. Sono convinto che ogni vera ricerca artistica ruoti in sostanza attorno ad un asse centrale profondo. Fare arte non è solo un atto fisico ma è soprattutto un atto psichico. Il sesso e la morte sono gli unici due accadimenti indiscutibili della vita di chiunque e dei quali sappiamo poco o nulla, ecco, credo che gran parte del mio agire artistico sia ‘generato’ da questo nucleo ossessivo: il sesso, la morte e il loro intimo rapporto all’interno della forma del tempo. In verità invecchio senza imparare nulla (non so capitalizzare), non ricorro mai al così detto “mestiere” e alle sue astuzie: percepisco ogni nuova opera come un esordio, come un azzardo, con lo stesso nervosismo e la medesima ansia. C’è in me un’inclinazione fondamentale all’eccitazione della scoperta, cioè al fascino e di intravedere qualcosa di inedito, una nuova forma, un nuovo sviluppo. Quella “piccola cosa” che in fondo sostiene la mia ricerca è l’inquietudine, la condizione del vivere, nasce dall’esperienza di essere nato, è senza scampo. E’ il niente, ma è il mio niente, un niente non trascurabile.

E’ importante una società in cui abbia senso l’arte? Cosa la distingue da una società in cui l’arte e l’artista sono emarginati?
Nell’arte conta la verità, bisogna trovare l’essenza della vita umana… il sogno. C’è una grande forza che nasce dai sogni. E’ la passione che muove il mondo. Una società che marginalizza l’arte è votata al cinismo, all’ipocrisia, all’indifferenza e non può che dare vita a un mondo vuoto e informe. E’ quello che abbiamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.

Si ringrazia Aurelio Fort per la squisita collaborazione e la concessione del materiale fotografico.