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Fertilità e scienza osteopatica

Fertilità è in generale la capacità di riproduzione degli organismi viventi. L’osteopatia può rappresentare un valido aiuto nel caso di difficoltà di concepimento, intervenendo specificamente su condizioni meccaniche che possono impedire l’innesto dell’ovulo o il trasporto dell’ovulo nella camera gestazionale (cause frequenti di infertilità).
Alterazioni vertebrali e tensioni possono compromettere la fluidità del sistema vascolare e nervoso del bacino e, di conseguenza, la funzionalità degli organi genitali. Traumi diretti sulle strutture connesse come sacro, coccige, colpi di frusta possono compromette la meccanica che va trattata e ripristinata. Ciò può essere frequentemente determinato dalla presenza di cicatrici locali uterine o degli organi circostanti, aderenze chirurgiche, esiti di infiammazioni locali, tensioni del pavimento pelvico (fasciali) e tensioni strutturali del bacino (ossa iliache, sacro e coccige). Un trauma al coccige, osso fondamentale per l’equilibrio strutturale e funzionale del bacino, per esempio, viene poco preso in considerazione nell’anamnesi del paziente. Oppure le conseguenze di interventi all’addome, di infiammazioni dell’endometrio, di infezioni da germi come la Clamydia, che possono creare aderenze e ispessimenti dei tessuti. Se le irregolarità si trovano vicino alle tube, il passaggio dell’ovulo può risultare più faticoso. Dal punto di vista anatomico anche disfunzioni degli organi viscerali adiacenti possono influire negativamente come il colon irritabile, cistiti, infezioni alle vie urinarie. Gli organi viscerali, quindi anche utero, tube e ovaie, hanno una motilità (intrinseca propria dell’organo) e una mobilità (dell’organo rispetto alla mobilità del diaframma). Dal punto di vista osteopatico c’è poi un’influenza del movimento cranio sacrale e del movimento della fascia.

Un caso frequente è quello dello spostamento del coccige, cioè l’ultima parte della colonna vertebrale, articolata con l’osso sacro. Il coccige è un osso fondamentale per l’equilibrio del bacino, e spesso traumi, cadute o posture errate possono essere sufficienti per portarlo fuori asse. Questo può influire sull’assetto della colonna, importante per la fertilità. Con l’osteopatia la posizione si può facilmente correggere, migliorando così la fisiologia del bacino. L’osteopatia in questo caso può aiutare con manovre viscerali delicatissime, che “massaggiano” i tessuti, sciolgono le aderenze e migliorano il flusso sanguigno e linfatico spesso congestionato dalla presenza dei “nodi” fibrosi. I risultati sono buoni: nel giro di qualche seduta può succedere che le tube si aprano e che l’ovulazione riprenda con regolarità.

L’osteopatia arriva ad agire anche sull’utero stesso: se è retroverso ne può favorire la rotazione e il ritorno nella corretta posizione, rendendo così più probabile la gravidanza. Questo è possibile perché i nostri organi non sono fissi, ma hanno una propria mobilità sui propri assi, che può essere migliorata con le dolci manipolazioni dell’osteopatia. Così si forma un “terreno” più vitale e accogliente che facilita la gravidanza.
L’osteopata opera per il recupero della mobilità della struttura, per diminuire le tensioni fasciali, cicatriziali e viscerali, e per ridare armonia all’intero sistema; le mani e la percezione palpatoria lo guida nella ricerca verso la disfunzione e la sua liberazione da blocchi e rigidità che compromettono l’efficacia del sistema vascolare e nervoso del bacino, che di conseguenza compromettono il corretto funzionamento degli organi genitali, non irrorati e innervati efficacemente. Gli organi interni possiedono una loro mobilità attorno a propri assi, spesso questa viene compromessa in seguito ad interventi chirurgici, adattamenti posturali, esiti cicatriziali, traumi. Insieme alla mobilità viene persa anche la loro funzionalità e la nuova situazione disfunzionale viene registrata dal sistema nervoso autonomo che ne regola la funzionalità. Nel trattamento della persona in gravidanza, l’osteopata si concentra in particolar modo sulla buona meccanica del bacino e di tutti gli organi e articolazioni, un equilibrio tra tessuti e fluidi corporei per sostenere i processi di autoregolazione e salute della persona in esame.

Hasta luego y buen viaje Ino

Silenzio. Una chiesa affollata, piena di studenti, amici, eppure l’unico suono è il ticchettio della pioggia. Ci si abbraccia con gli occhi lucidi, davanti all’immagine sorridente di Ino, che stona in questo contesto. Ci ricordiamo di te sorridente, anche se trenitalia fa sempre ritardi e il caffè delle macchinette è imbevibile. Con l’energia che emanavi, hai donato a chi ti circondava l’amore per lo spagnolo, per la tua terra, per la vita. Insegnamenti che restano per sempre, come il ricordo di te.
Hasta luego y buen viaje Ino.

Oggi studenti, docenti e amici di Inocencio Giraldo Silverio, hanno ricordato il docente di spagnolo dell’Università di Ferrara prematuramente scomparso lo scorso 7 gennaio

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LA RIFLESSIONE
Il teatro della storia: radici dello Stato e del diritto fra universalità e relativismo

La Storia è la più grande Maestra. Ciò che l’uomo concettualizza con l’idea di giustizia e di diritto è il risultato logico di un processo storico estremamente complesso e travagliato. Ma il travaglio permane. Ed è proprio la forza del negativo e del conflittuale ad essere propulsiva del lento mutamento dell’uomo e della sua ragione, in una società costantemente in antitesi con se stessa. Sembrerà banale il concetto che “per capire il presente è necessario conoscere il passato”, ma è un principio più volte sottovalutato all’interno del dibattito intellettuale e politico, di tutte le epoche e di tutti i luoghi. È innanzitutto fondamentale capire cosa è stato, cosa è attualmente e cosa sarà l’uomo, l’individuo come unità del complesso sociale. Già Aristotele nella sua “Politica” sosteneva che “è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali avere la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori”. Si tratta di una concezione incompleta della vera natura dell’uomo perché non tiene adeguatamente conto della sfera soggettiva e relativa della percezione di ogni singolo individuo. Il rapporto fra ogni uomo, ogni autocoscienza e ogni “famiglia” è inevitabilmente conflittuale. La società appare permeata dagli incontri e scontri degli interessi particolari. L’uomo diviene lupo per gli altri uomini (homo homini lupus, secondo l’espressione latina ripresa dal britannico Hobbes). Appare quindi evidente la necessità di un sistema “sovraindividuale” che sia mediatore degli interessi particolari. Nasce l’idea di Stato, ma anche questa è stata interpretata attraverso una moltitudine di chiavi di lettura: l’illuminista J.J. Rousseau fa nascere lo Stato su base contrattualistica, sottolineando l’importanza dell’azione della sovranità popolare; i giusnaturalisti sostengono l’esistenza di leggi naturali universali, preesistenti all’uomo; Hegel si oppone a entrambe le visioni, mostrando convinta diffidenza verso la sovranità popolare e descrivendo un vero e proprio stato etico ove il potere sovrano assume una fondamentale importanza. Ma è di generale condivisione l’idea costante della funzione dello Stato, sintetizzata nello scritto degli intellettuali italiani Bobbio e Viroli: “In uno Stato di diritto una delle grandi funzioni delle leggi è quella di stabilire come deve essere usato il monopolio della forza legittima che lo Stato detiene”.
La forza che prima era propria del singolo individuo viene trasferita allo Stato. Per descrivere il meccanismo secondo l’interpretazione rousseauiana (e propria anche dell’italiano Cesare Beccaria), l’uomo aliena consapevolmente da se stesso una parte della propria libertà al fine di sottostare alle tutele di una convivenza civile e sociale. A questo proposito Beccaria aggiunge: “Per giustizia non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gli interessi particolari”. Beccaria evidenzia, inoltre, che le pene contro i reati che oltrepassino questo vincolo sono ingiuste per natura, perché vanno a rompere il contratto che l’uomo e lo Stato hanno sottoscritto. Idealmente la giustizia si erge suprema sopra il tumulto delle passioni e degli interessi particolari e l’uomo, anche secondo la filosofia di scuola genuinamente hegeliana, dovrebbe fare propri il diritto e la giustizia. “Questo ci impone una partecipazione attiva e indefessa all’eterno dramma, che ha per teatro la storia”, scrive Del Vecchio nel 1959. La storia, come prima sostenuto, si presenta quindi come dramma, in cui sono protagonisti i conflitti e gli interessi particolari. Gli uomini che costituiscono la società civile e che legittimano lo Stato non condividono principi comuni e universali da cui dedurre in modo sistematico i diritti naturali idealmente condivisi dal “senso comune” della società.
La Storia ci insegna che questo “senso comune” non esiste è non è mai esistito, facendo cadere le vicende e i progressi dell’uomo nel vortice eterno del relativismo. Con estrema lucidità Hoffe sostiene in “Giustizia politica” che “le opinioni su ciò che è giusto o ingiusto divergono ampiamente”. Questo diviene esplicito se si considera il panorama esemplare delle correnti politiche economiche che il Teatro della Storia ha visto nascere e contrapporsi; il liberalismo economico afferma: “a ognuno secondo le sue prestazioni”; lo stato di diritto sostiene: “a ognuno secondo i suoi diritti legali”; le aristocrazie chiariscono: “a ognuno secondo i suoi meriti”; e il socialismo sancisce: “a ognuno secondo i suoi bisogni”. Ognuno ha la sua giustizia e ognuno ha la sua verità. È ingenuo e inutilmente idealistico sostenere che “leggi e istituzione devono essere riformate o abolite se sono ingiuste”. Chi può giudicare il giusto fondamento e la ragionevolezza di una legge o di un sistema di governo? Può esistere un giudice sommo e superiore?
E’ esemplare la vicenda e la conseguente riflessione riportata nel celebre testo “La Banalità del Male” dell’intellettuale tedesca di origine ebraica Hannah Arendt: seguendo le tappe del processo in Israele di Adolf Eichmann, funzionario del regime hitleriano, risulta evidente e palese come ‘l’Architetto dell’Olocausto’ abbia in realtà applicato coerentemente la legge dello Stato della Germania nazista. Eichmann sostiene di aver obbedito agli ordini ricevuti al fine di preservare la propria incolumità e quella dei suoi cari, facendo conseguentemente riconoscere alla Arendt la natura banale, esterna e sociale del “male”. E’ futile e ingenuo parlare a posteriori di “male assoluto” poiché il male assume una veste di banalità disarmante e che si cristallizza in figure non “mostruose” bensì normali, come quella di Adolf Eichmann. Questo principio non deve altresì essere frainteso: viene rifiutato il giudizio aprioristico e relativo e la figura dell’uomo come giudice sommo (e vano) della Storia in favore di un’analisi razionale e causale del processo storico, giustificando gnoseologicamente e non eticamente il fatto. Il concetto di giustizia appare altresì relativo, inevitabilmente basato sulla percezione soggettiva e sul retroterra culturale del singolo individuo e del contesto sociale. Da questa riflessione scaturisce la decisa convinzione dell’impossibilità dell’espressione di un giudizio aprioristico su ogni singola epoca storica, la quale è sempre da contestualizzare all’interno delle sue coordinate spazio-temporali, da cui derivano di conseguenza lo Stato, il diritto e le leggi.
Così come l’universo si espande per l’impulso originario conferitogli dal Big Bang, la Storia procede nel suo divenire eterno, processuale e ciclico allo stesso tempo, dettato dai singoli avvenimenti, facendo sì che quello che succede è ciò che inevitabilmente doveva succedere, ciò che logicamente e secondo rapporti di causa-effetto doveva accadere, e ciò che è, quello che inevitabilmente doveva essere.

Fonti

  1. Aristotele, Politica, cap. I.
  2. Bobbio e Viroli, Dialogo intorno alla Repubblica, Roma-Bari, 2001.
  3. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap, II, 1764.
  4. G. Del Vecchio, La Giustizia, Roma, 1959.
  5. O. Hoffe, Giustizia politica, Bologna, 1995.
  6. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, 1982

Cos’ha più di me? Riconoscere l’invidia e trasformarla

Si terrà domani sera, venerdì 23 gennaio, alle 20.30 alla Scuola Bonati a Ferrara una conferenza che affronterà il tema dell’invidia. Ecco alcuni punti salienti su cui discuteremo.

L’invidia si riferisce a uno stato d’animo per cui, in relazione a un bene o una qualità posseduta da un altro, si prova astio e risentimento verso chi possiede quel bene o quella qualità.
L’invidia genera non solo dolore, ma anche tristezza: l’invidioso vorrebbe per sé i beni altrui, giudica che l’altro li possegga immeritatamente e che debba essere punito per questo con l’espropriazione.
L’invidia, inoltre, si esprime nel rammarico e risentimento che si prova per la felicità, la prosperità e il benessere altrui, sia che l’interessato si consideri ingiustamente escluso da tali beni, sia che già possedendoli, ne pretenda l’esclusivo godimento. E’ il desiderio frustrato di ciò che non si è potuto raggiungere per difficoltà o ostacoli non facilmente superabili, ma che altri, nello stesso ambiente o in condizioni apparentemente analoghe, hanno ottenuto.
L’invidia è quel sentimento di rabbia dettato dal fatto che un’altra persona possiede e trae beneficio da ciò che noi desideriamo. L’impulso invidioso, in tal senso è allora volto a portare via o a danneggiare tale oggetto.
Questione interessante, spesso sottovalutata da chi prova invidia, è che ad essere in gioco è una felicità attribuita. È una questione di prospettiva, come vedere in autostrada l’altra fila che scorre sempre più velocemente. È l’attribuzione ad altri di una condizione di felicità superiore alla nostra.
L’invidia (quando è patologica) non aiuta il soggetto perché lo isola e lo congela, lo svaluta agli occhi degli altri: perché diminuisce, propone agli altri le proprie “mancanze” rispetto alle qualità attribuite agli altri. Lo isola perché un invidioso non collabora volentieri e non è capace di empatia.
Lo congela nella propria presunta inferiorità, non lo porta ad emulare, a lavorare per avere un po’ della fortuna attribuita agli altri.
Questo atteggiamento può diventare una visione distorta della realtà che conduce a reazioni aggressive, non necessariamente sul piano fisico, ma sul piano psicologico.
È patologica quando occupa gran parte dei pensieri di una persona. Come possiamo tenerla sotto controllo?
Esiste però una forma positiva di invidia che, non solo non ha effetti collaterali, ma anzi può rappresentare un vero e proprio catalizzatore per il nostro successo. È l’ammirazione. L’ammirazione può tradursi in una spinta all’azione, alla competizione per raggiungere obiettivi analoghi a quelli raggiunti dall’altro: ammirare qualcuno che ha ciò che io vorrei avere mi permette di impiegare le energie necessarie per raggiungere un analogo successo o risultato.
Il segreto dunque non è non provare invidia per il successo altrui, ma piuttosto far leva su questo sentimento per realizzare i nostri sogni.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

L’INTERVENTO
L’altra medicina. Guarire con l’elettromagnetismo: “Persino il transistor è omeopatico…”

di Antonio Bottaro

“La teoria non impedisce ai fatti di verificarsi” (Sigmund Freud)

Il portato innovativo delle teorie che sono alla base della comprensione del funzionamento dei processi biologici, caratterizzati dalle spiccate ed originali doti di auto-organizzazione della materia vivente, stanno faticosamente incontrando un sempre maggior riconoscimento scientifico a livello internazionale. Numerosi sono, oggi, i team di ricerca che si cimentano con il tema della complessità, che operano nel contesto teorico proprio della dinamica dei sistemi aperti, non lineari, in situazioni di non-equilibrio, tempo irreversibili: è questo, infatti, il contesto teorico che definisce sia i processi vitali, ma anche ovviamente, lo stato di disequilibrio che noi chiamiamo comunemente ‘malattia’. I primi modelli descritti dal Nobel Ilya Prigogine, nello specifico contesto dei sistemi di natura chimico-biologica, hanno evidenziato il nuovo ruolo che assume la variabile tempo (biforcazioni che si risolvono in maniera probabilistica determinando irreversibilità temporale), la comparsa di attrattori e di strutture dissipative, che, lette alla luce dell’approfondimento sul comportamento dei domini di coerenza dell’acqua, nello specifico contesto delle Quantum Electro Dynamical (Qed) interactions (professori G. Preparata ed E. Del Giudice) hanno tracciato la strada che porta verso una maggiore comprensione della realtà vista nel rispetto della dovuta complessità scientifica. E’ interessante sottolineare come, questo tipo di ricercatori, non è stato spronato dal fuoco sacro della scoperta di fenomeni o di proprietà sconosciute, bensì hanno dedicato le proprie energie intellettuali, con rigorosa caparbietà, al tentativo di spiegare fenomenologie, protocolli e metodiche che, palesemente funzionanti e sistematicamente osservabili, sfuggono alla comprensione scientifica classica (questo definisce bene il dominio della complessità). A tal proposito viene proprio bene citare la frase di Sigmund Freud: “La teoria non impedisce ai fatti di verificarsi”.
Riassumiamo alcune delle domande che questa scuola di pensiero si è posta:
•Si sono domandati il perché una data molecola, quando posta in un contesto di chimica industriale, si accoppia ‘posizionalmente’ con tutte le particelle con le quali si trova ad essere in ‘contatto’ dando luogo ai diversi possibili composti chimici mentre, nei sistemi auto-organizzati, ciascuna molecola si accoppia solo con chi è ‘stabilito’ che si debba accoppiare non dando luogo a tutta una serie di composti, peraltro indesiderati, che dovrebbero invece aver luogo ragionando sulla sola base della ‘posizione’ e/o della vicinanza reciproca
•Come mai, anche se il 99% delle molecole del nostro corpo è assimilabile ad acqua, la maggior parte dell’attenzione scientifica viene dedicata all’1% di soluto in essa presente? (questa considerazione ha portato ad importanti approfondimenti, nel campo della meccanica quantistica, sul tema delle proprietà dei domini di coerenza dell’acqua)
•Come si spiegano i riflessi delle diluizioni omeopatiche o le specificità dell’acqua informata che hanno dimostrato chiari e ripetibili comportamenti in termini di variazione di parametri quali la conducibilità elettrica o il calore di diluizione (professor V.Elia)
• Come si spiegano le inconfutabili positive influenze dei campi elettromagnetici deboli ( es. esperimenti di ionorisonanza ciclotronica di Liboff, LLLT – Low Level Laser Technology…)
•Il ruolo del fenomeno della risonanza elettro-magnetica in relazione alle frequenze (segnali bioelettronici)
•La crescente importanza che sta assumendo il concetto di ‘informazione’ nei sistemi vitali (esperimenti del Nobel Luc Montagnier)

Per chi proviene dal mondo dei dispositivi elettronici appare irragionevole la vera e propria ‘guerra’ di posizione che si registra ogni qual volta si tratti di omeopatia che appare a dir poco preconcetta. Bastano poche nozioni di Elettronica per non stupirsi della facilità di ottenere grandi amplificazioni a fronte di insignificanti modificazioni a livello atomico: il dispositivo denominato transistor è un esempio illuminante. Il gioco di modificazione atomica, detto ‘drogaggio’ del semiconduttore, viene effettuato attraverso l’inserimento di poche parti*milione e consente l’ottenimento di amplificazioni di segnale di diversi ordini di grandezza (la dimostrazione pratica è sotto gli occhi di tutti, basta confrontare il debole segnale (ronzio) che proviene dalla testina di un giradischi vintage (riproduttore di vinili) rispetto all’uscita del suono proveniente dalle casse del sistema HiFi). Lo stesso manifestarsi del fenomeno denominato effetto ‘tunnel’, dovuto allo studio di ‘scarti di produzione’ di semiconduttori che presentavano un comportamento anomalo, non causò, nel mondo dell’elettronica, particolare sconcerto ( fu invece l’occasione per studiare, e comprendere il ‘come’ potevano manifestarsi passaggi di cariche elettriche ad energie per le quali non si sarebbero dovuti osservare). Venne accettata l’evidenza scientifica che fu debitamente studiata. Il tutto dette luogo alla produzione di specifici dispositivi che sfruttano utilmente l’ormai compreso effetto tunnel. Il concetto di analogia tanto caro alla teoria dei Sistemi (qui non posso esimermi dal ricordare il Prof. A.Ruberti), è un paradigma fondante della Teoria dei Sistemi, ed un analogo effetto tunnel è presente in alcuni comportamenti di elezione propri dei processi vitali ( è la chiave di comprensione del perché alcune sostanze attraversano la membrana cellulare in senso opposto ai gradienti di concentrazione). Ora, chi osserva l’approccio bioelettronico alla malattia, conosce bene la qualità della diagnosi (peraltro rigorosamente non invasiva), la velocità della risposta del paziente alla cura, ed il come queste metodiche inducano una sostanziale velocizzazione dei naturali processi omeopatici. Il fatto di ricadere in un contesto scientifico estremamente complesso, non dovrebbe autorizzare comportamenti denigratori volti alla minimizzazione dei risultati ottenuti, bensì dovrebbe spronare la Ricerca sulla strada della comprensione della realtà, ancorché complessa (rifuggendo da facili e nocive derive new age). Va sottolineato come la dimostrazione scientifica sia particolarmente difficile perché si opera in contesti fortemente ‘personalizzati’. Uno dei maggiori punti di forza quale la qualità’ dell’approccio personalizzato, diventa paradossalmente un punto di debolezza per la ripetibilità scientifica dei risultati in contesti generalizzati. Dal punto di vista scientifico il problema è riassumibile nel fatto di operare su scale di ‘granularità’ diverse della realtà. La bioelettronica appare come un approccio molto più sottile rispetto alla grana grossa della farmacopea tradizionale. Chi opera con i campi elettromagnetici deboli e con le frequenze di risonanza ‘confeziona’ una sollecitazione da trasmettere al sistema ‘persona+malattia+ambiente’ che vale solo per quello specifico paziente che presenta quel determinato stato di malattia (sistema dinamico in disequilibrio), in quel momento (irreversibile), rispetto all’ambiente in cui vive (sistema aperto con scambio di materia).
Sarebbe auspicabile abbandonare visioni preconcette accettando questa ‘incompatibilità’ tra approcci che contemplano una risoluzione (grana) diversa della realtà concentrando gli sforzi nella Ricerca applicata rivolta al dominio della Complessità ed alla specifica comprensione dei sistemi vitali. Su questa strada ci si può orientare partendo dai risultati conseguiti nella pratica di protocolli che stanno dimostrando di risolvere diverse classi di disequilibrio indotte dalla ormai degenerata qualità dell’ambiente (intolleranze alimentari, inquinamento da metalli pesanti, inquinamento elettromagnetico…).

L’INTERVISTA
Verso un Ministero per la Pace

Come riuscire a dare attuazione a quattro articoli della Costituzione in un colpo solo? Con la campagna Un’altra difesa è possibile per la raccolta di 50.000 firme che permettano di presentare in Parlamento la legge di iniziativa popolare “Istituzione e finanziamento del Dipartimento della Difesa civile, non armata e nonviolenta”.
Prima di tutto l’articolo 1, “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, e l’articolo 71, secondo il quale “Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”. La svolta però è la conciliazione del dovere della difesa della patria sancito nell’art. 52 con il ripudio della guerra proclamato all’art. 11.

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Logo della campagna

Il merito di questa – è proprio il caso di scriverlo – rivoluzione pacifica va alle sei reti promotrici, che raggruppano al proprio interno la gran parte del mondo associativo: Rete italiana disarmo, Rete della pace, Tavolo interventi civili di pace, Sbilanciamoci!, Conferenza nazionale enti di servizio civile e Forum servizio civile. La loro riflessione parte da due considerazioni molto semplici: la prima è che nella nostra Costituzione non si parla di difesa armata, anche se fino a oggi è sempre stata finanziata solo questa, senza mai dare una possibilità alla difesa nonviolenta; la seconda è che le minacce per l’Italia oggi sono la povertà, la disoccupazione, l’emarginazione, la mancanza dei servizi sociali, il rischio idrogeologico, la cementificazione, la corruzione e la criminalità organizzata.
Dunque la proposta di legge, comporta di quattro articoli, prevede l’istituzione e il finanziamento del Dipartimento per la difesa civile, cui afferiranno i Corpi civili di pace, e l’Istituto di ricerca sulla pace e il disarmo. Fra i loro compiti la predisposizione, sperimentazione e attuazione di piani per la difesa civile, lo svolgimento di attività di ricerca e formazione per la pace e il disarmo. La domanda sorge spontanea: con quali fondi? Anche qui la scelta dei promotori è molto concreta: la crisi economica non ha sostanzialmente sfiorato la spesa militare, non si tratta quindi di spendere di più, ma di spendere meglio spostando parte dei fondi per i sistemi d’arma del Ministero della Difesa. A questi si aggiungeranno le quote di quei contribuenti che vorranno versare il proprio 6 per mille a beneficio della difesa civile.
Ne abbiamo parlato con Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento – in cui milita fin dalla sua fondazione – ed ex Difensore Civico della Regione Emilia Romagna.

Cosa si intende per “difesa civile non armata e nonviolenta” e “istituzionalizzazione degli interventi civili di pace”?

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Daniele Lugli

È un concetto che deriva da riflessioni compiute già durante l’ultimo conflitto mondiale, quando per esempio, secondo la stessa Wermacht, le azioni di sabotaggio della Resistenza sulle vie di comunicazione sono state di gran lunga più pesanti per l’occupante rispetto alle azioni di aggressione vera e propria. In altre parole significa competenza delle persone per potersi difendere sul proprio territorio anche in caso di invasione, ma non c’è solo questo: nella nostra Costituzione si afferma il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, mentre è sancito il dovere della difesa della patria, c’è quindi un accento sull’aspetto difensivo. Nonostante ciò abbiamo partecipato a diversi interventi travestiti da operazioni di polizia internazionale, raccontando che questo fa parte del concetto di difesa con una forzatura infondata su un piano giuridico. Si finisce perciò con l’essere implicati nei teatri di guerra e sembra che l’unica modalità sia l’intervento armato, mentre noi vogliamo che si rifletta sull’importanza e sull’efficacia del cosiddetto ‘interventismo umanitario’, da civile a civile: la presenza cioè di persone formate appositamente che da civili difendono i civili. Abbiamo già avuto operazioni di questo tipo sebbene limitate, per esempio in Kosovo, che hanno mostrato di essere efficaci e di poter fare ciò che un intervento armato non può fare: perché dopo aver bombardato e sparato è difficile avere la legittimità per mediare. Infine, c’è il collegamento con le originali finalità del servizio civile nazionale volontario, alternativo al servizio militare obbligatorio. Non c’è solo l’obiezione di coscienza invocata da Pinna nel 1948, quando si è offerto di essere impiegato nei servizi di sminamento piuttosto che imparare come si uccide qualcuno, ma anche il tema di un esercito del lavoro, proposto da Ernesto Rossi durante l’esilio di Ventotene insieme a Spinelli: della durata di due anni, obbligatorio per ragazze e ragazzi, sostitutivo della leva, il cui compito doveva essere produrre beni e servizi di base.

Perché è necessario uno specifico Dipartimento e un Istituto di Ricerca sulla Pace e sul Disarmo? E perché collocare il Dipartimento alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri?
Trattandosi di vino nuovo, servono botti nuove. Si è ragionato sulla necessità di forme di intervento che mettano a valore le esperienze disseminate che esistono già in Italia e in Europa e sul tema della preparazione professionale perché nel momento in cui si fanno interventi in situazioni molto difficili servono professionisti qualificati in materia di diplomazia dal basso, analisi dei conflitti, mediazione. Da qui l’esigenza di istituire un dipartimento apposito, dal quale dipenderebbero i corpi civili di pace, e un istituto di ricerca perché si ritiene che la formazione sia così importante che le esperienze già esistenti anche a questo riguardo debbano essere coordinate e valorizzate. In una prospettiva complessiva di difesa fondamentale sarebbe poi il collegamento con i dipartimenti della Protezione civile, del Servizio civile e dei Vigili del fuoco. La diretta dipendenza dalla presidenza del consiglio vuole invece sottolineare l’alterità di questa forma di difesa e la sua non subordinazione alla forma tradizionale del Ministero della difesa, si vuole cioè evidenziare che il dipartimento non deve essere un articolazione del dicastero, almeno per questo momento.

Perché avete scelto una legge di iniziativa popolare?
Pur essendoci già un gruppo di deputati che ha dimostrato attenzione per il progetto, ci è sembrato che fosse un’occasione perché queste tematiche cominciassero a essere discusse non solo dagli addetti ai lavori, pacifisti o militari pronti a esplorare vie alternative. Se, come ha affermato Clemenceau, «la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari» a maggior ragione la pace e la difesa non possono essere affidate unicamente ai militari. Attraverso il dibattito su questa proposta di legge di iniziativa popolare i cittadini possono cominciare a ragionare su cosa significa difesa e da cosa ci si debba difendere, oppure quali valori si debbano difendere, e con quali strumenti questa difesa debba essere attuata. Insomma non si tratta solo di una raccolta di firme, ma di una riflessione culturale con la volontà di un coinvolgimento il più ampio possibile. Soprattutto in momenti come questo è importante cominciare a parlare in maniera concreta di questi temi, in modo che non ci si possa più nascondere dietro la scusa dell’emergenza, che impedisce di discutere in maniera approfondita e ponderata, considerando anche le basi di una violenza che è strutturale e culturale.

C’è già un paese dove la difesa civile viene messa in pratica che potrebbe fare da modello e paragone?
No, però una situazione molto simile è quella della Svizzera, che ha una lunga tradizione di neutralità e dove c’è un’attenzione molto forte alla difesa ‘difensiva’: anche se nemmeno Hitler l’ha invasa perché è da sempre considerata il ‘forziere d’Europa’, gli svizzeri avevano dei piani molto precisi nel caso ciò fosse avvenuto. E non è un caso che il fondatore del servizio civile internazionale fosse uno svizzero, Pierre Ceresole, figlio di un alto ufficiale dell’esercito ma obiettore di coscienza, fermato nel 1942 e nel 1944 mentre tentava di recarsi in Germania per cercare di convincere i tedeschi a cessare il conflitto.

Avete scelto il 10 dicembre, la giornata internazionale dei diritti umani, come giornata nazionale della raccolta firme, quali altre tappe avete davanti a voi fino al 2 giugno quando la campagna finirà nel giorno della festa della Repubblica disarmata?
A febbraio ci sarà la presentazione ufficiale della campagna anche a Ferrara e poi ci saranno momenti pubblici di incontro e discussione perché, come dicevo prima, questa campagna vuole essere provocare anche un cambiamento di prospettiva dal punto di vista culturale sul concetto di difesa. Nel frattempo si sta costituendo il comitato territoriale provinciale, che ha già la sua sede presso la Cgil di Ferrara.

Chi volesse firmare dove può farlo?
In tutte le segreterie dei comuni della provincia dovrebbero essere già stati distribuiti ed essere a disposizione i moduli per la firma. Inoltre, da qui a maggio organizzeremo banchetti appositamente per raccogliere le adesioni.

“A 100 anni dalla “grande guerra”, che ha segnato il passaggio moderno e definitivo alla guerra tecnologica, è giunto ormai il tempo di passare dalla retorica della pace, che prepara sempre nuove guerre, alla politica per la pace che ne prepara e costruisce la difesa. Che essendo “civile, non armata e nonviolenta” ha bisogno della partecipazione di tutti” (Pasquale Pugliese, Segretario del Movimento Nonviolento)

Per informazioni e aggiornamenti sulla campagna visita il sito [vedi]
Contatti Comitato provinciale di Ferrara: Davide Fiorini
davide.fiorini@mail.cgil.fe.it
cell. 348 7510060

Quel mostro di Tim Burton

Una delle poche certezze della vita è l’amore di Tim Burton verso qualsiasi cosa sia kitsch e rappresenti una storia di sofferenza. Tutto ciò si racchiude in due grandi occhi di bambino che osserva oltre la tela, catturando lo sguardo dello spettatore che non può far altro se non domandarsi cosa stia guardando e quale sia la sua triste storia.

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La locandina

I dipinti di Margaret Keane, interpretata nel film “Big Eyes” da Amy Adams, sembrano chiedere solo di essere guardati, desiderano che gli si presti attenzione. La stessa richiesta è quella dell’artista, che, schiacciata dalla forte personalità del marito, Walter Keane alias Christoph Waltz, non riesce ad emergere. Vincitrice di un Golden Globe per la migliore protagonista femminile, la storia dei Keane è molto diversa da quelle che normalmente siamo abituati ad associare al regista. Niente spose cadaveri o mostri dal cuore tenero, stavolta sono i personaggi della realtà ad essere protagonisti, bizzarri come se fossero stati partoriti dalla contorta mente di Burton, ricordando l’eccentrico Edward Wood, definito il peggior regista di sempre. L’abile regia di Burton mostra le sfaccettature di un personaggio che si autodefinisce “un artista senza talento”, che si dimostra essere un ottimo imprenditore, capendo la richiesta del pubblico di portare a casa un pezzo dell’opera, non importa se l’originale o una copia.

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Una scena del film

Ma cosa avrà convinto una donna piena di talento ad affidarsi ad un uomo per gestire la sua carriera? Un semplice concetto, attuale all’epoca come ai giorni nostri: un’opera firmata da un uomo vende molto di più e acquista un valore maggiore. Non la pensavano così solo le pittrici dei primi anni del Novecento, ma anche le artiste moderne, basti pensare alla scrittrice Joanne Kathleen Rowling, la madre della saga di Harry Potter che ammise di essersi firmata solo con le iniziali proprio per lo stesso motivo.

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Margaret Keane al lavoro negli anni ’60

Margaret Keane non è un caso isolato, prima di lei moltissime artiste sono state dimenticate, o hanno perso la paternità (o forse dovremmo dire maternità) delle loro opere. Si potrebbe tentare con un gioco, cercare di ricordarsi il nome di 10 artisti e di 10 artiste del passato in meno di cinque minuti. Da Artemisia Gentileschi a Judy Chicago, le donne hanno sempre dovuto lottare per far si che venisse riconosciuta la loro identità di artiste come professione e non solo come hobby, un passatempo tra un figlio e un altro. La paura di perdere tutto quello che avevano conquistato, unita alla continua pressione psicologica di Walter Keane, che costantemente le inculcava l’idea che la firma di una donna non valesse nulla, aveva paralizzato a lungo l’artista. Margaret Keane, nata Peggy Doris Hawkins, ha subito l’autorità di un marito/carceriere per quasi dieci anni ma la sua ribellione la portò al successo con la vittoria del processo con cui si riappropriò di tutte le sue opere.
Stanche di vedere le donne nei musei solo perché raffigurate nelle opere, un gruppo di femministe, nel 1985, decise di divenire paladino delle artiste, proteggendone i diritti e il valore delle loro opere. Autodefinite Guerrilla Girls, ovvero “ragazze gorilla”, per via della maschera che utilizzano per non farsi riconoscere, combattono perché si aumenti nei musei la presenza di opere firmate da donne. Margaret Keane disegnava occhi enormi perché pensava che fossero la finestra attraverso cui spiare l’anima ed è questa che Tim Burton ci permette di scorgere, attraverso i dipinti e i loro sguardi, che osservano imperturbabili la propria madre alla riconquista della sua identità.

“Big Eyes”, regia di Tim Burton, con Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Huston, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, biografico, 106 min., Usa 2014

LA STORIA
Si vendono sogni…

da PIETROBURGO – Irina e Anna passano le loro lunghe giornate nella stessa piazza pietroburghese, una di fronte all’altra, una simile all’altra. Sono lì da vent’anni ormai, tutti i giorni, ogni giorno, sempre uguali, sempre gli stessi vestiti, stessi guanti, calze, scarpe, berretti e pensieri. Un grande ombrello a righe le ripara da sole, pioggia neve, sempre lui, sempre lo stesso, imperterrito, forte e sicuro. Quando una tossisce, l’altra la segue, quando una mangia, l’altra fa lo stesso, quando una parla, l’altra replica. Vendono escursioni, il sogno romantico di molti turisti che cercano nella Neva un momento di libertà, un’evasione a lungo attesa dalle preoccupazioni quotidiane. Il corpo si alleggerisce, e di riflesso la mente, un’atmosfera ideale per riconquistare armonia e pace. Irina e Anna ormai riconoscono da un primo sguardo le coppie di innamorati pronte a imbarcarsi per le loro escursioni. Un cenno fra di loro e via, si spartiscono i clienti, in una complicità indescrivibile capace di orientare giovani e anziani verso l’una o verso l’altra. I maestosi palazzi sfileranno sotto gli occhi attenti dei turisti disponibili solo a immagazzinare luci e sogni. Il brillio di vetri e palazzi, sulle sponde del fiume, accarezzerà la sera di quelle coppie, lo sfavillio delle pareti degli edifici e dei negozi riccamente addobbati risveglierà le loro mattinate ancora addormentate. Promesse di buonumore, di magie inattese, di favole da raccontare e da immaginare, di note dolci da ascoltare, di momenti da ricordare, questo sono le parole di Irina e Anna, le due anziane signore che ci accolgono a braccia aperte. Il vento del battello sarà quasi un piccolo lifting al nostro viso stanco e disilluso, un alito di natura che spettinerà i nostri pensieri un po’ provati. Siamo tutti più belli se respiriamo l’aria del fiume e del suo ondeggiamento leggero, quasi a disintossicarci da tanto fumo e veleno che ci avvolgono negli ultimi tempi. Le strade inquinate ci soffocano, la fretta spesso inutile ci affanna, abbiamo bisogno dell’abbraccio avvolgente del fiume per rilassarci un po’ e ricominciare. Apriamo le nostre menti, allora, accogliamo la brezza che ci suggerisce e sussurra qualcosa, espandiamo i nostri orizzonti scoprendo anche le virtù del saper ricevere e donare e la dignità della natura. Non corriamo, fermiamoci un momento, come se fossimo un profumato ed elegante fiore di loto. Quel fiume sarà una sorgente di luce e d’energia, almeno per un po’, per noi uomini e donne maturi ma spesso un po’ persi e confusi. E Irina e Anna questo lo sanno bene. Ecco perché sono lì, da sempre, a vendere sogni. Un biglietto, e via, missione possibile.

IL DIBATTITO
Pedonalizzare corso Martiri e trasformare le ‘Duchesse’, no al Panfilio e all’abbattimento dei grattacieli

Sì alla pedonalizzazione di corso Martiri e piazza Savonarola e sì anche alla trasformazione del Giardino delle duchesse. No alla riapertura del canale Panfilio e all’abbattimento dei grattacieli. I ferraresi che lunedì in biblioteca Ariostea hanno partecipato all’iniziativa organizzata dal nostro giornale, dopo avere ascoltato le tesi formulate a sostegno e in dissenso alle quattro proposte in discussione, alla fine hanno emesso il loro verdetto. Si tratta ovviamente solo di un indicatore di umori, senza alcuna ulteriore pretesa. Erano una settantina i presenti e non tutti hanno votato. Ma ciò che conta è che si sia discusso e ci sia confrontati con rispetto di tutte le opinioni.
L’incontro è risultato vivace e divertente. Il susseguirsi degli interventi è stato seguito con interesse.Per primo ha preso la parola Fausto Natali, responsabile delle attività culturali della biblioteca, che ha propiziato questa serie di incontri con Ferraraitalia che vanno sotto il titolo di “Chiavi di lettura”, poi Elettra Testi nei panni della ‘Signora snob’ ha tratteggiato i vezzi dei concittadini con la sua consueta ed esilarante verve in un affresco ricco di colore. E’ toccato al direttore Sergio Gessi spiegare le regole del gioco e cucire fra loro i vari interventi, animati dai filmati di Stefania Andreotti, dalle immagine contemporanee e storiche raccolte da Andrea Vincenzi, dalle letture selezionate da Giorgia Pizzirani e declamate da Sara Cambioli.

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Il pubblico e Stefania Andreotti impegnata nelle riprese video

Fra i presenti anche alcuni ‘addetti ai lavori’: il presidente di Italia nostra Andrea Malacarne, gli architetti Michele Pastore, Lidia Spano e Sergio Fortini (cui sono state affidate le conclusioni), la professoressa Anna Maria Visser consulente del Mibact. Un’ideale partecipazione ha manifestato l’assessore all’Urbanistica Roberta Fusari, trattenuta in Consiglio comunale.

I casi posti all’attenzione della ‘giuria popolare’ erano quattro. “Ferrara vs Ferrara: le controverse proposte per il rilancio della città estense” è il titolo scelto, che con leggerezza alludeva a un dibattito cittadino sempre aperto e irrisolto. Da questo carattere tipico ha preso lo spunto il corsivo dell’arguto Andrea Poli, significativamente intitolato “Ferrara e la poetica del non finito” [leggi].

Della questione grattacielo (sì o no all’abbattimento) si sono occupati Monica Forti, favorevole alla demolizione e Andrea Cirelli, contrario. Sul Panfilio si sono contrapposte le opinioni di Stefania Andreotti (per la riapertura) e Marco Contini (contrario). Del Giardino delle duchesse hanno dibattuto Raffaele Mosca (fautore di una significativa riprogettazione anche in termini di ‘arredo’) e Giorgia Pizzirani (sostenitrice del profilo ‘minimal’ attuale). Infine il caso forse più caldo del momento, recentemente riportato all’attenzione della pubblica opinione dallo stesso sindaco Tiziano Tagliani: quello di corso Martiri e piazza Savonarola per il quale Sara Cambioli ha proposto la pedonalizzazione nel rispetto del patrimonio monumentale della città, mentre Sergio Gessi, in contrasto con i propri convincimenti, dovendo sostituire un testimone assente ha sostenuto per ‘dovere d’ufficio’ le ragioni della civile coabitazione fra auto, pedoni e ciclisti.
Come per ogni italica votazione c’è stato un po’ di caos alle urne, qualche fraintendimento, richieste di riconteggio e un significativo numero di astenuti. Tutto secondo copione, fra il divertimento generale.
La chiusura è stata affidata alle riflessioni di Gianni Venturi e dell’architetto Sergio Fortini che ha ragionato degli spazi attorno ai quali si costruisce l’urbana quotidianità.

I materiali saranno presto resi disponibili sul nostro quotidiano web. Gli spunti emersi dall’incontro saranno oggetto di più articolati approfondimenti. Il dibattito, ovviamente, continua.

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Fausto Natali
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Giorgia Pizzirani, Sara Cambioli e Sergio Gessi
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Elettra Testi
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Il pubblico durante una votazione
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Andrea Poli con Andrea Vincenzi
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Il pubblico presente in biblioteca con Andrea Cirelli e Alessandra Chiappini in primo piano
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Raffaele Mosca
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Gianni Venturi
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Sergio Fortini

IL FATTO
No alla censura dell’informazione. Ferraraitalia aderisce all’appello contro la legge in discussione alla Camera

Il rischio bavaglio incombe sull’informazione. E’ in discussione al Parlamento una proposta di legge che condiziona pesantemente la libertà di stampa. Il testo all’attenzione della commissione Giustizia della Camera prevede fra l’altro l’obbligo di rimozione dal web di qualsiasi testo ritenuto diffamatorio o comunque lesivo di interessi personali sulla base della semplice richiesta dell’interessato con rischi di sanzioni pesanti per chi si opponesse a una pretesa considerata infondata. E’ contemplata inoltre una facoltà di rettifica integrale senza possibilità di commento da parte del giornalista o del direttore responsabile. Il rischio concreto è che questa legge scoraggi il lavoro di ricerca, analisi e inchiesta di coloro che tentano con abnegazione di fornire un’informazione libera, senza appiattirsi sulle ‘verità ufficiali’.

Ecco il testo integrale dell’appello pubblicato da nodiffamazione.it

La nuova legge sulla diffamazione è sbagliata.

Doveva essere una riforma della legge sulla stampa che eliminando la pena del carcere per i giornalisti, liberava l’informazione dal rischio di sanzioni sproporzionate, a tutela dei diritti fondamentali di cronaca e di critica: il testo licenziato al Senato rischia di ottenere l’effetto opposto, rivelandosi come un maldestro tentativo di limitare la libertà di espressione anche sul web.

La legge sulla diffamazione che potrebbe presto essere approvata, prevede in particolare:

1) sanzioni pecuniarie fino a 50 mila euro che appaiono da un lato inefficaci per i grandi gruppi editoriali e dall’altro potenzialmente devastanti per l’informazione indipendente, in particolare per le piccole testate online. Inoltre viene pericolosamente ampliata la responsabilità del direttore per omesso controllo, ormai improponibile in via di principio e sicuramente devastante per le testate digitali caratterizzate da un continuo aggiornamento;

2) un diritto di rettifica immediata e integrale al testo ritenuto lesivo della dignità dall’interessato, senza possibilità di replica o commento né del giornalista né del direttore responsabile, e che invece di una “rettifica”, si configura come un diritto assoluto di replica, assistito da sanzioni pecuniarie in caso di inottemperanza, che prescinde, nei presupposti della richiesta, dalla falsità della notizia o dal carattere diffamatorio dell’informazione;

3) l’introduzione di una sorta di generico diritto all’oblio che consentirebbe indiscriminate richieste di rimozione di informazioni e notizie dal web se ritenute diffamatorie o contenenti dati personali ipoteticamente trattati in violazione di disposizioni di legge. Previsione questa che non appare limitata alle sole testate giornalistiche registrate ma applicabile a qualsiasi fonte informativa, sia essa un sito generico, un blog, un aggregatore di notizie o un motore di ricerca, e che fa riferimento al trattamento illecito dei dati che è concetto dai confini incerti in particolare nell’ambito del diritto di cronaca e critica e che non ha alcuna attinenza col tema della diffamazione.

Più specificamente, la previsione di un assoluto diritto all’oblio, esercitato senza contraddittorio, è destinato a produrre un infinito contenzioso tutte le volte che, di fronte a richieste ingiustificate, il direttore legittimamente decida di non accoglierle. Ma la nuova norma può anche indurre ad accettare la richiesta solo per sottrarsi proprio ad un contenzioso costoso o ingestibile e, soprattutto, può portare alla decisione di non rendere pubbliche notizie per le quali è probabile la richiesta di cancellazione, con un gravissimo effetto di “spontanea” censura preventiva. I rischi non solo per la libertà d’informazione, ma per la stessa democrazia, sono evidenti

Una legge che modifica la normativa sulla stampa al tempo del web deve avere come primo obiettivo la tutela della libertà di espressione e di informazione su ogni medium: e questo non si ottiene prevedendo nuove responsabilità e strumenti di controllo e rimozione, ma estendendo ai nuovi media le garanzie fondamentali previste dalla Costituzione per la stampa tipografica.

La legge sulla diffamazione proposta ha invece il sapore di un inaccettabile “mettetevi in riga”, sotto la minaccia di facili sanzioni, rettifiche e rimozioni, per quei giornalisti coraggiosi, blogger e freelance che difendono il diritto dei cittadini ad essere informati per fare scelte libere e consapevoli.

La mancanza di norme che sanzionino richieste e azioni giudiziarie temerarie o infondate non fa che aggravare un quadro di potenziale pressione sull’informazione che la sola eliminazione del carcere come sanzione non è sufficiente a scongiurare e che anzi con la nuova legge si aggrava.

La nuova legge sulla diffamazione è pericolosa per le molte violazioni in essa previste del diritto costituzionale d’informare e di essere informati.

Per questo invitiamo tutti i cittadini ad aderire a questo appello, e chiediamo ai parlamentari di non approvare la legge.

Ne va della libertà di tutti.

Dei e dintorni: gli album di Vincenzo Spampinato

Nel 1989, dopo alcuni anni di silenzio, Spampinato pubblica il disco “Dolce amnesia dell’elefante”, un album intimo e introspettivo, completato da due brani in dialetto siciliano che le case discografiche precedenti gli avevano impedito di incidere. L’autore gioca con l’antinomia del titolo (la contrapposizione della parola dolce con amnesia, soprattutto perché riferita all’elefante, simbolo di buona memoria), proponendo testi che si possono leggere come capitoli di un romanzo, musicati con melodie mediterranee. Nella track list è inserito anche il brano “Per Lucia”, portato al successo da Riccardo Fogli.

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Copertina di ‘Ri-Vintage’

Nel 1990 esce “Antico suono degli dei” (altro titolo atipico), realizzato con la collaborazione di Tony Carbone dei Denovo e Alfio Antico, cantante e musicista, tra i maggiori interpreti della tammorra (strumento musicale a percussione). Gli arrangiamenti danno spazio a strumenti quali zampogne, mandolino, cornamusa, arpa celtica, oltre agli archi scritti e diretti da Massimo di Vecchio e la presenza dell’Orchestra sinfonica Nova Amadeus di Roma. Questo è il disco della nostalgia e dell’amore perduto, che risente ancora nei testi dell’introspezione intimista dell’album precedente ma che, in una sorta di contrapposizione musicale, propone ritmi e arrangiamenti brillanti e allegri.
Nel 1992 Spampinato realizza l’album che forse lo rappresenta al meglio: “L’amore nuovo”, il cosiddetto “disco della rinascita”, dove il filo conduttore è rappresentato dalla speranza (individuale e sociale). L’album ospita Franco Battiato in “L’amore nuovo” e Lucio Dalla nel brano “Bella e il mare”, di cui il musicista siciliano dice: “… stavo cercando un tenore che interpretasse il mare e Lucio si propose…”. La playlist comprende anche “C’è di mezzo il mare”, un brano pieno di riferimenti alla cronaca, dove è descritta la Sicilia dei misteri, con riferimenti anche alla strage di Ustica.

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‘Judas’, l’album del 1995

“Judas”, del 1995, è l’album della protesta, della rivolta e della rivendicazione. In questo disco l’impronta musicale etnica è meno marcata, la struttura delle canzoni è più essenziale, in linea con i temi trattati. La lista dei brani propone dieci perle, tra queste: “Napoleone”, “Campanellina”, “La tarantella di Socrate”, “ll portiere, il suggeritore… gli altri” e “Il passo dell’elefante”.
Nel 2000 è la volta di “Kòkalos.3”, un album di canzoni vecchie e nuove interamente in lingua siciliana, definito dall’autore come il suo “disco del cuore”. Il titolo misterioso omaggia Kòkalos l’antico re dei Sicani, mentre il tre è utilizzato perché numero ciclico e misterioso.

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Copertina di ‘Munichedda Munichedda’

Nel 2006 è stata pubblicata la raccolta “Ri-Vintage”, che contiene numerose canzoni inedite e vecchi successi in versioni alternative. Il suo autore la definisce “Analogicantologia”, consigliata per chi vuole iniziare a conoscere questo grande artista. Nel 2012 Vincenzo pubblica il suo più recente cd intitolato “Muddichedda Muddichedda”, che prende il titolo dal brano vincitore dell’undicesima edizione del Festival della nuova canzone siciliana.

Video “Il treno della vita” [vedi]

Leggi l’intervista a Vincenzo Spampinato

LA STORIA
La magia degli oggetti che descrivono il tempo

Ci sono luoghi dove ti senti subito a casa. Ci sono luoghi magici dove la patina del tempo ti fa tornare bambino e ti ridà la forza e la voglia di sognare. Ci sono luoghi dove gli angeli si sono fermati, luoghi dove vorresti stare tutto il giorno a crogiolarti nei ricordi e nei racconti della tua città di un tempo, che anche i nonni ti descrivevano.

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La vetrina

Ci sono luoghi dove vorresti addormentarti, dove appena entrato vieni avvolto da un’aura positiva che ti ritempra. Ci sono luoghi magici. Ci sono luoghi unici. Passeggiando per Ferrara se ne ritrovano alcuni. Se si ha la mente libera e leggera, poi, è ancora più facile. Uno di questi è sicuramente Langelo Atelier, che mi ha subito conquistato, avvolto, rapito, portato lontano. Un mondo di fiaba, dove si trovano angoli di passato che pensavi di non poter conoscere, frammenti di vite misteriose e curiose che ti vengono incontro, felici di condividere con te la loro storia. Qui incontro Rosy, la proprietaria che mi viene incontro con il suo dolce e amichevole sorriso, i suoi capelli ricci (estrosi e ribelli come i miei), i suoi boeri. Perché qui la dolcezza è fatta di sorrisi ma anche di cioccolatini dal liquore intenso che, adagiati comodamente e amichevolmente su una ciotola d’argento, nella loro carta colorata, accolgono gli ospiti, e li invitano a starsene lì a guardare e chiacchierare come in un’elegante sala da tè.

langelo-atelierQui ci si sente in famiglia, gli amici arrivano, chi compra e curiosa, chi cerca qualcosa, chi parla di un quadro o di un corso di pittura, chi ricorda i fasti passati della città estense. Parlando con Rosy m’incuriosisco, voglio sapere di più su quel posto che Alice potrebbe facilmente considerare il suo paese delle meraviglie. Rosy mi trasmette i suoi appunti di viaggio, in poche parole, con entusiasmo e rapidità. Una domenica mattina, la voglia di fare qualcosa di diverso dal solito per passare la giornata e una poliedrica ed entusiasta Rosy che ha un’idea: andare, con il marito (Fabrizio), al Mercatino di Emmaus, vicino alla casa dove allora abitavano. Tutto partì da quel momento unico nemmeno troppo lontano, la passione prese la mano, perché la possibilità di cercare qualcosa e il gusto di trovarla era ed è ancor oggi impagabile. Poi un’opportunità reale: onlus assistenziali chiedono a Rosy di organizzare e gestire dei mercatini natalizi. E qui l’idea di aprire un proprio mercatino dell’usato. L’anno scorso è arrivato in società Corrado e a quel punto Rosy avvia il negozio Langelo Atelier di via Centoversuri. Corrado mi racconta di quando Ferrara era un faro per la cultura italiana, di quando si pubblicavano giornali che ispiravano tutta la nazione, di come oggi la nostra bella città dormiente necessiti di un’aria e di un respiro nuovi. Per questa sua conoscenza e impegno, Corrado gestisce tutto quanto riguarda l’ambito artistico, mentre Rosy si dedica agli oggetti del quotidiano. L’atelier prende vita, oggi dà anche vita, e rimette in circolo oggetti usati e di buona qualità, contribuendo, nel suo ambito, a ridurre gli sprechi e ad allungare la vita delle cose stesse. Nulla va abbandonato, tutto serve, tutto si riusa, nulla sfugge al suo passato e al suo destino. Qui arriva di tutto: dagli oggetti personali, come le pellicce, la bigiotteria, le borse, gli accessori di moda, ai mobili, soprammobili, lampade, lampadari, libri, quadri e anche belle e tornite sculture. Sono tutti oggetti che non muoiono in fondo a un cassetto, nel buio di una cantina o di un solaio, cose che non si perdono, e molte di queste hanno anche una storia che le accompagna. Come la macchina da scrivere Underwood del 1925, appartenuta a un dirigente sindacale della Lega dei lavoratori, e in quei tempi, in pieno fascismo, erano momenti duri per gli attivisti di sinistra. Oppure la raccolta di vecchie cartoline che un soldato ferrarese inviava regolarmente a casa a ogni spostamento del suo reparto durante la Grande guerra e che s’interrompe alla sua morte in combattimento. Ma, soprattutto, la bella effige di un angelo con colubrina, originalmente parte di una banderuola a vento di un’antica casa padronale, e che oggi presidia la vetrina del negozio e ne ha ispirato il nome. Siamo in un altro mondo, credetemi. I pensieri volano lontano, alcuni via, insieme alle preoccupazioni e ai disagi, almeno per un po’.
Rimettere in giro oggetti che hanno finito una fase della loro funzione è, da un lato, un’emozione culturale per Rosy, perché testimonia il passato degli individui, e, dall’altro, un atto di civica utilità, in quanto diminuisce gli sprechi allungandone la vita d’uso. Emozione a parte, poi, è la costante e continua scoperta di opere d’arte di artisti locali: una fusione di emozioni che coniugano l’atmosfera dei luoghi e delle storie che si percepiscono nei nostri territori. La nostra missione, mi ricorda sempre l’entusiasta Rosy, è rimettere in circolo il Passato per dare consistenza al Futuro. Bellissimo.
Questo posto ti fa sentire davvero a casa. Qui ho comprato un antico comò dai grandi e profondi cassetti. Da risistemare, ma non troppo, come i miei desideri. Lì metterò tutti i miei sogni più grandi, pronta a tirarli fuori al momento opportuno.

Langelo Atelier si trova a Ferrara, in via Centoversuri 6/A

Ferrara e la poetica del non-finito

Agli albori degli anni Sessanta, nel suo ineguagliabile saggio sulla Ferrara rinascimentale, Bruno Zevi decantava quella che lui stesso argutamente definiva “la poesia del non-finito” di Biagio Rossetti, lungimirante edificatore del primo piano urbanistico della storia, che in anni recenti ha valso al sito estense l’ambito titolo di Città patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco.
A distanza di cinquecento anni, sarà una questione genetica, lo spirito del non-finito continua ad aleggiare sul tessuto urbano ferrarese. A cominciare dal centro storico, dove il pregevole palazzone dell’architetto Piacentini – che ai tempi ospitava l’Upim e oggi una multinazionale della ristorazione – pugnalocchia col contesto circostante, lasciando per l’appunto nell’osservatore la sensazione ineluttabile del non-finito, ovverossia del fatto che non è finita lì e prima o poi l’insulso volume verrà giustiziato a colpi di tritolo per lasciare finalmente il posto ad un’architettura come dio comanda nel cuore della città Patrimonio di cui sopra.
Per continuare col reticolo di circonvallazioni che dovrebbero evitare l’attraversamento della città da parte del traffico di passaggio, dove la trama del non-finito si dispiega compiutamente nei cavalcavia che puntano spavaldi verso il cielo e lì si fermano in attesa che qualcuno si decida a tirar su l’altra metà, nelle ruspe che tracciano alacri le nuove bretelle che avrebbero dovuto essere completate già da decenni, nella ferrovia che continua a segare in due via Bologna nonostante i progetti del suo interramento risalgano all’epoca dei moti carbonari. E con gli edifici dell’immediata periferia, nei quali lo struggimento del non-finito erompe dai vetri rotti, il calcestruzzo sbrecciato, le finestre dagli infissi divelti che occhieggiano come orbite vuote di teschi e fanno tanto arredo urbano. Per non dire delle piste ciclabili, che avviluppano la città in un affascinante nastro rosso costellato – per restituire compiutamente il senso di suggestiva imperfezione che promana dall’antica città di cotto – di buche, rigonfiamenti, crepe sapientemente intervallate da palozzi in ferro che spuntano come funghi dall’asfalto nel mezzo esatto del passaggio, sostituendo efficacemente la banale segnaletica orizzontale a base di strisce bianche riservata alle auto.
Per finire con la delicata poetica del non-finito culturale che permea praticamente tutti i ferraresi (lettori di questo corsivo esclusi, ça va sans dire). I quali sono a conoscenza che la dinastia estense si è bruscamente interrotta col ritorno del ducato tra le grinfie del Papa, ma situano l’evento in un tempo indeterminato: dopo la morte dell’ultimo duca. I più addentro alle vicende di storia patria azzardano che la cosa è avvenuta nel Seicento, inteso non come anno, il Milleseicento, che sarebbe anche sostanzialmente esatto, ma come secolo, il Seicento appunto, il che equivale a dire a un amico “Ci vediamo in piazza nel duemilaquindici. Però, mi raccomando, vedi di essere puntuale: lo sai che non mi piacciono i tiratardi”.
Termino qui questa digressione; avrei anche potuto chiudere meno bruscamente, lo so, ma che ci volete fare: sono un estimatore del non-finito letterario.

ESCLUSIVA
Parla il progettista dei grattacieli: “Abbattere le torri? Una scorciatoia a un problema complesso”

In mezzo alle tante polemiche che ruotano attorno al grattacielo, abbiamo pensato di andare a cercare chi lo aveva progettato proprio sessant’anni fa, per capire quali erano le intenzioni iniziali.
Tutto pare essere nato, così riporta Lucio Scardino nel suo “Itinerari di Ferrara Moderna”, dalla tesi di laurea Una casa a torre nella città di Ferrara discussa a Zurigo dall’architetto ferrarese Gian Carlo Capra. I lavori vennero affidati all’impresa Armando Anzempamber, che incaricò due architetti romani, Luigi Pellegrin e Sergio Delle Fratte, della rielaborazione progettuale dell’idea iniziale.
Di quel gruppo oggi sembra essere sopravvissuto solo Sergio Delle Fratte, che ha 92 anni e vive a Roma con la moglie Vittoria di 91. Ancora lucido, ma con qualche comprensibile problema comunicativo legato all’età, ha affidato il suo racconto al figlio Fabrizio, anche lui architetto.

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Foto storica del grattacielo all’epoca della costruzione (foto d’archivio studio di Sergio Delle Fratte attribuita al fotografo Peguiron)

“Non sapevamo dell’opinione diffusa di voler abbattere l’edificio, né della sua situazione di degrado”, ha detto con stupore e rammarico Fabrizio Delle Fratte, “alla notizia mio padre si è fatto una grassa risata perché ritiene l’abbattimento una scorciatoia per risolvere un problema complicato”.
Così Fabrizio ha pensato di mettere suo padre di fronte al computer e con l’opzione Street view di Google maps, per la prima volta dopo tanti anni, lo ha riportato virtualmente alla base delle torri.

“Mio padre – ha raccontato – è rimasto molto colpito dallo stato di decadenza del fabbricato. Ha notato un cambiamento nella parte basamentale dell’edificio, che in origine era diversa perché doveva contenere un cinema e un grande magazzino. Le residenze del primo piano non c’erano, perché quegli spazi avrebbero dovuto ospitare dei servizi. Ora al piano terra ci sono solo pochi negozi, gli altri sono abbandonati, forse, se fosse stata mantenuta l’idea originaria, non avrebbero fatto quella fine. Inoltre mio padre ha notato subito l’assenza di manutenzione, le dozzine di antenne, il cambiamento di colore e il fatto che i piazzali circostanti ora sono adibiti a parcheggio. Non è stato il modo migliore per conservare quel posto”.

(foto d'archivio studio di Sergio Delle Fratte)
(foto d’archivio studio di Sergio Delle Fratte)

Ma quali erano le intenzioni iniziali dei progettisti?
“Mio padre – ha proseguito Fabrizio – ha spiegato che per capirlo bisogna necessariamente storicizzare il contesto. Era il 1954, il dopoguerra, e c’era una forte richiesta abitativa. La priorità dell’amministrazione era realizzare una struttura ad alta densità e a basso costo per andare incontro alle esigenze di alloggio dei cittadini. Il grattacielo di Ferrara doveva avere residenze nella parte media e alta e servizi in quella bassa. Avrebbe quindi dovuto essere un edificio con una vita sua e portare una serie di servizi all’interno. Dal punto di vista di inserimento nel contesto e di sviluppo avrebbe potuto avere un esito diverso se accanto agli appartamenti, fossero rimasti i servizi”.

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(foto d’archivio studio di Sergio Delle Fratte attribuita al fotografo Peguiron)

L’architetto che ha progettato il grattacielo ricorda come venne accolto dalla città?
“Da parte dell’amministrazione comunale ci fu massima disponibilità, tanto che il progetto gli fu approvato in due mesi, un tempo impensabile per il periodo odierno. Ribadiamo che la priorità allora era dare le case alla gente, questo spiega un altro fatto eccezionale: l’area sulla quale fu eretto l’edificio, fu data in dono dal comune all’impresa costruttrice, a seguito del suo impegno a tenere bassi i costi. Poi però ci furono anche molte polemiche soprattutto sull’altezza dell’edificio, tanto che Pellegrin, l’altro architetto, decise di abbandonare il progetto. Poi sorsero problemi anche con l’ingegnere che seguiva i lavori. Mio padre sostiene che gli ha modificato il progetto e gli ha rovinato lo skyline, ma ormai sono cose difficili da ricostruire con precisione. Di certo la localizzazione del grattacielo colpisce ancora oggi. Fu probabilmente l’amministrazione a sceglierla. Le torri sono l’elemento terminale del più importante asse della città, quello di viale Cavour. Dal punto di vista formale sono state pensate come un elemento di chiusura”.

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(foto d’archivio studio di Sergio Delle Fratte attribuita al fotografo Peguiron)

E qui Fabrizio Delle Fratte, ha voluto abbandonare il ruolo di portavoce del padre che fino a quel momento aveva ricoperto, e dare un suo parere personale.
“Siccome dal punto di vista urbanistico il grattacielo è ubicato in modo corretto, cioè va bene un edificio alto in quella posizione, abbatterlo sarebbe un errore perché è un segnale che evidenzia l’inizio o la fine del grande asse sul quale si sviluppa Ferrara. Il grattacielo c’è e va trattato bene, va fatto rivivere. C’è un parco attorno per iniziative di risanamento. E’ stato trattato male, ora è un’area non vitale. Se l’edificio è abitato da persone con disagio sociale, si risolve il disagio, non si abbatte l’edificio”.

Le foto del grattacielo sono state concesse in esclusiva dall’archivio dello studio di Sergio Delle Fratte e sono probabilmente del fotografo Peguiron.

Canti a Maria, canti di Johannes

da: organizzatori

Concerto ecumenico

Canti a Maria, canti di Johannes

Con la partecipazione del coro da camera Euphonè
del basso Daniele Tonini e della pianista Emanuela Marcante
musiche di
E. Grieg, L. Perosi, Z. Kodaly, M. Dias de Oliveira, R. Real,
J. Brahms
presentazione di Piero Stefani

Ferrara, Teatro di Santa Francesca Romana, via XX settembre 47
sabato 24 gennaio 2015, ore 21,00

Ti salutiamo stella del mare, eccelsa Madre di Dio», «Ora rimangono fede, speranza, amore, queste tre cose, ma l’amore è la cosa più grande tra tutte». Quelle qui trascritte sono la prima e l’ultima frase del «concerto ecumenico». La prima parte, dedicata a Maria, è espressione della Chiesa cattolica; la seconda, su testi della Bibbia tedesca tradotta da Martin Lutero, racchiude simbolicamente in sé l’insieme delle Chiese nate dalla Riforma. Si inizia indicando un orientamento; si termina guardando alla meta che tutti ci accomuna al di là delle vie percorse per giungervi.
I «canti a Maria» mettono in musica testi liturgici e popolari. Essi esprimono un sentimento corale che si snoda lungo i secoli. I «canti di Johannes» testimoniano la sensibilità individuale di un grande compositore, Brahms. Egli, alla fine della sua vita, ripensa, nella cattolica Vienna, alla Bibbia di Lutero a lui familiare fin dall’infanzia amburghese. Il senso della comunità e quello dell’individualità sono due apporti della tradizione cristiana. Entrambi sono fondamentali. È “ecumenico” dare spazio all’uno e all’altro. Simbolicamente la prima parte sarà affidata a un piccolo coro, la seconda a un solista. Il numero contenuto dei coristi simboleggia il “popolo ecumenico”, ancora una minoranza in seno alle Chiese che però ha in sé la speranza – che rimane – di essere un germe. Il solista è accompagnato, segno che l’individualità non comporta solitudine e isolamento.

LA CURIOSITA’
Giocando con la pittura: i capolavori dell’arte trasformati in Playmobil

Quando vedevo i miei nipotini giocare con i Playmobil, mai mi sarei immaginata che qualcuno li avrebbe avvicinati a quadri famosi. Con piacevole stupore, ho scoperto allora Pierre-Adrien Sollier, un interessante e originale artista francese che vive a Parigi, e che, dal 2011, realizza dei dipinti che riprendono quadri famosi, sostituendo gli oggetti e le figure umane con dei Playmobil, i celebri giocattoli prodotti dall’azienda tedesca Brandstätter. Sollier ha raccontato, in alcune interviste, che ha sempre trovato molto espressivi gli omini dei Playmobil, e che, con i suoi quadri, per i quali usa soprattutto colori acrilici su tela, vuole raccontare l’uomo moderno in maniera divertente e non convenzionale. Eccoci, allora, di fronte ad alcuni dei più grandi capolavori della storia dell’arte riprodotti con questi simpatici e colorati omini. E’ un’iniziativa interessante che potrebbe avvicinare molti bambini all’arte, perché no. Eccone alcuni esempi.

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‘Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte’, Georges-Pierre Seurat
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‘Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte’ di Pierre-Adrien Sollier

“La Grande Jatte” è un’opera realizzata tra il 1884 e il 1886 dal pittore francese Georges-Pierre Seurat, tra le più note del movimento pittorico del puntinismo francese. La sua realizzazione fu preceduta, come di consueto nella tradizione puntinista, da una numerosa produzione di studi disegnati o dipinti. Fu acquistato nel 1924 da Frederic Clay Bartlett che lo prestò al The Art Institute di Chicago dove è tuttora esposto. Colorato e allegro.

 

 

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‘La lattaia’ di Johannes Vermeer
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‘La lattaia’ di Pierre-Adrien Sollier

“La Lattaia” è un dipinto a olio su tela di Jan Vermeer, databile al 1658-1660 circa e conservato nel Rijksmuseum di Amsterdam. Il dipinto passò per varie collezioni private olandesi, tutte documentate, finché dalla raccolta Six di Amsterdam non fu acquistato dallo Stato nel 1907, arrivando nel museo nel 1908. Delicato.

 

 

 

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‘La libertà che guida il popolo’, Eugène Delacroix
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‘La libertà che guida il popolo’, di Pierre-Adrien Sollier

“La Libertà che guida il popolo” è un dipinto di Eugène Delacroix ad olio su tela, realizzato nel 1830 per ricordare la lotta dei parigini contro la politica reazionaria di Carlo X di Francia. Dal dicembre 2012 l’opera era conservata al Museo del Louvre nella sede staccata di Lens; ora si trova nella sede principale, a Parigi. Il personaggio della libertà costituisce il primo tentativo di riprodurre un nudo femminile in abiti contemporanei; fino a allora i nudi erano accettati dal pubblico filtrati attraverso rappresentazioni di carattere mitologico o di storia antica. Delacroix riuscì a superare il problema attribuendo alla fanciulla la funzione della Libertà. Importante.

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‘La Gioconda’, Leonardo da Vinci
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‘La Gioconda’, di Pierre-Adrien Sollier

“La Gioconda”, nota anche come Monna Lisa, sfuggente, ironica e sensuale, è un dipinto a olio su tavola di pioppo di Leonardo da Vinci, databile al 1503-1514 circa, e conservata nel Museo del Louvre di Parigi. Opera emblematica ed enigmatica, si tratta sicuramente del ritratto più celebre del mondo, nonché di una delle opere d’arte più note in assoluto, oggetto di infiniti omaggi, ma anche di parodie e sberleffi. Il sorriso impercettibile della Gioconda, col suo alone di mistero, ha ispirato pagine di critica, di letteratura, di studi anche psicanalitici. Misterioso.

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‘Opere’ di Jean-Michel Basquiat
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‘Opere’, di Pierre-Adrien Sollier

Jean-Michel Basquiat è stato un writer e pittore statunitense nato e morto a New York rispettivamente nel 1960 e nel 1988. È stato uno dei più importanti esponenti del graffitismo americano, che è riuscito a portare, insieme a Keith Haring, questo movimento dalle strade metropolitane alle gallerie d’arte. Innovativo.

 

 

 

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‘La colazione dei canottieri’, Auguste Renoir
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‘La colazione dei canottieri’, Pierre-Adrien Sollier

“La colazione dei canottieri” è un dipinto a olio su tela realizzato tra il 1880 e il 1882 dal pittore francese Pierre-Auguste Renoir. Fa parte della Phillips Collection di Washington. Il dipinto rappresenta un pranzo al ristorante La Fournaise a Chatou, un tranquillo e verde villaggio sulla Senna, frequentato abitualmente dai canottieri. La scena è ambientata nella veranda del locale, dove quattordici personaggi, tutti amici del pittore (tra cui la futura moglie, Aline Charigot, la donna con il cane), discutono dopo aver mangiato assieme. L’attenzione dell’artista si concentra sui colori, che formano i volumi e la prospettiva. Quadro colorato e allegro. Delizioso.

 

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Diego Velazquez, ‘Le damigelle d’onore’
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‘Le damigelle d’onore’, Pierre-Adrien Sollier

“Le damigelle d’onore” è un dipinto a olio su tela realizzato, nel 1656, dallo spagnolo Diego Velázquez e conservato al Museo del Prado di Madrid. In quest’opera è dipinta l’Infanta Margarita, la figlia maggiore della nuova regina, circondata dalle sue dame di corte. Alla sua sinistra compare Doña Maria Augustina de Sarmiento, e alla destra Doña Isabel de Velasco, la sua nana ed il suo mastino, oltre che alcuni altri membri della corte spagnola. Velázquez si trova di fronte al suo cavalletto, attento, vigile, esperto. Storico.

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‘La persistenza della memoria’, Salvador Dali
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‘La persistenza della memoria’, Pierre-Adrien Sollier

“La persistenza della memoria” (noto anche come ‘Orologi Molli’) è un dipinto a olio su tela realizzato nel 1931 dallo spagnolo Salvador Dalí. È conservato nel Museum of Modern Art di New York. La cosa che più colpisce l’osservatore guardando quest’opera è l’impianto composito fortemente asimmetrico. Gli elementi del quadro, infatti, sono distribuiti in maniera disorganica nello spazio aperto e si trovano adagiati su di un paesaggio che l’artista decide di ritrarre dall’alto. La luce è frontale e genera ombre profonde sulla superficie degli oggetti. Originale.

'La zattera della medusa', Pierre-Adrien Sollier
‘La zattera della medusa’, Pierre-Adrien Sollier
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‘La zattera della medusa’, Théodore Géricault

“La zattera della Medusa” è un dipinto a olio su tela di Théodore Géricault, realizzato nel 1818-19 e conservato al Louvre di Parigi. Il dipinto rappresenta un momento degli avvenimenti successivi al naufragio della fregata francese Méduse, avvenuto il 5 luglio 1816 davanti alle coste dell’attuale Mauritania, a causa di negligenze del comandante Hugues Duroy de Chaumareys. Oltre 250 persone si salvarono nelle scialuppe, le rimanenti dovettero essere imbarcate su una zattera di fortuna e di queste solo 13 fecero ritorno a casa. L’evento generò uno scandalo internazionale, provocando la caduta del governo. L’opinione pubblica si schierò anche contro la monarchia francese, in particolare contro il re Luigi XVIII, reo di aver nominato a quell’incarico il capitano. Géricault approfittò della risonanza dell’evento per farsi conoscere. Imponente.

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‘L’ultima cena’, Leonardo da Vinci
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‘L’ultima cena’, Pierre-Adrien Sollier

“L’ultima cena” è un dipinto parietale a tempera grassa su intonaco, di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1498 e conservato nell’ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano. Si tratta della più famosa rappresentazione dell’Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale. Commovente.

 

 

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‘I nottambuli’, Edward Hopper
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‘I nottambuli’, Pierre-Adrien Sollier

Dipinto nel 1942, nel quadro vi è un bar che si trova a un angolo di una grande città, all’esterno del locale però la città sembra un fantasma, completamente deserta, senza anima viva; tutto si concentra all’interno del bar. Dietro al bancone è presente il barista, unica figura presentata con i colori chiari, che rispecchia la luce elettrica del bar, intento nel suo lavoro. Dall’altra parte del bancone, invece, vi sono un personaggio di spalle e una coppia che guarda il barista. Nessuno parla, ognuno perso all’interno della propria realtà, come se tutto quello che li circondasse non avesse alcuna importanza. Qui emerge il tema vero del quadro: la sensazione di solitudine in una grande città; il sentirsi “vuoto” davanti alla grandezza di una città in continuo fermento, l’essere distaccato da un panorama molto più vasto di quello di una semplice persona. Unico.

Immagini dei Playmobil © pierre-adrien sollier [vedi]

Il pacco delle spedizioni

Si sa, viviamo nella società dei servizi. Se per “servizi” si intendono quelli che per Giorgio Gaber sono sempre in fondo a destra, allora ci siamo intesi.
Succede che la stazione di casa per il collegamento wi-fi funzioni male. Non c’è problema, la sostituiscono. Il nuovo apparecchio ti arriverà a casa con uno spedizioniere. Lasci un numero di telefono per essere contattato e perciò presente al momento della consegna.
Un bel giorno arrivi a casa e trovi un tagliando per avvisarti che il furgone è passato alle undici del mattino.
Chiami la ditta per rendere noto che non avendo fatto sei al superenalotto, di solito a quell’ora sei al lavoro. Fai il numero telefonico scritto sul biglietto trovato in buchetta e inizi ad ascoltare tutte e quattro le stagioni di Vivaldi. La seconda volta della “Primavera”, qualcuno dall’altra parte si degna di rispondere.
Quasi ti dispiace, perché arrivato al bis del capolavoro del Prete Rosso ti sembra addirittura di avere capito se l’esecuzione sia dei Solisti veneti o sotto la bacchetta di Trevor Pinnock. Pazienza.
Parli con un operatore che ha la stessa spinta di chi gli hanno appena rigato la macchina. Dopo un primo labirinto senza uscita di domande e risposte, ti rendi conto che non ne puoi uscire vivo e allora chiedi se puoi avere un recapito della sede ferrarese della ditta di spedizioni.
Indovinate? “Spiacente, ma non c’è”. Vai su internet e, invece, c’è. Chiami, ma non risponde nessuno.
Richiami allora il numero sul tagliando e questa volta ti capita uno che parla tamil. Ti fai coraggio e moduli le vocali in modo che, dio solo sa come, alla fine ti accordi per una seconda consegna il pomeriggio seguente. Rimani in casa ad aspettare e il risultato è il deserto dei tartari.
Il mattino dopo un altro passaggio sempre alle undici, con tanto di tagliando.
E’ l’unica precisione svizzera di tutta la faccenda.
A questo punto alzi bandiera bianca e vai personalmente alla sede locale all’indirizzo che trovi in rete. Una prima volta ci va, mettiamo, tua moglie, che però torna a casa a mani vuote. “Non possiamo consegnarle il pacco se non ha la delega; non sappiamo se il coniuge è consenziente e poi c’è la privacy …”.
Per una frazione di secondo la mente corre al sinodo dei vescovi voluto da papa Bergoglio sulla famiglia e pensi che la comunione ai divorziati non è l’unico problema da risolvere.
Torni, questa volta con il nucleo familiare al completo, e finalmente vieni a casa con la nuova station.
Il passo successivo è aprire il libretto con le indicazioni per l’istallazione guidata. Talmente facile che “basta seguire – c’è scritto – le istruzioni a video”.
Niente affatto, perché all’ultimo passaggio sei mandato ad una pagina web della compagnia telefonica che, sempre a video, viene data come inesistente.
Chiami l’operatore, stavolta, telefonico e ti inoltri in una selva di numeri da crisi d’identità. Puoi fare sapere di avere bisogno di assistenza anche inviando un sms, ma evidentemente l’help si perde in un infinito leopardiano.
Stremato, provi a chattare. Ti chiedono password e username, che non ricordi perché la prima volta ti registrasti in una precedente era geologica. Per recuperarle devi indicare il nome del tuo migliore amico d’infanzia …
Viene da chiedersi come mai questo paese sia ridotto in queste condizioni, oppure sorge il dubbio se queste non siano che terribili e funeste anticipazioni di un mondo nel quale l’uomo sta abdicando alla tecnica, illudendosi di fare un passo avanti nella storia dell’evoluzione.
Una risposta, molto parziale e per nulla consolante, la scrive Umberto Eco su L’Espresso (15 gennaio 2015): “Brecht ci ricordava (nel suo Galileo) che sfortunato è quel paese che ha bisogno di eroi, perché difetta di persone normali che fanno quanto si erano impegnati a fare, in modo onesto. In cui, nessuno sapendo più quale sia il suo dovere, cerca disperatamente un capopopolo, a cui conferire carisma, e che gli ordini ciò che deve fare. Il che, se ben ricordo, era un’idea espressa da Hitler in Mein Kampf”.
Persone normali che facciano quotidianamente del proprio meglio per risolvere i problemi anziché complicarli. Se questo non accade, a nulla vale rivolgersi all’uomo dei miracoli e, prima o poi, si è condannati a piangere di nuovo per gli errori già commessi in passato.

LA SEGNALAZIONE
Santi, scrittori e viaggiatori

Se c’era qualcosa di cui era sicuro Vitangelo Moscarda, protagonista del pirandelliano “Uno, nessuno e centomila”, questa era il proprio nome.
Non avrebbe potuto dire lo stesso il proprietario del corpo conservato da oltre ottocento anni nell’arca di san Luca, all’interno della basilica di Santa Giustina a Padova, arca aperta nel settembre 1998 alla presenza di esperti e studiosi.

Degno di una spy story, che mescola intrighi e divulgazione scientifica, è una storia reale
la vicenda che Guido Barbujani racconta in “Lascia stare i santi” edito da Einaudi e presentata nell’ultima rassegna di Autori a corte.
Un vero e proprio viaggio nello spazio – per l’autore – e nel tempo – alla ricerca della probabilità, della possibilità più reale, che possa aiutare a capire se l’identità del corpo che riposa da ottocento anni, forse addirittura da 1700, in una cassa di piombo sia quella di san Luca Evangelista. Partita come spedizione alla ricerca di un tassello mancante del puzzle delle possibilità, assume via leggendo i connotati di una storia del mistero, cui si legano millenni di vicende e di santi, di città che si contendono reliquie, del possibile viaggio affrontato dalla salma, dal Medio Oriente all’Italia. Così, per conto dell’arcivescovo di Padova Antonio Mattiazzo, parte la spedizione per la Siria allo scopo di recuperare il Dna mancante che potrebbe permettere di capire qualcosa dell’origine del corpo – greca, turca o siriana – Dna che viene portato illegalmente in Italia imprimendolo su strisce di carta assorbente.

“Il libro nasce dal desiderio di parlar bene, una volta tanto, della ricerca scientifica e della razionalità, di raccontare la curiosità che provavo per il risultato che sarebbe scaturito dal lavoro di menti così diverse per formazione: anatomopatologo, chimico, archeologo, storico dell’arte, a ognuno dei quali spettava una parte del progetto. Pollini, grano, insetti, resti di serpenti e altri animali, legno con cui è stata fabbricata l’arca: tutti gli elementi concorrevano alla restituzione di una identità a quel corpo.
A me spettava il compito di analizzare il Dna del corpo trovato nella tomba, recuperato estraendolo da un canino e da una radice dentale”, racconta Barbujani.
Capitoli interamente dedicati alla scienza, tecnicismi che sono veicolo delle vicende, il giusto corredo di informazioni necessarie per orientarsi nelle vicende – basi della genetica, Dna, agiografia molecolare, tassonomia numerica – sono il necessario nucleo attraverso cui il genetista ferrarese descrive questa avventura; ma anche aneddoti personali sugli anni di studi e convegni; litigiosi post-dottorandi e dispute tra discipline che si contendono la palma d’oro nell’universo scientifico.

Agli aspetti più prettamente scientifici e accademici, si affiancano quelli umani; entrambi descritti da Barbujani come fondamentali nella sua ricerca, allo stesso modo in cui si scontrano due etiche del lavoro così diverse e così necessarie come la statistica di Sokal e l’intuizione di Luca Cavalli Sforza, due pesi massimi del settore. A partire dalla bellissima Aleppo, città siriana oggi devastata dai bombardamenti, esplorata dallo scienziato, in cui si mescolano variopinti tipi umani, creando un gigantesco e colorato “appartamento spagnolo” – i tecnici addetti al cambio dello spettrofotometro, i ragazzini curiosi per le strade polverose della città, bonari farmacisti e studiosi riservati – in cui si muovono Barbujani e il collega Fabio, tra sentimenti altalenanti, rischio di essere scoperti e senso del tragicomico latente e manifesto.
“Lascia stare i santi” è di fatto il racconto di tanti viaggi; ora scientifici, ora spiritosi, ora malinconici. Comincia e si sviluppa con il viaggio dello studioso verso la Siria, e termina con una poetica riflessione finale sugli spostamenti umani attraverso le parole di Gad Lerner, che racconta lo spaesamento del viaggiatore occidentale percorrendo il viale dei Martiri di Beirut, a confronto con quelle dell’imperatore Giuliano alle prese con il culto cristiano dei morti; senso del viaggio, ancora una volta colla e forbici del mondo, che unisce e divide, svela il mistero per proporne di nuovi, a fronte di una nuova (probabile) identità svelata e di tutto ciò che sta tra un corpo e un nome.

“Ma signori miei, cosa è un nome?”
(La giara, Luigi Pirandello)

L’EVENTO
Un bosco per Abbado, storia di un’idea

Eccoci arrivati all’ultimo giorno di agosto.

Durante tutto il mese avete riletto storie, interviste e ritratti dal nostro archivio, ora è arrivato il momento di conoscere il vincitore, l’articolo che ha ricevuto più voti da voi lettori di Ferraraitalia. E’ “Un bosco per Abbado. Storia di un’idea” nel quale la nostra Stefania Andreotti racconta il progetto di un bosco in città per rendere omaggio a una delle più grandi passioni del maestro Claudio Abbado, il giardiniere della musica. Buona lettura!

Un anno fa ci lasciava Claudio Abbado, direttore d’orchestra di fama mondiale e creatore di Ferrara Musica, una delle più importanti stagioni concertistiche italiane che ha permesso di avere in residenza artistica in città prima la Chamber Orchestra of Europe, poi Mahler Chamber Orchestra.

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La locandina

Oggi il Teatro comunale ha scelto di ricordarlo in modo inusuale, non per il suo lavoro, ma per il suo impegno, in particolare quello per l’ambiente. Appassionato di giardinaggio tanto da ricreare sempre il verde attorno a sé in tutte le sue dimore, come il celebre parco della casa di Alghero, è arrivato lui stesso a definirsi, “un giardiniere che si diletta a fare un po’ di musica” (Claudio Abbado, “Il giardiniere della musica”, Riccardo Lenzi, L’Espresso). L’architetto Renzo Piano aveva provato a spiegare così questo suo amore: “nella bellezza effimera delle piante c’è qualcosa di leggero, di passeggero, di sublime, che poi è il senso stesso della musica” (“Intervista a Claudio Abbado e Renzo Piano”, Stefano Boeri, L’Huffington Post).
Così il titolo dell’incontro di oggi alle 17 presso il Ridotto del Teatro comunale è proprio: “Un giardiniere prestato alle note”. L’idea è venuta al Garden Club Ferrara che l’ha sviluppata con il Fai dell’Emilia-Romagna, in collaborazione con Comune di Ferrara, Fondazione Teatro Comunale e Ferrara Musica.

giardino-abbado“L’incontro – come spiegano gli organizzatori – sarà l’occasione per presentare il progetto “Un bosco in città”, nato dal desiderio di ricordare con un luogo alberato l’amore del maestro per la natura, che l’Associazione Garden Club ha proposto al Comune di Ferrara ottenendo un’immediata disponibilità. Dai primi contatti è stata individuata un’area verde pubblica compresa fra il quartiere Barco e via Padova, che si potrebbe trasformare nel tempo in un ‘bosco in città’ di grande fascino, grazie all’impegno congiunto fra le competenze dell’amministrazione comunale e dei paesaggisti ed esperti di arredo urbano attivi nell’ambito del volontariato civico e ambientalista di associazioni quali Fai e Garden Club”.

giardino-abbadoMa com’è nata l’idea? Tutto risale a un paio di anni fa, quando Manfredi Patitucci, garden designer ferrarese, ha adottato, come previsto da un regolamento comunale, un’area verde di 1600 mq, composta da un boschetto ed un prato dietro la chiesa di San Giuseppe Lavoratore, nelle adiacenze di via Padova. “Ho sfalciato l’erba, potato, ripulito e reso agibile la porzione che mi era stata affidata. Poi ci ho piantato venti alberi di antiche varietà di frutta come melo cotogno, gelso e melograno.
La mia idea era di tamponare fisicamente e psicologicamente la presenza dell’industria. Una volta terminato il lavoro, ho restituito l’area verde al Comune. Qualche tempo dopo sono tornato a vedere la situazione e mi sono accorto che qualcuno aveva piantato un fico. E’ stata un’emozione, perché era la prosecuzione ideale del mio contributo ed un segno tangibile della voglia dei cittadini di riappropriarsi del verde pubblico. Sarebbe bello infatti che ognuno contribuisse alla sua manutenzione”.

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Area verde pubblica compresa fra il quartiere Barco e via Padova

La storia di Manfredi, è piaciuta molto al Garden Club, che ha apprezzato l’associazione di margine boschivo e frutteto, ed ha sposato l’idea del bosco in città, con l’intenzione di espanderlo e magari dedicarlo al maestro Abbado che tanto si è speso in più occasioni per la piantumazione degli alberi. “Un’idea è proprio quella di lavorare sull’area contigua a quella che ho ripristinato, si creerebbe così un unico grande parco. Ma al momento – precisa Patitucci – non c’è nessuna ipotesi progettuale”.

L’incontro di oggi servirà appunto per illustrare l’idea alla città e trovare assieme ad esperti, istituzioni e cittadini il modo migliore per realizzarla. “Il pomeriggio si concluderà – ricordano sempre gli organizzatori – con la proiezione video dell’esecuzione della Terza Sinfonia di Beethoven con Claudio Abbado alla guida della Lucerne Festival Orchestra, tratta dal dvd del concerto che ha avuto luogo nell’estate del 2013 al Lucerne Festival, l’ultimo diretto dal grande Maestro.
Questo particolare appuntamento in ricordo della figura di Claudio Abbado, sarà seguito da due significativi episodi musicali programmati da Ferrara Musica e Teatro Comunale: nel pomeriggio di domenica 25 gennaio al Ridotto del Teatro saranno proiettati video tratti dalle sue più recenti presenze a Ferrara; lunedì 26 gennaio, nell’ambito della stagione 2014-2015 di Ferrara Musica, la Mahler Chamber Orchestra, formazione fondata da Abbado nel 1998 e sin da allora orchestra residente nella città estense, sarà protagonista di un concerto in suo onore diretto da Daniele Gatti”.

Le foto dell’area pubblica individuata, compresa fra il quartiere Barco e via Padova, sono di Manfredi Patitucci.

Per il dettaglio degli appuntamenti visita il sito del Teatro comunale [vedi].
Regolamento per l’adozione di aree verdi pubbliche della città di Ferrara [vedi]
Articolo “Claudio Abbado, il giardiniere della musica” di Riccardo Lenzi, L’Espresso [vedi]
Intervista a Claudio Abbado e Renzo Piano, Stefano Boeri, L’Huffington Post [vedi]

L’incanto del flusso

Noia, ripetitività, ansietà sono i nemici del nostro star bene, eppure sono così diffuse da costituire tante metastasi del nostro vivere quotidiano.
Non è un caso che da alcuni anni abbia preso piede la parola resilienza, come una competenza indispensabile a vivere i nostri tempi. ‘Resilire’ in latino significa ‘rimbalzare’, ‘saltare indietro’. Un bel modo figurato per rappresentare i nostri tentativi di sottrarci alle routine del lavoro, della scuola, della vita famigliare. Resilienti sono le persone capaci di affrontare efficacemente le contrarietà e di dare un nuovo slancio alla propria esistenza.
Che la parola ‘resilienza’ trovasse cittadinanza nel nostro lessico era inevitabile, considerato che sempre più siamo vittime di un sistema che ha sacrificato sull’altare della produttività e del profitto la noia, l’ansia, la ripetitività del lavoro, massimizzando il paradigma dell’industria dei consumi. La stessa tecnologia non ci ha soccorso in questo, perché anch’essa orientata ad elevare i profitti e a produrre nuovi beni di consumo.
A tutto ciò ormai siamo arresi, però ci invitano ad essere resilienti, un modo per lasciare le cose così come stanno e trovare un compromesso per convivere con questo sistema. Per fortuna siamo ancora animali intelligenti, anche se non sempre può sembrare, e siamo abituati a porci delle domande.
Credo che un po’ a tutti sia capitato di aver provato almeno una volta nella propria vita, il fascino dei momenti in cui con piena soddisfazione ci siamo lasciati prendere da quello che stavamo facendo, con passione, con trasporto, dimentichi di noi stessi e di quanto ci stava attorno, spazi di tempo irripetibili, quasi magici.
Niente di straordinario. C’è anche chi ha definito questo stato con il termine ‘autotelico’, cioè di attività che è fine a se stessa, che dà piacere in quanto tale, a prescindere dal compenso o dall’interesse che ne ricaviamo. Ne scrive Mihaly Csikszentmihalyi, psicologo sociale dell’Università di Chicago, autore della “Flow Theory”. La Teoria del flusso fornisce un altro modo di pensare le organizzazioni sociali, a partire dalle scuole, per creare le condizioni del migliore benessere per studenti e insegnanti e per tutti quelli che lavorano in generale. È possibile per i lavoratori, gli studenti e altri ancora raggiungere l’ottimizzazione delle loro esperienze?
Mihaly Csikszentmihalyi, pioniere della teoria del flusso, descrive quali sono le caratteristiche di un’esperienza ottimale. La concentrazione è così intensa da lasciare in disparte ogni altro pensiero e problema. La coscienza di sé scompare, come il senso del tempo. L’attività produce una tale gratificazione che si è disposti a tutto, a prescindere da quello che si ricava, dalle difficoltà e dal pericolo.
È quello che prova l’artista immerso nel suo lavoro creativo, la spinta, il flusso che lo guida è così intenso che dimentica la fatica, la fame, i disagi. Lo stesso accade nel gioco dei fanciulli e degli adulti, che completamente immersi nella loro attività finiscono per condividere un’esperienza simile a quella dell’artista.
Sostanzialmente un invito a riscoprire il piacere di fare le cose non per un guadagno, ma per il valore dell’esperienza in sé, solo questa è la strada verso l’ottimizzazione.
Cosa significa ciò in campo educativo? Csikszentmihalyi distingue tra attività orientata ad ottenere una ricompensa e attività fondate sul ‘flusso’, sul piacere dell’attività in quanto tale. Insegnare ai fanciulli a diventare buoni cittadini non è ‘autotelico’, mentre lo è apprendere il piacere di interagire con gli altri bambini.
Gli studi condotti dal team di ricercatori dell’Università di Chicago sul grado di soddisfazione dei lavoratori hanno fornito molti esempi di esperienze fondate sulla teoria del ‘flusso’, nate dal desiderio individuale di compiere quell’attività o dalle sfide del lavoro.
Nell’educazione l’esperienza del flusso è importante perché indipendente dalle proprie capacità, dalle sfide e dal compito in quanto tale. Ma i nemici di questo magico stato personale sono appunto la noia, ciò che è routinario, l’ansia.
Chiedere ad uno studente o ad un lavoratore di svolgere compiti che non lo coinvolgono induce noia, come porlo di fronte ad attività che eccedono le sue capacità produce ansia. In entrambi i casi tutto ciò non può contribuire al benessere individuale.
Il flusso dell’intelligenza, il piacere di essere preso, immerso nei pensieri sono l’aspetto più importante dell’istruzione. È quello che si prova quando si legge, la lettura è per Csikszentmihalyi la più completa esperienza di flusso che ci sia al mondo. Leggere coinvolge tutti gli aspetti del flusso, la concentrazione, l’oblio di se stessi e del tempo. Quando le persone leggono provano una esperienza intensa di piacere. La stessa che si prova nel comporre un puzzle, nel risolvere un problema, di fronte ad un’opera d’arte, nel condurre una ricerca scientifica, nel formulare idee in campo sociale, economico, politico, nell’esplorare temi di carattere filosofico. Tutte queste attività sono cruciali per l’istruzione, perché possono produrre la gioia profonda del pensare.
Ce n’è quanto basta per riflettere sul lavoro delle nostre scuole, sui loro curricoli e sulla organizzazione del lavoro scolastico. Si possono ottenere migliori risultati se ci si occupa di fare dell’istruzione e dell’apprendimento un’attività gratificante, attenta al benessere, non solo fisico, ma soprattutto psicologico di ogni allievo.
La ‘teoria del flusso’ di Mihaly Csikszentmihalyi offre numerosi spunti interessanti per chi li sappia cogliere, nella direzione di rendere ottimale la qualità del tempo educativo che i nostri giovani investono sui banchi delle nostre scuole.
Lo studio potrebbe divenire per le nostre ragazze e i nostri ragazzi un vero oggetto del desiderio, perché il luogo in cui si vivono i momenti magici dell’intelligenza, presi dal piacere del flusso di scoprire i saperi, anziché costretti dal compenso dei voti e delle promozioni alla routine dei compiti, all’ansia delle interrogazioni, alla noia delle lezioni.
Non è la ‘resilienza’ la nuova parola d’ordine dell’apprendimento, come pretenderebbe David Puttnam, il lord inglese impegnato sui temi dell’istruzione, autore di programmi culto sulla scuola in televisione e sul web.
La ‘teoria del flusso’ è l’opposto della pedagogia muscolare della ‘resilienza’, come capacità di sopravvivere in questo sistema, senza nulla cambiare. Csikszentmihalyi ci insegna, invece, che una vita migliore è possibile ed è nelle nostre mani. Ne possiamo sperimentare i momenti più affascinanti, che non sono prerogativa dei soli artisti, ma diritto di tutti a partire dai nostri giovani nelle scuole.

L’INTERVISTA
Vincenzo Spampinato: ‘venditore di nuvole e sogni’ con Dalla, Battiato e i Rondò

Vincenzo Spampinato è presente sulla scena artistica sin dagli anni Settanta in qualità di autore, musicista, interprete, cultore di discipline quali danza (ha alle spalle anni di studio di mimo), teatro e ogni forma artistica che gli possa creare stimoli e interesse. Tra i suoi tanti successi ricordiamo “E’ sera”, “Battiuncolpo Maria”, “Voglio un angelo”, “L”, “Napoleone”, “I separati”, “L’amore nuovo”, “Milano dei miracoli”, “Bella don’t cry”, “Campanellina” e “La tarantella di Socrate”.

Contemporaneamente alla sua carriera di cantante, lavora come autore per Viola Valentino, Riccardo Fogli, Patrizia Bulgari, Fausto Leali, Irene Fargo e Milva. Tra i tanti successi: “Torna a sorridere”, “Sulla buona strada” (Sanremo 1985) e “Per Lucia” (Eurofestival 1983), portate al successo da Riccardo Fogli, “Sola e Arriva”, “Arriva” (Sanremo 1983), eseguite da Viola Valentino, inoltre, con Maurizio Fabrizio ha scritto la sigla degli spot televisivi del settimanale Sorrisi e canzoni.
A partire dalla fine degli anni ’80 ha pubblicato numerosi album raffinati e innovativi, coinvolgendo artisti quali Lucio Dalla, Franco Battiato e i Rondò Veneziano.

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Locandina dello spettacolo

Attualmente è in tour nei teatri con “Venditore di nuvole” e con lo spettacolo musicale “Il canto antico delle stelle”, accompagnato dalla Piccola Orchestra del Sole, che recentemente è stato rappresentato nello splendido scenario del Teatro Garibaldi di Modica (RG). Spampinato, in questo nuovo spettacolo, interpreta alcune tra le più belle melodie del Natale, dai classici italiani a quelli stranieri fino alle canzoni in lingua siciliana. L’obiettivo è quello di ritrovare la magia della festa, il senso religioso e spirituale del Natale di qualche tempo fa, tra giochi di luce, elementi scenici e suggestioni musicali.

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Locandina del tour

“Venditore di nuvole” è il titolo dello spettacolo che da quattro anni stai portando in giro per l’Italia, dove tra citazioni, filmati, aneddoti e racconti inediti, proponi il tuo vasto repertorio in una sorta di percorso artistico e umano.
Ognuno di noi è (se vuole) “il venditore di nuvole o sogni”. Una vendita metaforica, dove si chiede soltanto di sognare in compagnia, in un Paese dove ormai tutti si credono creatori o padroni dei sogni degli altri. L’idea nasce dall’esigenza di presentarsi in maniera semplice e sincera al pubblico, che a parer mio è stanco dell’arroganza che si vede in giro e nei media.

Un musicista che vende nuvole e sogni ha ancora la possibilità di farsi apprezzare in una società sempre più chiusa ed egoista?
Credo che ogni essere umano, dunque anche noi suonatori, viva sempre in bilico sulla bilancia della qualità o quantità. Io spero sempre, di divertire gli ascoltatori con intelligenza. Non per fare il saputello, ma semplicemente perché la gente non è così stupida come ci vogliono far credere i reality.

intervista-vincenzo-spampinatoHai scritto brani per cantanti importanti, tra cui “Per Lucia” interpretata da Riccardo Fogli (Eurofestival ’83), cosa provi ad ascoltare le tue canzoni interpretate da altri?
Una grandissima gioia! Oggi si potrebbe spiegare o paragonare a quando condividono su Facebook una foto o un tuo pensiero. Per Lucia è stato il primo colpo di “piccone” sul muro di Berlino. Nonostante fosse ancora lontana l’ipotesi del crollo di quella vergogna di cemento e mattoni, ho voluto credere che (senza retorica) l’amore non si ferma davanti a niente. Ho voluto cantarla perché appartiene profondamente al mio vissuto musicale.

Hai detto che le canzoni una volta create camminano con le loro gambe, ma cosa si prova quando le si incontra all’improvviso?
Forse un effetto Dorian Grey. Non so perché, ma credo che le canzoni non invecchiano… sono immortali.

Lucio Dalla, Franco Battiato, due incontri importanti culminati con la loro partecipazione a “L’amore nuovo”, l’album della rinascita…
Ci è dato sempre di rinascere… in musica naturalmente. Ricordi la celeberrima song dei Beatles “With a little help from my friends”? Due cari Amici, mi hanno dato un piccolo grande aiuto.

Nel 1987 il tuo brano “Il mio grande papà” si classificato secondo allo Zecchino d’oro, quale è stata la genesi di quella canzone?
Visto che ero ormai grande per parteciparvi come cantante, non avendo altra scelta… beh diciamo la verità: l’ho scritta per mio figlio e per dirla come Gianni Rodari, un po’ anche per i figli degli altri.

Sino a qualche anno fa era normale entrare in una rivendita di dischi e interagire con altre persone. Cosa abbiamo guadagnato e cosa si è perso in cambio di un download da iTunes?
Anche la musica risponde ai sensi, a tutti i sensi: manca il tatto… col disco avevi sempre qualcosa di tangibile. Sarò un nostalgico ma mi manca tantissimo il vinile.

Hai vinto l’11 edizione del Festival della nuova canzone siciliana, con “Muddichedda muddichedda”, qual è la motivazione che giustifica la scelta del dialetto?
Quando ho paura, nostalgia, insomma sentimenti decisamente più forti, ho bisogno di parlare e cantare nella mia lingua, il Siciliano.

Quali progetti per il 2015?
Ho ripreso finalmente la scrittura e le registrazioni del nuovo album, che riuscirò a fare uscire quest’anno, senza spiegarti i mille problemi che ormai la discografia crea. Farò presto dei tour all’estero e un cd per il mercato internazionale. Attualmente non ho altri progetti, bisogna accontentarsi…

Video di “Muddichedda, Muddichedda” [vedi]

Leggi l’approfondimento: Dei e dintorni: gli album di Vincenzo Spampinato

L’APPUNTAMENTO
Tutti i problemi della democrazia

“La democrazia è un’anarchia degli spiriti sotto la sovranità della legge”, è stata questa definizione di Luigi Einaudi a ispirare il nuovo ciclo di incontri “La democrazia come problema”, organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di storia contemporanea di Ferrara alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea. “In questo aforisma – ci spiega Fiorenzo Baratelli, direttore dell’Istituto Gramsci – sono ben sintetizzate le difficoltà, ma anche i vantaggi della democrazia. Tutto dipende dalle varie strategie per conciliare o miscelare di volta in volta l’anarchia degli interessi egoistici di ciascuno con la sovranità della legge, che deve rappresentare i principi della giustizia sociale e sostenere l’efficienza del corpo sociale”. Per questo, continua Baratelli, “la democrazia come regime politico e sociale è per le sue ragioni fondanti (suffragio universale, pluralismo, laicità, libertà, giustizia sociale, divisione dei poteri, principio di inclusione) un problema sempre aperto per l’instabilità e la precarietà che contraddistingue la sua vita quotidiana all’insegna del conflitto e della mediazione”.
Ma oltre alle problematiche insite nel concetto politico e filosofico, parlare di democrazia significa anche affrontare il contesto contemporaneo nel quale i regimi democratici operano, perciò “i temi che verranno affrontati cercano di comprendere un largo spettro di questioni che dovrebbero aiutarci a mettere a fuoco i problemi che ha di fronte la democrazia nel presente: globalizzazione selvaggia, presenza di fondamentalismi e terrorismi, emergere di nuovi attori nella politica internazionale che hanno sancito il declino della secolare egemonia dell’Occidente”.
Dopo il primo incontro introduttivo di venerdì 23 gennaio, con un saluto del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, la presentazione del programma e una pièce teatrale scritta da Piero Stefani, la prima conferenza sarà il 6 febbraio: “una lectio magistralis tenuta da uno dei nostri più grandi filosofi della politica, Salvatore Veca”, ci spiega ancora Baratelli. Poi, a partire dal 13 marzo fino al 27 novembre alle 17, “nessuna delle grandi questioni di questo tempo tumultuoso e, per molti versi, drammatico sarà esclusa: le ripercussioni della globalizzazione sulle istituzioni democratiche, la democrazia al tempo della rete, il rapporto tra democrazia, capitalismo e mafia, quello fra democrazia e crisi dello Stato sociale, le varie declinazioni istituzionali e concettuali della democrazia contemporanea, il rapporto difficile tra democrazia e religioni, l’idea di democrazia contenuta nella nostra Costituzione. Per affrontare tutti questi temi – sottolinea Baratelli – sono stati impegnati eccellenti personalità dell’ateneo ferrarese, come Giuliano Sansonetti, Paolo Veronesi, Giuditta Brunelli, Andrea Guazzarotti, ma anche esperti e studiosi noti a livello nazionale, come Carlo Galli, Tiziano Bonazzi , Federico Varese, Piero Stefani, Claudio Cazzola, Maura Franchi e Diego Carrara”.
Non rimane che un’ultima domanda: perché oggi c’è bisogno, ancora e sempre, di parlare di democrazia? Il direttore dell’Istituto Gramsci, citando Bobbio, parla di “promesse non mantenute della democrazia”: “è trascorso un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino. Nell’euforia di quell’evento, è stata messa in sordina la fragilità dei regimi democratici che si andavano affermando in varie zone del mondo. Oggi la democrazia ha vinto nello scontro con i regimi totalitari, ma non gode di buona salute, con questo ciclo ci interessa, più che escogitare soluzioni retoriche o demagogiche ai suoi difetti, sforzarci di capire le cause del suo malessere. Sarà così più facile individuare le vie e le proposte per contrastare la sua deriva.”

“La democrazia come problema”, in programma dal 23 gennaio al 27 novembre alle 17 presso la Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea. Tutti gli incontri sono aperti al pubblico, mentre per gli insegnanti è previsto il riconoscimento di un credito formativo.

Il morbo del tempo

In “A casa”, il regista Antonio Costa affronta un tema difficile e delicato, quello della malattia senile e delle sue inevitabili conseguenze. Il film è raccontato con garbo, in una continua situazione di tensione, facendo temere che da un momento all’altro gli eventi possano avere un epilogo drammatico. Il rapporto di profondo affetto tra la madre e il figlio sacerdote è rivelato durante un viaggio in automobile, che si svolge attraverso spazi aperti senza alcun punto di riferimento o indicazione, come se si fosse in procinto di attraversare un confine, coinvolgendo lo spettatore.

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La locandina

Lo scopo del viaggio, apparentemente, sembra quello di portare l’anziana madre ad assistere alla messa ma, in realtà, il figlio sta per abbandonarla in un ospizio. Il racconto termina nella quotidianità della casa di riposo, tra la telefonata di un’infermiera distratta e il continuo tossire di un ospite. L’anziana donna segue il figlio all’interno del ricovero, anche se poco prima, in un momento di lucidità, gli aveva detto: “Portami a casa”.
La protagonista del film è la malattia, la si “sente” in ogni sequenza, in ogni inquadratura. La demenza senile, le sue conseguenze e la difficoltà ad accettarla, accentuano la disperazione del figlio, oramai conscio di avere perso la persona che conosceva e di trovarsi in bilico tra presente e passato, tra lucidità e oblio, tra il sottile confine che divide l’amore dalla disperazione.

Particolarmente indovinata la scelta dei brani musicali, non originali, che “accompagnano” il cortometraggio: “Stabat Mater” di Zoltan Kodialy e “Mata ai ni kurukarane” di Jonny Greenwood. La colonna sonora dona un senso di drammaticità continua, a volte stemperata dall’azione scenica, contribuendo a tenere viva la tensione narrativa.
Il film ha vinto il Premio speciale sezione corti al “Cervignano film festival 2013”, che si svolge nell’omonima cittadina friulana in provincia di Udine, il cui tema proposto era quello del “Cinema del confine e del limite”. La giuria ha premiato il lavoro di Costa con un’articolata motivazione: “A casa” affronta il tema proposto dal festival con grande originalità, interpretando in chiave inusuale il tema del confine. Da un lato, vediamo il confine tra lucidità e oblio, tra malattia e salute, tra presenza mentale e vacuità, testimoniato da una grande interpretazione di Milena Vukotic. Dall’altro, il limite della scelta dolorosa che si trova a varcare il figlio sacerdote nell’abbandonare la madre. Due intensi protagonisti, in bilico tra presente e passato, cristallizzati in un “non luogo” che rende oggettiva la loro condizione di figure di confine”.
Tra i protagonisti del film ritroviamo Milena Vukotic, la sensibile interprete dei film di Mauro Bolognini e Luis Buñuel, che dona alla storia l’espressione e la sofferenza del suo volto. L’attrice, disponibile a mettersi in gioco con i giovani registi, nello stesso periodo ha girato anche “Un amato funerale”, un cortometraggio scritto e diretto da Luca Murri, ambientato nello splendido scenario naturale di Nicosia in Sicilia.

“A casa” di Antonio Costa, con Milena Vukotic e Leonardo Castellani, dramma, Italia, 2012, 15 min.

Il film è visibile su Youtube [vedi]

LA RIFLESSIONE
Un po’ di silenzio, per favore

“È facile amare le persone lontane, molto facile pensare alla gente che muore di fame in India. Ma prima dovete vedere se regna l’amore in casa vostra e in quella del vostro vicino e nella strada in cui abitate, nella città in cui vivete, e solo dopo guardate fuori.” Madre Teresa di Calcutta

Madre Teresa era un esempio, di quelli che non esistono più, Madre Teresa era saggia. Madre Teresa era una piccola grande guida, Madre Teresa era una luce, di quelle che non brillano più. In questi giorni di guerra, minacce, assalti, attentati kamikaze e bombe, le scuole dei bambini non osano più insegnare la bellezza, la bontà e la pazienza.
La stampa parla di giovani vite in fumo, perse, fagocitate dalla violenza, dal nonsenso e dal colore nero, ovunque campeggia questa funebre tonalità. Il “Je suis Charlie” si mescola con il “Je suis palestinien” o il “Je suis Syrien”. Quando finirà questa improvvisazione? Ormai guardiamo con paura oltre le porte dei nostri vicini, aldilà dei confini e delle frontiere, l’altro e il diverso diventano sospetti. Tutti. Non cogliamo più l’amore nelle strade delle città in cui viviamo, la gioia di un amico che arriva con una torta di mele, di un fidanzato innamorato che ci porta dei fiori, di un mondo fatto anche di solidarietà, quella dei nostri quartieri, delle nostre periferie umide e abbandonate. Guardiamo fuori, solo, oltre i nostri orizzonti, ci fanno guardare fuori, ci spaventano con la paura, perché un popolo spaventato, terrorizzato e allertato se ne sta più tranquillo, lo si controlla meglio. Chiudiamoci allora un po’ di più, in certi momenti, non parlo certo di frontiere o d’isolamento ma penso al guardarci dentro, allo starci vicino, in sacrosanto silenzio. Amiamoci di più, stringiamoci in un grande girotondo, anche per guardarci in faccia. Lasciamo stare i bambini, lasciamoli giocare e correre spensierati e liberi per i prati. Basta ipocrisia. Un po’ di silenzio, allora, per favore. Solo un po’ di silenzio. Al verde di un giardino fiorito, all’ombra di cieli senza nuvole.

Fotografia di Simonetta Sandri, Giardino dell’Hermitage, Mosca

Passeggiata e sale in zucca

Pronto Ada, come stai? Aspetta che ti racconto. Devi sapere che il sant’uomo sta scrivendo il terzo volume della sua trilogia, così almeno dice lui. Lo vedo transitare tra cucina e tinello con aria peregrina e se gli rivolgo la parola non mi sente, oppure proclama: “Penso”, come a dire non rompermi le palle. L’altro pomeriggio, che era più in vena, ha preso a raccontarmi la trama del nuovo lavoro e io non capivo niente e assentivo, e più assentivo e meno capivo, finché lui dev’essersi stancato del mio silenzio attento, che lo usa anche Renzi quando non ha la maggioranza, mi ha piantato in asso dicendo: “Vado a fare una passeggiata, così penso meglio”. Dopo trent’anni di matrimonio felice non l’ho ancora capita la questione e cado in un madornale errore, gli chiedo, già che è fuori, di comperare un pacchetto di sale. Colto di sorpresa lo vedo turbato: “Come dev’essere il sale, grosso o fino?” “Grosso, amore mio, grosso, sempre grosso!” “Va bene, alla Conad hanno anche il sale iodato e quello di Cervia e quello rosa confetto, quale mi consigli di prendere?”. Cominciavo a pentirmi di avergli dato un incarico, ma non depongo il sorriso: “quello che vuoi, amore”. Secondo gravissimo errore, lasciagli libertà di scelta, però sopravviviamo. Ha indossato il cappotto, si accinge a varcare la soglia e… va. Non sono passati cinque minuti che suona il cellulare: “Mia adorata, senti che cosa ho pensato: già che vado al supermercato non è il caso che di sale ne compri due pacchetti, uno grosso e uno fino?” “Certo, amatissimo, certo lo sai che i tuoi pensieri sono santi!” Finita la passeggiata il sant’uomo ritorna. “Ho messo tutto sul tavolo in cucina!”. In cucina, deposto sulla tovaglia a fiori di campo, troneggia un imponente filone di pane toscano perfettamente insipido. Lo giuro, non turberò mai più la passeggiata del genio.

Il caledoscopico Amleto di Peter Brook

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“La tragédie d’Hamlet” di William Shakespeare, nell’adattamento e regia di Peter Brook,
Teatro Comunale di Ferrara, dal 28 al 30 maggio 2003

Chiusura memorabile della stagione di prosa, questa sera al Teatro Comunale in esclusiva 2003 per l’Italia, con “La tragédie d’Hamlet” di William Shakespeare, nell’adattamento e regia del grande Peter Brook. Inutile soffermarsi sull’arcinota vicenda della tragedia composta dal Bardo verso la fine del Cinquecento, più interessante è forse ricordare che l’oggi ormai ultrasettantenne Peter Brook è da molti considerato il maggior regista teatrale vivente, e che alcuni suoi allestimenti, in parte ispirati alle teorie di Artaud, sono ormai ritenuti “modelli” storici del Novecento oltre che indiscussi capolavori: “Marat-Sade” (1964), “Orghast” (1971), “Mahabharata” (1987).
Brook ha peraltro affrontato allestimenti shakespeariani un po’ nel corso di tutta la sua vita, dal “Romeo and Juliet” pennelato da tagli di luce bianca e arancione al “Measure for measure” con la processione di storpi e pezzenti, dal “Titus Andronicus” con la magistrale interpretazione di Lawrence Olivier al “Sogno di una notte di mezza estate”. In merito a questo suo recente spettacolo ha commentato lo stesso regista: «Che cosa si può dire a un giovane attore che si cimenta in uno di questi grandi ruoli? Dimentica Shakespeare. Immagina unicamente che il personaggio sul quale stai lavorando è esistito davvero, immagina che qualcuno lo abbia seguito ovunque con un registratore nascosto, in modo che le parole che ha detto siano proprio queste».
“La tragédie d’Hamlet” va in scena in lingua francese con sopratitoli in italiano e prevede una diversa disposizione dei posti a sedere: infatti il pubblico si disporrà su gradinate collocate attorno ad una scenografia quanto mai essenziale, caratterizzata semplicemente da un grande tappeto rettangolare con alcuni cuscini.
Ora l’amletico dilemma è: come si fa a recensire un capolavoro? Nel 1955, dopo aver assistito ad “Aspettando Godot” di Beckett, il critico del Sunday Times scrisse: «Cercare di racchiudere il significato della commedia in una frase è come cercare di catturare il Leviatano con una retina da farfalle». Qui siamo più o meno nelle stesse condizioni. “La tragédie d’Hamlet” esula da qualsiasi classificazione, i piani critico ed estetico coincidono, la strepitosa recitazione rende irrilevante l’assenza di una scenografia “storica”, gli atemporali costumi sono fantastici. La soluzione scenica, solo apparentemente semplice, è in realtà un ricchissimo caleidoscopio di velluti, drappi e colori; le musiche, suonate dal vivo con strumenti orientali da Antonin Stahly (Orazio in scena), evocano un “altrove” sonoro di suggestiva efficacia.

L’OPINIONE
Utopia e generosità. Pensieri e virtù poco italiani

Il lato peggiore degli “itagliani”, tra tante debolezze che non sono sufficientemente equilibrate da attitudini virtuose, consiste in un cicaleccio espresso da labbra strette che esprimono riprovazione se non sdegno oppure da uno scuotimento della testa da parte di signore con permanentina fresca. E’ ciò che sta accadendo nella vicenda delle due ragazze liberate e/o riscattate da bande terroristiche. L’esempio di alcune dichiarazioni tra Lega e Movimento 5Stelle era assai prevedibile ma su questo basterebbe controbattere con la lapidaria dichiarazione de “La Jena” sulla Stampa torinese: “Io il riscatto lo pagherei per tutti: perfino per Salvini” che mi sembra una risposta elegante e precisa.

Quello che mi preoccupa e mi rattrista, al di là dello scatenamento mediatico, è l’indifferenza o l’imbarazzo o la mancanza (apparente) d’interesse dell’altra metà del cielo. Sembra quasi che le donne, quelle le cui parole contano, si trovino in una specie di imbarazzato bivio tra solidarietà alle ragazze o condanna di una avventura considerata perlomeno azzardata. Tra le parole che colgono questa disparità di vedute, forte e chiara si alza la voce di Natalia Aspesi che con la leggerezza calviniana di cui è maestra affonda il coltello nella, talvolta, ipocrisia che avvolge il silenzio di tante donne, ponendo una serie di interrogativi: “sempre secondo quelle persone pericolosamente avare con gli altri, le rapite dovranno ripagare la loro salvezza per tutta una vita. Vuol dire che fossero loro al governo, le avrebbero lasciate soffrire e morire? Fossero anche state le loro sorelle, le loro figlie? Che il volontariato è un lusso per sciocchine? Che voler aiutare gli altri è un inutile hobby? Che se gli assassini di Parigi avessero chiesto per non uccidere, un riscatto, il governo francese avrebbe dovuto lasciar morire i giornalisti di Charlie Hebdo, la poliziotta, gli ebrei del negozio kosher?”

A che servono le migliaia di scarpette rosse che nell’entusiasmo per la difesa e la dignità delle donne si sono esposte in tutte le piazze d’Italia?. Il peggiore degli insulti: “se la sono cercata”! A cui Roberto Saviano può legittimamente rispondere: “Eppure Greta e Vanessa non erano alla loro prima missione umanitaria, non erano ragazzine sprovvedute, ma giovani donne con degli interessi e degli ideali. Qualche decennio fa alla loro età si era già madri.” Ecco allora che l’accusa più grave, quella della irresponsabilità viene minata al fondo. Prosegue Saviano spiegando che Greta e Vanessa partono per portare aiuto a popolazioni che non hanno nulla, in cui bambini muoiono per mancanza di tutto: “Ma al commentatore medio che ci siano centinaia di migliaia di persone a cui manca tutto non interessa”.
Non voglio commentare, ma ce ne sarebbe bisogno, l’avvertimento che Saviano inquietamente si pone. Se prima c’era reticenza a scrivere con parole ciò che ora si scrive impunemente sul web, questo limite ora è stato superato: che a Emma Bonino è giusto sia venuto il cancro, che queste ragazze sicuramente sono state abusate “ben gli sta!” vuol dire solo che il livello etico degli “itagliani” si è ulteriormente abbassato e che non hanno alcun rispetto per le parole. Si è perfino scritto che le ragazze non avevano nemmeno avvertito i genitori. Come se fosse necessario a vent’anni affrontare il giudizio di chi forse le avrebbe dissuase di seguire il loro sogno di rendersi utili. Un’utopia, certo, ma un’utopia generosa che le donne avrebbero dovuto compartecipare in pieno se è vero come è vero che anche gli stati che non pagano riscatto poi traversalmente lo fanno pagare alle agenzie di assicurazioni.

E le parole forti di Saviano sono del tutto condivisibili: “Mi vergogno delle reazioni di molti miei connazionali, delle loro parole, del loro livore, del loro odio. Se un Paese non è capace di stare accanto a due giovani donne volontarie, che hanno passato in condizioni di sequestro quasi sei mesi della loro vita, allora merita il buio in cui sta vivendo”.
Non voglio, inoltre, addentrarmi nelle discussioni politiche che siglano una mancanza interiore di generosità e di comprensione etica: dalle grasse parole di Salvini a quelle del governatore Luca Zaia, dagli imbarazzi di Gentiloni a quelle del sindaco di Padova Tosi, ai deliri grilleschi in odio al politico di turno.
Vorrei per una volta sola, (una!) riaprire la speranza all’utopia, dimostrare una comprensione verso una generosa illusione che è tra le corde meno usate non solo degli “itagliani” ma di tutto il popolo italiano.

SETTIMO GIORNO
Cercasi opposizione disperatamente

NAPOLITANO – Il Capo dello Stato va veramente in pensione, non è un nuovo espediente per prolungare ancora il mandato e, pertanto, è arrivata l’ora di tirare le somme del suo impegno novennale. Un voto? Non me la sento, posso dire soltanto che negli ultimi anni non sono stato politicamente d’accordo con lui. Con Napolitano abbiamo spesso confrontato le idee trovandoci sulla stessa lunghezza d’onda, eravamo nello stesso partito, il Pci, lui era uno dei grandi della segreteria, io ero un buon scrittorello, quello che sono rimasto. Ricordo una volta che, a Bologna, seguimmo insieme un importante convegno alla John Hopkins University, Napolitano era uno dei due ospiti d’onore, l’altro era l’allora ambasciatore Usa in Italia, John Volpe, detto anche John Golpe, il quale lanciò un’idea assolutamente liberticida: era necessario, disse, nominare quattro uomini ai quattro lati del mondo che sarebbero dovuti diventare gli “architetti della libertà”. I popoli? La gente comune, imprenditori, impiegati, operai, intellettuali avrebbero dovuto affidare le loro idee e la loro sicurezza ai quattro g mondiali. Ci avrebbero pensato loro. Uscendo per una pausa nel giardinetto dell’università americana, con Napolitano ci sedemmo su una panchina a ragionare e fummo pienamente d’accordo sul fatto che l’idea di Volpe (di Golpe) rappresentava la strada maestra per sopprimere libertà e democrazia. Poi Giorgio Napolitano divenne il leader dei miglioristi e addio al Pci. Negli ultimi anni il vecchio uomo politico ha affidato il governo (senza indire elezioni, forse un bene) a personaggi del tutto insignificanti, se non addirittura nefasti per la nostra società, ma assomigliavano tanto, ognuno a modo suo, a uno dei quattro “architetti della libertà” dell’ambasciatore Volpe, messi lì, così è sembrato, a far da pali, come avrebbe scritto Giuseppe Giusti, finché non è arrivato il signorino di Firenze (quello che assomiglia tanto al cugino saputello e antipatico di Tom Sawyer) questo non è mica di passaggio, fa tutto lui. Come Berlusca.

OPPOSIZIONE – Da tutto questo si deduce che, nonostante la vecchia conoscenza con Napolitano, sono stato e sono imparzialmente critico sul suo operato, ma un poco mi ha disgustato quella che in Italia passa per essere l’opposizione, la quale, incapace di svolgere adeguatamente il ruolo importante di critica che le spetta di diritto in un sistema democratico (?), non riesce a far altro che urlare, oh come urlano gli oppositori e, quando non hanno più parole, insultano. Succede così che l’opposizione politica in Italia è inesistente: non un argomento che sia uno oltre il grido e l’improperio. Nel linguaggio politichese in uso qui da noi non si dice “amico caro, hai sbagliato”, ma “sei un cretino”.

DIOGENE – Aveva ragione il filosofo greco Diogene, il quale abitava in una botte (per non pagare l’Imu?) e andava in giro con la lanterna “per cercare l’uomo”, diceva a chi gli chiedeva ragione del suo strano comportamento. Ho provato anch’io a cercare l’uomo con la lanterna, ma subito il telefono ha trillato (erano le 14 e stavo riposando): era la signorina di un call center che mi proponeva un contratto favorevole per l’uso della lampada. Ho risposto che in casa non c’è alcuno, “il signore è morto poco fa”, ho aggiunto. E’ seguito un silenzio interdetto, poi la voce: “mi sa dire quando resuscita?”