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LA TESTIMONIANZA
Helga Schneider, oltre l’umano

I lunghi tempi della influenza combattuta tra letto e poltrona, rimpiangendo le due presentazioni saltate, si combattono con letture rimandate, temute, inevitabili. Scelgo allora un libro che mi respinge e nello stesso tempo mi attrae: Helga Schneider, “Il rogo di Berlino”, pubblicato da Adelphi nel 1998 e ora appena ristampato. Helga Schneider vive in Italia dagli anni Sessanta del secolo scorso ed è l’autrice di una autobiografia, di cui anche Il rogo è parte, che fece uno scalpore immenso, “Lasciami andare, madre”. Helga di origine polacca, ha una madre tedesca che abbandonò lei e il suo fratellino Peter nel 1941, quando la bambina ha quattro anni e Peter diciotto mesi, per arruolarsi nelle SS e diventare una delle aguzzine più feroci dei campi di Ravensbrück e poi di Birkenau e partecipare agli immondi esperimenti che qui si compivano da parte di famosi medici e non solo nazisti.

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La copertina del libro

Abbandonati al loro destino durante la guerra e la capitolazione di Berlino, Helga e Peter vengono allevati dalla seconda moglie del padre Stefan, Ursula, che odia Helga e la sottopone a feroci umiliazioni mentre adora il piccolo Peter. Con gli occhi dell’infanzia Helga racconta la fine di Berlino, del Terzo Reich e della susseguente liberazione da parte dei Russi che violentano e stuprano due giovani ragazze nei sotterranei del palazzo in cui si erano rifugiati gli inquilini. Raccontare quei momenti e quelle esperienze fa toccare con mano alla piccola Helga l’orrore. Ma ecco che con l’avanzare del riscatto morale e la consapevolezza della spaventosità di una guerra senza precedenti, la Schneider si lascia andare a un commento che è tra le prove più alte e mature non della banalità del male ma della feroce difficoltà di poterlo contrastare: “Sfiorai con lo sguardo lo spazio vuoto dove avevano vissuto gli uni sugli altri ammassati come bestie, imponendo agli altri il nostro odore, il nostro malumore, il nostro egoismo. Eravamo andati oltre il sopportabile, oltre il vivibile, oltre l’immaginabile, oltre le nostre forze, oltre l’umano. Eppure in seguito dovetti imparare che la nostra sofferenza non era stata nulla in paragone a quella che era toccata agli ebrei massacrati nei campi di concentramento.” (“Il rogo di Berlino”, pp. 186-87).

Una ammissione che ci induce a riflettere sul concetto di ‘umano’ e sulla possibilità di riscattarlo dopo la Shoah. Di fronte allo strazio di Helga sembra impossibile che le soglie dell’umano possano essere superate. Ma non c’è fine alla consapevolezza e all’orgoglio del male. Dopo trent’anni Helga incontra nel 1971 la madre perduta. E lei la invita a indossare l’uniforme di SS amorosamente custodita nell’armadio ma soprattutto le vuol regalare un pugno di oggetti d’oro chiaramente appartenuti agli ebrei gassati nei campi di concentramento. Helga fugge all’orrore sperando che quella madre esca definitivamente dalla sua vita, ma la rincontra ancora nel 1998, svampita e delirante, in una casa per anziani. E quel mostro la trattiene con i fili del ricatto che inevitabilmente le impediscono, nonostante lo schifo, di liberarsi di lei. Una condizione terrificante così espressa: “E mi rendo conto che se fino a ieri avvertivo la sua assenza come un’ossessionante presenza, ora la sua presenza è un’irrevocabile assenza. Provo angoscia e un’irrazionale tenerezza. E’ mia madre, nonostante tutto è mia madre. Devo vergognarmi se qualche volta l’istinto, il mio istinto di figlia, prevale sulle ragioni della morale, della storia, della giustizia e dell’umanità?” (“Lasciami andare, madre”, p.126).

Se dunque l’istinto e non la razionalità e il sentimento combattono una battaglia straziante nell’accettazione di Helga del sentimento filiale, c’è la consapevolezza che i lager, ciò che è accaduto è non solo al di là dell’umano ma al di là della conservazione del senso della vita. Come poter ricordare? Come poter o meglio dover accettare con l’istinto ciò che la Shoah ha negato? Cosa c’è al di là dell’umano? Quale incondizionata resa al male ha reso così crudele non solo il destino di un popolo ma anche a volte degli stessi aguzzini? La Schneider non si nasconde dietro inutili proteste o ancor peggio inutili diversivi. Il suo ‘j’accuse’ è fragorosamente impietoso perché nella pietà ci sarebbe il principio della comprensione. Ma per lei, come per molti altri, la comprensione potrebbe essere la radice del male. La tragedia della Shoah è totalmente inscusabile. Resta l’istinto. Anche questo negato dai nazisti. E quella colpa, quella resa a un atto non d’amore, ma istintuale, porta Helga a consumare la sua tragedia personale che si esprime nel grido “Lasciami andare, madre”.

Quale ricordo più severo potrebbe esprimersi?. E lei, “l’italiana” come ormai la chiamano i suoi parenti, sigla rifiutando la pietà verso la madre come “un’irrevocabile assenza”. E mentre leggo con commozione le ultime lucidissime testimonianze di Primo Levi che tenta di dare un nome (e quindi esercitare la pietas) ai suoi compagni del treno della morte, ricordo con un sussulto di timore che nessuno è incolpevole, come appare dalla lucida disamina di Liucci che sbarazza il campo dalla presunta non interferenza dei fascisti italiani sulla ideologia nazista della eliminazione di un popolo.

E ricordare diventa sempre più complesso ma sempre più forte.

L’INTERVISTA
Drain brain, la targa di Ferrara va in orbita per la cura delle malattie vascolari

Gli piace definirlo un miracolo italiano, ma è molto di più. E’ una missione compiuta. E’ soddisfatto il fisico ricercatore dell’Università di Ferrara Angelo Taibi, project manager dell’esperimento “Drain Brain” di cui è responsabile il professor Paolo Zamboni del Centro malattie vascolari di Ferrara. “Una volta raggiunta la stazione spaziale internazionale, quando il pletismografo si è acceso è stato un gran bel momento per tutti noi”, ricorda Taibi nel ribadire l’obiettivo dell’esperimento: indagare il ritorno venoso celebrale in assenza di forza di gravità. “Oggi l’astronauta Samantha Cristoforetti ha cominciato la sperimentazione attraverso l’applicazione di tre differenti cinturini ‘sensibili’ posizionati intorno al collo, al braccio e alla gamba”, racconta. Tutto è predisposto per raccogliere i risultati dell’indagine, che sono stati caricati su una scheda molto simile a quella delle fotocamere digitali e spediti sulla terra, alla Nasa da dove saranno trasmessi alla Kayser di Livorno per essere girati a Zamboni e Taibi.

Angelo Taibi project manager del progetto 'Drain Brain'
Angelo Taibi project manager del progetto ‘Drain Brain’

I dati fotograferanno le condizioni fisiologiche di Samantha in diversi momenti, prima e dopo il volo, all’inizio, a metà e alla fine della missione per registrare le variazioni del flusso sanguigno in diverse condizioni respiratorie e posizioni fisiche. Il pletismografo, gemello dell’apparecchio andato in fumo con l’esplosione del missile Antares che lo trasportava alla stazione spaziale e precisamente al modulo Columbus dedicato agli esperimenti di fisiologia, è stato realizzato “in casa” con un esborso di circa 150mila euro, molta passione, un’infinità di spostamenti e una marea di adempimenti burocratici districati da chi ha lavorato al progetto: il Dipartimento di fisica e scienze della terra del nostro Ateneo e la sezione ferrarese dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn). E’ una buona notizia, soprattutto a fronte delle angherie economiche a cui è sottoposta la ricerca made in Italy la cui vivacità trova modo di emergere comunque.

Il progetto, partito nel 2013, è stato redatto da un team di fisici e medici dell’Ateneo ferrarese e presentato all’Agenzia spaziale italiana. Arrivare alla stazione spaziale internazionale è stata una scommessa vinta e, a raccogliere il testimone di un’impresa tutta italiana, è stata il capitano Samantha Cristoforetti, astronauta dell’Esa (European space agency), vera e propria madrina di Drain Brain. “Lì per lì avevamo le idee chiare sul da farsi – racconta Taibi – ma non sapevamo come concretizzarle. Una cosa era certa, non volevamo perdere un’occasione tanto importante”. Piano piano le tessere del mosaico sono andate componendosi insieme alle partenership. “Ci siamo trovati al fianco di Altec di Torino e Telespazio di Napoli, che ci hanno indirizzato nella prima fase. L’esperimento è stato poi approvato dalla Nasa con la collaborazione di Asi e Kayser”, prosegue. Drain Brain, concretizzatosi nello sviluppo di un dispositivo da portare in orbita, potrebbe in futuro rivelarsi un utilissimo mezzo diagnostico per prevenire i disturbi del deflusso sanguigno dal cervello. “Il nostro obiettivo – conclude – è quello di creare uno strumento di screening a basso costo per dare risposte sia in orbita sia sulla terra”.

LA RIFLESSIONE
Un mondo di lettere

Lettere ritrovate, scritte, ricevute, inviate, timbrate, spiegazzate, scovate nei mercatini della Rive Gauche lungo la Senna, nei solai della nonna e nelle cantine delle nostre case.
Lettere stropicciate che mantengono tracce indelebili di lacrime e sorrisi.
Lettere dimenticate e abbandonate che una mano curiosa riscopre e fa rivivere.
Quante storie in quelle righe, quante vite, quanti drammi e quanti sogni, quante belle e brutte notizie, quanti pensieri, quante confessioni, quante storie d’amore perse e ritrovate. Quante strade che si sono incrociate o separate. Quanta forza, allegria e malinconia.
Molti di noi hanno conservato plichi infiniti di lettere, avvolti da nastrini colorati, rosa o azzurri, stipati in scatole dalle forme più svariate, spesso ovale, con fiorellini dipinti sopra.

lettereMolti di noi le hanno trattenute per momenti migliori o peggiori, sicuri che vi avrebbero un giorno trovato risposte a tante domande, scartabellando e perdendosi ancora e sempre in quei preziosi e colorati contenitori di vita. Forma, dimensioni e capienza di quegli spazi sarebbero stati per sempre legati alla nostra storia, alla nostra continua evoluzione quotidiana. Lì dentro avremo conservato storie di gioia e di disperazione. Ricordi, immagini, fotogrammi, istanti, momenti, luci, ombre e passi-passaggi.
Spesso siamo andati ad aprire quelle scatole, in silenzio, timorosi di ritrovarci un passato andato e vissuto intensamente, un passato bello che non c’e’ più, preoccupati dal poter rileggere le parole di un innamorato che è svanito nel nulla, le promesse di un eterno futuro che non si è avverato, che allora era un per sempre finito solo poco dopo. Una promessa di futuro scritta con un’elegante penna stilografica, il cui inchiostro sbiadisce facilmente. Forse solo questo particolare avrebbe dovuto illuminarci, allora…
Spesso ci siamo avventurati nello scartare quelle buste ingiallite come si fa con una caramella mai gustata prima, quando la carta sfavillante e luccicante invoglia a provarla ma non si sa proprio che gusto ci attenderà. A volte amaro, a volte dolce, a volte salaticcio e appiccicaticcio, spesso insignificante. La curiosità, però, è troppo forte…
Ricordo quando, a Parigi, mi avventuravo nei mercatini alla ricerca di antiche missive che potessero ispirare le mie pagine di romanzo. Una riga sbiadita spesso mi faceva immaginare vite avventurose e storie d’amore rocambolesche. Sono meravigliose le lettere, contengono una vita, lasciano traccia dei pensieri di anime curiose e spesso smarrite. Riceverle è altrettanto sorprendente, magico e avvolgente che scriverle e inviarle. Forse di più. Ricevere una lettera significa ricevere parte di un’anima che si dedica solo a te per qualche momento. Qualche attimo che magari è costato giorni e notti insonni, pomeriggi che sembravano infiniti ed eterni.
Chi non ha scritto lettere d’amore? Chi non non ne ha ricevuta almeno una nella vita?
Rileggendole ci sembriamo ridicoli, almeno un po’, o forse, alla fine, sono ridicoli i ricordi che hanno ispirato quelle lettere, come eravamo, quello che è stato. Che, però, è stato e che ha fatto parte di noi. O forse, alla fine, è veramente ridicolo chi non è mai stato capace di scriverne. Chissà… Era bello scriverle, però, e io non smetterò certo di farlo…

Era bello davvero, come ci ricorda Fernando Pessoa

Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.

Questo testo è stato magistralmente interpretato da Roberto Vecchioni che vi invitiamo ad ascoltare [ascolta]

Fotografie di Anna Pirazzi

Dal villaggio globale al mondo in rete

Che viviamo in una società dell’informazione è cosa scontata quanto banale. Scontato però non è come transitare dall’informazione alla formazione, come difendersi dal pericolo che l’informazione si traduca in “in-formazione”, in strumento cioè non riconoscibile e, quindi, non governabile di condizionamento dei modi di pensare e di agire delle persone, di manipolazione di cittadinanze passive.
Quando si parla di città o regioni che apprendono, che imparano, s’intendono comunità di cittadini che non subiscono le conoscenze, ma che con esse interagiscono, soggetti attivi e consapevoli, non sudditi di apprendimenti subiti, come più spesso accade nel villaggio globale che abitiamo.
Come fornirsi allora degli strumenti opportuni per non essere vittime delle overdose quotidiane di messaggi che pretendono di convincerci all’acquisto di un prodotto piuttosto che un altro, che l’interpretazione dei fatti è quella con maggior risonanza, che occorre ascoltare la voce degli opinion maker e via dicendo?
È possibile che sia funzionale ad una volontà di manipolazione delle condotte umane trascurare sistematicamente ogni occasione di fare del nostro villaggio globale, anziché una società dell’informazione, una società della formazione.
Viviamo in una società che potremmo definire ‘didattica’, che pretende di ‘educarti’ circa cosa è bene fare e non fare, dagli sport alla salute, dall’abito al cibo, dall’economia alla politica, senza mai preoccuparsi di fornirti gli strumenti per formarti in maniera da accrescere la tua consapevolezza, la tua autonomia, fino a divenire un cittadino attivo e responsabile.
Per questo la realizzazione della società della conoscenza è la sfida che va lanciata alla società dell’informazione. Accedere sempre più ad ogni occasione di sapere e di formazione per coesistere intelligentemente e criticamente in un mondo di news incessanti, che, se ci offrono la piacevole sensazione di essere in ogni istante al centro del flusso della contemporaneità, finiscono per stordirci, fino all’intorpidimento e alla sopraffazione.
La società dell’informazione deve, quindi, essere completata e accompagnata da una società dell’apprendimento, se non vogliamo cadere in un mondo inconsapevole e in una cultura senza valore basata sui ‘clic’, sullo ‘zapping’ e sulla superficialità del ‘patchwork’.
C’è una sfida urgente che ci sta di fronte e che tutti dobbiamo imparare ad affrontare, che certo l’informazione da sola non ci aiuterà mai a risolvere, quella, ad esempio, di accrescere sempre più la comprensione tra fedi, culture, razze e nazioni, diventare una comunità mondiale di apprendimento, dove ci si possa aiutare a vicenda per arricchire il potenziale umano di ciascuno.
Immaginate, se volete, un sistema di città di apprendimento collegato a regioni di tutto il mondo, ciascuno utilizzando la potenza delle moderne tecnologie della comunicazione per entrare in contatto significativo con l’altro.
Ne nascerebbe una rete globale di reciprocità, di dialoghi e di conoscenze da ecclissare ogni altro canale informativo.
Pensate a un peer to peer. Le scuole con le scuole per aprire le menti e la comprensione dei nostri ragazzi. Università con università, impegnate sui temi dell’insegnamento e della ricerca per promuovere congiuntamente la crescita e lo sviluppo delle loro comunità.
Centri di apprendimento per gli adulti collegati mondialmente per consentire agli adulti stessi di entrare in contatto tra loro.
Il mondo degli affari, business to business, per sviluppare imprese e commercio. Ospedale con ospedale per lo scambio di conoscenze, tecniche e persone.
Persone con persone per abbattere gli stereotipi e costruire una consapevolezza delle altre culture, credenze e costumi.
E così via, museo per museo, biblioteca per biblioteca, amministrazione per amministrazione. Immaginate che questi collegamenti includano sia i paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo nel mondo. Formare un anello internazionali di apprendimento tra centinaia di reti simili.
Immaginate che un decimo del denaro utilizzato per sviluppare soluzioni militari ai problemi umani e sociali vengano spesi per le persone e gli strumenti affinché tutti questi anelli possano lavorare efficacemente.
Immaginate che tali collegamenti li avessimo iniziati dieci anni fa. Che differenza potrebbero fare rispetto al mondo di oggi?
Non è questa una delle sfide chiave per una città della conoscenza, per una città che voglia essere per i suoi cittadini anche città di apprendimenti continui? Non è questo, forse, un obiettivo degno dei suoi abitanti?
Provate a immaginare i vantaggi.
Migliaia di persone e organizzazioni che contribuiscono alla soluzione di problemi sociali, culturali, ambientali, politici ed economici. Un passo da giganti nella comprensione reciproca e nella trasformazione delle mentalità, attraverso una maggiore comunicazione tra persone e organizzazioni. Uno sviluppo economico, commerciale e tecnico redditizio attraverso il contatto tra le imprese e le industrie. Interazione attiva e coinvolgimento, un enorme aumento di risorse disponibili attraverso la mobilitazione del volontariato, di talenti, di abilità, esperienze e creatività tra città e regioni.
Meno migranti e rifugiati, perché i problemi di sviluppo possono essere previsti e affrontati attraverso la cooperazione tra le città.
Un sogno? No. Fatevi una ricerca sul web e avrete delle sorprese. Questo che può sembrare un progetto pionieristico è già in atto tra numerose città, dall’Australia al Canada, dalla Cina all’Europa, un vero proprio movimento per stabilire legami multilaterali tra città, fedi, culture e Paesi per facilitare la costruzione di un nuovo apprendimento e di una nuova comprensione del mondo.

LA NOVITA’
Very bello, chi ha detto che con la cultura non si mangia?

Una rosa di eventi culturali, un viaggio nella bellezza, in quella bellezza che ci caratterizza da secoli, spesso dimenticata, o meglio, sottovalutata. Il momento di ricordarcene, di valorizzarla, di parlarne a tutto il mondo, di gridarla ai quattro venti, di farne una forza. Di questo messaggio vuole farsi promotore il Ministero dei beni culturali e del turismo con la piattaforma digitale interattiva ‘very bello’ (www.verybello.it), presentata ieri da Dario Franceschini a Roma.
Ne hanno parlato anche tutti i telegiornali, citando la Biennale di Venezia, Umbria Jazz e, esplicitamente, anche il nostro Ferrara Buskers Festival. Oltre 1300 eventi, per promuovere il calendario di manifestazioni culturali parallele a Expo 2015, per valorizzare le iniziative sul territorio, da nord a sud, dalle grandi città ai piccoli borghi, ma anche perché i turisti, che arrivano per l’Expo, allunghino la loro permanenza nel nostro Paese. Occasione da non perdere per diffondere l’offerta turistica del Bel Paese. In poche ore, l’hashtag #verybello, lanciato dallo stesso ministro, è entrato nella top ten delle parole chiave più “cinguettate’, gli accessi al sito hanno registrato un vero boom (in 6 ore oltre 5000 accessi). Per la campagna promozionale sul web e negli aeroporti internazionali d’arrivo il ministero ha già messo a disposizione 5 milioni di euro. L’investimento del Ministero per raccontare “il museo diffuso che è l’Italia” comprende uno spot in italiano sulle nostre bellezze con la voce narrante del grande Toni Servillo.
Il portale è strutturato per diversi contenitori culturali: ‘Festival’, ‘Cinema’, ‘Musica’, ‘Concerti’, ‘Teatro’, ‘Mostre’, ‘Danza’, ‘Feste Tradizionali’, ‘Itinerari Turistici’, ‘Libri’ ‘Bambini’, ‘Opera’. Ciascun contenitore, in continuo aggiornamento, fornisce nel dettaglio le informazioni principali dell’evento e la sua localizzazione, permettendo di condividere l’evento stesso sui social network.
Se si effettua la ricerca sul sito per la nostra Ferrara, si troveranno tutti gli eventi principali dell’anno. Fra essi le grandi mostre ‘L’arte per l’arte. Il Castello Estense ospita Giovanni Boldini e Filippo de Pisis’ (31 Gennaio 2015 – 31 Gennaio 2017, Castello Estense), ‘La rosa di fuoco – La Barcellona di Picasso e Gaudì’ (19 Aprile -19 Luglio 2015, Palazzo dei Diamanti); le feste Tradizionali (1 Maggio – 31 Maggio 2015, Palio di Ferrara); musica e concerti (4 Maggio 2015, Grigori Sokolov, pianoforte, al Teatro Comunale); i festival (6 Maggio – 9 Maggio 2015, Salone dell’arte del restauro e della conservazione dei beni culturali e ambientali, 22 Maggio – 24 Maggio 2015, Altroconsumo Festival, 1 Giugno – 31 Luglio 2015, Ferrara sotto le stelle, 20 Agosto – 30 Agosto 2015, Ferrara Buskers Festival, 4 Settembre -13 Settembre 2015, Ferrara Balloons Festival, 2 Ottobre – 4 Ottobre 2015 Internazionale a Ferrara).

Bello, very grazie.

L’OPINIONE
Sateriale, il “sindaco snob” che sconfisse le lobby in nome della democrazia

Appena arrivato a Ferrara, il giornalista di un quotidiano locale lo ribattezzò “Satellitare” volendo evidentemente alludere a una presumibile sudditanza del nuovo sindaco verso i poteri forti. Ma non lo conosceva. Il suo (pre)giudizio si basava sull’aspettativa che il neo eletto – sconosciuto ai più e catapultato in città per invertire la rotta dopo il dominio esercitato dal Duca Rosso Roberto Soffritti nei suoi sedici anni di regno – non sarebbe stato in grado di svincolarsi dalle vecchie logiche. Oltretutto proveniva dai quadri della Cgil e appariva quindi teoricamente espressione di un apparato organico al sistema di potere dominante a Ferrara. Facile immaginare che inevitabilmente sarebbe caduto vittima delle pressioni e che il peso dei condizionamenti avrebbe zavorrato il suo operato.
Dopo qualche tempo, però, inquadrato il soggetto, l’amico (credo a malincuore) un po’ alla volta ha abbandonato quello pseudonimo al quale era affezionato. E questo perché a Gaetano Sateriale un appunto che non si può proprio muovere è quello di mancare di autonomia critica e di indipendenza di giudizio. Lui è della razza di quelli che fanno (ed eventualmente sbagliano) senza assecondare il volere altrui.
Non a caso nell’incontro-intervista recentemente organizzato dall’associazione ‘Pluralismo e dissenso’ e animato dai giornalisti di Carlino, Nuova Ferrara, Telestense, Estense.com e Ferraraitalia, ha rivendicato come tratto caratterizzante del suo mandato da sindaco “la rottura con gli schemi del passato”, laddove per schemi si devono intendere pratiche ma anche uomini. Così, implicitamente, ha dato risposta a chi tuttora si domanda se i suoi dieci anni alla guida della città siano stati di trasformazione o di transizione.

Dal punto di vista delle realizzazioni pratiche ci sono state certamente lacune. La più evidente, riconosciuta da lui per primo, è stato l’epico ritardo nella conclusione dei lavori dell’ospedale di Cona. “L’ho ereditato in costruzione e dopo dieci anni non sono riuscito a inaugurarlo: frustrante”, ha confessato, lamentando le responsabilità delle imprese e il polso malfermo della Regione.
Ma per quanto riguarda la visione di città, Sateriale è stato in grado di elaborare una precisa concezione che trova corrispondenza in un ben delineato profilo amministrativo. Fulcro della sua visione sono stati i temi della partecipazione e dell’inclusione. Nella sua idea, il sindaco non è più deus ex machina, signore e padrone, artefice incontrastato, ma semplicemente il cardine di un meccanismo in cui ogni ingranaggio ha un suo ruolo e nel limite del possibile, in rapporto a opportunità e funzionalità, anche una sua propria autonomia. E i ruoli non sono inamovibili o designati dai classici meccanismi di cooptazione, ma definiti sulla base delle competenze e delle logiche organizzative.
Ne sono esempio gli staff allargati di coordinamento nei quali vengono coinvolti tutti i principali dirigenti dell’amministrazione comunale con lo scopo di coordinare e condividere le strategie di azione. Oppure i forum, come quelli sull’urbanistica partecipata, rivolti a cittadini ai quali si chiede di intervenire ed esprimersi sulla base di opzioni alternative. E così i programmi partecipati di quartiere con i quali si invitano i residenti a stabilire assieme agli amministratori le priorità di intervento e di spesa sul territorio. Ma anche le relazioni annuali di attività esposte pubblicamente nel salone d’onore non sono parate formali e autocelebrative, ma al contrario espressione della volontà di rendere trasparente il disegno ed evidenti a tutti  i cittadini le linee strategiche di azione intraprese, con il preciso intento di far comprendere tali linee, per poterle dibattere ed eventualmente ricalibrare.

Questo operare è coerente con una sua convinzione: che in epoca di declino dei partiti sia saltato il principale elemento di mediazione fra società e istituzioni e la rappresentanza politica da sola non è più in grado di intercettare gli umori e la volontà dei cittadini. Servono dunque nuove forme di coinvolgimento per rendere l’azione amministrativa aderente ai bisogni della comunità. Quindi, in controtendenza, persegue il decentramento delle sedi decisionali e in anticipo sui tempi favorisce l’utilizzo della tecnologia anche con l’ausilio dei social network, promuovendo per esempio un quotidiano telematico come strumento informativo che entra in ogni casa. Propizia inoltre l’utilizzo della rete anche con valenza consultiva, oltre che per l’informatizzazione dei servizi. Si potenziano Urp e Informagiovani, nasce Citybook un facebook di taglio meno intimistico e più rivolto alla socialità.

Certo, Sateriale non è uno sprovveduto e neppure un ingenuo e il non tessere alleanze strategiche non significa dunque che non sappia politicamente muoversi con avvedutezza. Ma l’asse d’intesa a suo tempo stabilito con il segretario ds Roberto Montanari esprimeva essenzialmente l’esigenza di mettere in sicurezza il processo di rinnovamento – del quale i due furono artefici – dagli attacchi concentrici, iniziati già nel giorno dell’insediamento del Consiglio comunale, nel 1999, con il tentativo (naufragato) di Nando Rossi, membro della maggioranza, di far eleggere se stesso alla presidenza con i voti di una parte delle opposizioni e con il sostegno dei dissidenti dei Ds rimasti fedeli all’ex sindaco Soffritti.
Con tali premesse era inevitabile prendere contromisure, ma Sateriale non creò lobby, cercò semplicemente sostegni al suo progetto di cambiamento. Significativo in questo senso è che nel sottotitolo scelto per “Mente locale”, il volume in cui ha trasposto il suo diario politico di quegli anni, sia specificato “la battaglia di un sindaco per i suoi cittadini contro lobby e partiti”. Così lui percepiva e viveva il proprio impegno.

Alcune scelte infelici ci furono, quantomeno per gli esiti sortiti: la nomina di Valentino Tavolazzi come direttore generale, per esempio, o l’indicazione di Ezio Gentilcore alla presidenza di Sipro. Errori di valutazione pagati a caro prezzo con i fondi comunali, quindi con i soldi della comunità
Al di là degli errori, per lui la strada non è mai in discesa e le rose sono state tutte ricche di acuminate spine. Così ogni traguardo si porta appresso, quasi sistematicamente, polemiche o intoppi. Rifà piazza Municipale e la pavimentazione si sbriciola (per responsabilità mai completamente chiarite, con tante ombre e tanti sospetti rimasti tali). Stabilisce un saldo sodalizio con il regista teatrale Luca Ronconi, ma infuriano le polemiche sui costi e il presunto carattere elitario delle opere proposte; accompagna la realizzazione del nuovo bellissimo asilo di via del Salice ma tutto si blocca alla vigilia dell’inaugurazione per indagini ambientali a seguito di sospette esalazioni di cvm, poi escluse anni più tardi. Progetta la nuova viabilità con una tangenziale che libera il comparto sud dalla morsa del traffico ma falliscono le imprese costruttrici… Insomma, una serie di incidenti di percorso da far sorgere il dubbio che i suoi nemici abbiano dimestichezza con le pratiche voodoo. O peggio…

Di suo, a complicarsi la vita, ci mette un’istintiva avversione al populismo che lo fa apparire snob agli occhi di tanti e alimenta la leggenda (in questo caso letteralmente ‘metropolitana’) che lo dipinge come ancora residente a Roma dove, secondo i sempre desti ‘ben informati’, farebbe ritorno ogni week end. Il suo fastidio per ogni strumentale cedimento ai voleri della folla è tale da impedirgli persino gesti semplici (e particolarmente redditizi in una città come Ferrara) tipo recarsi in ufficio in bicicletta.
Preceduto oltretutto da un sindaco che al contrario volentieri si concedeva al capannello, sfugge la chiacchiera da marciapiede e accresce così il senso di distacco personale fra sé e gli amministrati, generando un paradosso: perché il suo ‘atteggiarsi’ genera un moto ostinato e contrario a quello perseguito attraverso l’azione amministrativa che, all’opposto, è di avvicinamento fra la macchina comunale e i cittadini, quindi di coinvolgimento e (appunto) di stimolo alla partecipazione: il sindaco fortemente lo vorrebbe, ma il signor Gaetano Sateriale fatica ad assumere plasticamente la posa e a conformarsi a quell’immagine dell’uno-di-noi che ‘la gente’ tanto ama e che renderebbe più semplice la sua azione e – forse forse – anche più credibile quel suo messaggio di inclusione. In tempi di leaderismo spinto, con politici piacioni che ostentano il loro filantropismo di facciata, pronti ad ogni sorta di performance pur di fare colpo, la sua ritrosia e il suo non concedere nulla alla folla rappresentano un handicap di cui, sul piano personale, certamente paga un prezzo salato.

Di cose, però, ne fa parecchie e importanti: l’ampliamento della zona a traffico limitato, il recupero di significative piazze storiche (in piazza Municipale al suo arrivo c’era ancora l’asfalto e le vetture autorizzate parcheggiavano). Interviene nel mercato degli appalti e riporta nei corretti termini il rapporto con le imprese, arginando le posizioni di rendita dei grandi (paradigmatica la vicenda Coop costruttori, ma anche le successive frizioni con la Sinteco di Roberto Mascellani). Avvia la bonifica del petrolchimico, promuove il festival di Internazionale, guardato con sospetto e provinciale snobismo (quello sì) da parte di tutti sino alla trionfale inaugurazione, cui farà seguito un successo che si ripete e si consolida negli anni.
Inverte la rotta centralistica e guarda al decentramento come a un valore di democrazia, praticandolo anche attraverso piccoli ma significativi atti concreti, come i già citati programmi partecipati o l’istituzione del vigile di quartiere. Riqualifica le periferie: il Barco e via Bologna alle quali si conferisce dignità e identità cittadina in termini di arredo urbano e di servizi. Dà impulso alla città d’arte e di cultura, ottiene la prestigiosa presidenza dell’Associazione italiana città Unesco, avvia con Giorgio Dall’Acqua l’operazione Ermitage, una promettente rendita dissipata dagli eredi. E nel 2005 salva la Spal dal capolinea sportivo.
In termini di partecipazione sostiene con convinzione i processi di Agenda 21 in campo ambientale e per dare concretezza all’obiettivo dell’inclusione sociale promuove la consulta dei cittadini stranieri.

Nella vicenda tragica di Federico Aldrovandi con coraggio compie uno strappo istituzionale e di fatto assurge a paladino dei diritti violati in un titanico e inedito scontro fra istituzioni, dove il Comune per una volta si qualifica davvero come la casa di tutti.

Il tempo finirà per rendere il giusto merito a questo sindaco schivo ma caparbio, il quale un’idea di Ferrara che andasse oltre l’ombra del proprio naso ce l’aveva. E che, a modo suo e per quanto ha potuto, si è prodigato per propiziarne la trasformazione.

L’EVENTO
I volti di Arte Fiera

Il ministro Dario Franceschini sul prato nello stand della home gallery di Maria Livia Brunelli e le immagini di Mustafa Sabbagh alle pareti di Arte Fiera 2015. I riflettori si sono accesi in questi giorni sull’attività artistica portata avanti dalla galleria ferrarese, con la visita istituzionale all’installazione di Stefano Scheda, che copre il pavimento dello stand Mlb con erba vera e pelli di mucca. Un pascolo – spiega la curatrice – che vuole essere metafora dello stato di schiavitù a cui vengono ridotti tanti animali. Lo stand espositivo della galleria di corso Ercole d’Este, poi, all’ora di pranzo diventa teatro di una performance estemporanea, con un veloce pic-nic dello staff su quel prato-opera d’arte. E’ uno dei tanti luoghi da vedere, in mostra per l’ultimo giorno all’interno della manifestazione fieristica di Bologna, aperta ancora per oggi dalle 11 alle 17.

L’evento mette insieme due padiglioni pieni di opere, tele, installazione, con un’area dedicata alle fotografie e un’altra alle pubblicazioni d’arte. Un’occasione per rivedere sia i capolavori che hanno fatto la storia dell’arte contemporanea sia le sue evoluzioni più recenti. E’ il caso dei rappresentanti di un movimento artistico importante come l’arte povera, che alla fine degli anni Sessanta si contrappone a quella tradizionale: le serigrafie su specchio di Michelangelo Pistoletto, che fa diventare i visitatori parte integrante dell’opera stessa e che qui, più che mai, si offrono a riflettere i selfie dei visitatori in molte delle gallerie presenti. Poi ci sono i tagli e i buchi su tele monocolore di Lucio Fontana, le donne rotonde di Fernando Botero, le sfere luccicanti di Arnaldo Pomodoro, i teatrini di Giosetta Fioroni.

L’evento mette in mostra anche produzioni meno note, come le nature morte all’uncinetto, immortalate con una luminosità caravaggesca da Daniela Edburg; il pianoforte sotto l’acqua scrosciante; gli alambicchi di liquidi colorati. Senza dimenticare gli estrosi cromatismi dei visitatori, che dialogano con sculture e quadri davanti ai quali si soffermano. Buona visione.

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Spettatore dell’opera con autoritratto di Pistoletto
Pic-nic sul prato-opera d’arte dello staff della galleria di Maria Livia Brunelli
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Colori, scambi e confronti ad ArteFiera 2015
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Galleria con tendina oro e argento
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“Breakfast with pliers” di Daniela Edburg
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Pianoforte sotto l’acqua scrosciante
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Visitatori in uno dei padiglioni di ArteFiera 2015
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Visitatrici in uno dei padiglioni di ArteFiera 2015
Il ministro Dario Franceschini nella Mlb home gallery
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Alambicchi colorati
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Un visitatore fotografa un’opera in mostra
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Giochi cromatici in una galleria di ArteFiera 2015

 

 

 

NOTA A MARGINE
A spasso per le vie dell’arte tra curiosità, voyeurismo e pura passione

Da venerdì scorso fino ad oggi, i padiglioni di Bologna Fiere ospitano l’annuale esposizione d’arte, la più importante in Italia, oggi alla 39esima edizione, in cui le gallerie, che quest’anno sono ben 188, mostrano opere di fama mondiale e propongono novità ed artisti emergenti. Tra più di duemila opere, disposte in due padiglioni, si resta ammaliati davanti ai quadri di Giorgio De Chirico, si osservano i ready-made di Mimmo Rotella e si fotografa la Marilyn di Andy Warhol.

arte-fiera-bolognaMa l’acquisto delle opere sembra essere l’ultimo dei motivi per cui passare qualche ora circondati dall’arte. Più che per guardare, sembra si vada per essere guardati. Nella giornata di sabato, avvicinarsi ai quadri era un’impresa impossibile, i padiglioni e gli stand delle gallerie erano affollati già dal primo pomeriggio, con numeri che tendevano ad aumentare con il passare del tempo. Potreste pensare che questa sia un’ottima notizia, che, nonostante i tagli alla cultura, l’arte interessi ancora a tanti. Lo credevo anche io, prima di sentire pezzi di conversazione come “amore, un bolero”, con tanto di foto ad una delle celebri donne formose di Botero, che una signora in pelliccia aveva confuso con le sinuose ballerine, avvolte in abiti aderenti, che si muovono seguendo ritmi spagnoli. Arte Fiera, proprio grazie alla fama conquistata nel tempo, si è trasformata da vetrina a passerella: le opere d’arte disposte nei padiglioni sono solo la scenografia ideale in cui mostrarsi, magari nella speranza di incontrare le cosiddette celebrità o un famoso critico d’arte.

arte-fiera-bolognaTolta una piccolissima parte di visitatori che è lì veramente per l’arte, i curiosi si guardano intorno, fotografano pezzi contemporanei di dubbio gusto e girovagano tra gli stand nel tentativo di capirci qualcosa. I più audaci osano chiedere i prezzi, spesso da capogiro, illudendo per qualche minuto i galleristi. Tra i tanti che desideravano mostrare l’opera d’arte che è la propria persona e i pochi che speravano di trovare tra gli artisti emergenti il nuovo Picasso, molti erano anche gli interessati all’evento vero e proprio. Perché l’arte moderna e contemporanea è spesso concettuale, impossibile da comprendere per chi possiede solo le conoscenze di base insegnate nelle scuole italiane. Partecipare a quest’evento mi è servito a comprendere la vastità del concetto di arte e la mia ignoranza in merito. Dopo aver compreso questo, ho iniziato ad osservare le reazioni degli altri visitatori che, in buona parte, sembravano divertiti o perplessi, ma mai totalmente consci di ciò che stavano guardando. Di questo se ne sono resi conto anche i galleristi, alcuni dei quali, visibilmente annoiati, hanno paragonato i corridoi dei due padiglioni alle vie di passeggio.

arte-fiera-bolognaEppure la presenza di tante persone, di tutte le età, vorrà pur significare qualcosa. Perché all’evento forse mancava la conoscenza di artisti o di opere, ma di certo non mancava la curiosità. Tanta era la voglia di comprendere e di fronte diverse opere avrei voluto la presenza di qualcuno in grado di istruirmi su ciò che stavo osservando senza capire. Il rischio del non insegnare l’arte è quello di farla diventare di nicchia, spegnendo voglia di conoscenza che ancora spinge verso questo mondo.

 

arte-fiera-bolognaarte-fiera-bolognaCamminando tra i padiglioni, dedicati all’arte moderna e contemporanea, ma anche alla fotografia e alle mostre monografiche degli spazi del Solo Show, ci si immerge in mondi ignoti. Si dice che non importa sapere cosa significa un’opera, il suo compito è quello di emozionare, ed è quello che succede anche passeggiando tra gli espositori: si resta incantati dai tratti realistici di quadri che sembrano fotografie, si ride, osservando opere bizzarre come lo struzzo fatto di carte da gioco di Nicola Bolla e si riflette dubbiosi, mentre tutti fotografano i tagli di Fontana, “forse questo potevo farlo anch’io!”.

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LA RIFLESSIONE
Se fossi una finestra…

Ho sempre amato le finestre, le guardo con ammirazione e curiosità, ovunque mi trovi nel mondo. Le fotografo e le sogno. Immagino. Attraverso di loro viaggio e invento. Ecco allora perché, a volte, vorrei essere una di loro… Quante cose potrei fare…

Se fossi una finestra me ne starei sempre aperta, pronta a lasciare entrare solo i raggi del sole e i pensieri buoni.
Se fossi una finestra chiuderei fuori tutti i dolori e i dispiaceri, sbatterei loro in faccia, con forza, le mie potenti persiane.
Se fossi una finestra guarderei sempre il mondo, lascerei i bambini affacciarsi a me per sorridere, giocare e osservare il sole.

se-fossi-finestrase-fossi-finestraSe fossi una finestra chiuderei i battenti solo a notte fonda, e leggermente, lasciando passare i raggi della luna, perché i suoi luccichii cristallini possano illuminare i volti degli innamorati.
Se fossi una finestra vorrei avere appesi alle mie guance solamente fiocchi e cristalli di neve e magari nastrini colorati che, a Natale, abbelliscono e decorano pensieri, parole e sorrisi.
Se fossi una finestra vorrei lasciare passare solo Gesù Bambino. Magari farei entrare anche Babbo Natale e la Befana, ma solo a condizione che portino doni, bellezza e buone notizie.

se-fossi-finestraSe fossi una finestra lascerei fuori le guerre, chiuderei gli occhi di coloro che sparano, colpiscono e feriscono, per fare vedere loro, anche solo per un momento, cosa c’è aldilà dei sogni.
Se fossi una finestra, soffierei il mio caldo e accogliente alito di vento su un camino, perché anche la brina possa riscaldarsi al tepore dell’immenso amore che abita nella mia casa.

Se fossi una finestra, toglierei tutte le barriere e le spranghe di ferro che separano gli uomini dalla libertà e dal mondo. E questo perché le nuvole possano volteggiare, passeggiare e veleggiare leggere verso chi sta rinchiuso per scelta o per imposizione.
Se fossi una finestra prenderei i vecchi sotto braccio, perché attraverso di me possano ritrovare il pensiero leggero della giovinezza e perché i loro ricordi lontani non siano fonte di rimpianto e di tristezza ma di allegra e gioiosa spensieratezza.

se-fossi-finestraSe fossi una finestra vorrei solo fiori sul mio davanzale.
Se fossi una finestra non accetterei mai di vedermi avvinghiata dall’edera soffocante. Non sopporterei la sua afa.
Se fossi una finestra vorrei profumare l’aria di gelsomino, attraverso di me passerebbero solo tenui profumi di primavera.
Se fossi una finestra, farei magari passare qualche fiocco di neve, ma solo a patto che sia leggero e candido come i miei gelsomini.
Se fossi una finestra mi farei attraversare solo note di Chopin o al massimo di Tchaikovsky, sempre che provengano da un lungo ed elegante pianoforte a coda.
Se fossi una finestra non sbatterei mai le mie persiane, a meno che si tratti di batter le mani di fronte a un bacio degno di un film.
Se fossi una finestra, sarei spalancata come un’intelligenza vivace che propone idee e belle parole.
Se fossi una finestra non coprirei mai il mondo, nemmeno con una pagina di giornale. Sarei quiete sempre viva e accesa.
Ah, se solo fossi una finestra…

Non basta aprire la finestra per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi per vedere gli alberi e i fiori.
C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo fuori; e un sogno di ciò che potrebbe essere visto se la finestra si aprisse.

Fernando Pessoa

(Fotografie di Simonetta Sandri)

Testo pubblicato in versione ridotta in Omero Magazine [vedi]

Il cambiamento ‘fai da te’

“Scout in Piazza Ariostea per salvarla dalla movida”, così La Nuova Ferrara di sabato titola un articolo che presenta l’iniziativa di un gruppo di giovani Scout dell’Agesci per tenere pulita la piazza. L’idea è in linea con il progetto del Comune “Ferrara Mia” che mira a favorire iniziative promosse dai cittadini. Il progetto ha una valenza pratica – migliorare la sicurezza di un luogo molto frequentato da bambini – e una educativa che è la più importante.
Il contagio positivo è alla base di una infinita quantità di azioni che trovano nel web un indispensabile supporto. Se la democrazia è un ambiente e non solo un sistema di governo e un insieme di regole, allora “le strade per la democrazia sono infinite” e passano per una miriade di contesti locali, come assume il ciclo dal suggestivo titolo “La democrazia come problema”, organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di storia contemporanea di Ferrara.
A partire dall’idea che la partecipazione assume nuove forme, il cambiamento può non essere solo atteso e auspicato, ma in un certo senso prodotto, attraverso la condivisione. La rete offre uno straordinario supporto. Un solo esempio: Change.org è la più grande piattaforma al mondo che incoraggia le persone a sostenere petizioni sui temi di proprio interesse. Change.org è una piattaforma on-line gratuita per promuovere campagne sociali, fondata nel 2007 negli Stati Uniti, da Ben Rattray, considerato da Tima Magazine tra le 100 persone più influenti al mondo. Nel luglio 2012 l’organizzazione lancia il sito in italiano. La missione di Change.org è permettere a tutte le persone in tutto il mondo di “creare i cambiamenti” che desiderano, unendo i valori di un’organizzazione non-profit con la flessibilità e l’innovazione di una startup tecnologica. Oltre 70 milioni di utenti in 196 Paesi (2.3 milioni in Italia) ogni giorno usano Change.org, con il supporto di un team di professionisti. Chiunque può lanciare petizioni rivolte a realtà locali, istituzioni, grandi aziende o realtà internazionali. Che si tratti di una madre che combatte contro il bullismo nella scuola di sua figlia, di clienti che fanno pressione sulle banche per eliminare una tassa ingiusta o di cittadini che denunciano funzionari corrotti, migliaia di campagne lanciate da persone normali possono avere successo. Se in passato coagulare le persone intorno ad una causa richiedeva fatica, soldi e infrastrutture complesse, oggi la tecnologia ci ha reso più connessi. Tutti possono lanciare una campagna e mobilitare in poco tempo centinaia di persone localmente e migliaia in tutto il mondo, rendendo governi e associazioni più reattivi e attenti.
Change.org viene presentata come una piattaforma gratuita concentrata sulla missione di rendere le persone attori di cambiamento e investe tutte le entrate nei servizi rivolti agli utenti. I fondi di Change.org provengono da petizioni sponsorizzate da organizzazioni come Amnesty international, Medici senza frontiere. Così si legge nella pagina italiana di Change.org. “Stiamo lavorando ad un mondo in cui nessuno rimanga inascoltato e in cui creare il cambiamento sia parte della vita di tutti i giorni” [vedi].
Si può concordare sul fatto che simili forme dal basso rischiano di essere ingenue; certo non sostituiscono forme di democrazia rappresentativa adeguate, però possono contribuire a spostare, almeno in parte, le discussioni dal Palazzo alla vita reale.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi e Social Media Marketing. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

LA RICORRENZA
La riscoperta di Vladimir Visotsky, poeta e cantore del dissenso

Oggi sarebbe stato il compleanno di Vladimir Semënovič Vysockij (Visotsky nella traslitterazione italiana), ufficialmente un grande attore, in verità uno straordinario poeta, ma i cui versi non furono inizialmente stampati perché sempre censurati dalle autorità sovietiche. E quindi Vysockij, boicottato e oscurato, aveva preso la chitarra e cantato per far passare le sue parole per tutta l’Urss. Oggi lo riscopriamo, grazie al nostro Finardi, in ‘Sentieri Selvaggi’. In Russia, oggi, ha finalmente il giusto tributo, tanto più che a Mosca vi è un museo in suo onore.

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Vladimir Vysotsky di fronte al poster del Teatro Taganka (RIA Novosti / Plotnikov)

Attraverso cassette registrate fortunosamente, la voce profonda, infiammata e dolente di ‘Volodja’, Vysockij era diventato la voce di coloro che si opponevano e dissentivano dal conformismo di regime. Inizialmente, lo abbiamo notato in una scena potentissima del ballo al teatro Mariinskij di San Pietroburgo, di un magistrale Baryšnikov-Nicolai ‘Kolya’ Rodchenko, che esplode sulle note di ‘Fastidious Horses’ del cantatutore russo. Poi lo abbiamo cercato e studiato un po’. Quelle note e parole ispiravano tanto.
Vysockij era nato il 25 gennaio 1938, a Mosca, da un sottotenente di carriera e un’interprete di tedesco. Era il periodo delle grandi e terribili ‘purghe’ staliniane. Nel 1961, aveva scritto la sua prima canzone, ‘Il Tatuaggio’. Già in queste prime fasi, quasi per gioco, un amico aveva iniziato a registrare le sue canzoni e a organizzare una sorta di distribuzione ‘porta a porta’ che avrebbe contraddistinto tutta la sua vita. Le sue canzoni cominciavano a circolare, anche se il suo nome era ancora sconosciuto. Nel 1964, effettuava un provino per Ljubimov, direttore del prestigioso teatro Taganka. Curiosamente, Ljubimov non era convinto delle sue doti di attore, ma lo prese con sé perché affascinato dalle sue canzoni che cominciavano a essere diffuse e note. Ma, già nel 1965, Vysockij, diventava uno degli attori principali del Taganka, dove avrebbe ricoperto ruoli importanti, quali quelli di ‘Galileo’ di Bertold Brecht.

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Vladimir Vysotsky (RIA Novosti / Kmit)

Ecco allora arrivare il suo primo disco, colonna sonora del film ‘Verticale’ e, nel 1967, il ruolo di Majakovskij in ‘Ascoltate Majakovskij’. Diventa un idolo, un attore leggendario.
L’anno seguente, l’incontro con Marina Vlady si trasformerà in grande e travolgente amore che durerà fino alla sua morte, nel 1980. Per Vysockij è un periodo di instancabile frenesia. Recita, scrive, compone, giorno e notte, ma in Russia si vuole dare una stretta contro gli intellettuali indisciplinati, e, pertanto, viene regolarmente boicottato, gli è negato ogni riconoscimento, diviene una specie di ‘uomo invisibile’. Solo nel 1987, con la Perestrojka gorbacioviana, sono arrivati i primi riconoscimenti ufficiali e le sue canzoni sono state pubblicate su disco. Fino ad oggi.
Questo incredibile poeta cantò i perdenti che non si arrendono, gli sconfitti, gli idealisti disillusi, coloro che si sono persi nella vita, coloro che sono stati abbandonati da essa.

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Francobollo russo del 1999 dedicato a Vladimir Vysockij

Una vita disperata, la sua: pur ignorato e boicottato era diventato il poeta più popolare del suo paese, senza che di lui fosse stato mai stampato un singolo verso. L’Italia lo avrebbe capito e presentato al grande pubblico un po’ dopo, ma lo avrebbe compreso. Nel 1993, gli era stato assegnato, infatti, il premio Luigi Tenco e, per l’occasione, era stato registrato un album (‘Il Volo di Volodia’), ad opera di vari cantautori fra i quali anche Roberto Vecchioni ed Eugenio Finardi. Nell’album di Paolo Rossi (In Italia Si Sta Male Si Sta bene Anziché No e Altre Storie) del 2007, vi era una versione italiana della canzone ‘utrennjaja gimnastika’.

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Monumento a Vladimir Vysockij (Mosca) e la copertina della raccolta ‘Sentieri selvaggi’ interpretata da Eugenio Finardi

E poi è arrivato Finardi. ‘Sentieri selvaggi’, uno dei più importanti ensemble italiani di musica classica contemporanea diretto da Carlo Boccadoro, ha invitato Finardi a unirsi a loro per un progetto sull’opera del cantautore russo, le cui canzoni sono state ripensate e trascritte da Filippo Del Corno, compositore tra i più affermati delle ultime generazioni. Nasce così il progetto ‘Il cantante al microfono’, un cd che getta un ponte tra la canzone d’autore e la musica classica contemporanea partendo dal grande attore, poeta e cantautore russo. Dal corpus delle sue oltre 500 canzoni, Eugenio Finardi e Filippo Del Corno hanno scelto una decina di titoli fortemente rappresentativi della tensione etica, spirituale, politica e dell’ironia corrosiva che anima il lavoro di Vysockij. Le canzoni, già tradotte in italiano da Sergio Secondiano Sacchi, sono state orchestrate dallo stesso Del Corno, in una versione che mette in luce la qualità poetica e musicale dei versi di Vysockij e permette il pieno dispiegamento della straordinaria potenza interpretativa di Eugenio Finardi, che, da tempo, affianca alla sua attività di protagonista del rock d’autore italiano un approfondito e rigoroso lavoro di ricerca vocale. Le canzoni vanno ascoltate con calma e concentrazione, una per una. Sono immense.

Ascolta le canzoni di Vladimir Visotsky [clicca qua]

Eugenio Finardi canta Visotsky [ascolta qua]

Il tributo di Ferarraitalia a Vladimir Visotsky negli ‘Accordi’ del 1 gennaio 2014 [leggi qua]

CANZONE DELLA TERRA (1969)
Chi ha detto: “Tutto è completamente secco,
Non tornerà più il tempo della semina?”
Chi ha detto che la Terra è morta?
No, s’è nascosta per un po’…

Non possiamo impadronirci della fertilità,
Non possiamo, come non si può svuotare il mare.
Chi ha creduto che la Terra bruciasse?
No, s’è annerita dal dolore…

Come crepe giacevano le trincee
E le buche s’aprivano come ferite.
I nervi della Terra messi a nudo
Conoscono la pena più profonda.

Sopporterà tutto, attenderà.
Tra gli sciancati non mettere la Terra!
Chi ha detto che la Terra non canta?
Che ha perduto per sempre la parola?

No! Echeggia di gemiti soffocati,
Da tutte le sue ferite, da ogni fessura,
La Terra è dunque l’anima?
Non calpestarla con gli stivali!

Chi ha creduto che la Terra bruciasse?
No, s’è nascosta per un po’….

L’OPINIONE
Contro ogni forma di discriminazione. Pensieri in libertà sulla giornata della memoria

di Michael Sfaradi

Sono passate decine di anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla scoperta dell’enorme tragedia umana dell’Olocausto ma ancora ci è difficile capire come degli uomini in preda a deliri di onnipotenza siano riusciti da una parte a auto-convincersi di essere razza superiore e dall’altra, proprio in nome di questa superiorità, a programmare a tavolino l’annientamento totale di popolazioni intere. Grazie a Dio non ho conosciuto direttamente gli orrori delle leggi razziali e delle persecuzioni, ma come tutti i figli e i nipoti della Shoah ho preso coscienza del dramma vissuto dal mio popolo solo attraverso i racconti delle persone che sono riuscite a salvarsi dalla deportazione o che sono tornate dai campi di sterminio. I loro racconti, la loro memoria storica è un bene che la mia generazione e le generazioni a seguire hanno il dovere di conservare e mantenere vivo per far sì che ci sia sempre un campanello di allarme, una spia che si accenda ogni volta che ci si avvicina, pericolosamente, a situazioni che possono permettere il ripetersi di fatti storici come questo o simili a questo. Ogni volta che mi sono trovato davanti a discussioni dove c’erano delle persone che facevano parte di gruppi etnici o religiosi diversi da quelli che allora furono colpiti, ho notato che ognuno di loro cercava di dare a se stesso una risposta per rendere accettabile l’inaccettabile… tutto andava bene, anche, per assurdo, accusare le vittime. Questo perché nelle menti degli esseri veramente umani non è accettabile l’idea che sia stata creata una macchina distruttrice, una fabbrica di morte nei confronti di qualcuno e che questo qualcuno sia totalmente innocente.

Se a distanza di tanto tempo ancora ci si chiede attoniti perché e come può essere accaduto, e si rimane increduli e senza risposte soddisfacenti davanti alle prove inconfutabili che l’essere umano può arrivare a livelli di malvagità senza limiti nei confronti dei suoi simili, l’unica cosa veramente chiara, per chi la vuole vedere, è che quello che accadde nel buio di quegli anni degradò l’umanità al di sotto di ogni livello accettabile. Quando poi se ne prende coscienza quello che rimane è solo un senso di impotenza profonda davanti alla storia e alla follia. È impossibile per noi capire cosa abbia abitato in quegli anni nella mente e nel cuore della maggioranza delle persone, e questo non solo in Germania, ma in tutta Europa. Quello che accadde non fu un caso isolato, non fu un’eccezione, non fu un cortocircuito, quello che accadde fu la conseguenza di un’azione studiata a tavolino, finanziata e programmata fin nei più piccoli particolari. Un’azione che prese il via in Germania ma che trovò adepti in ogni angolo d’Europa, un’azione che riuscì a portare allo scoperto l’odio profondo e radicato nei confronti di una minoranza, un odio che per secoli era stato, a più ondate, alimentato da chi nell’ebraismo e nella sua cultura, che è sempre stata la radice su cui poggiava e poggia il mondo moderno, vedeva un affronto se non un pericolo. In quegli anni si aprirono le dighe e l’odio che da sempre bolliva in larghi strati della popolazione europea straripò in tutta la sua lucida violenza.

In quegli anni lo sterminio era la normalità, perpetrare lo sterminio era la normalità, rimanere silenti davanti allo sterminio era la normalità. Gli ebrei, ad esempio, venivano accusati, come al solito, come oggi, di avere in mano l’economia mondiale, anche se le statistiche sia di allora che di oggi smentiscono questa diceria. Ma non era e non è sufficiente, perché chi vuole odiare ha bisogno di un motivo o una scusa per farlo, e non ha importanza se sia vera o falsa. Serve la fiamma per accendere la miccia, serve la scossa per far detonare la bomba carica di odio e cattiveria. Gli zingari, i rom, accusati di essere ladri, gente marcia, come gente marcia erano gli omosessuali e tutti coloro che non volevano o non potevano allinearsi all’interno di quel trita cervelli che è sempre stata la propaganda delle dittature, di tutte le dittature a prescindere dal colore dietro il quale si nascondono o si sono nascoste. I regimi, come è stato per il nazismo e per il fascismo, e a seguire dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni, con una lunga scia di dittatori e sangue, hanno continuato ad arrogarsi il diritto di decidere la vita o la morte di popolazioni intere, che per volere del tiranno di turno diventavano bande composte da esseri subumani, cancro della società.

Ecco allora calare il buio della ragione e le schiere degli sterminatori stringono i ranghi davanti al silenzio dei pavidi che ne diventano complici silenti. Il messaggio viene recepito come vero e con il tempo l’odio diventa normalità e da lì ai campi di prigionia, o di rieducazione il passo è breve, breve come è facile ritrovarsi dietro al filo spinato, con un proiettile in testa o dietro la schiena. Se vogliamo fare un piccolo esempio che possa aiutarci in un cammino di riflessione, in una chiave di lettura diversa che ci possa permettere di capire quali sono stati i meccanismi che hanno portato a una follia collettiva come quella che si è registrata in occasione della Shoah dobbiamo accettare che la “follia collettiva” non era in realtà una follia vera, ma freddo ragionamento di burocrati convinti che i vagoni blindati in viaggio verso i campi di sterminio fossero pieni di animali da eliminare quanto più velocemente possibile, in modo da rendere il mondo più pulito e vivibile. Proprio considerando che la Germania di quegli anni era il centro del sapere europeo, il centro della cultura europea, rimane ancora più difficile credere che tutto ciò sia partito proprio da lì, ma così è stato.

Rievocare in questa giornata 6 milioni di persone uccise con il gas e cremate nei famigerati forni dei campi di sterminio, rievocare le centinaia di migliaia di persone che sono state barbaramente torturate o inumanamente sottoposte ad ogni tipo di esperimento pseudoscientifico e, cosa ancora più dolorosa, rievocare 1 milione e mezzo di bambini ai quali fu tolto ogni diritto e ogni gioia della vita è un compito decisamente arduo che non si esaurisce in cerimonie rievocative una volta all’anno ma che deve essere spiegato nei minimi particolari affinché la memoria non vada persa… affinché il passato non ritorni ad essere un presente. È un compito che ci riguarda tutti da vicino e che abbiamo il dovere di insegnare ogni volta che capita l’occasione. Gli storici hanno provato, con il loro lavoro, a dare un senso alla tragedia, esistono decine di libri e di saggi dove vengono presi in considerazione aspetti del dramma e si prova a darne una spiegazione, ma io credo che a tutt’oggi non esista un’opera che possa racchiudere in sé il “fatto storico” nella sua interezza, che possa far capire la drammaticità di ciò che accadde.

Questo mi ha fatto giungere alla conclusione che uno dei pochi dati di fatto acquisiti è quanto sia stata grande, immensa, la tragedia, tragedia che l’uomo è riuscito a creare in un dramma che esso stesso non riesce a capire e al quale ancora oggi non riesce a dare una spiegazione valida. Gli storici da una parte hanno il compito di raccolta dei documenti, non passa giorno che non si scopra in qualche angolo d’Europa un nuovo archivio o un nuovo carteggio che mette i riflettori su altri massacri, e aggiungono così altri capitoli di questo libro ancora lontano dall’essere definito, ammesso che mai possa essere definito, dall’altra il nostro dovere, soprattutto ora che gli ultimi testimoni viventi ci stanno purtroppo lasciando e i negazionisti si fanno avanti con sempre più forza e tracotanza, è quello di non dimenticare. Lo stesso Yad Vashem il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, è stato di recente profondamente ampliato proprio per far posto a tutte quelle testimonianze che continuano ad arrivare con un flusso continuo.

Giorno dopo giorno, ancora oggi, escono dal buio dell’oblio nomi, cognomi, indirizzi, nazionalità, e si restituisce un minimo di dignità a persone che da innocenti hanno pagato ciò che erano e per quello che erano. Ma tutto questo non basta, il nostro compito non si esaurisce qui, noi che siamo uomini liberi, donne libere, dobbiamo fare in modo che il buio della coscienza non sia appropri più della nostra anima e dell’anima delle popolazioni cui apparteniamo. È troppo facile dire, o peggio ancora credere, che quello che è accaduto non accadrà di nuovo… non fatevi ingannare, succede ancora, ogni giorno, davanti ai nostri occhi troppo occupati per vedere le tristi realtà che si avvicendano in posti lontani che poi lontani non sono. Non avremo mai il numero dei morti, e sto parlando degli anni Settanta, che ci furono nei campi di sterminio cambogiani dove il regime dei Khmer Rossi ha prodotto risultati che variano da un minimo di 800.000 a un massimo di 3.300.000 morti. Questo conteggio riguarda le vittime delle esecuzioni, delle carestie e dei disagi. Il governo vietnamita parlò di 3.300.000 morti mentre Lon Nol si vantò di averne eliminati 2.500.000. L’Università di Yale giudica la cifra intorno al 1.700.000 unità mentre Amnesty International ne da qualcuna in meno 1.400.000, ultimo e non meno importante il dipartimento di Stato degli USA che ne considera solo 1.200.000.

Tutto questo può essere da noi considerato normale? 3 milioni, 2 milioni, 1 milione mezzo, ma qui non stiamo parlando di pecore alla vigilia della Pasqua, questi numeri, nella loro freddezza spersonificata, come i sei milioni di Auschwitz, nascondono volti di uomini, donne, vecchi e bambini. Persone che avevano nome, un cognome, una vita da vivere e tanti sogni irrealizzati. Qualcuno potrebbe pensare che tutto ciò è lontano, è successo dall’altra parte del mondo, era fuori dal nostro pianeta? Ma le fucilazioni di massa nella ex Jugoslavia sono state perpetrate proprio dietro la porta di casa nostra, nel cuore dell’Europa continentale, e nessuno ha mosso un dito se non quando era già troppo tardi. Anche in quel caso, mi duole dirlo, la comunità internazionale legata da mille laccetti più o meno seri, più o meno politici ha lasciato che città intere, e Sarajevo ne è il simbolo, fossero praticamente rase al suolo.

Sempre alle porte dell’Italia e nel cuore dell’Europa continentale abbiamo assistito a scontri armati che si consumavano all’interno delle stesse famiglie perché essere serbo o essere croato era un motivo sufficiente e necessario per essere eliminato. E ancora più vicino a noi nel tempo siamo testimoni di massacri dimenticati dove uomini uccidono altri uomini, donne vengono stuprate e vendute come schiave e teste vengono staccate dai corpi e rotolano in terra così come venivano staccate e rotolavano nel più terrificante Medio Evo, e tutto ciò in nome di un Dio diverso. Questo è il buio della ragione, questo è quello che noi più che combattere dobbiamo prevenire senza delegare questo lavoro a nessuno, perché nessuno può garantirci nulla. Solo noi stessi possiamo essere garanti, solo noi stessi possiamo insegnare alle future generazioni la luce della vita gettando il seme della convivenza pacifica e civile fra le genti.

Concludendo voglio ribadire il concetto a me caro, che il modo migliore per onorare chi sull’altare dei forni crematori ha sacrificato la vita, è una medaglia con due lati: da una parte il massimo impegno affinché il ricordo rimanga indelebile e, dall’altra, la nostra attenzione su tutte le manifestazioni di antisemitismo, di omofobia e di ogni razzismo possibile, palesi e no, senza sottovalutarle e impedendo che motivazioni politiche di ogni colore strumentalizzino il dolore per farne battaglie ad esso estranee.

SETTIMO GIORNO
La guerra

Ho aperto gli occhi e la mente al mondo che c’era la guerra, ero piccolo, ma la mia memoria non mi abbandona mai, purtroppo, meglio dimenticare a volte, si vive meglio. Ricordo mio padre vestito in grigioverde, presto sarebbe partito per la Russia, ricordo il grande coglione Benito che, tutto felice, informava con voce tonante gli italiani che aveva dichiarato guerra: “Un’era segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria – urlava il “pataca” romagnolo – l’ora delle decisioni irrevocabili”; rimbalzava la parola del duce da altoparlante ad altoparlante, le vie di paesi e città erano invase. “Il destino che batte nel cielo” altro non era che la condanna a morte per migliaia di innocenti, mandati al massacro in gelide terre o in torride plaghe, o, peggio ancora, nelle nostre città bombardate dal nemico. Il nemico? Quale nemico?, chiesi a Joannes Zelemarian, commissario politico della rivoluzione eritrea contro il regime etiopico di Mengistu, per me erano tutti amici, eritrei ed etiopi, ma lì, appiattito nella trincea scavata nella roccia carsica attorno ad Agordat, la città sotto assedio da parte delle truppe eritree, l’amico era Zelemarian con i suoi compatrioti e il nemico era il cecchino che mirava alla mia testa a non più di settanta-ottanta metri di distanza. Giù, mi diceva Joannes, stai giù Gian Pietro, anche se ha il sole negli occhi il cecchino non sbaglia. Era la prima volta che vedevo il “nemico” così da vicino. Non fu piacevole scoprire che c’era un essere umano come me che, senza altra ragione che non fosse il nostro essere nemici, mi voleva uccidere, io lui non lo avrei ammazzato. Ma era la guerra, la peggiore, l’invincibile, l’inesorabile invenzione umana. Speravo di non dover aver mai più a che fare con i conflitti, di non dover più dire questo è mio amico e questo mio nemico. Ma non si può, l’uomo vuole nemici e amici per combattere i nemici e ora i nemici ci sono, sono qui, sono là, sono sotto casa, sono dovunque li portino interessi quasi sempre sconosciuti, immaginati ma non chiari e noi, noi, siamo gli odiati nemici da sconfiggere, da massacrare se possibile, e loro, loro, sono i terribili avversari da annientare: non ci sarà bisogno di dichiarare guerra pomposamente come fece Mussolini, la guerra è già stata dichiarata, guerra globale, all’ultimo sangue, per una volta ancora noi cittadini siamo le vittime destinate a essere usate come carne da macello. Attenti a chi sta dietro l’angolo di casa.

NOTA A MARGINE
La Costituzione: fonte di libertà da alimentare ogni giorno

Il palco trasformato in una cattedra e il teatro in un’aula per la lezione di Costituzione del professor Gherardo Colombo. E’ accaduto venerdì sera al De Micheli di Copparo. E si è capito subito che sarebbe stata una lezione del tutto insolita: per le incursioni musicali del bidello Tommaso Zanella “Piotta”, per le silhouette di don Chisciotte e Sancho Panza che svettavano sullo sfondo, ma soprattutto perché il prof ha esordito affermando di “non volere la cattedra, perché divide chi ha il potere da chi non ce l’ha”.
“Freedom…imparare la libertà” è un’ulteriore prova delle grandi doti di divulgatore dell’ex magistrato che per quasi due ore guida i suoi studenti, alcuni dei quali abbastanza fuori corso, ma per la maggior parte giovani e giovanissimi, alla ricerca del significato pratico e concreto del termine libertà.
“Cos’è la libertà in una parola?”: questa è la domanda che il professor Colombo pone al pubblico scendendo dal palco, perché non è giorno di interrogazione, ma di dialogo e di condivisione. “Scegliere” dicono dalle prime file…i soliti secchioni!
“Giusto, ma scegliere cosa?” Non si può scegliere di volare se non si hanno le ali e non si può scegliere il completo isolamento se si è animali sociali. Ecco dunque le prime due parole d’ordine: la finitezza e il bisogno di socialità di ogni essere umano, questi sono i confini entro cui la nostra libertà può muoversi. Scegliere poi implica prendersi la responsabilità delle proprie scelte e avere il livello di conoscenza e di consapevolezza per poterlo fare. In altre parole è necessario “avere la capacità di esercitare effettivamente la propria libertà”. Infine scegliere presuppone la possibilità di operare una scelta fra diverse opinioni: insomma il pluralismo democratico. Ecco così stabilito il circolo indissolubile fra democrazia, pluralismo, libertà di pensiero.
Ma dove viene sancita questa nostra libertà? Nella nostra Costituzione, dove sono contenuti i nostri diritti e i doveri che rendono effettivi questi diritti perché “il nostro diritto di espressione corrisponde al dovere degli altri di non metterci una mano davanti alla bocca mentre parliamo”. Per farci capire che dentro la Costituzione c’è già scritto tutto, basta volerla attuare, Colombo racconta storie di diritti negati e violati: Piergiorgio Welby e la scuola Diaz del G8 di Genova. Si va dall’articolo 2, nel quale la Repubblica riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo, all’articolo 13 sull’inviolabilità della libertà personale, dall’articolo 32 sulla tutela della salute e sul rispetto della persona come limite del trattamento sanitario, agli articoli 17 e 18 che sanciscono il diritto di riunione e di associazione. Ma soprattutto il vero architrave di questa delicata struttura, l’articolo 3, il più innovativo di tutti: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Nella mente affiora il ricordo di don Gallo: “Le mie bussole sono due: come partigiano e come essere dotato di una coscienza civile, la mia prima bussola è la Costituzione. Poi, come cristiano, la mia bussola è il Vangelo”. Colombo usa invece le parole di qualcuno che la Costutzione l’ha scritta e poi ha passato il resto della sua vita a difenderla e a farla conoscere ai giovani: Piero Calamandrei. “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è – non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani – una malattia dei giovani”.
Ecco dunque, come in ogni scuola che si rispetti, i compiti per casa: dare un ulteriore significato all’articolo 1, “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. La libertà è una cosa faticosa, impegnativa, “è un percorso che si conquista giorno per giorno”, perciò se non lavoriamo quotidianamente sul nostro stare assieme responsabilmente, “come faremo a crescere e diventare davvero una democrazia?”

Album di storie, le ‘biografie collettive’ di Marco Paolini

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
Due spettacoli di Marco Paolini, Teatro Comunale di Ferrara, dal 26 al 29 ottobre 2003

E inizia la stagione di prosa 2003-04 del Teatro Comunale. Una stagione inaugurata anche quest’anno, come per la scorsa edizione, da due spettacoli del seguitissimo Marco Paolini: “Stazioni di transito” e “Aprile ’74 e 5”, che andranno in scena alternandosi l’uno all’altro per cinque sere consecutive. Entrambi gli allestimenti sono tratti dagli “Album di storie” di Paolini: lavori composti fra il 1987 e il 1999 e in merito ai quali lo stesso autore dichiara: «Sono storie brevi per imparare a raccontare storie. Lo stesso gruppo di personaggi passa da un “album” all’altro in una sorta di iniziazione, tuttavia ogni storia (ogni spettacolo) sta per sé e può essere visto separatamente dagli altri. A ciascuno hanno collaborato per la scrittura e per la realizzazione persone diverse con i propri racconti e ricordi, gli “album” non hanno quindi un unico autore e non sono autobiografia, ma biografia collettiva».
Ed è proprio tale struttura di “biografia collettiva” che distingue gli “album”, e dunque i due spettacoli che Paolini porta a Ferrara, dai celebri “Canto per Ustica” e “Storie di plastica”, è tale impostazione storico-esistenziale che li differenzia connotandoli alla stregua di storie di tutti: nel senso di cittadini non solo soggetti pubblici vittime di drammatiche ingiustizie ma anche e soprattutto individui privati sociali.
E infatti “Stazioni di transito” si colloca fra il miglior “teatro” in senso stretto di Paolini, con le sue storie generazionali, con la sua piccola antologia composta da un numero variabile di racconti collegati da frammenti poetici, ambientati da Parigi a Treviso, dalla Jugoslavia agli Stati Uniti. Tanti luoghi dove i personaggi e i fatti della recente storia italiana si intersecano, lasciando memorabili e indelebili tracce. “Aprile ’74 e 5”, a sua volta, è un racconto articolato che condensa varie storie individuali intrecciate fra di loro. Al riguardo, lo stesso Paolini spiega: «Questa storia è inventata, ma dentro ci sono molte “cose vere”, mescolate e combinate. C’è il rugby, che mi è stato insegnato con passione da chi lo gioca, perché io non ho mai giocato. C’è la registrazione di Brescia, dell’attentato. E ci sono tante storie vere di sport, di bar, di piazza, che mi sono state regalate da amici generosi che riescono a tener acceso in testa il circuito della memoria. Io che ho la memoria corta e devo a loro la mia voglia di raccontare ancora».

democrazia

Che problema la democrazia!

Per il loro quarto ciclo di incontri alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea l’Istituto Gramsci e l’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara hanno scelto un titolo che potrebbe apparire paradossale o provocatorio a prima vista, ma che a sentire gli organizzatori non lo è affatto: “La democrazia come problema”. E non si può dar loro torto, visto che è dai tempi di Platone che filosofi, politici, artisti e letterati si arrovellano su questo tema.
Forse ha proprio ragione il direttore dell’Istituto Gramsci, Fiorenzo Baratelli, quando nell’incontro introduttivo di venerdì pomeriggio afferma che la democrazia è “il regime politico e sociale più complesso che finora il genere umano ha pensato”, ma proprio per questo “è il sistema più adatto più adatto alla complessità dell’uomo e alla sua convivenza in società”. La figura centrale nella democrazia, infatti, è il cittadino. Se ciò significa da una parte che le istituzioni democratiche, cioè la forma, e lo stato sociale, cioè i contenuti, sono costruiti in funzione dei cittadini, dall’altra implica che fondamentale è l’esercizio democratico, cioè la partecipazione attiva da parte di questi ultimi. Dunque la democrazia non è solo complessa, ma “deve essere costruita, anzi necessita di continua cura”: “è imperfetta, esigente, fragile – continua Baratelli – caratterizzata da un continuo cambiamento”. Chi dunque può negare che sia “un insieme di problemi”? Come se ciò non bastasse oggi viviamo il paradosso della democrazia uscita vincitrice dallo scontro con i totalitarismi del Novecento, ma arrivata al 21° secolo “stremata” e circondata da “un’aura di scetticismo”. I 12 incontri che si svolgeranno fino a novembre serviranno quindi a tentare di “capire le ragioni di questo malessere” e le sfide che il sistema democratico deve affrontare nel tempo presente. Non ci sono soluzioni facili, ma esercitare la propria intelligenza critica per tentare di capire dove stiano i problemi e pur sempre un punto di partenza. Già Tocqueville metteva in guardia rispetto al rischio che la democrazia potesse degenerare in un “dispotismo mite”, che leva ai cittadini “il fastidio e la fatica di pensare.” L’obiettivo allora è andare oltre quella “dittatura del presente” di cui ha parlato il filosofo Salvatore Veca – ospite del primo incontro del 6 febbraio – che “scippa il senso della possibilità e riduce lo spazio dell’immaginazione politica e morale”, mentre avremmo “un disperato bisogno di idee nuove e audaci, che siano frutto dell’immaginazione politica e morale”.

Leggi l’intervista a Fiorenzo Baratelli
Visualizza il programma del ciclo “La democrazia come problema”

L’INTERVISTA
Roberto Guerra: “Il nuovo futurismo ha cuore, cervello e libertà”

Roberto Guerra, poeta futurista, futurologo e blogger, attivo tra Ferrara e l’Italia dagli anni Ottanta, è curatore, assieme a Antonio Saccoccio, di “Marinetti 70. Sintesi della critica futurista” (Armando, Roma, 2015), un testo che a settant’anni dalla morte di Marinetti, ma a un secolo di distanza dalla nascita del futurismo, ripensa alla figura chiave del movimento attraverso una raccolta di saggi e approfondimenti curati, appunto, da Guerra e Saccoccio.

I futuristi precursori e innovatori, cibernauti ante litteram e promotori di un nuovo gusto estetico, ma anche di un nuovo umanesimo fiducioso della creatività dell’uomo in tutti i suoi campi, dalla macchina alla pubblicità, come sono interpretati oggi nel 2015?
“Marinetti 70″ sintetizza l’attuale livello critico e operativo. Analisi eclettiche tra i bordi della storia dell’arte e del nuovo futurismo operativo: da un lato il paradigma strettamente estetico o estetico sociale, come gli interventi di Di Genova, Duranti, Prampolini, Ceccagnoli, Antonucci, la Barbi Marinetti, oppure Crispolti, Tallarico, Valesio, Conte, Bruni, dall’altro paradigmi dopo la scienza e internet. In ogni caso come fare anima o ‘brain’ nel mondo computer, registro di sistema condiviso, più o meno, da tutti gli autori.

Il futur-ibile di Marinetti potrebbe coincidere con il nostro virtuale? Intendendo virtuale come qualcosa che nasce dalla virtus e che qui ha la forza per diventare qualcosa…
I contributi dei vari Berghaus, Cigliana, Hajek, Carpi, Campa, Saccoccio in particolare per il focus italiano, rispondono verosimilmente. Noi futuristi o futuribili oggi parliamo di immaginario tecnologico, sistema operativo al passo con il divenire della conoscenza, forza di scienza controintuitiva rispetto all’infame buon senso ancora dominante, infatti il mondo è in crisi, per radicali cambiamenti sociali. Oltre lo shock del futuro o il complesso di Frankenstein, per dirla con Toffler e Asimov, se si vuole un umanesimo, anche post, estetico-scientifico del ventunesimo secolo.

Superando i travisamenti che ci sono stati della filosofia futurista che, in maniera riduttiva, hanno spesso equiparato i futuristi alla macchina, come possiamo spiegare la ‘sensibilità’ futurista verso un futuro desiderabile?
La macchina e i computer sono nuovi simboli della rivoluzione scientifica, industriale, informatica. Nell’Ottocento emersero Liberalismo, Socialismo e Positivismo, i primi due, storicamente dominanti, non funzionano più. Noi ripartiamo dal Positivismo ovviamente dopo l’evoluzione umanista della scienza contemporanea, da Einstein e Russell a Popper e Kurzweil. Oltre l’ideologismo storico, sottolinea con volontà di bellezza Giordano Bruno Guerri (altro celebre autore nel volume), con cuore-cervello-libertà… il sottoscritto.

Sappiamo che la pubblicità è legata ai futuristi. Lasciando da parte il marketing, com’è cambiato il messaggio pubblicitario che da espresssione di un movimento culturale, artistico e filosofico si è fatto, in certi casi, più ‘sensoriale’ ed ‘evocativo’? Penso alle pubblicità mute delle auto o dei profumi dove nessuna voce ci sta spiegando il prodotto, ma noi vediamo immagini o sentiamo una musica e immaginiamo.
Nella grande retrospettiva al Guggenheim di New Work del 2014, Vivien Greene ha descritto Marinetti come precursore di Andy Warhol: nel libro con riferimento a McLuhan, Gino Agnese suggerisce certa decifrazione. Il cosiddetto marketing e i file mitici sensuali sono sempre esistiti, dai segnali di fumo e la parola come medium ai satelliti e il wireless. La pubblicità oggi è arte elettronica. Oggi ne siamo vagamente consapevoli. L’uomo è animale economico, meglio tecnoeconomico, ma per fortuna sempre desiderante.

Roberto Guerra ha pubblicato raccolte poetiche, fantascienza e diversi saggi futuribili. Tra essi segnaliamo: Il futuro del villaggio. Ferrara città d’arte del 2000 (Liberty House, Ferrara,1991), Futurismo per la nuova umanità… Armando, Roma, 2012). Collabora con riviste (MeteoWeb.eu) e case editrici (La Carmelina). Cura il Laboratorio Letteratura Futurista per l’AIT (Associszione Italiana Transumanisti, Milano).

NOTA A MARGINE
Sei personaggi in cerca d’amore

Allegro non troppo, nei suoi cartoni malinconici dai tratti arrotondati e boteriani, quadrati nella loro mediocrità piena di spigolature, Antonio Albanese si presenta in scena al Teatro Comunale a lato di una valigia rossa che simboleggia il pane e le rose di tutte le sue creazioni, che propone nello spettacolo “Personaggi”.
Paura e amore, combinate in salsa mista.
Sempre alla ricerca di qualcosa che nessuno (nessuno?) dei suoi personaggi sembra trovare.

Non il normale impiegato che si occupa di “gestione dell’analisi integrata”, medio-man che si chiede in cosa consista il proprio mestiere, completamente avulso dalla nomenclatura degli odierni mestieri-domanda dove l’importante è ragionare politicamente e conformarsi, diventando – o aspirando a diventare – bravi cittadini, sino a giustificare qualunque bassezza o mediocrità, come strisciare verso una valigia cercando di capire cosa fare del pericolo e del fuori posto, costretto in un fuori gioco dalle inesistenti voci umane di call-centeriana memoria.
Non il Ministro della Paura, inquietante Frank N’ Furter calvo e ingessato in tight anni ’90 e occhiali scuri che ordisce i suoi piani a metà tra l’esaltato e l’impunito, nell’apologia totale di quel sentimento che offusca tutti gli altri e che regna sovrano, rielaborandola e vomitandola nella rigorosa distinzione tra “noi” e “altri” e che fa propria la frase “Date un bacio ai vostri bambini” diventa l’apocalittica “Raccontate ai vostri figli il ministro della paura”.

Non Ivo Perego, bauscia e imprenditore di se stesso (termine così à la page nel mondo lavorativo di oggi) che si scontra con la potenza cinese che gli compra i capannoni in puro eternit, da lui amati più del tossicomane figlio Manuel, e che si rimette altrettanto velocemente in piedi elaborando una nuova aristocrazia del male, fatto proprio il gattopardiano motto “cambiare per restare uguali”, e il cui unico pericolo personale è la noia – la stessa che divorava già, per altri motivi, i personaggi di Alberto Moravia. Non Alex Drastico e la sua disastrata famiglia dalle tonanti S finali, spontaneo e verace, uxoricida convinto e fiero dispensatore di imprenditoria mafiosa nel laborioso Nord, il mito finalmente raggiunto. Non Cetto La Qualunque con il suo arrogante politichese, re del neologismo de-mente, sostenitore della democrazia del pilu e dei favori pubblici e privati su cui si campa per ottenere il posto fisso, ma solo a tot euro al mese – “e non abbiamo dovuto inventare niente, di questo personaggio” sottolinea l’artista.

Quando arriva Epifanio con Valeriana, amore all’ingrosso, impetuoso e straordinario, cade un silenzio dolce; lui, un Fortunello di Petrolini timido e indifeso, cappotto e occhiali nerd, camminata veloce e ritmata, manda in sordina baci a un mondo che ha gli occhi puntati su una pianta di valeriana, inconsapevole del fatto che quel vegetale è l’unico a stimolare l’empatia di un uomo comune, disperatamente aggrappato al pensiero di lei (“anche se si ciula poco”), e all’unico momento in cui troviamo non l’amore per la paura, né per se stessi, ma il suo esatto contrario.

Francis Cabrel: legato ai miti della musica e al suo paese Astaffort

Francis Cabrel, nato nel 1953, è un autore e interprete francese, di origini italiane, famoso in tutte le nazioni francofone, dove ha venduto oltre 21 milioni di dischi (Francia, Quebec, Louisiana – Usa, Nord Africa, etc.).

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Francis Cabrel in concerto al Festival international de Louisiane in Lafayette

Sin da ragazzo si appassiona alle canzoni di Bob Dylan, l’autore che più di tutti ha influenzato la sua vita artistica. Il suo recente album “Vise le ciel” è interamente composto di canzoni del folk singer americano, tradotte e adattate in francese.
Cabrel ha iniziato la sua carriera grazie a un concorso radiofonico nel 1974, ma il successo è arrivato cinque anni dopo con l’album “Les Chemins de traverse” e il singolo “Je l’aime à mourir” (ripreso anche da Shakira). Altre sue canzoni famose sono “L’encre de tes yeux”, “Le mond est sourd”, “Les murs de poussière” e “La corrida”, dove descrive questa sanguinaria usanza vista dalla parte del toro.
Molto legato alle sue origini del sud non ha mai abbandonato Astaffort (2.137 abitanti), dove vive con la moglie e le tre figlie e dove, dal 1988, organizza un festival musicale che attira migliaia di appassionati di musica.
Nel 1992 Francis Cabrel fonda, sempre ad Astaffort, un’associazione che organizza stage per autori, compositori e interpreti di canzoni. Questi incontri riuniscono una ventina di giovani artisti che in due settimane devono scrivere una quarantina di canzoni, poi ne saranno scelte quindici per essere eseguite live nei locali del piccolo villaggio francese. Ogni anno un importante artista è chiamato a patrocinare questi incontri (Zaho, Maxim Le Forestier, Thomas Dutronc, Emily Loizeau) per aiutare, sostenere e consigliare i partecipanti.
Francis Cabrel non si allontana mai, nelle sue canzoni, da due perni fondamentali: la chitarra (acustica o elettrica) e le riflessioni sulla vita. La chiarezza della voce, le sofisticate melodie e la chitarra rappresentano il nucleo su cui si tesse il suo folk contemporaneo. I suoi brani si allineano, per qualità e originalità, a quelli dei grandi autori cui s’ispira: Bob Dylan, Leonard Cohen e Neil Young.

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La copertina della compilation ‘L’essentiel’

Tra i suoi album più interessanti: “Fragile” (1980) dove per la prima volta la chitarra elettrica sostituisce quella acustica, “Hors-saison” (1999), “Les beaux dégâts” (2004) innovativo per la presenza della sezione fiati, “Des roses et des orties” (2008) registrato nel suo studio-fienile in Astaffort, propone un mix di chitarra elettrica e acustica, questioni sociali e politiche espresse con raffinatezza, “Samedi soir sur la terre” (1994) e la compilation “L’essentiel 1977-1997”, indispensabile per chi vuole avvicinarsi alla sua opera.
Nel 2006, il cantautore francese ha collaborato alla realizzazione della colonna sonora di “Le soldat rose”, un’opera musicale scritta da Louis Chedid e Pierre-Dominique Burgaud, in cui Joseph, un bambino stanco del mondo degli adulti, decide di rifugiarsi in un grande magazzino per vivere con i giocattoli.
Cabrel, causa il perfezionismo che lo contraddistingue, fa passare lunghi periodi tra un album e l’altro, intervallati da tournée (in Francia ricordano ancora i 10 recital consecutivi all’Olympia di Parigi nel 1999) e relativi dvd, una vita dedicata alla musica ma anche alla famiglia e alle opere umanitarie.

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Francis Cabrel e la chitarra, binomio indissolubile

Testo tratto dal brano “Des roses et des orties”: “Vers quel monde, sous quel règne et à quels juges sommes-nous promis? A quel âge, à quelle page et dans quelle case sommes-nous inscrits ? Les mêmes questions qu’on se pose, on part vers où et vers qui? Et comme indice pas grand chose des roses et des orties…”.

Il videoclip live “Je l’aime à mourir” [vedi]

Grazia Scanavini, eros femminile in 3G

“La ragione dei sensi” (RL Gruppo editoriale, collana Erosà pizzo nero, 2010) di Grazia Scanavini, è brillante e intrigante romanzo soft erotico, percorso semi-inedito nel panorama ferrarese.
Pagine quasi di apprezzabilissima Leggerezza del Piacere, echi dannunziani al femminile ben modulati e minimalizzati. Libro con cui l’autrice ha vinto il Premio Fiuggi 2011.
Una parola sensuale, mai trash o morbosa, al contrario la dimensione esistenziale nella sua fondamentale variabile e complementarietà della Pelle come Anima, fatale gemma della condizione umana; una particella femmina che canta il cosiddetto neurone G.
Non ultimi, chiaramente nel focus, input sia della miglior psicanalisi, alla Lou Salomè, il sesso come amore e conoscenza, sia, pur in ambito squisitamente narrativo, scorrevoli e fluidi: quasi certa primavera dei sensi in discretissimo abito della stagione dei cuori, l’erotismo sempre umanissimo e terrestre di una Barbarella science fiction cinematografica o la Valentina pop di Crepax ma più paradossalmente monogama. E nessun déja vu sociofemminista rivendicativo: piuttosto le parole come vertigine desiderante.
Grazia Scanavini successivamente è diventata fortemente operativa a Roma Capitale con l’Associazione culturale SensualMente dalla scrittrice curata. Da segnalare diversi eventi di chiara ampiezza e altitudine nazionale, dedicati all’erotismo letterario e culturale in genere. Ad esempio (dicembre 2013) nello spazio espositivo Visiva di via Assisi, con il noto regista Marco Spagnoli, regista e critico cinematografico, Rino Bianchi, fotogiornalista, il Professor Pietro Boccia, scrittore e docente di filosofia e sociologia, Francesca Bellino, giornalista, scrittrice, Stefano Laforgia trainer internazionale di Kinbaku. Ulteriormente spiccano eventi nel 2014 con la Poetessa Patrizia Portoghese, con il celebre e conturbante Franco Trentalange [vedi] e ‘EroticaMente’ [vedi], premio letterario nazionale della Narrativa Erotica, presieduto dall’editore Giancarlo Borelli.

Per saperne di più la recensione del libro “La Ragione dei sensi” [vedi] e l’intervista all’autrice [vedi].

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition-La Carmelina ebook [vedi]

IL PROGETTO
Buoni propositi da realizzare?
Arriva Ferrara Mia

Maglioni di lana grossa della nonna e lievi maglioncini di cachemire; capelli rasta e frangette fresche di parrucchiere. E’ curioso vederli tutti insieme. La sera di giovedì scorso su scalinate e banchi della sala del consiglio del Municipio di Ferrara si alternano rockettari e boy scout, signore dell’oratorio ed elettricisti con la passione per le farfalle, giovani coi capelli rasta e aristocratici giardinieri, studenti dell’istituto geometri e nonne tuttofare, i gruppi d’acquisto solidale e il gruppo dei “fruttiprendoli”, un ragazzo dal viso orientale e una coppia di giovani maghrebini.

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Tavolo con logo di Ferrara Mia (foto di Stefania Andreotti)

A mettere uno accanto all’altro persone, idee e pensieri così diversi ci riesce il progetto Ferrara Mia. Un’iniziativa piena di buoni propositi che può essere bella già per il nome; riecheggia sì quello di un’azienda di servizi, ma per mettersi in contrapposizione con il concetto di società per azioni che – a pagamento – fa qualcosa per te. L’idea di base è che la persona stessa fa qualcosa, non qualcun altro delegato per lei. E quel qualcosa che fa, lo fa per sé e per gli altri, per una città che è la propria e non un affittacamere da cui si alloggia e a cui si chiede di ammobiliare la propria esistenza.
Riesce bene a spiegare che cosa si intende per “Ferrara Mia” il sindaco, Tiziano Tagliani. Che con piglio deciso, senza appunti né canovaccio, si accalora a dire: “La città è un bene comune non perché c’è un sindaco, un assessore o una società che ha vinto una gara d’appalto. La città è così perché è nostra; per il capitale sociale, culturale e di educazione civica che è capace di mettere insieme. Una città che ha subito degli scossoni, come quello del terremoto ma anche della morte di Federico Aldrovandi di cui ricorre quest’anno il decennale. Ora serve uno scossone in positivo, uno scossone che vada anche a infrangere un sistema di difesa, che a volte blocca le inziative buone, i tanti suggerimenti che arrivano dai cittadini per fare e migliorare, le tante iniziative piene di una creatività produttiva che meritano di essere promosse. Una città che può essere ancora più straordinaria se ce ne riappropriamo, se raccogliamo le lattine abbandonate anziché salire in casa a cercare il numero di telefono della società incaricata di spazzare, se facciamo conoscere e valorizziamo tante pratiche belle e spontanee come quelle della ‘social street’ di via Pitteri o dell’uomo che piantava gli alberi nel parco dell’Amicizia”.

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Area verde pubblica compresa fra il quartiere Barco e via Padova

E da qui, nella sala del consiglio comunale, inizia il bello, con le facce immortalate dall’obiettivo di Stefania Andreotti. Una sfilza di interventi e proposte, che sono il sale del territorio. Le sorelle Elena e Serena Maioli con Giovanni Oliva parlano del Progetto Combus che coinvolge maestre, bambini e famiglie per cercare di aiutarli ad abbellire le aree verdi vicine a otto scuole cittadine. Il gruppo scout di Ferrara 3 legato alla parrocchia di Santo Spirito, che vorrebbe prendersi cura di piazza Ariostea. Marcello Guidorzi, che descrive il progetto della cooperativa sociale di integrazione lavoro per impiantare un “bosco alimentare” con alberi da frutta e arbusti negli spazi del Fienile di via Raffanello a Baura (tra via Copparo e via Pontegradella). La signora Fergnani che sogna di fare migliorie al parchetto dove va coi nipoti, vicino a via Boschetto, mentre Fabrizia Bovi parla del garage dove raggruppare sporte di acquisti più equi e solidali per gruppi di famiglie felicemente accasate intorno a viale Krasnodar. Federico Di Marco, dell’associazione Ultimo Baluardo, che pensa a edifici vuoti da riqualificare per dare spazio a giovani musicisti o a persone di qualsiasi età in cerca di luoghi dove fare cultura. Carlos Dana del comitato disabili, che applaude all’idea di appianare regole e cartelli, che troppo spesso rendono ancora più difficoltoso il percorso a ostacoli di chi si trova impigliato in mille barriere.
I tempi per informare, promuovere e realizzare i tanti desideri e buone volontà che i cittadini hanno in testa, li ha indicati la portavoce del sindaco, Anna Rosa Fava: sei mesi da adesso a giugno 2015 con 20mila euro a disposizione. I fondi arrivano da uno stanziamento della Regione, che premia il progetto di Ferrara come il secondo più meritevole in Emilia-Romagna e unisce finanza pubblica (11mila euro) e sponsor privati (9mila euro).
A Ferrara Mia si può partecipare, condividere esperienze e magari inserirle nella mappatura o tra le attività di progetto. Info all’Urban Center (tel. 0532 419297), sul sito di Urban Center e su CronacaComune.

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Studente dell’Istituto geometri Aleotti (foto di Stefania Andreotti)
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Carlos Dana del comitato disabili (foto di Stefania Andreotti)
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La signora Fergnani (foto di Stefania Andreotti)
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Studentessa dell’Istituto geometri Aleotti (foto di Stefania Andreotti)
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Alessandro Fortini, presidente dell’Ente Palio di Ferrara (foto di Stefania Andreotti)
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Maestra della scuola Aquilone (foto di Stefania Andreotti)
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Fabrizia Bovi per il Gas di viale K (foto di Stefania Andreotti)
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Federico Di Marco dell’associazione Ultimo Baluardo (foto di Stefania Andreotti)
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Marcello Guidorzi parla del progetto di piantare un “bosco alimentare” (foto Stefania Andreotti)
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Manfredi Patitucci, paesaggista, che ha piantato gli alberi del piccolo bosco cittadino a Barco (foto Stefania Andreotti)
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Gaia Lembo accanto a Marcello Guidorzi (foto di Stefania Andreotti)
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Maria Lodi del centro sociale La Resistenza (foto Stefania Andreotti)
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Maria Giovanna Govoni dell’associazione Basso Profilo (foto Stefania Andreotti)
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Ragazzi di Sonika (foto di Stefania Andreotti)
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Una ragazza del gruppo scout di Santo Spirito (foto di Stefania Andreotti)
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Ercole Folegatti e Elena Maioli del Progetto Combus (foto di Stefania Andreotti)
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Le ideatrici del Progetto Combus (foto di Stefania Andreotti)
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Gruppi coinvolti nel progetto (foto di Stefania Andreotti)
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Sala del consiglio del Comune di Ferrara affollata per la presentazione di Ferrara Mia (foto di Stefania Andreotti)
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Tavolo con logo di Ferrara Mia (foto di Stefania Andreotti)

LA RIFLESSIONE
Quando i fiori sfidano il cemento

Tre cose ci sono rimaste del Paradiso: le stelle, i fiori e i bambini.
I fiori non guardano ai confini, ai luoghi in cui crescere, ai cieli sotto i quali stare, ai volti che li ammirano, alle mani che li coglieranno. Se il muro intorno a loro è bucherellato dalle pallottole, istintivamente e quasi maternamente, cercheranno di coprire quei fori, di nasconderli agli occhi dei bambini. Se il muro è bianco, sfodereranno i loro colori potenti e intensi per esaltarne la chiarezza. Se il muro è scuro, sbocceranno bianchi e immensi, per farsi notare, svettando, sicuri e forti, verso il nitido cielo azzurro. Se è antico, ne esalteranno la storia, se è moderno e vuoto lo riempiranno festosamente, adornandolo di tenui boccioli delicati.
I fiori profumano le strade, qualunque esse siano, ovunque si trovino. Spargono petali nell’aria leggera, avvolgono gli asfalti duri, provati e calpestati da orme che, diligenti, sfilano verso l’ignoto.
Non fanno caso al profumo del pane appena sfornato o all’odore acre di una serpentina di fumo che, improvvisa e inquietante, sbuca da un edificio. Non distinguono la mano che li coglie da quella che li strappa. Purtroppo. Non comprendono cattiveria e odio, anche se le sentono, le percepiscono, tremando nelle loro foglie di un verde intenso quanto gli occhi di una dolce e bella sirenetta delle favole.
I fiori vivono, il loro profumo intenso arriva, come una tempesta di mare, nella vita di coloro che gli passano accanto, che li guardano, estasiati, anche per un solo e fugace momento. Quelle creature divine sono lì per riscaldare gli animi tristi, per cullare i pensieri che vogliono prendere il volo e, spesso, scappare lontano. Per non farci dimenticare che la vita è bella, che può essere meravigliosa, che il destino può essere inclemente ma che possiamo almeno provare ad accompagnarlo e a guidarlo verso il bello. I fiori sono fatti per essere accarezzati, come la testa delle persone amate che dormono.
Belli questi fiori, allora, fiori di una città calda sulle sponde del Mediterraneo che ho amato e amo ancora molto. Una speranza in più?

Fotografia di Simonetta Sandri, Tripoli, 2012

Per la ‘signora Ada’ e gli altri assenti, audio e foto di Ferrara vs Ferrara…

Il dibattito sugli interventi da realizzare per migliorare la vivibilità di alcune aeree urbane cittadine prosegue, anche su impulso delle recenti iniziative. Pubblichiamo qui l’audio integrale e una galleria di immagine relative all’incontro “Ferrara vs Ferrara, le controverse proposte per la rinascita della città estense”, organizzato da Ferraraitalia, che si è tenuto lunedì in biblioteca Ariostea.
Il resoconto del dibattito è disponibile sulle nostre pagine web. Per leggerlo cliccare [qua]

 

Ferrara vs Ferrara (prima parte: introduzione, grattacieli, canale Panfilio)

 

Ferrara vs Ferrara (seconda parte: Giardino duchesse, corso Martiri, conclusioni)

 

Il pubblico di Ferrara vs Ferrara
Sergio Gessi
Il pubblico e Stefania Andreotti impegnata nelle riprese video
Andrea Cirelli
Il pubblico durante il dibattito
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Sergio Fortini
Giovanni Fioravanti (a destra, con Andrea Vincenzi e Sergio Gessi
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Giorgia Pizzirani, Sara Cambioli e Sergio Gessi
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Il pubblico durante una votazione
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Raffaele Mosca
Gianni Venturi
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Elettra Testi
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Andrea Poli con Andrea Vincenzi
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Il pubblico presente in biblioteca con Andrea Cirelli e Alessandra Chiappini in primo piano
Sara Cambioli e Sergio Gessi
Giorgia Pizzirani con sara Cambioli
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Gianni Venturi
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Fausto Natali

Il grattacielo

Pronto, Ada, oggi debbo proprio sgridarti perché non vieni mai alle assemblee e alle manifestazioni che si organizzano per rendere Ferrara ancora più bella. Io è un pezzo che partecipo e ne ho tratto grande giovamento. Prima di tutto ho imparato che manifestare in visone è un tantino disdicevole e, allora, mi sono fatta una serie di cappottini in velluto a costa larga finto povero che sono un amore. Oddìo, mi sono costati una fortuna ma non importa: il velluto a costa larga è di sinistra. La prima zona da risanare presa in esame è stata quella del grattacielo, pensa che se n’è occupato il sindaco in persona, ha chiamato Modonesi… (non sai chi è Modonesi?, l’assessore ai Lavori pubblici, un bel giovanotto, ma anche il sindaco non è mica male, con quelle chiome bionde alla Melozzo da Forlì). Dunque, non farmi perdere il filo, il baldo giovanotto e Melozzo da Forlì discutono un po’ tra loro e poi decidono di convocare d’urgenza una Giunta. I pareri sono tanti e talora discordi, ma da ultimo la Giunta delibera: per risanare la zona è necessario dipingere il grattacielo, già ma di che colore? Questa volta viene convocato in seduta straordinaria il Consiglio comunale e si decide che il grattacielo sarà bluette. Ma si – dicono entusiasti i consiglieri – quel bel blue pentola, meglio se lucido, diamogli una mano di smalto, urla a gola spiegata l’assessora architetta, vado io stessa a comperarlo al brico che costa meno. Così il grattacielo sembrerà davvero una pentola ed evocherà l’idea di passati di verdura profumati e di golose zuppe di fagioli, altroché eroina!
Cara Ada, come dicono fanno: il grattacielo è ormai una incontrovertibile pentola, ma le cose non migliorano. Altro iter deliberativo, prevale una decisione ardita: per risanare la zona il grattacielo-pentola non è sufficiente, bisogna pitturare gli abitanti e che spariscano per sempre le diversità etniche e sociali, fatte salve le sacrosante differenze di sesso. Detto fatto: si inviano tecnici al reparto grandi ustionati di Padova, dove la pelle non soltanto la colorano ma la creano di sana pianta. Si procede alla bisogna. La notizia che in una zona di Ferrara si dipingono tutte le persone dello stesso colore fa il giro del mondo. Arriva un messaggio di Salvini: “A morte i clandestini”, arriva un messaggio di Renzi: “Purchè sia salvo il patto del Nazzareno!”Ma c’è un negretto, un senegalese bello come il sole, che il suo colore proprio non lo perde. Per quanto l’assessore all’ambiente ripassi il pennello intinto nella biacca, le carni del senegalese rimangono d’ambra scura. Allora, sindaco, assessori e consiglieri si arrendono: “Non siamo mica noi i razzisti, è lui che è nero”.

L’EVENTO
Un ferrarese con Soldini alla conquista degli oceani

C’è anche il ferrarese Andrea Fantini nell’equipaggio della Maserati di Giovanni Soldini in partenza in questi giorni per un intenso anno di prestigiose regate e sfide ai record sulle rotte oceaniche. Il primo appuntamento è la RORC Caribbean 600 Miles Race, che inizia il 23 febbraio da Antigua, nei Caraibi e l’ultimo sarà la celebre Rolex Sidney-Hobart Yacht Race, 628 miglia nautiche in condizione estreme.
Ma come c’è finito questo intrepido trentaduenne a bordo della barca più importante d’Italia? Glielo abbiamo chiesto mentre stava ultimando i lavori di cantiere prima di prendere il mare.

“Ho iniziato ad andare in barca da piccolo. Quando sono nato, i miei genitori avevano già una barca quindi io e mia sorella abbiamo iniziato prestissimo. Crociere in Adriatico, niente di che, ma credo che già all’epoca la passione per il mare abbia iniziato a farsi sentire. Poi mi sono laureato in farmacia, ma da quando ho iniziato l’università ho cominciato a navigare più seriamente e a viaggiare in continuazione”.

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“Appena mi sono laureato, da “uomo libero”, sono partito per mare, ho navigato tanto, dappertutto, passando da una barca all’altra, sempre prediligendo le regate e le barche da corsa, in particolare le barche da regata oceanica in solitario, perché quello è sempre stato il mio sogno. In particolare il Vendee Globe, il giro del mondo in solitario senza scalo e assistenza, ma questa è un’altra storia, per ora ancora molto lontana.
Dopo un po’ di tempo che continuavo a navigare sulle barche di altri ho iniziato a cercare uno sponsor che mi permettesse di affittare un class40 (barca da regata oceanica) e di partecipare alle regate della stagione 2011, in particolare alla Transat Jacques Vabre. Dopo alcuni mesi di ricerca, il sogno si è realizzato. Una piccola azienda ferrarese, Studio Energia, specializzata nel settore delle rinnovabili, ha deciso di supportare il mio progetto, così il 2011 è stata la svolta della mia vita velistica diciamo. Sono stato sponsorizzato per più di un anno, potendo così partecipare ad importanti regate, tra cui appunto la Jacques Vabre, regata con due persone di equipaggio che va dalla Francia al Costa Rica. Quindi il 2011 lo considero il mio primo anno da professionista”.

“E’ una passione, e in quanto tale è difficile spiegarne le cause, comunque ci sono alcuni fattori che mi hanno spinto a farne un lavoro, come la libertà che si prova ad attraversare l’Oceano, ad essere migliaia di miglia lontani da terra, ad avere bisogno solo di mangiare, dormire e coprirsi. Il fatto che la vela ti porta a viaggiare per il mondo, in modo pulito, a conoscere popoli e culture diverse, conoscere gente nuova, instaurare forti amicizie. Poi ci sono le regate, e quindi la competizione, che per me è alla base di ogni sport, io non potrei farne a meno”.

“Nel 2013 ho incontrato Soldini per caso a Genova, gli ho chiesto se aveva bisogno di gente, mi ha fatto fare qualche giorno su Maserati in Cina, e da lì non sono più sceso. Sono con loro da un annetto più o meno. Lavorare con Giovanni è fantastico, ogni giorno impari qualcosa, d’altra parte ha vinto due giri del mondo in solitario, un motivo ci sarà…non puoi far altro che rubargli più cose possibile! Poi anche gli altri ragazzi del team sono grandi professionisti, da ognuno impari qualcosa”.

“La mia vita non è cambiata, giravo tanto prima e giro tantissimo adesso. E’ un impegno notevole, non vivo mai per più di un mese nello stesso posto, si passa da un Oceano all’altro, da un continente all’altro, è difficile quindi avere dei legami stabili. Ma è bello così, arriverà un giorno il momento di rallentare, ma è ancora lontano.
A terra ci sono periodi di cantiere, in cui si lavora per preparare la barca alle future regate e navigazioni, a bordo faccio un po’ di tutto. Quando fai lunghe navigazioni devi essere in grado di riparare tutto quello che si rompe, non si può sapere tutto, ma in qualche modo devi risolvere i problemi che regolarmente arrivano. Poi ogni secondo libero lo passo a cercare gli sponsor per il mio progetto”.

Nonostante i risultati raggiunti, Andrea si ritiene “anni luce” lontano dall’apice della sua carriera.

“Devo imparare ancora tantissimo. Ho un mio personale progetto, che prevede la mia partecipazione alle più importanti e mitiche regate oceaniche al mondo, come la Transat Jacque Vabre, la Route du Rhum, la Ostar, e un giorno, forse, il Vendee Globe!”.

Con dei sogni così e il mare davanti, non si può che stringersi attorno ad Andrea e tifare Maserati e un po’ anche Ferrara.

LA RIFLESSIONE
Etica della responsabilità, un bisogno latente

Bisogna educare alla responsabilità i giovani, prima che diventino grandi e sordi. Partirei da questa affermazione per esprimere qualche concetto in libertà.
Introdurre il termine etica implica molti altri concetti che regolano i criteri d’azione, i principi, i comportamenti di ognuno di noi, quindi costituiscono lo sfondo dei nostri comportamenti quotidiani. Che cosa sto facendo? Come lo sto facendo? Spinto da quale istanza? E per quale scopo? Che cosa debbo fare? Perché lo faccio o lo debbo fare? Che senso ha il mio agire? E’ evidente che l’etica contemporanea deve fare i conti con il problema del senso, del perché, della motivazione. Ciascuno trova in se stesso la motivazione del proprio agire. Il termine responsabilità è legato al verbo rispondere, in particolare rispondere a qualcosa o qualcuno e rispondere di qualcosa o qualcuno. Max Weber ha sviluppato molte riflessioni sull’etica della responsabilità (verantwortungsethik) affermando che sulle spalle dell’uomo viene addossato il peso della decisione e dell’azione. Per Weber l’uomo appare stretto tra il dominio dell’economico e del tecnologico, da un lato, e dall’altro un mondo etico che nel suo complesso potrebbe apparire un mondo irrazionale.
In fondo, molto spesso ci sentiamo deresponsabilizzati di fronte a ciò che riteniamo non dipenda da noi, ma molte altre volte rivendichiamo la nostra responsabilità per tutto ciò che crediamo di poter fare. Così, da una parte ci sentiamo responsabili di ciò che è in nostro potere, ma dall’altra spesso attribuiamo ad altri le nostre colpe. Ci si esime così dalle proprie responsabilità. Anzi, si potrebbe anche aggiungere che, poiché la risoluzione di alcuni problemi può risultare conflittuale rispetto all’ordine della legalità, ci avvaliamo di principi in cui come sovraordinata vi è il livello morale.
Fra etica e morale ci deve essere un sano rapporto di confronto perché non sono sinonimi. Generalmente l’etica sta sopra la morale, perché ne indaga le mutazioni nel tempo e nei differenti ambiti socio-culturali; ma sta anche sotto la morale, quando i precetti devono essere tradotti e codificati in una disciplina azione, quella che chiamiamo deontologia. Anzi talvolta sono in conflitto poiché l’etica ha assunto una connotazione laica e immanente, mentre la morale continua a concepire se stessa come assoluta e immutabile. E questo lascia libero spazio alla dialettica.
Sono questioni in cui, talvolta inconsapevolmente, ogni persona civile s’imbatte, e che oggi mi è venuto voglia di proporre rileggendo i miei appunti raccolti dalle preziose lezioni del professor Sergio Gessi di Etica della comunicazione, facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara (il corso riprenderà il 25 febbraio 2015).
Sono consapevole che questo può innescare divergenza di opinioni (anzi mi auguro di promuovere un dibattito) perché, a differenza della scienza, che ha a che fare coi fatti, si introducono opinioni che non sono assolute e immutabili. Per fortuna la filosofia si occupa di valori. Con il concetto di etica della responsabilità, comunque, si entra nel sistema dei mezzi e dei fini, con le relative conseguenze. Inevitabilmente, viene facile il richiamo all’azione politica di cui l’etica dovrebbe essere il primo luogo della responsabilità, in quanto riguarda la qualità dei fini che si perseguono.
In fondo, come dice Erving Goffman nel suo libro “La vita quotidiana come rappresentazione”, la vita quotidiana è una rappresentazione, in cui l’individuo interpreta una parte in buona fede (onestamente) senza speculare sugli effetti o strategicamente, cioè in maniera consapevolmente pianificata al fine di ottenere dei vantaggi. La facciata è l’equipaggiamento espressivo che si impiega intenzionalmente o involontariamente durante la propria rappresentazione. Possono venire in mente molti politici con grandi qualità teatrali nella rappresentazione e nel controllo dell’espressione, ma lo stesso accade comunemente nelle vicende di tutti i giorni. D’altronde, ogni individuo accentua certi aspetti e ne nasconde altri per cercare di avere il controllo della scena. Serve, invece, riappropriarci del senso autentico della partecipazione come valore sociale. Oltretutto, il coinvolgimento procura legittimazione (e viceversa) e di conseguenza non è nemmeno necessario imbrogliare!

Kevin, un ritorno al western da Oscar

Per Kevin Costner, protagonista ed esordiente alla regia con ‘Balla coi lupi’, premiato nel 1991 con sette Premi Oscar, arrivano i 60 anni. Faccia da bravo ragazzo, idolo di molte donne (ora come allora) e fautore del ritorno del genere western a Hollywood, scopriamo che il nome originario della sua famiglia è Koster, lo stesso del generale Custer, ma anche che il bisnonno tedesco lo trasforma in Costner dopo aver sposato un’indiana Cherokee. Un’origine che ritorna, radici che riemergono, che si fanno sentire con forza e intensità. Sangue indiano nelle vene, dunque, per l’attore che nasceva a Lynwood, in California, il 18 gennaio 1955, figlio di un’assistente sociale e di un operaio e che, nel 1990 presentava al pubblico un film nella e sulla natura, avvolto dalla bellezza della storia e delle tradizioni di tribù indiane americane.

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La locandina

Nel 1864, infatti, durante la guerra di secessione americana, in seguito a un atto eroico compiuto in guerra, il tenente John Dunbar (Kevin Costner) viene mandato in un forte sperduto nella prateria. Immerso e affascinato dalla natura che lo circonda, incontrerà una tribù Sioux e diventerà uno di loro, scoprendosi un uomo nuovo (e l’amore).

Il film è una splendida celebrazione di un incontro fra un uomo straordinario e gli Indiani d’America, gente eccezionale e saggia, con John che è un soldato, ma mai spregiudicato, violento o conquistatore. E’ un uomo alla scoperta di sé stesso, affascinato dalla natura e predisposto al dialogo, gentile e volenteroso.

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Una scena del film

L’amicizia con il cavallo Sisko e con il lupetto ‘Due Calzini’ commuovono sempre. Il suo lato nobile e sensibile non sfugge ai Sioux, e specialmente a ‘Uccello Scalciante’, saggio della tribù, che vede in lui un uomo atipico, con cui vale la pena parlare. Il giovane e irrequieto ‘Vento Nei Capelli’, invece, diffida del bianco e lo deride, ma anche lui capirà e diventerà grande amico di John. In un conoscersi poco a poco, fra gli indiani e John nascerà un rapporto unico, intenso, che porterà il protagonista ad abbandonare la sua vecchia vita per aggregarsi a loro, dai quali imparerà perfettamente la lingua e le tradizioni. Siamo nell’altrove, lontani, immersi sono dalla bellezza dei suoni lontani e vicini della natura e delle relazioni umane sincere e profonde. Un’estrema avventura tra estreme frontiere. Un mondo che non si vede ma che si sente. L’altro che diventa noi.
Bella e coinvolgente la sequenza della caccia ai bisonti, stupende la fotografia, la musica e la voce narrante per tutto il film, quella di John che racconta e scrive su un diario la storia della sua straordinaria esperienza. Incanto. Nostalgia senza fissa dimora.

“… come accade all’uccello migratore che nel suo volo non si accorge delle frontiere che attraversa”. Herman Melville, Billy Budd

Balla coi Lupi, di e con Kevin Costner, Graham Greene, Mary McDonnell, Usa 1990, 220 mn.

L’OPINIONE
Eleganza e politica

Con l’inasprirsi della contesa politica, l’immaginario verbale degli addetti ai lavori si restringe e metafore, simboli, allusioni si concentrano ancora e soprattutto sulle poche parole che sembrano reggere alla velocissima usura a cui sono sottoposte.
In prima linea rimane e impera la parola principe “culo” nelle sue varie e molteplici varianti: dall’elegante ma un po’ vecchia definizione di papa Bergoglio “là dove non batte il sole” all’intramontabile “vaffan…” usato indifferentemente da tutti gli schieramenti politici, nonostante la indubitabile premazia grillina, naturalmente raccolto e adattato alle esigenze italiote dall’intramontabile espressione anglo-americana, “fuck”, accompagnata dal dito medio alzato. Anzi, direi che è frequentata con entusiasmo proprio da coloro che per le loro scelte sessuali dovrebbero sentirsi offesi da un simile invito.
In mezzo corrono, anche se un po’ smorzate se non icasticamente rilevate, locuzioni come “cul de sac” o la meno frequente “parlare con la bocca a culo di gallina”, corretta traduzione dell’immortale e tipicamente francese “cul de poule”.
Ma sono le funzioni scatologiche (eh sì! correte a controllare sul vocabolario che è sempre un utile esercizio) che trionfano. Il primato spetta allo straordinario “Merdinellum”, neologismo strepitoso e di finezza ineguagliabile proposto dal senatore della Lega Stefano Candiani per definire l’emendamento Esposito, a cui l’informatissimo Filippo Ceccarelli su La Repubblica accoppia il termine “tafazzismo” che mi ha obbligato a ricerche sulla rete e che qui riporto integralmente: “Tafazzismo” è un neologismo che nasce negli anni Novanta ed è sinonimo di “masochismo”. Tafazzi è un personaggio comico interpretato da Giacomo Poretti: è vestito con una calzamaglia nera e un sospensorio bianco. Si colpisce le parti intime con una bottiglia, ricavandone piacere e intonando una melodia tratta dalla canzone klezmer “Gam Gam”, del film “Jona che visse nella balena”. Da allora capita sovente che si parli di “tafazzismo” quando si vuole indicare una pratica dolorosa autoinflitta.
Come si può capire non è proprio un “bel dire”, anche se la storia della Repubblica italiana in certe svolte storiche ha reagito con violenza ancor maggiore a passaggi epocali, ma quel che in questo momento sconcerta è la piatta adesione naturalistica all’escremento e ai canali del corpo umano interessati. Ben commenta Ceccarelli: come a scuola, come allo stadio.
Che la cultura dello stadio diventi dunque fondamentale per la lotta politica molto dice sull’elevato senso di responsabilità e di dignità proprio ai rappresentanti del popolo, in tutte le varianti dell’arco costituzionale o anche al di fuori di esso. Il grandissimo Crozza potrà nutrire la sua insostituibile satira per mesi o forse per sempre.
Altro segno di un mediocre ripiegamento dei segni corporali della politica le ‘mises’ dei parlamentari e senatori. Tramontati alla buon’ora gli sciarponi alla Renato Brunetta, ora si usano sciarpette anguilliformi attorcigliate ai colli non avvenenti di maturi politici (Orfini?). Sempre indice di un’interpretazione stile ‘mauvais gôut’, i grandiosi stilemi del senatore Calderoli: barbetta incolta (che si potrebbe declinare nelle due versioni – vocabolario!!! – incòlta o incólta); occhiali bicolori, pochette verde-lega, formale giacchetta – a volte doppio petto – su blue jeans molto usurati. Incommentabili le tute e i maglioni di Salvini. Resiste ancora il vestito ‘intero’ impiegatizio di Bersani o l’imponente doppio petto berlusconiano che viene allacciato con aria sopraffina tutte le volte che l’ex cav. scende dalla macchina. In mezzo a questi segni d’eleganza maschile, dove si distingue lo stile sobriamente adatto alla bisogna di Dario Franceschini, impazzano le giustamente notabili scelte delle signore della politica. Ridimensionata la borsa gigantesca tenuta al braccio col segno dell’ombrello, resistono i tacchi 12, gli abbinamenti giacchetta-pantaloni, i vestiti da sera indossati alle sedute delle sette di mattino o scollature generose, come quella esibita dalla ministra Pinotti a confronto con madame Le Pen nella trasmissione “Di martedì”, dove la suprema eleganza della francese risaltava in uno straordinario cappotto che imitava con tutta l’esperienza della couture francese una divisa militare ricca di pellami e di tasche.
La più elegante per me? Naturalmente la Rosy Bindi con i suoi vestiti da casalinga toscana; a seguire l’acconciatura della ministra Marianna Maida evocante prati fioriti e situazioni pre-raffaelite.
Dell’esasperazione modaiola del premier troppo ho già detto. Insomma! Se volessimo concludere questo scherzo fatto in modo di “ragionar per isfogar la mente” (sì! il solito Dante…) allora quale conclusione dovremmo trarre?

Che la ‘mediocritas’ politica non è sempre aurea.