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LA RIFLESSIONE
Come a Natale sugli alberi le palle

Quinto o sesto Natale di crisi, si legge un po’ ovunque, come se invece di crisi fosse guerra. Certamente in quest’anno che sta per finire le difficoltà per molti italiani sono aumentate, ma bisogna dire che nel suo insieme e contrariamente alle profezie di tanti commentatori a fine 2013, il Paese continua a tenere. Certamente non potrà farlo in eterno, ma si tratta comunque di una notizia positiva, perché durante le crisi spesso ci si deve accontentare di gioire per ciò che non succede.
Tende invece purtroppo a crescere il pessimismo, quello di chi ha ormai perso fiducia nella propria capacità di risolvere i problemi. Al di là delle tante e ben precise responsabilità, che ciascuno dal proprio punto di vista crede di poter individuare e che comunque senz’altro esistono, mi pare che questo stato d’animo diffuso sia una conseguenza della fase che stiamo attraversando. Le società infatti tendono a reagire alle difficoltà in modi diversi a seconda di quanto gli effetti che queste provocano siano più o meno gravi e pervasivi. All’inizio e finché, appunto, il tessuto sociale rimane sostanzialmente integro tendono a prevalere reazioni di tipo individuale o al massimo circoscritte allo stretto ambito famigliare; sono comportamenti difensivi, che hanno come obiettivo quello di preservare il proprio stile di vita e lo status sociale, e che si caratterizzano per l’innalzamento delle barriere nei confronti del mondo esterno: aumentano perciò la diffidenza, la paura del diverso, l’ostilità nei confronti dell’immigrato che “ruba il lavoro”, la sfiducia generalizzata nelle istituzioni. Prevalgono il sentimento di “caccia ai colpevoli” e la convinzione che con poche e semplici mosse si possa superare l’impasse. E’ questo un perfetto brodo di coltura per movimenti politici che si ispirano alla xenofobia ed al razzismo e fanno del populismo giustizialista più sfrenato il loro principale strumento di propaganda. Anche il “ripiegamento animalista”, che individua nelle bestie gli esseri viventi in cui riporre la maggior fiducia, mi pare un sintomo caratteristico di questa fase.
Solo quando le crisi producono effetti così devastanti da annullare in gran parte le differenze sociali, fra le persone inizia a farsi strada la solidarietà ed a livello sociale e politico tendono ad affermarsi quelle forze che vi si ispirano maggiormente. Senza voler andare all’ultimo dopoguerra, credo sia emblematico quanto successo in Grecia nel breve volgere di pochi anni: dalla crescita apparentemente inarrestabile di Alba Dorata al favore sempre maggiore nei confronti di Syriza. Mentre nella fase precedente prevale un istinto di tipo conservatore, che respinge l’idea che la crisi possa avere una natura sistemica e anche quando intravede la necessità di cambiamenti li colloca sempre al di fuori del proprio ambito esistenziale, in questa l’attenzione è più rivolta alla necessità di ricostruire, possibilmente su basi diverse, e al futuro.
Riuscire a far nascere e ad alimentare questi sentimenti, senza dover per forza raggiungere lo sfacelo economico e la completa disgregazione sociale, è l’obiettivo che dovrebbe stare a cuore ad ogni persona di buona volontà, anche al di là delle specifiche ricette per uscire dalla crisi che ciascuno auspica.
Conclusione questa, mi si potrà dire, molto ecumenica e “natalizia”. Forse, tuttavia mi pare che quello che stiamo attraversando sia uno di quei momenti che chiede a tutte le persone responsabili uno sforzo che tenda ad unire più che a dividere ed a cogliere e valorizzare quanto, sia pur poco, di positivo viene avanti, senza per questo annacquare le reciproche differenze od abbassare la guardia di fronte ai pericoli che ancora incombono.
Insomma, brindare al nuovo anno con il bicchiere mezzo pieno.

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In costante ostaggio delle nostre paure

Dopo il più classico dei “C’era una volta”, o dentro a una storia di cronaca da quotidiano, immersi in atmosfere tetre e lugubri o colorate all’eccesso, si muovono personaggi fiabeschi e moderni della raccolta “Gli occhi della vendetta ed altri racconti” (Edizioni La Carmelina, 2014) della ferrarese Patrizia Benetti, già autrice di “Racconti neri” (Este Edition, 2012).
I suoi racconti brevi sono un invito a esplorare le paure che fanno capolino nelle situazioni più apparentemente normali, in persone apparentemente innocue, che si fanno strada in ognuna delle storie mescolandosi a ogni altro sentimento fino quasi a berselo d’un fiato, come succede per i racconti stessi.
“Accanto alla tavola apparecchiata ad arte, svettava un macabro abete. Negli esili rami erano infilzati candidi bulbi oculari.”
Che siano cupe foreste medievali o paesini bretoni, uffici o rumorosi luna park, l’attenzione è posta sull’imprevisto che irrompe nel quotidiano, nel diverso che catalizza curiosità e destabilizza equilibri stabili, seppure grotteschi e alienanti.
Colleghi traditori e ingenui re spodestati; invidiosi cavalieri e vecchi amori mai sopiti, tornati dall’altro mondo; malefiche fabbricanti di sapone e giostrai impazziti; fuggiaschi tormentati dai propri misfatti e grilli premonitori della loro cattura; paggi traditori e furbi assaggiatori di corte; ingenue streghe redivive, stordite dalle umane debolezze; e ancora, mani che vivono di vita propria compiendo vendette e terrorizzando colpevoli mai puniti; distorte famiglie in stile “Casa dei 1000 corpi”. In bilico tra fantasy e racconto gotico, senza disdegnare incursioni splatter o romantiche, ma sempre con il timore in sottofondo.
Perché è la paura – diceva Lovecraft, storico rivale di Poe – “la più antica e potente emozione umana”.

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L’OPINIONE
Coesione sociale e innovazione, antica ricetta di successo per il rilancio dell’Emilia

L’Emilia-Romagna è uscita dalla recessione? Qualcuno ha voluto usare questa chiave interpretativa, un po’ ottimistica, per commentare lo striminzito + 0,3% di crescita del Pil emiliano-romagnolo stimato dal Rapporto 2014 sull’economia, presentato da Unioncamere.
A parte che il dato non è ancora definitivo e potrebbe essere ritoccato al ribasso, è ancora troppo poco, dopo due anni nettamente recessivi come il 2012 (-2,5%) e il 2013 (-1,4%), per parlare, come ha fatto qualche organo di informazione, di “ripresa sulla Via Emilia”.
E’ vero che per il 2015 si prevede una crescita più sostenuta, dell’1%, ma non si può certo prestar troppa fede alle previsioni, che negli ultimi anni si sono rivelate troppe volte sbagliate, praticamente sempre. Basti dire che anche per il 2014 la previsione formulata a dicembre dell’anno scorso era di una crescita dell’1,1%, addirittura un po’ superiore a quella appena sfornata per il 2014! Ma poi le cose sono andate, appunto, in tutt’altro modo.
Aldilà dei tassi di crescita, l’impressione forte è che qualcosa di fondo si sia appannato nel sistema economico e sociale di una Regione che da sempre è caratterizzata da indicatori più vicini alla media europea che a quella italiana.
Si è discusso molto del significato da attribuire all’enorme tasso di astensione registrato alle ultime elezioni regionali. Certo, in quel risultato sono confluiti fattori diversi. Ma forse tra questi ce n’è anche uno che non è stato molto citato: una certa disillusione per quel che l’Emilia-Romagna è stata, nella sua diversità da tutte le altre Regioni d’Italia, e che forse non sarà mai più.
La fortuna di questa Regione negli ultimi decenni era dovuta ad un singolare impasto fatto, da un lato di grandi valori (coesione sociale, etica, solidarietà, accoglienza, apertura culturale) capaci di dar vita ad un efficiente sistema di welfare; dall’altro, di una straordinaria capacità di innovazione, di un’imprenditorialità diffusa e dinamica, di un lavoro particolarmente qualificato e tutelato, a garanzia di un’efficace redistribuzione del reddito.
Oggi, è lecito dubitare della sussistenza di molti di questi punti di forza. Né può consolare il fatto che altre realtà territoriali denuncino su questi terreni un arretramento anche maggiore.
Se del declino dei grandi valori ci parla ogni giorno la cronaca, di quello dell’economia ci parlano i numeri.
Gli investimenti fissi lordi, che ormai da molti anni si collocano ad un livello inferiore del 20% a quello degli anni precedenti la crisi; il tasso di occupazione, attestato 3 – 4 punti percentuali al di sotto di quello del 2008; una distanza crescente, anche nella capacità d’innovazione, tra un gruppo ristretto di imprese che esportano e tutto il resto del sistema imprenditoriale.
Per non parlare di un altro grande punto critico: quello di un territorio divenuto incredibilmente fragile, soggetto a frane e ad alluvioni; un territorio che si scopre esposto al rischio sismico; un territorio, soprattutto, che lo sviluppo degli ultimi decenni ha intensivamente sfruttato, espandendone continuamente l’area edificata e cementificata. Un territorio che da tempo avrebbe bisogno di un gigantesco investimento di risistemazione e di messa in sicurezza, per il quale però continuano a mancare le risorse.
Ci sarebbe davvero dunque bisogno di qualche idea nuova, di qualche nuovo impulso, anche in campo economico, capace di aiutare e indirizzare il cambiamento necessario, magari facendo salvi i valori costitutivi di cui sopra.
Un compito davvero difficile per il nuovo Presidente della Regione, Stefano Bonaccini, e per la Giunta che in questi giorni sta nascendo.

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IL FATTO
L’informazione a salvaguardia dell’ambiente

La Federazione italiana media ambientali (Fima) ha presentato la Carta dell’informazione ambientale che si andrà a definire nei prossimi mesi. “La creazione della Carta nasce dalla consapevolezza, visti i cambiamenti climatici e le situazioni critiche che essi portano con se, del ruolo dell’informazione la cui responsabilità è totale. Portare a conoscenza dei cittadini i temi della crisi ecologica è una responsabilità particolarmente gravosa: sottacere un’informazione o dare voce ad una fonte sbagliata equivale a rendersi partecipi involontari di un disastro. La trattazione di questi temi cambia il ruolo del giornalista stesso che non è solo cronista, ma attore consapevole: riportare l’accaduto, sovente significa anticipare gli stessi eventi, raccontando le dinamiche che li potranno precedere. Fornire quindi ai cittadini e ai decisori politici strumenti utili su cui pianificare e costruire il futuro delle prossime generazioni. La Carta intende garantire un’informazione adeguata dei delicati temi ambientali attuali, che non dia spazio ad errori interpretativi, a false credenze o a dicotomie inesistenti”. Faccio un grande tifo per questa iniziativa.
Purtroppo però non sempre questi documenti portano hanno esito positivo. La carta dei servizi dell’acqua, per esempio, pare non serva. Lo dicono alcuni gestori e lo pensano alcuni cittadini che non l’hanno mai letta. Purtroppo è così. Lo dice anche Federconsumatori che di recente ha presentato la sua terza ricerca nazionale sulle carte del servizio idrico. Nonostante sia presente in quasi tutti i capoluoghi di Provincia, la sua efficacia è ancora un problema (si ricorda che Aeegsi esclude aumenti tariffari in assenza di Carta dei servizi) e che raramente è frutto di un confronto con le associazioni dei consumatori, quasi fosse solo uno strumento del gestore. E’ utile in particolare ricordare che il decreto ministeriale di riferimento indica importanti indicatori standard su molti temi critici: a partire dalla risposta alle richieste scritte degli utenti e ai reclami; sul tema complesso della morosità in cui è prevista la sospensione del servizio; il tempo di preavviso di interventi programmati (almeno 24 ore prima) e molto altro.
L’analisi della Federconsumatori ha evidenziato differenze spesso esagerate tra i vari gestori. Ad esempio, sul tempo di esecuzione dell’allacciamento, si va da un tempo massimo di 126 gg ad un tempo medio di 35 gg (si ricorda che su questo indice è prevista un’indennità nel caso non venga rispettato il tempo massimo di esecuzione dell’allacciamento). Il tempo di attivazione delle forniture in media è di 9 giorni, ma si sono riscontrai anche casi di 60 gg; così come per l’allaccio alla pubblica fognatura, il tempo medio sia di 46 gg, ma va da 7 a 180 gg! Per non parlare del tempo di rettifica delle fatture, da pochi giorni a quasi sei mesi; ai tempi di risposta scritta agli utenti che in media è di 26 giorni. Per quanto riguarda le modalità con le quali i gestori comunicano agli utenti i dati sulla qualità dell’acqua, dalle risposte ricevute risulta che la modalità più diffusa è il sito web (35% dei casi), solo l’11% dei gestori pubblica le informazioni sulla bolletta. Vi sono poi grandi differenze di applicazione, ad esempio tra indicatori in giorni di calendario e giorni lavorativi (le cose cambiano molto).
In conclusione solo la metà dei gestori è dotato di certificazione della qualità. Insomma uno scenario ampio e variegato che deve essere meglio regolamentato perché le motivazioni di reclamo dei cittadini sono sempre troppe e tra queste si citano: anomalie contrattuali (errori attivazione, cessazione, voltura; anomalie standard (mancato rispetto degli standard); anomalie addebiti/errori di fatturazione (applicazione categorie, tariffe, acconti, conguagli, modalità di recapito bollette, frequenze fatturazione, pagamenti, modalità di incasso); anomalie sul consumo (reclami su letture, perdite occulte, consumo anomalo); anomalie relative all’accessibilità del servizio (difficoltà di comunicazioni telefoniche, attesa agli sportelli, comportamento del personale); anomalie nell’erogazione del servizio (qualità/quantità acqua, pressione, interruzioni/ripristini, rotture, danneggiamenti durante lavori) e anomalie del contatore (contatore difettoso, verifica/sostituzione contatore).
Per il futuro, ci attendiamo quindi, da parte dei soggetti regolatori, l’Aeegsi a livello nazionale e gli Enti di gestione d’ambito (Ega) a livello locale un maggior impegno per quanto riguarda la disciplina delle carte dei servizi e in generale la tutela degli utenti; un maggior coinvolgimento delle associazioni degli utenti (partecipazione e controllo) come previsto negli atti sopra richiamati; iniziative dirette ad informare e formare, gli utenti e le loro associazioni, sulle numerose e complesse novità che nell’ultimo periodo ha rivoluzionato la regolazione nei servizi idrici.

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Le virtù della felicità

In questi giorni che precedono le feste natalizie e l’anno nuovo la parola ‘felice’ si spreca, esce dalle nostre labbra o resta impressa nei nostri biglietti d’auguri. Ma vi siete chiesti dove va a finire tutta la felicità che allo scadere di ogni anno auguriamo così generosamente ad amici e parenti?
Il dibattitto sulla felicità e su come la politica debba operare per accrescerla sta assumendo sempre più rilievo nel mondo, insieme all’obiettivo di uno sviluppo sostenibile da qui al 2030.
Nel luglio 2011 l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato una risoluzione storica. Ha invitato i paesi membri a misurare la felicità del loro popolo e a utilizzare questo indice come guida delle politiche sociali. Nell’aprile del 2012 si è tenuta la prima riunione dell’Onu ad alto livello sulla felicità e il benessere, presieduta dal primo ministro del Bhutan, il paese che ha adottato il Gnh (Gross national happiness) anziché il Pil (ne abbiamo parlato già nella nostra rubrica) [vedi].
Allo stesso tempo è stato pubblicato il primo ‘World happiness report’, seguito qualche mese dopo dalle ‘Linee guida’ dell’Ocse sugli standard internazionali per la misurazione del benessere.
Lo scorso settembre è stato reso noto anche nel nostro Paese il Rapporto mondiale sulla felicità 2013. Aggiorna la classifica di valutazione della vita nel mondo, facendo uso innanzitutto del Gallup world poll, dal momento che continua a raccogliere regolarmente e a fornire dati comparabili per il maggior numero di paesi.
Il Rapporto premia tre Paesi solitamente ben piazzati in molti studi internazionali: la Danimarca (già prima lo scorso anno), la Norvegia e la Svizzera, seguiti al quarto posto dall’Olanda e al quinto dalla Svezia. Ma entrano nei primi dieci anche un notorio primo della classe – la Finlandia -, nonché il Canada e l’Austria. Fra i parametri considerati dagli analisti, figurano il reddito pro capite, l’aspettativa di vita, la percezione di libertà nel compiere le proprie scelte, l’assenza di corruzione, i servizi sociali, la generosità, le emozioni positive e le emozioni negative.
In Europa occidentale, sei stati hanno migliorato le loro posizioni, mentre quattro Paesi, ai quali il Rapporto dedica un’apposita tabella – Portogallo, Italia, Spagna, Grecia – “sono stati duramente colpiti dai venti di crisi ” con effetti che vanno ben al di là delle mere perdite economiche.
Il Belpaese, l’Italia, è così scivolato al 45° posto della classifica, tra Slovenia e Slovacchia, a fronte di Stati Uniti al 17°, Gran Bretagna al 22°, Francia al 25°, Germania al 26°. Nel complesso il mondo è diventato in pochino più felice nell’ultimo quinquennio – sostengono gli estensori del Rapporto – in particolare nell’America Latina e nell’Africa Subsahariana.
Il Costa Rica è il paese più felice, mentre la Tanzania il più infelice, è bene saperlo, e comunque consultare la classifica, se qualcuno avesse in cuore di cambiare nazionalità.
Nel 2008 l’Italia occupava il ventottesimo posto nella graduatoria e il nostro crollo è dei più significativi, collocandoci da questo punto di vista in fondo alla classifica dei 156 paesi presi in esame, prima solo dell’Angola, dell’Arabia Saudita, della Spagna, della Grecia e dell’Egitto.
Il rapporto evidenzia un dato, a cui spesso dedichiamo poca attenzione. È il tema della salute mentale come causa prima di infelicità. Dimostra che la salute mentale, da sola, è il più importante e determinante fattore della felicità individuale.
Circa il 10% della popolazione mondiale soffre di depressione clinica o disturbi d’ansia paralizzante.
Sono la principale causa singola di disabilità e assenteismo, con costi enormi in termini di miseria e di spreco economico. In tutto il mondo depressione e disturbi dell’ansia rappresentano fino a un quinto di tutte le disabilità.
Esistono trattamenti per il recupero, ma anche nei paesi avanzati solo un terzo di coloro che ne hanno bisogno sono curati. Questi trattamenti producono tassi di recupero pari o superiori al 50%, il che significa che i trattamenti possono avere un costo netto basso o nullo per i risparmi che generano. Il problema è che in questo ambito vi è una intollerabile violazione dei diritti della persona, perché in nessun paese il trattamento della malattia mentale è disponibile alla pari di quello per le malattie fisiche. Ciò non solo costituisce una vergognosa discriminazione, ma dimostra il carattere malsano delle nostre economie.
Scuole e luoghi di lavoro devono essere molto più attenti alla salute mentale e operare per il miglioramento della felicità delle persone, se vogliamo promuovere la salute mentale.
In generale, si osserva una relazione dinamica tra felicità e altri aspetti importanti della nostra vita, come la salute, il reddito e i comportamenti sociali. Per cui una migliore comprensione dei benefici che derivano dalla crescita della felicità delle persone può aiutare a mettere al centro delle decisioni politiche la felicità, affinandone le scelte.
Esiste una letteratura crescente sui benefici della felicità che vanno dalla salute alla longevità, dal reddito alla produzione, dalle istituzioni ai comportamenti individuali e sociali. L’esperienza del benessere individuale e collettivo incoraggia le persone a perseguire obiettivi che sono il rafforzamento delle capacità di affrontare le sfide future. Le emozioni positive migliorano il nostro sistema immunitario e cardiovascolare, fanno funzionare le nostre ghiandole e cellule endocrine. Al contrario, le emozioni negative sono dannose per questi processi.
Conta anche “l’etica delle virtù”, è il caso di ricordarcelo, poiché dal rapporto sulla felicità mondiale sembra che non siamo un paese ancora sufficientemente consapevole della metastasi della corruzione.
Nelle grandi tradizioni premoderne per quanto riguarda la felicità, il buddhismo in Oriente, l’aristotelismo in Occidente, o le grandi tradizioni religiose, la felicità non è determinata dalle condizioni materiali di un individuo (ricchezza, povertà, salute, malattia), ma dal singolo carattere morale. Aristotele parlava della virtù come chiave della eudaimonia, della felicità, appunto.
Eppure questa tradizione si è quasi persa nel mondo moderno dopo il milleottocento, quando la felicità è stata collegata con le condizioni materiali, in particolare il reddito e i consumi.
Il ritorno alla “etica della virtù” è una parte fondamentale della strategia per aumentare la felicità di una società.
Non mi resta che augurare ai miei gentili e pazienti lettori che il Natale e l’Anno nuovo ci vedano protagonisti di un mondo impegnato a costruire la felicità delle persone, dai nostri piccoli, ai nostri anziani.

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Soffritti: contro di me livore e critiche superficiali

da: Roberto Soffritti

Quando all’analisi e all’approfondimento si preferisce il livore e l’approssimazione, non si offre un buon servizio ai lettori, che poi sono prima di tutto cittadini, protagonisti di una comunità di donne e di uomini. Così, l’articolo di Sergio Gessi  [leggi], dedicato all’iniziativa organizzata dall’associazione “Pluralismo e dissenso” con il sottoscritto, più che una riflessione, ha assunto il tono della chiacchiera, insomma: più che una voce autorevole si è levato un indistinto brusìo.
Se una delle ambizioni più grandi del sito di Gessi è quella di offrire “una chiave di interpretazione dei fatti”, come si declama con enfasi nella home page, bisognerebbe avere l’obbligo di raccontare prima di tutto i “fatti”, eventualmente prima di emettere verdetti e imbastirli con qualche nota di colore. Gli incontri organizzati da “Pluralismo e dissenso” con gli ultimi tre sindaci di Ferrara, intervistati pubblicamente da cinque giornalisti, dovrebbero avere l’utilità di fissare un pezzo di storia della città e fornire possibilmente indicazioni sulla strada da percorrere per uscire dal pantano della crisi che, anche nella nostra città si palesa, purtroppo, in alta disoccupazione e scarsi investimenti.
L’autore dell’articolo, in un’improbabile ricostruzione storica del mio lungo mandato, definisce innaturale il dialogo tra le forze di sinistra e quelle del centro democratico. E’ così insolita la collaborazione tra i principali estensori della Costituzione della Repubblica italiana? Inoltre, in un commento ai limiti del qualunquismo, Gessi accosta il “fare” al “malaffare”, affianca questioni politiche a questioni giudiziarie e affronta aspetti che non riguardano assolutamente la mia attività di sindaco di Ferrara.
Non un fatto documentato: l’articolo sembra avere il solo intento di “processare” una politica che ha avuto il merito di cambiare in meglio la città, di mettere in connessione la politica con il mondo produttivo, come è giusto che sia in un’amministrazione della cosa pubblica che si vuole – giustamente – efficiente e trasparente.
In maniera superficiale, si addita la politica del “fare sul serio” finendo per condannare un territorio all’immobilismo deleterio, perché a questo porterebbe il metodo sbandierato dall’autore. Non un fatto, dicevo, perché non esistono condanne, anzi: chi, come la parlamentare europea Laura Comi, ha tentato di gettare fango sulla mia attività di amministratore, ha incassato una sonora condanna in Tribunale.
Piaccia o no all’autore, questione morale e questione giudiziaria sono distinte e tra il fare e il malaffare c’è di mezzo una “zona nera” in cui si decide la morte dell’intero territorio e l’arricchimento di pochi.
Ecco, guardando indietro ai miei sedici anni alla guida della città potranno anche emergere degli errori, ma rivendico una politica fatta di obiettivi definiti e raggiunti. Primo fra tutti: dare un futuro a Ferrara. Da qui, la necessità di far incontrare la politica con il mondo produttivo; la creazione di un rapporto più intenso e costruttivo con le imprese al fine di facilitare gli insediamenti di nuove attività; la creazione di un modello culturale che deve continuare a consolidarsi e dare un impulso alla ripresa economica.
I recenti dati sull’economia reale fotografano anche a Ferrara una situazione grave, con la disoccupazione che ha raggiunto vette preoccupanti. Ci si vuole permettere il lusso di non fare investimenti e condannare l’intera area alla recessione? Lenin diceva che per un vero rivoluzionario il pericolo più grave è l’esagerazione rivoluzionaria. Dunque, chi ambisce giustamente ad estirpare la cattiva politica e la degenerazione individualistica deve coltivare legami forti con il territorio. Solo così la città diventa “maestra dell’uomo”, ovvero dà una direzione, un senso, sviluppando un solido e benefico senso di appartenenza.
Questo ritengo sia il talento del buon politico. Poi c’è il talento di chi mente, il talento di chi non ne ha altri.
Roberto Soffritti

Risponde Sergio Gessi
Caro Soffritti, i “fatti” ai quali si appella sono noti e ampiamente dibattuti. Per questo nel commento proposto ai lettori [leggi] m’è parso sufficiente richiamarli alla memoria senza doverli puntualmente rendicontare. E’ legittimo avere opinioni differenti: la mia, per esempio, è che ciò che lei considera un “dialogo tra le forze di sinistra e quelle del centro democratico” fosse in realtà una sistematica prassi di concertazione politica, strategica e gestionale fra forze di maggioranza e di opposizione, condotta al di fuori degli ambiti istituzionali e dunque sostanzialmente e formalmente inaccettabile. Ma non voglio ripetermi. Solo un’altra annotazione in risposta alle sue considerazioni: i “legami forti con il territorio” e il “senso di appartenenza” non bastano per “estirpare la cattiva politica”; anche la mafia ha forti legami territoriali e solido senso di appartenenza. Piuttosto, a guidare l’azione del buon politico è indispensabile una salda bussola valoriale.
Infine, per quanto mi riguarda, prima di giudicare cerco sempre di ascoltare e di comprendere: a volte ci prendo a volte sbaglio. In ogni caso, stia certo, la menzogna è pratica a me totalmente estranea.

Guarda il video dell’incontro [vedi]

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LA SEGNALAZIONE
Galleria Marcolini, un nuovo spazio di incontro e scambio culturale

Concepito non come semplice e comune Galleria, ma come sede polifunzionale la scorsa settimana si è inaugurato, nel centro storico di Forlì, Galleria Marcolini, uno spazio interamente dedicato all’arte contemporanea italiana e internazionale.
Questo contenitore fungerà soprattutto da luogo d’incontro e di scambio culturale. Sarà ospite di progetti espositivi che avranno lo scopo di raccontare l’arte anche attraverso la contaminazione di linguaggi differenti, come la filosofia, la letteratura, il teatro o il cinema. Alla programmazione espositiva, saranno infatti affiancati eventi collaterali che, partendo dal tema della mostra, lo svilupperanno però da angolazioni differenti.
Strategicamente aperto nel polo artistico forlivese, a due passi dal complesso di San Domenico e dalle collezioni di Palazzo Romagnoli, Galleria Marcolini è una realtà culturale dinamica, un osservatorio della creatività emergente messa a confronto con il territorio che la ospita.

Come evento inaugurale della Galleria Marcolini, è stata scelta la mostra personale della giovane artista emiliana Nazzarena Poli Maramotti (classe ’87), una delle più interessanti voci dell’arte italiana emergente.
Segnalata nel 2011 per il Rolling Stone Award, in occasione della ‘The Others Fair’ di Torino, e vincitrice nel 2014 del Premio Euromobil under 30 ad Art First di Bologna, Nazzarena Poli Maramotti si è da subito contraddistinta per una cifra stilistica di grande intensità e sperimentazione. La sua personale impronta artistica, sospesa fra astrazione e figurazione, evidenzia non solo una certa confidenza tecnica, ma anche un’indagine estetica estremamente ricercata, dove vince la drammaturgia di una costante e consapevole trasformazione, tanto precaria quanto intimista.
Il titolo deciso per la mostra, Argonauta, viene ripreso nella sua accezione di “navigante”, esploratore avventuroso, colui che intraprende un viaggio con coraggiosa audacia. Allo stesso modo, con la sua arte Nazzarena Poli Maramotti accompagna l’osservatore verso una “realtà diversa”, in un viaggio, per l’appunto, verso luoghi dell’immaginario che svelano universi transitori in continuo divenire.

Curata da Silvia Cirelli, l’esposizione raccoglie alcune tra le opere pittoriche più significative di questa giovane interprete, dai lavori dei primi anni, in cui traspare il superamento del concetto di figura e la sua personale reinterpretazione, fino alle recenti tele, dove l’artista conquista invece una dialettica maggiormente percettiva, capace di svelare la fugacità e la prepotenza di una tensione in espansione.

Note biografiche
Nazzarena Poli Maramotti nasce a Montecchio Emilia nel 1987. Attualmente vive a Norimberga (Germania), dove si trasferisce per frequentare il corso di pittura presso l’Akademie der Bildenden Künste, dopo essersi diplomata all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Nel 2014 riceve il Premio Gruppo Euromobil under 30 ad Art First, Bologna e nel 2011 è stata segnalata per il Premio Rolling Stone, in occasione di The Others Fair di Torino. Al suo attivo ha diverse esposizioni personali, alla Galleria A+B di Brescia (Portraits del 2012 e Between signs and measure nel 2013, con l’artista Marco La Rosa) e la mostra Muta, allo Zumikon di Norimberga, nel 2014. Fra le varie collettive è doveroso citare La Creazione nel 2014, al Centro Culturale San Fedele di Milano, Collector’s View, alla Oechsner Galerie di Norimberga (2013), Prospekt/Vorhang auf… al Neues Museum, sempre a Norimberga (2012) e L’Eredità di Circe, presso la Galleria ZAK di Monteriggioni, Siena (nel 2011).

Galleria Marcolini
13 dicembre 2014 – 22 febbraio 2015
Nazzarena Poli Maramotti | ARGONAUTA
a cura di Silvia Cirelli

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LA RIFLESSIONE
Giovani, lo scudo dell’apparenza e il coraggio di mostrarsi

Questa mattina sono stata ad un funerale, a condividere il dolore di un’amica per la perdita della sua mamma. La chiesa era piena di amici, parenti, insegnanti e il dolore era ovunque, su ogni volto, in ogni sguardo. Conosco questa ragazza dalla scuola media, eravamo compagne di classe, vicine di banco, amiche. Con gli anni ci siamo perse di vista, ma abbiamo ripreso i contatti pochi mesi fa. In questa circostanza al suo fianco, a partecipare alla sofferenza sua e dei suoi fratelli, vi erano tantissimi giovani. Mi capita spesso, in circostanze differenti, di soffermarmi ad osservare la gente. Cerco di capire i loro stati d’animo, di interpretare le loro reazioni, di scovare i loro sentimenti… e spesso non è facile. In un contesto triste come un funerale, ad esempio, dove tutti sono riuniti per condividere lo stesso dolore, ognuno reagisce a suo modo. C’è chi piange senza ritegno consumando interi pachetti di fazzoletti, chi soffre in maniera intima e sommessa, chi cerca di essere forte e ricacciare continuamente indietro le lacrime, c’è addirittura chi ride, forse per esorcizzare il dolore. E poi ci sono quelli che invece sembrano non soffrire affatto; mi sono resa conto che questi ultimi sono soprattutto i giovani; quei giovani che spesso non apprezzo, quelli privi di molti valori, che vivono alla costante ricerca dello sballo, con il solo obiettivo del divertimento estremo; quei giovani che si chiudono in sè stessi, lontano da qualsiasi cosa possa renderli deboli e vulnerabili.

Oggi invece ho dovuto ricredermi. Questa mattina non ho visto i soliti ragazzini che ogni giorno vedo passare davanti a casa mia, quando escono da scuola: questi parlano a voce alta uilizzando parolacce e spesso bestemmie in ogni frase. No. Oggi, finita la messa, sono uscita dalla chiesa e mi sono soffermata sul viso di tutti i giovani e gli adolescenti che, ad uno ad uno, hanno voltato le spalle all’altare. Non ho visto sguardi sostenuti, teste alte o espressioni indifferenti; ho visto occhi lucidi, guance rigate dalle lacrime e abbracci per farsi forza l’un l’altro.
Solitamente le donne vengono considerate più emotive ed inclini al pianto, ma non erano solamente loro quelle con le teste chine e il fazzoletto in mano. Molti ragazzini vestiti alla moda, caviglie scoperte e cavallo dei pantaloni basso, mostravano sul viso un sincero dolore. E per quanto il contesto fosse tremendamente triste, mi sono ritrovata con un lieve sorriso sulle labbra. Ogni volta che mi chiedono cosa penso di questa nuova generazione, rispondo in maniera negativa. Ovunque vedo ragazzi omologati, dediti primariamente all’alcool e al fumo perchè ormai incapaci di divertirsi senza questi vizi. Vedo adolescenti maleducati, sempre pronti a rispondere con un insulto, una parolaccia, noncuranti della gente che li circonda. Ragazzi che parlano sempre e solo di superficialità, come se non volessero mostrarsi intelligenti o interessati ai fatti e ai problemi della società e della realtà in cui vivono e che li riguardano in prima persona.
Questa mattina per la prima volta dopo tanto tempo, ho intravisto uno spiraglio di speranza. Più guardavo le espressioni di quei ragazzini e più mi dicevo che forse sono io ad essere sempre pessimista e che forse non tutti i più nobili valori sono perduti. Li ho osservati prima di entrare in chiesa e sinceramente, agli occhi di chi passava di lì per caso, potevano anche sembrare una scolaresca in gita scolastica; li ho osservati quando sono usciti dalla chiesa e sembravano persone differenti. Quando cerchi di apparire diverso da come sei, ti crei delle barriere e indossi delle maschere che non sempre ti appartengono. Così quando ti immergi in un contesto che ti rende vulnerabile le barriere iniziano a cedere e il tuo vero io viene messo a nudo. E’ questo ciò di cui la nostra società ha bisogno. Basta con le falsità, l’apparenza, la superficialità; non servono persone stereotipate e conformate, ma giovani che non abbiano paura di mostrarsi per quello che sono, che sappiano ancora sognare e credere e lottare per tutto ciò che ritengono giusto, nonostante la realtà che ci circonda ci induca costantemente ad essere pessimisti.

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Do-re-mi, mezzo secolo di musical fra cinema e teatro

Proprio in questi giorni va in scena al Teatro Sistina di Roma il musical “Tutti insieme appassionatamente” [vedi], con la coppia, molto amata dal pubblico, formata da Luca Ward e Vittoria Belvedere.
Si celebra, infatti, un importante anniversario di uno dei film musicali più amati di tutti i tempi, nel 50° dalla sua uscita nei cinema. Quasi un invito che giunge, benvenuto, in un periodo che dovrebbe essere pieno di serenità: riunirsi, tutti insieme, intorno al Teatro per ridare passione, ottimismo, allegria e serenità al pubblico. L’occasione per rispolverare un bellissimo film che abbiamo visto quasi tutti, da bambini.

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La locandina

La pellicola, interpretata dalla splendida Julie Andrews, uscì nelle sale all’inizio del 1965 e da allora resta uno dei classici più belli. Molte generazioni hanno cantato “Do-re-mi” con i propri bambini e ancora oggi questo musical può riuscire nella missione di riunire a teatro o davanti alla televisione intere famiglie. Alla vigilia o il giorno di Natale. Spesso all’Epifania, davanti a una tiepida e morbida fetta di pandoro. Ricordiamo tutti il severo e rigido militare Von Trapp che, come molte belle favole a lieto fine, verrà ammorbidito e domato dalla dolcezza e dal candore femminili. Ricordiamo le musiche, i balli, le canzoni spensierate, le bellezze dei panorami.

Il film è ambientato nella romantica Salisburgo, in Austria, nel 1938, con Maria, orfana allevata in un convento che studia per diventare suora e con le consorelle che hanno seri dubbi sulla sua reale vocazione: ama troppo cantare e ballare ed è spesso indisciplinata.
Per metterla alla prova, la madre superiora la invia come governante dei sette figli (cinque ragazze e due ragazzi) di un vedovo, già comandante della Marina Imperiale Austriaca, Georg Ritter von Trapp. I sette bambini (Liesl, Friedrich, Louisa, Kurt, Brigitta, Marta e Gretl) dimostrano ostilità nei confronti della nuova ed ennesima istitutrice ma dopo una serata in cui si rifugiano nella camera di Maria perché impauriti da un temporale, i loro sentimenti per la novizia cambiano radicalmente.

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Il Comandante Von Trapp

Quella sera stessa, il Comandante riceve un telegramma che lo invita a trascorrere del tempo a Vienna, ospite della sua amica (e pretendente), la Baronessa Schraeder, e decide di partire il giorno dopo. Maria cerca di convincerlo a farle avere della stoffa per farne dei vestiti da gioco per i ragazzi, ricevendo un rifiuto. Avendo saputo che le tende della sua camera sarebbero state sostituite, Maria decide di usare quella stoffa per ricavare i vestiti dei ragazzi, contravvenendo agli ordini espliciti del Comandante.

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La celebre scena del pic nic

Durante la sua assenza, Maria porta i ragazzi a fare una passeggiata per Salisburgo, che culmina con un simpatico e allegro picnic sui pendii che circondano la città. I ragazzi sono felici e si lasciano andare a confidenze, grazie alle quali Maria capisce che i tiri che avevano allontanato tutte le altre istitutrici avevano il solo scopo di attirare l’attenzione del padre e decide di trovare un altro modo per ottenere quell’attenzione.
Passano settimane durante le quali Maria porta spesso i ragazzi a spasso per città e monti, ma di fronte all’ennesima “marachella” e disubbidienza della ragazza (i vestiti fatti con le tende nonostante il divieto e una gita in barca non annunciata), il Comandante ordina a Maria di andarsene; ma saranno proprio i figli a fargli cambiare idea («Lei ha riportato la musica in questa casa»).
La Baronessa, intanto, ha intuito l’interesse del Comandante per Maria e riesce a manipolarla per farla fuggire in convento; Maria abbandona, quindi, i Von Trapp, mentre in casa vigono noia e tristezza. I bambini non accettano l‘annuncio del matrimonio del Comandante con la Baronessa e raggiungono di nascosto il convento per convincere Maria a tornare. Ma lei è in clausura e non può e non vuole ricevere visite. Saputo della visita dei ragazzi, la madre badessa manda a chiamare Maria e, rendendosi conto che quest’ultima è innamorata del Comandante, la convince a tornare: «Nasconderti nel convento non può risolvere i tuoi problemi. Li devi affrontare!».
E poi, il lieto fine, dopo una rocambolesca fuga a causa dell’invasione nazista…
Un film indimenticabile. Un autentico “evergreen”.

Tutti insieme appassionatamente, di Robert Wise, con Julie Andrews, Christopher Plummer, Eleanor Parker, Richard Haydn, Peggy Wood, Anna Lee, Portia Nelson, Ben Wright, Daniel Truhitte, Norma Varden, Marni Nixon, Gil Stuart, Evadne Baker, Charmian Carr, Nicholas Hammond, Heather Menzies, Duane Chase, Angela Cartwright, Debbie Turner, Kym Karath, Usa, 1965, 173 mn.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Tutta la famiglia riunita intorno al fuoco

Siamo ormai giunti al 22 di dicembre e in ogni casa, attraverso i vetri appannati delle finestre, si possono intravedere le luci del presepe in attesa del bambinello e dell’albero di Natale, o perlomeno uno dei due, diventati nell’immaginario comune gli emblemi della festa del 25 dicembre insieme a dolci come il pandoro e il panettone. Ma vi siete mai chiesti da dove derivi un altro dolce natalizio molto diffuso: il tronchetto di Natale?
Il suo nome originale è Bûche de Noël e proviene dunque dalla tradizione natalizia francese. Riprende nella forma il ‘grande ceppo di legno’, trasportato solennemente in casa e acceso poi nel caminetto la sera della vigilia: un’usanza meno conosciuta, ma diffusa fino almeno alla prima metà del Novecento nelle campagne dell’Inghilterra, della Francia e dei paesi slavi, ma che abbiamo incontrato anche scrivendo delle usanze natalizie in Romagna.
Le cerimonie più elaborate erano quelle dei popoli dell’Est Europa. Per esempio in Serbia e in Croazia si abbattevano due o tre giovani querce per ogni casa, a volte una per ciascun componente maschio della famiglia, e al tramonto della vigilia di Natale si trasportavano i ceppi in casa e si collocavano nel caminetto: mentre il capofamiglia oltrepassava la soglia con il primo ceppo tutti si disponevano ai lati con in mano candele accese e venivano lanciati granoturco e vino. A Ragusa di Dalmazia, l’attuale Dubrovnik, era invece proprio il capofamiglia a compiere questa sorta di benedizione ripetendo “Benedetta sia la tua nascita!” e in alcune zone della Bassa Dalmazia donne e ragazze avvolgevano i tronchi delle querce con drappi di seta rossa e filo dorato e li adornavano con foglie e fiori. Mentre nel Montenegro l’uomo di casa solitamente spezzava un pezzo di pane non lievitato lo poneva sopra il ceppo e vi versava del vino. Tornando alla Francia, quella del ceppo di Natale era una tradizione seguita soprattutto nel sud: in Provenza la vigilia l’intera famiglia usciva per cercarlo intonando un canto e pregando per ottenere benedizioni ed era il componente più giovane a versare il vino sul ceppo che poi veniva gettato nel fuoco.
In diverse zone alle ceneri o al tizzone venivano anche attribuiti poteri magici: proprio in Francia si pensava che la sua cenere proteggesse la casa dai fulmini, mentre in alcune regioni la parte che non era bruciata veniva usata per l’aratro credendo che potesse rendere i semi più prosperi, altrove erano invece le ceneri ad essere sparse sui campi o intorno agli alberi da frutto per aumentarne la produttività. Queste capacità di protezione e di fertilità erano un elemento ricorrente del folklore popolare, si ritrovavano infatti anche in regioni tedesche, come la Westfalia e l’Assia, e in Inghilterra, dove era usanza accendere il ceppo con il tizzone dell’anno precedente.
Vi abbiamo già raccontato dell’usanza romagnola di vegliare alla luce del fuoco acceso dal capofamiglia fino all’ora della messa di mezzanotte, ma in realtà la tradizione del ceppo di Natale un tempo era molto diffusa in diverse zone d’Italia: se in Toscana era conosciuto come ‘ciocco’, in Lombardia diventava il ‘zocco’. Un libro stampato probabilmente a Milano alla fine del XV secolo fornisce diversi particolari riguardo il rituale di accensione: la vigilia di Natale l’intera famiglia si riuniva solennemente intorno al camino dove il capofamiglia accendeva il ceppo nel camino, ai piedi era stato posto del ginepro e sopra del denaro che veniva poi distribuito ai servi; infine, dopo aver offerto da bere a tutti i presenti era di nuovo l’uomo di casa a versare per tre volte il vino sulle braci.
Non è un caso che in tutti i paesi europei si ripetano queste usanze che hanno come fulcro il focolare casalingo: alcuni studiosi leggono questi gesti rituali di accensione come la trasformazione e il perpetuarsi sotto altre spoglie del rito di accensione del fuoco sacro, centro della vita famigliare e dimora degli spiriti degli antenati, che proteggevano la propria discendenza attraverso le fiamme che continuavano a crepitare nel camino.

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JAZZ CLUB
Insolite visioni.
Oggi ultimo concerto

Suonatore con vista di pianoforte dall’alto, piatti di batteria in primo piano, zoom sulle mani dell’organista sopra a tasti in bianco e nero. Sono visioni particolari della musica e dei suoi protagonisti che chiudono la prima serie di reportage fotografici scattati al Torrione di San Giovanni di Ferrara. Questi ultimi bei ritratti, firmati come consueto da Sefano Pavani, raccontano per immagini The Unusual Suspects, il trio composto da Pat Bianchi all’organo, Massimo Faraò al pianoforte e Byrn Landham alla batteria.

Stasera, lunedì 22 dicembre alle 21.30, l’ultimo appuntamento 2014, che è quello della serie “Happy go lucky local”, dedicata agli artisti emergenti. Nella sede del Jazz club Ferrara a chiudere la prima parte di questa stagione di qualità oggi c’è Astral Travel, il progetto ideato dal batterista Tommaso Cappellato che parte dalle radici dello spiritual jazz per indagare nuovi percorsi sonori valorizzati dalla voce di Camilla Battaglia. Completano la formazione Piero Bittolo Bon al flauto e clarinetto basso, Paolo Corsini al pianoforte e tastiere e Marco Privato al contrabbasso.

La seconda parte di “Ferrara in Jazz” ripartirà nel nuovo anno con un cartellone di appuntamenti in programma dal 31 gennaio al 30 aprile 2015.

Intanto buona visione con gli scatti di STEFANO PAVANI.

[clic su una foto per ingrandirla e vedere tutta la sequenza di immagini]

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The unusual suspects: Massimo Faraò al pianoforte
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The unusual suspects: Byron Landham batteria
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The unusual suspects: Byron Landham batteria
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The unusual suspects al Jazz club Ferrara
The unusual suspects al Jazz club Ferrara
The unusual suspects: Pat Bianchi all’organo
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The unusual suspects: Pat Bianchi all’organo
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The unusual suspects al Torrione di Ferrara
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The unusual suspects al Jazz club Ferrara
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The unusual suspects: Massimo Faraò al pianoforte
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The unusual suspects: Pat Bianchi all’organo
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The unusual suspects al Torrione di Ferrara
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The unusual suspects: Massimo Faraò al pianoforte
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The unusual suspects: Massimo Faraò al pianoforte
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The unusual suspects: Pat Bianchi all’organo
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The unusual suspects: Byron Landham batteria

I consumi oltre lo spreco

Cosa compreranno gli italiani con la tredicesima? Una domanda ricorrente per chi si occupa di tendenze di consumo. Quest’anno la risposta è: pagheranno i mutui, le bollette e le tasse che, contrariamente alle promesse, sono aumentate invece che diminuite. Compreranno qualche regalo di Natale, perché a questi non si può rinunciare, scegliendo preferibilmente beni utili. Poi metteranno da parte ciò che avanzerà, per poter fronteggiare spese impreviste o anche perché, quando i tempi sono smorti, anche i desideri calano. Insomma, è chiaro che la fiducia, la disposizione verso il futuro sono parte non marginale dei nostri comportamenti quotidiani, anche quando facciamo la spesa.
Una crisi così prolungata, però, ha reso strutturale il calo dei consumi, una tendenza che è in atto da almeno cinque anni. Nel corso dell’ultimo anno la maggioranza delle famiglie ha ridotto pranzi e cene fuori casa, ha risparmiato su spese per cinema e svago, ha ridotto gli spostamenti con i mezzi propri e quasi la metà ha modificato i comportamenti alimentari riducendo gli sprechi.
Gran parte delle famiglie ha rimodellato su basi nuove i propri consumi, eliminando il superfluo. Tutto ciò non riguarda soltanto chi è a rischio di povertà; come ha indicato il Censis, la maggioranza delle famiglie, se disponesse di risorse più elevate, le metterebbe da parte. Difficile, quindi, continuare a pensare ai consumi come volano dell’economia. I comportamenti di acquisto di beni e servizi stanno cambiando in modo strutturale. In questo non incide solo la capacità di spesa e l’incertezza sul futuro, ma anche un mutamento negli stili di vita e nella sensibilità diffusa. Possiamo riassumere i cambiamenti in tre concetti: maggiore attenzione allo spreco, maggiore attenzione ai beni immateriali, maggiore propensione all’uso rispetto alla proprietà.
L’attenzione allo spreco è mossa anche da una più diffusa sensibilità etica correlata alla consapevolezza dell’impatto ambientale che si traduce nel contenimento dei consumi superflui. Si cambia l’auto con minore frequenza, nell’acquisto degli elettrodomestici si guarda con più attenzione alla solidità e alla durata, nel vestiario si segue meno la moda o se lo si fa è prevalentemente attraverso acquisti a basso costo. Crescono gli acquisti sul web che consentono di risparmiare, si pratica un confronto più attento dei prezzi, si scelgono i punti vendita che hanno saputo proporre un’offerta low cost attenta alla qualità estetica e all’innovazione.
La spesa si sposta sui beni immateriali e su quelli che riguardano relazioni e convivialità. Non a caso le tecnologie della comunicazione continuano a vedere una crescita. La stessa diffusione di cellulari e computer sostituisce passatempi più costosi e le comunicazioni hanno costi in calo.
L’economia della condivisione sostiene una cultura orientata all’affitto e al riuso piuttosto che all’acquisto di beni. Usare senza possedere è la nuova parola d’ordine ormai in molti settori. Si afferma il riciclo e la pratica dell’usato, ad esempio, nei beni che riguardano i bambini che hanno un tempo d’uso limitato e che vengono passati con piacere o rivenduti.
Non torneremo al passato, ma certamente cambierà il nostro modo di usare le risorse, a favore di un benessere che non si identifica completamente con il possesso, né tanto meno con l’ostentazione.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Seconda serata di “Autori a Corte” speciale Natale

da: Autori a Corte

Secondo ed ultimo appuntamento martedì 23 dicembre 2014 presso la Sala Estense di Ferrara di AUTORI A CORTE 2014 speciale Natale rassegna letteraria che gode del Patrocinio del Comune di Ferrara ed in parternship con IPSSAR Ferrara che collabora con un progetto innovativo che coinvolge ogni era una dozzina di studenti coordinati dell’insegnante Maria Cristina Borgatti per una esperienza sul campo nell’ambito di un evento culturale.
Dopo la fortunata prima serata che ha visto un afflusso di quasi 150 persone per le tre complessive presentazioni in calendario, il gruppo editoriale Este Edition-Edizioni La Carmelina, nelle persone di Vincenzo Iannuzzo e Federico Felloni che hanno creato la manifestazione e la ripropongono nellla versione natalizia grazie all’apoggio di Banca Mediolanum ed Estense.com, propone due presentazioni che sono assolute novità.
Alle ore 20,00 il volume di Gian Pietro Testa Interviste infedeli (Este Edition) presentato da Sergio gessi (direttore del quotidiano ferraraitalia.it, Riccardo Dalbuoni (addetto stampa Comune di Occhiobello). Testa giornalista professionista in varie testate nazionali, è stato, fra l’altro, inviato speciale de “Il Giorno”, de “l’Unità”, di “Paese Sera”. Ha diretto il quotidiano napoletano “Senzaprezzo” e la televisione regionale “NTV”. È considerato uno dei massimi esperti italiani di terrorismo. Il libro è l’esulcerato sfogo contro coloro che usano, fra l’altro (ma non soltanto), la religione come invincibile arma di potere.
A seguire dalle ore 21,00 si cambia decisamente registro con Note appuntate, l’attesissimo volume di Andrea Poltronieri (Edizioni La Carmelina) che in occasione dei suoi 20 anni di cariera ha deciso di pubblicare i suoi peniseri, i suoi ricordi, la sua musica, la sua passione per il sax, foto storiche e i testi delle canzoni che hanno allietato le serate di due generazioni. Il tutto in un volume che da il via alla collana Autori a Corte presentato da Nicola Franceschini (giornalista Telestense e Rete Alfa)con interventi di Roberta Marrelli. Entrambe le presentazioni saranno precedute da degustazioni gratuite, come l’ingresso alla serata, delle ditte Panificio Dellepiane, Azienda Vinicola Zanatta, Caffetteria 2000. L’edizione natalizie prevede anche un prologo alle ore 18,00 dedicato ai bambini e denominato Merenda con l’autore, in questo caso sarà protagonista Daniela Pareschi, scenografa tetarale e cinematografica che ha collaborato come art director a moleplici film italiani ed internazonali, con Il mare,le onde (Lantana Editore) libro introdotto da Ruggero Veronese (redattore di estense.com), che è il secondo di una serie di libri dedicati alla pratica del disegno attraverso l’osservazione. Uno stimolante metodo per imparare a disegnare lasciando libera la propria creatività. Un pomeriggio dedicato ai più piccoli a cui oltre ad una degustazione ad hoc saranno offerti degli omaggi offerti dalla Cartoleria Paper Moon.
Ricordiamo che l’ingresso è libero e che la durata di ogni presentazione è di circa 40 minuti.
Info http://www.autoriacorte.oneweb.it

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LA SEGNALAZIONE
A parlar con Dio e con Satana

Si rivolge a Dio e poi a Satana che riesce pure a incontrare. Nelle “Interviste infedeli” (Este edition, 2014), Gian Pietro Testa prova a interpellare Dio inviandogli una lettera, mentre con Satana ci ragiona. Scrittura ironica e autoironica, “Interviste infedeli” è un’opera letteraria lucida e piena di punti interrogativi che, in parte, troveranno risposta. Con questo pamphlet, Testa guarda la società odierna, ammettendo di non sapere molte cose, di non capire più quest’uomo di oggi e riferendo, quindi, i propri dubbi ai ‘rappresentanti’ all’Adilà. Magari, loro, una risposta l’avranno.

Ha risposto Dio alla missiva?
“No, non ha potuto, ammesso che ci sia”.
Che Dio è quello a cui viene inviata la lettera?
“E’ un Dio creato dalla religione, creato dall’uomo e non mi piace, è il Dio del potere, della paura, dell’imposizione e del peccato, è il Dio degli eserciti. È un Dio che arriva a chiedere ad Abramo il sacrificio del proprio figlio. Ma vi pare possibile?”.
Ad Agamennone fu chiesto di sacrificare la figlia Ifigenia per propiziare una spedizione militare…
“Appunto, parliamo di una religione che ha attinto al politeismo, al paganesimo, ai riti e alle manifestazioni di antiche religioni. Si pensi solo a mangiare il pane e bere il vino, non è forse l’antropofagia che praticavano antiche tribù?”
Quale Dio le piacerebbe?
“Quello che ci ha fatto intravedere Gesù Cristo, quello della prima religione cristiana, un Dio buono. Io non lo conosco, ma non credo che Dio ammetterebbe la società odierna, l’animo malvagio dell’uomo, tutte queste vittime, questa mancanza di pietà”.
L’intervista con Satana è andata meglio?
“Satana è qui, è avvicinabile, plebeo, lo incontro tutti i giorni, l’inferno e il male sono qua. E poi Satana è un esodato, un licenziato senza nemmeno cassa integrazione”.
Se Dio non risponde, Satana apre un dialogo con lei, è quasi didascalico nel spiegarle certi meccanismi, ad esempio che nell’Aldilà, che per Satana è Aldiqua, è successa una gran confusione.
“Sì, l’uomo è riuscito a creare il caos non solo qui sulla Terra, ma anche nell’Adilà, dove il Limbo è stato tolto e un sacco di anime non sapevano più dove andare. E poi gli angeli custodi a zonzo, via anche quelli, dimenticati e disoccupati”.
Satana sa descrivere molto bene l’animo umano…
“Di noi dice che sappiamo solo fornicare, fare la guerra e riempirci di soldi e potere e che non c’è animale più crudele dell’uomo”.
Forse anche per questo Satana sceglierà dove stare?
“Sceglierà di stare in mezzo al vero inferno, dove ha potere senza limite, cioè nel mondo”.

“Interviste infedeli” sarà presentato martedì 23 dicembre alle 20 in Sala estense nell’ambito della rassegna Autori a corte.

Gian Pietro Testa, giornalista ferrarese, inviato speciale de Il Giorno, de L’Unità e di Paese Sera, fondatore della scuola di giornalismo di Bologna, ha pubblicato opere di poesia e romanzi e il libro inchiesta giornalistica La strage di Peteano che, nel 1976, anticipò le soluzioni delle indagini della magistratura sul caso.

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SETTIMO GIORNO
L’eclissi della solidarietà nel Paese dei Proci

MEDEA e PENELOPE – La tragedia greca continua a vivere qui, in questo paese arlecchinesco, dove non si sa che cosa sia la solidarietà umana e non si ha idea di che cosa debba essere la politica, proprio qui dove la politica ha avuto sistemazione giuridica moderna: non c’è da meravigliarsi, il nuovo millennio ci ha fatto capire che viviamo in una regione del mondo in cui si è data grande importanza all’ignoranza, la prima causa dei nostri drammi. Siamo un paese d’incompetenti, non sappiamo più nulla, chi sa viene bastonato, umiliato, la carriera è riservata agli analfabeti, spesso, sempre più spesso laureati, naturalmente in tre anni. Ed è questa magmatica somaraggine generalizzata il terreno ove si coltiva il delitto. In questi giorni che precedono il Natale, festività imbarbarita dallo shopping che nemmeno la crisi è riuscita a spegnere, penso che tre figure del Mito siano emerse: Medea, Penelope, Erode. Mi sembra che definire la nostra l’éra di Erode sia naturale, i bambini massacrati nella scuola pakistana, gli altri “giustiziati” nello Yemen non sono forse stati condannati da Erode, re di Giudea? Le due figure femminili. La prima, Medea, è il simbolo delle madri che uccidono i propri figli, la seconda, Penelope, poverina, attrende ancora il suo Ulisse e, intanto, continua a fare la sua copertina. Ma Ulisse non torna e, per il momento, non tornerà, la sua casa (la nostra casa) è stata invasa dai Proci, loro comandano, loro decidono, loro distruggono il diritto, comprese le leggi a difesa di chi onestamente lavora. Si, credo che questo sia il Paese dei Proci.

STATO SOCIALE ADDIO – Il duro governo Renzi ha deciso, tutto va privatizzato, i servizi pubblici tornano a essere privati come un tempo che avevamo faticosamente superato, Ferrovie, Poste, eccetera, in mano alla speculazione privata: ma che si credevano questi italiani socialistoidi che pensavano a uno stato solidale?

LA MAGLIANA – Oh guarda! A Roma ci si è accorti che esiste la banda della Magliana, il grande quartiere popolare a ovest della città, verso Ostia. Sono tanti anni che alla banda viene dato il compito di gestire gli affari politici più sporchi, perfino il rapimento e l’omicidio Moro è stato un affare interno tra servizi cosiddetti devisti e la banda della Magliana, il cui uomo di riferimento in quegli anni si chiamava Tony Chicchiarelli, colui il quale scrisse sulla sua macchina per scrivere IBM i comunicati delle Br, Lago della Duchessa conpreso. Poi il Chicchiarelli è stato fatto fuori, un colpo di pistola alla testa, a poca distanza di tempo dalla esecuzione del giornalista Mino Pecorelli, pagato dai soliti servizi e poi mandato al cimitero. Con un colpo alla nuca. Proprio un bel paesino, il nostro.

scrooge

CALENDARIO DELL’AVVENTO
Canto di Natale di uno spilorcio pentito

Ebenezer Scrooge non ama le persone.
Avaro, non parsimonioso; gretto, non riservato; gelido, non controllato. Semplicemente scrooge. Talmente caratterizzato da avere ispirato il celeberrimo personaggio di Zio Paperone – Uncle Scrooge il suo nome originale – e la parodia Disney che prende il titolo del romanzo, oltre a un vasto numero di trasposizioni cinematografiche; divenuto antonomasia che indica una persona tirchia, taccagna, arida di animo e comportamento (dal dizionario Merriam-Webster: “Scrooge or scrooge: a selfish and unfriendly person who is not willing to spend or give away money”).

“Caldo e freddo contavano poco per Scrooge. Non vi era caldo che lo scaldasse, né tempo d’inverno che lo facesse intirizzire. Non vi era raffica di vento più pungente di lui, né bufera di neve più determinata nel suo intento, né scroscio di pioggia più sordo alle suppliche. Con lui il maltempo non sapeva come fare a spuntarla. Per quanto violenti, pioggia, neve, grandine, nevischio potevano vantare la propria superiorità rispetto a un unico punto. Spesso manifestavano la loro generosità mentre Scrooge non lo faceva mai.”

Scrooge, ricchissimo finanziere nella Londra ottocentesca non ha tempo da perdere con i rapporti umani, né con il Natale. Dopo lo sgarbato, ennesimo rifiuto di fronte a una gentilezza e una richiesta di aiuto, Scrooge riceve una Epifania anticipata, sotto forma di tre spiriti che gli fanno visita.
Prima lo spirito del Natale passato, sotto forma di fantasma, che ricorda al vecchio episodi felici di gioventù da lui disprezzati – il vecchio e bonario capo Fezziwig; il leale socio Marley, ora morente; la sfortunata fidanzata Bella che lui abbandona. E il rimorso che lo pervade, una volta messo di fronte alla propria vita egoista, sprecata senza mai un’azione di bontà, pietà o altruismo.
Gli fa visita poi lo spirito del Natale presente, che gli mostra una umanità dolente, alle prese con difficoltà economiche e privazioni e che tuttavia trova l’occasione e il coraggio di sorridere e celebrare la festa religiosa – il nipote Fred e la sua famiglia, l’umile impiegato Bob Scratchit, minatori, marinai. Il colpo di grazia gli viene inferto dallo spirito del Natale futuro, che mostra a Scrooge nient’altro che il suo imminente futuro: morto, deriso da tutti per la sua tirchieria e la sua bassezza, preda degli sciacalli che si avventano sul suo patrimonio e felici di essersene liberati. La mattina dopo è Natale, ma per Scrooge è arrivata l’Epifania: getta la maschera del capitalista ed entra, a pieno titolo, nel mondo dei buoni, un cattivo che diventa buono, un self-made man finalmente disposto a condividere la propria fortuna, riparando ai torti fatti e offrendo aiuto concreto a chi ne ha bisogno.

«Spirito!», gridò, aggrappandosi alla sua veste, «ascoltatemi! Non sono più l’uomo che ero. Non sarà l’uomo che immancabilmente sarei stato senza il nostro incontro. Perché mostrarmi questo, se sono al di là della speranza?»

Nel suo “Canto di Natale” (“A Christmas Carol: a Goblin Story of Some Bells that Rang an Old Year Out and a New Year In”), pubblicato per la prima volta nel 1843, Charles Dickens getta il lettore in una storia edificante, un racconto fantastico dal sapore gotico, dalle atmosfere cupe e fuligginose, che pesca a piene mani dal realismo di cui lo scrittore è voce forte nella metà Ottocento di quella Inghilterra lacerata da disparità sociali, povertà, analfabetismo, sfruttamento minorile, Poverty Law. Raccontandole attraverso ritratti picareschi, quasi caricaturali nella loro forza espressiva magnificamente incanalata tra poesia mascherata da prosa e ‘morality’ vittoriano, strutturato in cinque atti, con tanto di sipario tra una apparizione di spirito e l’altra.
E magnificamente restituite attraverso i luoghi e i personaggi che la animano, tra protagonisti della classe operaia e del popolo che anima la Londra di Coketown, bambini laceri ai piedi dello spirito del Natale presente, Miseria e Ignoranza – le due condizioni a cui Scrooge e tutti quelli come lui condannano, oggi come allora, chi non fa parte della classe dominante.

variazioni-enigmatiche

‘Variazioni enigmatiche’, una pièce spensieratamente autarchica

STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Variazioni enigmatiche” di Éric-Emmanuel Schmitt, regia di Glauco Mauri, Teatro Comunale di Ferrara, dal 31 gennaio 2001 al 3 febbraio 2002

La stagione di prosa 2001/2002 del Teatro Comunale si avvicina al suo giro di boa con “Variazioni enigmatiche”, del drammaturgo francese Éric-Emmanuel Schmitt (Lione, 1960), una commedia nella quale un celebre scrittore e uno sconosciuto giornalista sono alle prese con un’intervista che ben presto degenera in un duello senza esclusione di colpi. È un gradito ritorno a Ferrara quello di Glauco Mauri (Pesaro, 1930): ottimo regista e grande attore, teatrale e cinematografico, interprete di Sofocle, Shakespeare, Cechov, Brecht, per non parlare di sue magistrali performances beckettiane come ad esempio ne “L’ultimo nastro di Krapp” (1961).
Un abbozzo di trama di “Variazioni enigmatiche” è il seguente: il personaggio protagonista, Abel Znorko, premio Nobel per la letteratura, incontra nella sua casa, dalla cui terrazza si scorge la luce di un tramonto che annuncia di lì a pochi giorni la lunga notte boreale, un giornalista venuto per intervistarlo, Erik Larsen. Lo scrittore, che si è rifugiato su una piccola isola della Norvegia settentrionale e non ha quasi più rapporti con il resto del mondo, discute con l’ospite del suo nuovo recente romanzo. Circa l’ambiguo e inquietante finale, che non sveleremo, ha commentato lo stesso autore: «Ho ricevuto centinaia di lettere che ponevano tutte l’identica domanda: cosa succede dopo l’ultima battuta? La mia risposta è stata sempre la stessa: 1) non lo so, altrimenti avrei continuato la storia; 2) ho scritto questa storia proprio perché mi venga posta questa domanda, e io possa non rispondere».
È dai tempi di “Crepino gli artisti” di Kantor, o di “Glenngarry Glenn Ross” di Mamet, che non si assiste al Comunale ad una commedia di tale caratura. Il copione di Schmitt: arguto e colto, divertente e disperato, intelligente e spietato, non solo fa tesoro della lezione dei maggiori drammaturghi contemporanei, da Ibsen a Miller, da O’Neill a Beckett, ma addirittura richiama, ad esempio in passaggi come: «La carezza è un malinteso fra due solitudini», il magistero di
Shakespeare. Il tutto assemblato con un’originalità ed un’urgenza espressiva completamente autonome, spensieratamente autarchiche. “Variazioni enigmatiche”, tradotto e diretto da Glauco Mauri, per l’interpretazione dello stesso Mauri e Roberto Sturno e con le scene e i costumi di Alessandro Camera, è stata interpretata in Europa da attori del calibro di Alain Delon (in Francia), Donald Sutherland (in Inghilterra), Klaus Maria Brandauer (in Germania).

IL FATTO
Ttip, all’altare del libero scambio Europa e Usa pronti a sacrificare diritti e tutele

“Siamo in un periodo di forte disaffezione alla rappresentanza politica ma evidentemente non di scarsa partecipazione”, ha commentato Raffaele Atti, segretario generale della Cgil di Ferrara, di fronte alla platea gremita che ha partecipato all’incontro “T-Tip: vuoi sapere come ci stanno fregando?”. “E’ l’ultimo venerdì sera prima di Natale e vedere che siete così tanti ci fa capire l’interesse per il tema”, ha detto Marzia Marchi, tra i promotori della serata, assieme a Altraqualità, Biopertutti, Comitato acqua pubblica Ferrara, Comunità Emmaus Ferrara, Gentedisinistra, FerrarAlternativa, Fiom CGIL, Rete Lilliput. Con il patrocinio del Comune di Ferrara.

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I relatori

Il tema è quello del Transatlantic trade and investment partnership, ovvero il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, un trattato di libero scambio e investimento che Unione Europea e Stati Uniti stanno negoziando e che avrà fondamentali ricadute sull’economia mondiale, ma anche locale. Gli Stati Uniti vogliono in buona sostanza aprire un corridoio di scambi economici con l’Europa, chiedendole di rivedere le norme che attualmente li regolano. “Questa trattativa sta avvenendo in segreto, manca completamente di trasparenza” ha accusato Monica Di Sisto, del comitato Stop Ttip, tra i relatori dell’incontro.

La principale preoccupazione degli oppositori al Ttip è che il prezzo del libero scambio sia il sacrificio delle norme per la sicurezza alimentare (in particolare gli Ogm), dei diritti dei lavoratori, e della tutela ambientale, ovvero i capisaldi del nostro Paese, già messi a repentaglio dalla crisi e dalle mafie. Inoltre, paventano i critici, il trattato provocherà la revisione dei regolamenti sull’uso di sostanze chimiche tossiche, delle leggi sulla privacy digitale e anche delle nuove norme a tutela delle operazioni bancarie, introdotte per prevenire una crisi finanziaria come quella del 2008.
“Il tentativo in atto – ha spiegato Vittorio Ferraresi, deputato Cinque Stelle – è quello di bucare il muro che c’è in Europa per accedere al suo mercato, appiattendo le regolamentazioni che rendono difficili le importazioni dagli Usa, che hanno diversi standard di qualità”.

ttip-trattatottip-trattatoIl punto, è stato spiegato, non è solo che dopo tutta la fatica fatta per ottenere, tra gli altri, l’Igp della Salama da Sugo, si apra il mercato italiano al ‘parmesan’, il finto parmigiano prodotto fuori dall’Italia. A preoccupare è anche la volontà dei negoziatori del Ttip di aprire i servizi pubblici e i contratti per appalti governativi alla concorrenza di imprese transnazionali, rendendo possibile un’ulteriore ondata di privatizzazioni in settori chiave come la sanità e l’istruzione.
“Per chi è fatto il trattato?”, ha invitato a chiedersi Ferraresi. “Dietro ai negoziatori statunitensi, ci sono le lobby delle più potenti multinazionali del mondo, che così saranno ancora più potenti”. “L’ipotesi più ottimista – ha affermato Atti – è che il Pil dell’Unione Europea aumenti dello 0,5% entro il 2027”. Il guadagno effettivo che ci si può aspettare dal trattato non appare dunque così rilevante.

“Le aziende – afferma John Hilary, direttore esecutivo di War on want, e autore del libretto di approfondimento distribuito durante la serata – verranno incoraggiate a procurarsi merci e servizi dagli Stati Uniti, dove gli standard di lavoro sono più bassi e i diritti sindacali inesistenti. In un’epoca in cui i tassi di disoccupazione in Europa hanno raggiunto livelli record, con una disoccupazione giovanile in alcuni stati membri del 50%, la Commissione europea ammette ‘timori fondati che quei lavoratori rimasti senza posto a seguito del trattato Ttip non saranno più in grado di trovare un’altra occupazione”.

Ma non è tutto. Ad allarmare tutti gli oppositori europei, costituiti da un asse trasversale da destra a sinistra, è che il trattato includerebbe l’Isds, l’Investor-state dispute settlement, una disposizione per la risoluzione delle controversie tra gli investitori e gli Stati, che permetterebbe alle imprese di “citare in giudizio i governi sovrani – spiega ancora Hilary – davanti a tribunali arbitrali e creati ad hoc, per rifarsi della perdita di profitti eventualmente causata da decisioni di politica pubblica. Questo eleva di fatto il capitale transnazionale ad uno stato equivalente allo stato nazionale stesso, e minaccia di far crollare i principi più elementari della democrazia, sia europea che statunitense”.

“I cittadini cosa possono fare?” ha chiesto il moderatore della serata Michele Fabbri, giornalista scientifico. “Possono informarsi – ha risposto la Di Sisto – la mobilitazione europea nata quando si è diffusa la consapevolezza di quel che stava accadendo, ha comunque costretto l’Ue a desecretare alcuni documenti, anche se altri rimangono inaccessibili. Ora sanno che li stiamo guardando, e stanno cambiando delle cose. In primavera il Parlamento europeo esprimerà un parere sul negoziato, il che non lo modificherà, ma è comunque un passaggio politico importante perché, se evidenzierà delle criticità, noi avremo più forza per opporci. Intanto abbiamo in previsione un grande evento il 18 aprile, in occasione della giornata della terra. Deve nascere una rivolta democratica, se riusciamo a fermare il trattato, avremo uno spazio per discutere non solo di Sanremo, della Roma e della Lazio, ma anche di cosa mangeremo e di come vivremo domani”.

Per saperne di più, visita il sito dell’Ue sul Ttip [vedi] e il sito del comitato Stop Ttip [vedi]

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
L’albero cosmico

Durante il giorno allieta la casa con i colori delle decorazioni appese ai suoi rami e di sera è come se si animasse grazie ai giochi delle luci fra di essi: è l’albero di Natale.
La leggenda narra che la sera della Vigilia Martin Lutero, camminando in prossimità di un bosco illuminato dal chiarore della luna e delle stelle, sia rimasto rapito dai giochi di luce del ghiaccio sui rami e fra gli aghi degli abeti e abbia voluto ricreare quello spettacolo per i propri bambini adornando con innumerevoli candele un albero della propria casa. Ma non è solo questo il motivo per cui la tradizione dell’albero di Natale è, in origine, più sentita nei paesi del Nord Europa, rispetto al presepe più diffuso nei paesi cattolici del Sud. Da sempre nei paesi nordici, ricchi di boschi, gli alberi fungono come una specie di tramite fra gli uomini e i misteri della foresta. Presso i popoli Germani venivano ornati i vari Alberi cosmici con simboli del sole, della luna, dei pianeti e delle stelle, e l’abete in particolare era sacro al dio Odino.
Nel passaggio dall’Antichità al Medioevo e dai culti pagani a quello cristiano, spesso a queste usanze sono stati attribuiti nuovi significati: oltre a esprimere la potenza e la benevolenza di Dio attraverso l’opera della creazione della natura, l’albero è divenuto quindi simbolo di Cristo, inteso come linfa vitale, e della Chiesa, rappresentata come un giardino voluto da Dio sulla terra. Un’altra possibile origine della tradizione dell’albero natalizio è rintracciabile negli antichissimi usi di decorare gli Alberi del Paradiso con nastri e oggetti colorati, fiaccole, piccole campane, animaletti votivi, nonché la credenza che le luci che li illuminavano corrispondessero ad altrettante anime. Una delle prime testimonianze storiche relative all’albero di Natale come lo intendiamo noi oggi si trova in alcune note di un cittadino di Strasburgo risalenti al 1605, che scrive: “A Natale a Strasburgo preparano degli abeti su cui appendono rose di carta colorata, mele, foglie d’oro”.
Tradizione sentitissima in Germania, tanto da essere menzionata da autori del calibro di Goethe o Schiller e da aver ispirato addirittura la famosissima “Tannenbaum”: la melodia, di autore anonimo, è quella di un canto popolare che ha avuto probabilmente origine tra il XVI e il XVII secolo, anche se qualcuno ha ipotizzato una possibile origine medievale, le parole sono state invece composte nel 1819 da un organista di Lipsia, che si è ispirato ad un brano popolare della Slesia. L’albero è approdato in Francia con la principessa Elena di Meclemburgo nel 1840, mentre in Inghilterra in quegli stessi anni era il principe consorte Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, marito della regina Vittoria, a diffondere questa usanza.
Per finire, due tradizioni parallele all’albero di Natale. Nell’isola greca di Chios la mattina di Natale era usanza offrire ai proprietari terrieri un bastone decorato da ghirlande di mirto, ulivo, foglie d’arancio e fiori e frutti della stagione, come gerani, aranci, anemoni, limoni. Tra i circassi, invece, nella prima metà del XIX secolo, in occasione della festa autunnale, in ogni casa veniva portato un giovane pero decorato con candele e formaggio; dopo aver suonato, cantato e mangiato attorno a esso, veniva portato in cortile dove rimaneva per tutto il resto dell’anno.

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Vitaliano Teti, la parola digitale

Tempi digitali, la video arte icona dell’arte dell’era informatica. Pure come dissero gli stessi Nam June Paik e Giorgio Cattani, all’alba, fine secondo Novecento, della nuova arte, la Video è Poetica. In tal senso, anche i pixels sono versi e una inedita letteratura nascente.
Più noto come art director di The Scientist international video festival, oggi tra le principali
rassegne italiane e non solo, Vitaliano Teti, docente Unife, è anche produttore creativo di art video: attraverso numerose collaborazioni, non ultimo, anzi, il ruolo fondamentale in molte produzioni con giovani videomaker universitari di spicco, come Giovanni Tutti, lanciati anche nel video festival.
Vitaliano Teti testimonia nell’arte contemporanea e già nella net art nascente la mutazione dall’analogico al digitale, con un quid peculiare di luminosa matrice archetipica ma dinamica squisitamente poetica. Sul piano concettuale – in tal modulazione specifica – è riuscito a trasformare certa accademia strutturale in arte sperimentale, operazione mediatica e culturale amabilmente evolutiva.
Più nello specifico, Vitaliano Teti è un artista contemporaneo nel settore della video arte e della videodanza, curatore di eventi di arte digitale, borsista di ricerca e docente. Dal 2007 ha fondato l’Associazione culturale Ferrara Video&Arte e cura come art director “The Scientist”, il video festival internazionale di Ferrara in collaborazione con Unife e il Comune di Ferrara, col patrocinio della Regione Emilia-Romagna, erede del Centro videoarte di Ferrara (a cura del Maestro Franco Farina e della prof.ssa Lola Bonora, a suo tempo di fama internazionale Video, Ferrara capitale con New York, Kassel, Tokio, ecc.). Nelle prime due edizioni del festival ha realizzato in co-curatela una retrospettiva sul Centro videoarte di Ferrara stesso con video di Fabrizio Plessi, Giorgio Cattani, Maurizio Camerani, Marina Abramovic, e con M. M. Gazzano video dei maestri della video arte come Bill Viola, Nam June Paik, i Wasulka. Ha selezionato opere in video di diverse accademie e istituzioni nazionali e internazionali come il Coreografo elettronico di Napoli, il Festival Loop di Barcellona, le Accademie di Belle arti di Ginevra, di Weimar, di Colonia, di Bologna, Roma e Brera di Milano.
Ha mostrato a Ferrara le video opere dei principali videoartisti italiani contemporanei tra essi Alessandro Amaducci, Masbedo, Laurina Paperina, Marinella Senatore, Alterazioni Video, Federica Falancia, Zimmer Frei e invitato critici d’arte elettronica di fama internazionale come Mariana Hormaechea, Wilfred Agricola de Cologne, Chiara Canali, Marco Maria Gazzano
Alcune sue curatele da “The Scientist” sono state presentate anche a livello nazionale e internazionale, ad esempio a Siviglia e Barcellona (Spagna), Los Angeles e New York.
Cura live media e eventi di arte contemporanea con la Rta – Porta degli Angeli e col Comune di Ferrara. Come videomaker ha prodotto diversi altri video artisti scelti tra i più talentuosi studenti dell’Università di Ferrara (Corso di laurea in Tecnologie della comunicazione video e multimediale), tra essi Giovanni Tutti, Bruno Leggieri, Matteo Bevilacqua. Ha inoltre partecipato, con una curatela di videodanza, a eventi internazionali futuribili sul quali Transvision 2010 a cura del futurologo informatico Giulio Prisco.
Nel 2011/12 ha prodotto e montato il documentario di Alessandro Raimondi “Un murales una storia”, vincitore della selezione per la produzione di documentario della Regione Emilia-Romagna; a Milano per la rassegna AAM Art (2012). Nel 2013 (con C. Breda) ha presentato alla Casa del cinema di Roma il cortometraggio “Elegia del Po di Michelangelo Antonioni”, omaggio per il centenario della nascita del regista; a Ferrara la rassegna “Corto Divino”, dedicata ai giovani videomaker made in Unife e per la mostra collettiva “Trames Tramites”, l’opera video a doppio canale di Giovanni Tutti “Quello che vorrei”.
Nel 2012 ha pubblicato “Alchimie Digitali” (con il fratello, semiotico, Marco Teti), “La Città del Sole” con prefazione della prof.ssa e ricercatrice Patrizia Fiorillo), saggio peculiare sull’Arte Video contemporanea e retrospettiva anche del Video festival The Scientist stesso,
Presente inoltre, tra le interviste, in “Futurismo Nuova Umanità” (Armando editore, Roma) di chi scrive.

Per saperne di più su Vitaliano Teti visita il sito dell’Università di Ferrara [vedi], leggi un articolo pubblicato su La Stampa [vedi] e sul suo libro “Alchimie digitali” leggi [vedi]
Per saperne di più sul The Scientist international video festival visita il sito [vedi]

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi]

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L’INTERVISTA
Leone Magiera: maestro di Pavarotti, collaborò con Abbado e von Karajan

Leone Magiera, nato a Modena, si è avvicinato giovanissimo al mondo della musica dopo avere ascoltato il pianista svizzero Alfred Cortot alla radio. Ha esordito all’età di 12 anni come pianista e si è diplomato con lode e menzione speciale al Conservatorio di Parma.
Oltre ad avere costruito una formidabile carriera come pianista solista, Magiera ha collaborato con maestri come Giulini, Abbado, Solti, Kleiber e von Karajan, con quest’ultimo instaurò un particolare rapporto artistico di fiducia e stima, il Maestro austriaco lo reputava il migliore conoscitore del repertorio operistico italiano, francese e mozartiano.
Magiera, direttore d’orchestra a sua volta, è stato chiamato a interpretare una cinquantina di opere eseguite nei teatri di ogni parte del mondo, inoltre, ha accompagnato i cantanti più importanti della scena internazionale, come il baritono Ruggero Raimondi, la giovane soprano Carmela Remigio, il soprano Mirella Freni e il tenore Luciano Pavarotti. A Luciano Pavarotti, di cui è stato maestro sin dai primi anni della carriera, lo ha legato un sodalizio umano e artistico durato più di quarant’anni che si è consolidato in oltre mille esecuzioni, sia in veste di direttore che di pianista. La sua preparazione e la brillante carriera l’hanno portato a essere dirigente di teatri come il Teatro alla Scala e Il Maggio musicale fiorentino, oltre che scrittore di libri musicali per la Ricordi. Negli ultimi anni si è dedicato con rinnovato successo al pianismo solistico; la vasta discografia, sia come direttore sia come solista, testimonia la versatilità e l’eccezionalità del suo talento.

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Il Maestro Leone Magiera

Per anni Herbert von Karajan ha preteso che artisti di fama internazionale studiassero le opere con lei, prima di salire sul palcoscenico del Festival di Salisburgo, com’è nata la vostra collaborazione?
Accompagnando al pianoforte Mirella Freni e Luciano Pavarotti, in audizione con il Maestro. Commentò che li avevo preparati molto bene (entrambi studiavano con me) e mi chiese di tenere un corso al festival di Salisburgo, che tenni per cinque anni. In quell’occasione collaborai con lui nelle opere italiane. Era una responsabilità perché von Karajan era molto esigente, ma anche molto simpatico con i suoi collaboratori, cantanti o musicisti. Sapeva cioè stemperare la tensione che inevitabilmente si provava lavorando al fianco di un simile gigante della musica.

Lei è stato segretario artistico del Teatro alla Scala di Milano e direttore della programmazione del Maggio musicale fiorentino, che ricordi ha di quel periodo?
Difficile elencare i ricordi di sette anni. Forse la débacle di Monserrat Caballe alla prima di Anna Bolena alla Scala, che mi costrinse a inventarmi una sostituta che trovai in cecilia Gasdia, che trionfò a soli 19 anni.

Da alcuni anni lei è tornato al pianismo solistico, con importanti recital in Italia e all’estero (Corea, Tokio). Com’è cambiato il pubblico rispetto ai suoi inizi?
Il pubblico, quasi sempre, reagisce allo stesso modo. Può passare dall’entusiasmo più sfrenato alla reazione più violenta, in rapporto al rendimento artistico degli interpreti.

Ritiene che il pianoforte sia lo strumento più completo?
Il pianoforte è certamente lo strumento più completo. Permette di leggere contemporaneamente molti righi musicali ed è indispensabile a ogni compositore. Non dico sia il più difficile, ma certamente il più completo.

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Magiera ha studiato per oltre 50 anni i 24 studi di Chopin

Nel corso della sua carriera lei ha scoperto molti giovani, cosa occorre per aiutare un talento in erba?
Per scoprire un giovane occorre avere un intuito particolare… il giovane artista deve avere un talento naturale, che si sviluppa non solo tecnicamente ma anche artisticamente. E, forse, la seconda è la caratteristica più importante nella nostra epoca.

Lei e Luciano Pavarotti avete collaborato per più di quarant’anni, iniziando da quella lontana Bohème…
Sì, ha studiato con me fin dall’inizio, da quando aveva 18 anni e abbiamo fatto insieme più di mille esibizioni.

Cos’ha reso Pavarotti così grande?
Molte cose. La natura gli aveva dato una voce eccezionalmente estesa da subito. E le sue naturali cavità di risonanza davano al suo timbro vocale una bellezza particolarissima fin dal suo debutto in Bohème. L’interesse per la pronuncia della parola era in lui molto sviluppato e ha curato quest’aspetto maniacalmente per tutta la carriera. Poi la forte personalità, il carisma sul palcoscenico, la solidità fisica e vocale… un complesso raro di doti.

Il sogno del “Fitzcarraldo” era quello di costruire un Teatro per l’opera nella foresta amazzonica, lei accompagnò al pianoforte Luciano Pavarotti nel Teatro di Manaus, in un’inusuale performance …
Sì, dopo un grande concerto a Buenos Aires noleggiò una nave, attraversammo la foresta amazzonica e giunti a Manaus vidi che Luciano era stranamente emozionato, certamente pensava al film e a Caruso, il tenore che ammirava particolarmente assieme a Giuseppe Di Stefano. E volle cantare sul palcoscenico del teatro accompagnato da me con un vecchio pianoforte.

Lei ha diretto Henghel Gualdi durante la tournée del 1989 di Luciano Pavarotti negli Stati Uniti, che ricordo ha del grande clarinettista?
Henghel Gualdi è stato uno dei più grandi clarinettisti del mondo come jazzista e formidabile improvvisatore. Ricordo che Armstrong lo volle con sé nella sua tournée italiana e che l’unica volta che si esibì in America, a Portland sotto la mia direzione, ebbe un successo clamoroso sottolineato dalla stampa americana. Il problema principale era la sua ritrosia e avversione ai viaggi al di fuori dei confini emiliano – romagnoli. E questo gli ha impedito di raggiungere la fama mondiale che avrebbe ampiamente meritato.

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Il più recente lavoro discografico di Magiera, I 24 Studi di Chopin

Il suo ultimo lavoro discografico ha riguardato i 24 studi di Chopin, senza dubbio si è trattato di un compito impegnativo …
I 24 studi di Chopin costituiscono un unicum particolarmente arduo per ogni pianista. Li ho studiati per più di 50 anni tutti i giorni e registrarli è stato un grande impegno ma anche una grande soddisfazione.

Si ringrazia il Maestro Leone Magiera per la squisita collaborazione e la concessione del materiale fotografico.

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L’EVENTO
Winter Wonderland, tante attrazioni per il nostro Natale

Caroselli e cabaret, attrazioni di oggi e di ieri, tra una partita di subbuteo e una pièce di burattini, tra un giro di giostra e uno sul trenino in partenza dal centro storico. Con un occhio di riguardo a un circo senza animali in vetrina – Winter Circus – e al volontariato attivo per l’oncologia pediatrica, Associazione Giulia Onlus.
É Winter Wonderland, organizzato da Catterplanet e F.lli Bisi, Regione Emilia Romagna, Comune e Camera di Commercio di Ferrara, Cassa di Risparmio di Cento e Ferrara Fiere Congressi, che si aprirà ufficialmente oggi alle 15.00 nel Quartiere fieristico di Ferrara.

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Il logo

“L’idea – racconta Daniela Modonesi, curatrice ufficio stampa dell’evento – arriva da una precisa richiesta dei genitori ai giostrai che animano ogni anno la festa patronale di San Giorgio: perché non organizzare qualcosa di simile all’attrazione fieristica anche in inverno, magari proprio nel periodo natalizio? Affrontati i problemi di natura logistica che inevitabilmente erano da porsi, è stato Luca (Catter, n.d.r.) ad avere l’intuizione che la zona fiera potesse corrispondere all’esigenza di ricreare un evento del genere.
Evento che ha visto lo scorso anno trionfare il numero zero, perché incontra le esigenze dei bambini e dei genitori nella possibilità di evasione e divertimento in sicurezza, all’interno dei padiglioni del quartiere fieristico. Proponendosi come interessante alternativa per i pomeriggi invernali festivi non solo per le famiglie, ma per un pubblico ben più eterogeneo, anche attraverso promozioni e attenzioni particolari. In molte scuole ferraresi, ad esempio, sono state distribuite tessere della Festa dello studente, che permetteraranno a bambini e ragazzini di entrare gratis e usufruire di attrazioni e omaggi.

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Edizione dello scorso anno

Un meccanismo dagli ingranaggi complessi e ben oliati: “C’è dietro un lavoro imponente da parte di ideatori e organizzatori, impegno che peraltro non si esaurisce nell’arco di qualche giorno ma che si protrae per ben 23 giorni senza interruzioni, facendone un evento unico nel suo genere, con più di 20.000 metri quadrati di attrazioni, parco divertimenti coperto più esteso d’Italia.”
La cura è estesa nei minimi dettagli: una area ristorazione sempre attiva, che comprende street food variegato – piatti tipici ferraresi e bavaresi –, laboratori di addobbi natalizi e di baby cooking, baby dance e face painting dedicati ai più piccoli, veglione di Capodanno con lo show “Made in Fe”.
E, imprescindibili in un parco divertimenti, i personaggi dei cartoni animati, Babbo Natale e la Befana, fascinatori di grandi e piccini; per far contento quel bambino che ancora alberga dentro di noi.

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Alberi e Stelle di Natale

Da settimane i banchi dei centri commerciali sono pieni di Stelle di Natale, le poinsettie (Euphorbia pulcherrima) che riempiranno di colore le nostre case durante le prossime feste. Ho sempre avuto la sensazione che queste piante contenessero un timer, programmato per il loro totale deperimento, a partire dal giorno della Befana. Così almeno è sempre successo, fino all’anno scorso, quando la mia piantina senza sponsor e pedigree, acquistata per pochi euro in un supermercato, non solo ha troneggiato sul pianerottolo della mia scala per tutte le feste, ma è sopravvissuta, con le sue foglie verdi e qualche goccio d’acqua, fino a quando, arrivata la primavera ho deciso di metterla in giardino. Nel suo vasetto di plastica, all’ombra della rete ricoperta d’edera, ma con le spalle riscaldate dal sole che batte fino a sera dall’altro lato della stessa rete, in mezzo alla informe confusione che ormai ha preso il possesso del mio giardino, ha trovato una casa di suo gusto. Non l’ho praticamente mai innaffiata, questa estate fresca e molto piovosa ha provveduto alle sue necessità, e da una settimana l’ho riportata sul pianerottolo delle scale, dopo averle fatto passare una decina di giorni nella terra di mezzo che è il garage non riscaldato. Pare stia bene, le ho messo vicino una stella nuova con le brattee belle rosse, per farle compagnia e per fare un po’ di massa alla base della pianta, che crescendo in altezza, ha perso le foglie lungo gli steli che si sono ingrossati e allungati. Non sono mai stata in Messico, la terra di origine della poinsettia, ma penso sia uno spettacolo fantastico vederne degli esemplari alti più di due metri. La facilità con cui la mia piantina si è mantenuta da sola, come una comune erbaccia, mi fa pensare che non sia stato un virtuosismo del mio pollice verde, ma un segno dei cambiamenti climatici che stiamo vivendo, o forse doveva andare così, intanto sono curiosa di vedere se riuscirà a sopravvivere anche dopo questo Natale, e nell’attesa, metto in sospeso l’argomento.
Albero vero o albero di plastica? Preferisco quello vero. In commercio si trovano alberi di vivaio di tutte le dimensioni e prezzi, quindi di solito acquisto un bell’albero e lo riempio di piccoli oggetti acquistati o che mi sono stati regalati in tanti anni di vita, piccole cose che rendono il mio albero una vera collezione di ricordi e pensieri gentili. Negli anni passati, finite le feste lasciavo la pianta nel vaso e qualche volta sono riuscita ad utilizzarlo per due anni di seguito, altrimenti è finito tagliato a pezzi e bruciato nella stufa. Mi rendo conto che questo processo faccia orrore a molte persone, ma per smaltire la plastica di un albero finto ci vogliono troppi anni per i miei gusti, quindi se la plastica è una scelta per comodità posso condividerla, ma non credo sia una scelta giusta dal punto di vista dell’ambiente, un ambiente che tranne in rarissimi casi, ha subito un danno enorme proprio grazie alla riforestazione indiscriminata con abetaie. Soprattutto in tutti i casi in cui, per una pessima moda di parecchi decenni fa, l’abete ha sostituito ettari di macchia mediterranea, eliminando un sistema complesso in grado di trattenere terreni franosi e resistere agli incendi con maggiore efficacia. Danni ambientali a parte, trovo fastidiosa la pratica comune di piantare l’abete in giardino o, peggio ancora, negli spazi condominiali, la considero una delle tante sciagure paesaggistiche che ci tocca subire, non per la pianta, ma per le assurde potature che le vengono inflitte per adattarlo alla mancanza di spazio. L’abete comune è una pianta robusta, sta bene anche in pianura e in vent’anni raggiunge comodamente 12 metri di altezza, più o meno come una casa di tre piani. Vent’anni fa anch’io ne ho piantato uno in giardino, perché quando si è presi dall’entusiasmo e dall’horror vacui si fanno un sacco di sciocchezze, si pianterebbe di tutto o peggio ancora, come nel mio caso, ci si rende disponibili a dare ospitalità a tutti gli esuberi degli amici. Il mio abete è stato piantato da piccolo, una cosina da niente che negli anni si è presa non solo il suo spazio, ma anche quello delle piante vicine, che sono state spostate o addirittura eliminate per lasciare all’albero tutti i suoi rami, anche quelli più bassi. Adesso il mio abete è bellissimo, non è mai stato potato, ma arriverà il momento in cui tenterà di espatriare nel cortile del mio vicino, e allora saranno dolori, perché dovrò scegliere tra una potatura infelice o la sua eliminazione e come sempre, sarà la pianta a pagare l’errore del suo giardiniere.

LO SCENARIO
Il blogger Rudy Bandiera: “Le tecnologie stanno rivoluzionando il nostro mondo, ma al centro resta sempre l’uomo”

Nuove tecnologie e nuovi usi del web che, racchiusi in uno stesso nucleo, andranno a comporre quello che sarà conosciuto come web 3.0: una definizione che ancora non esiste e una concezione ancora lontana dall’affermarsi ma che, a parere di Rudy Bandiera, una fra i più noti blogger italiani, andrà sviluppandosi molto presto.
“Andiamo verso un web potenziato – spiega –  una novità che per la prima volta nella storia racchiuderà tutto attorno ad un unico media che sarà, appunto, lo stesso web”. E al centro di questa rivoluzione ci saremo ancora una volta noi stessi, ancora più di prima. Uno scenario dalle dimensioni enormi che introdurrà un’ennesima novità, l’”economia della reputazione”. Chiaro è infatti che aumentando l’importanza della rete aumenterà di pari passo anche il nostro bisogno di essere influenti all’interno della rete stessa. Saremo giudicati allora principalmente per la nostra capacità di muoverci nel web e di imporci come “influencer”, come soggetti cioè in grado di saper creare un’ampia rete attorno alla quale costruirsi la più alta reputazione e credibilità possibile.
Questo è già presente oggi, tutto quello che facciamo in rete può essere infatti mappato e controllato (piattaforme come Klout misurano proprio la nostra influenza nel web), ed anche le aziende incominciano a tenere in considerazione queste statistiche per scegliere chi assumere.

L’occasione per riflettere su questi temi cruciali è stato il seminario di Unife organizzato dal ricercatore del Dipartimento di Economia e management Fulvio Fortezza che si è tenuto ieri, al Polo degli Adelardi. Protagonista Rudy Bandiera, notissimo blogger ferrarese, ai vertici delle classifiche di vendita con il suo volume “Rischi e opportunità del Web 3.0″ e socio fondatore di NetPropaganda con l’amico Riccardo Scandellari. L’incontro, aperto a studenti e alla comunità, aveva l’obiettivo di stimolare il ragionamento su alcune cosiddette “tematiche di frontiera” inerenti al mondo della comunicazione nell’era digitale, analizzando chi già padroneggia questo settore e come questo si svilupperà e andrà a consolidarsi nel (ormai vicinissimo) futuro.

Obbligata una prima introduzione sull’avvento di tale sistema, una rivoluzione tecnologica che ha visto i suoi albori negli anni ’70 con le prime diffusioni dei computer e che si è affermata solamente nella metà degli anni ’90, nel bel mezzo della bolla speculativa che ha comportato la crisi del settore tecnologico. Un aspetto, quest’ultimo, che Bandiera contestualizza nei nostri giorni, definendo l’attuale problematica situazione non come mera crisi, ma un “cambiamento necessario che sarà destinato a terminare e consolidarsi, come la storia ci insegna”.

Facendo poi una carrellata quindi dei principali colossi, rinominati in questo caso veri e propri “ecosistemi”, che rispondono al nome Apple, Microsoft, Facebook, Amazon e Google, è emerso come tali aziende che oggi sono incontrastate dominatrici dello scenario globale, in principio non furono altro che semplici visioni nate perlopiù in garage, frutti di idee sulla carta semplici e scontate ma che, messe in pratica, hanno contribuito a cambiare il nostro stile di vita, il nostro modo di concepire il mondo, il nostro essere.
Tutto questo per introdurre il fine ultimo del seminario, la consapevolezza cioè che la tecnologia si sta evolvendo sotto i nostri occhi in tempi e modi che ci paiono essere degni della più utopica fantascienza; che in realtà siamo proprio noi stessi a comportare tali cambiamenti, agendo in prima persona nelle dinamiche del web.

“Non esiste più la comunità della rete” afferma Bandiera, intendendo che oggi volenti o nolenti siamo tutti dentro a quello che ruota intorno al web, e che la stessa rete si sta andando a trasformare proprio come noi vorremmo si trasformasse.
È stata così introdotta la questione del “web semantico”, un nuovo scenario che ci presenterà le macchine non solo in grado di leggere quello che noi vogliamo ma anche di interpretarlo, software che comunicheranno tra di loro decodificando ogni nostro pensiero introdotto nella rete. Una tecnologia pervasiva (o trasparente), che noi non vediamo ma esiste e lavora con e per noi. Il tutto ingigantito dalla diffusione sempre maggiore di realtà aumentata e nuove tecnologie 3D: i Google Glass per esempio, gli occhiali “smart”, dei quali proprio Rudy Bandiera è stato uno dei pochi in Italia a testare e recensire. Apparecchi che ci sembrano ancora così lontani dall’esistere ma in realtà esistono già e aspettano solo di essere commercializzati.

Alla luce di quest’ultima tematica ed in conclusione, Bandiera ha cercato di spiegare come muoversi per farsi conoscere nella rete narrando anche la sua esperienza personale, caratterizzata da un blog divenuto uno dei più visitati in Italia, oltre che dalla chiamata da parte di Google a presentare l’unico suo evento italiano nel 2014. Il blog, appunto, viene visto come uno strumento unico ed il solo in grado di poter esprimere tutte le nostre capacità e le nostre passioni in assoluta libertà, un investimento in termini di tempo e risorse che non comporta necessariamente un guadagno diretto ma indiretto, un modo per cominciare e farsi conoscere. Ma attenzione al fattore “straordinarietà”: siamo straordinari una volta sola, copiare ed emulare qualcosa che va già bene potrebbe non essere la soluzione.
Ci viene ricordato che “le cose più difficili da mettere in atto sono anche quelle che ci frutteranno di più”, dobbiamo cioè essere bravi a dimostrarci innovatori e creativi per creare qualcosa di unico.

Infine si è parlato di opportunità. Questa è la parola chiave secondo Bandiera, capire quello che sta accadendo e saper cavalcare le infinite possibilità che questo cambiamento ci metterà davanti. Questo è il monito di un personaggio che questa opportunità l’ha colta ed ha saputo sfruttarla con grandi risultati, un’esperienza che vuole diffondere a tutti noi e soprattutto alle nuove generazioni (i cosiddetti “nativi digitali”) affinché capiscano e comprendano gli infiniti scenari che verranno loro offerti. Senza però spaventarsi: il blogger non nasconde che questo rapidissimo cambiamento senza precedenti può spiazzare e farci perdere il contatto con la realtà, ma è un processo necessario ed inarrestabile, non potremo più pensare di agire senza capirlo o muoverci dentro. Ecco perché seminari come questi andrebbero moltiplicati e diffusi, soprattutto in un Paese come il nostro, ancora così ostile al cambiamento e rimasto indietro anni luce per quanto riguarda le tematiche appena affrontate.

Leggi sullo stesso argomento la riflessione di Andrea Cirelli

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
Racconto di Natale

Dio non è morto. Lo spiega bene Dino Buzzati quando, nel 1958, pubblica “Racconto di Natale”.
Lo scrittore mescola, con temi propri della sua poetica letteraria, fiaba e surreale, ironia e neogotico, lasciando scoperto il nervo dell’essenza natalizia – la condivisione dell’amore divino mettendo in rilievo l’uomo moderno e cogliendone, in modo apparentemente candido e senza mai rinunciare alla vena sarcastica che spesso caratterizza la propria opera, l’essenza più autentica, inserendo nello stesso racconto la morale.

“Che farà la sera di Natale – ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e Pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, […] il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni […]. Come farà l’arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di Sua Eccellenza […].”

Dio è ovunque, ci dice Buzzati; e, lezione ancor più preziosa, lo dice da laico; ben lontano dall’ortodossia, dai privilegi di casta, da una discrepanza tra ciò che realmente sono e ciò che dovrebbe essere, e rappresentare, la Chiesa e l’insegnamento religioso.
Lo dice attraverso don Valentino, solerte parroco che rinnega asilo e cibo a un mendicante e si trova, convinto di averlo fatto scappare, a rincorrere un Dio che tuttavia si allontana ogni volta in cui crede di averlo “trovato”, senza mai averlo realmente conosciuto. Prima nella magnifica chiesa che resta però fredda e buia, dopo lo sgarbo fatto all’uomo bisognoso; poi nella famiglia riunita intorno alla tavola imbandita che si rifiuta di condividere la propria abbondanza; e ancora nei campi rigogliosi, la cui ricchezza di frutti è rifiutata dall’avaro contadino.

“Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo.”

E così via, in una spirale che lo riconduce al punto di partenza, la chiesa, che però gli riappare, seppure nel delirio del freddo, nuovamente calda e splendente; colma, finalmente, di quel Dio – sinonimo di altruismo, bontà d’animo e compassione – che l’ingenuo don Valentino, curioso incrocio tra il pavido don Abbondio e il sornione don Raffaè, non riesce prima di quel momento a cogliere.
E che capisce invece l’arcivescovo del paese, mettendo a nudo tutti quei re dagli abiti inesistenti, che cercano Dio nei posti sbagliati.

“Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se possibile, ancora più pallido. «Buon Natale a te, don Valentino» esclamò l’arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio”.

E (solo per stavolta): Buzzati-Nietzsche 1-1.

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IL FATTO
Il crollo del rublo non turba il Natale russo

da MOSCA – Gli analisti parlano di crisi, il rublo crolla, oggi l’euro viene cambiato a 75. Il Brent è a 62 dollari. Brutte notizie per economie come quella russa. Annus horribilis, il 2015, per questo grande e sterminato Paese che si trova in un isolamento quasi forzato? Il grande orso ha freddo? Teme qualcosa e qualcuno? Non pare proprio. Anche se molte persone si preoccupano per il futuro, la crisi per il momento non si vede. Mosca scintilla, sfavilla. Come sempre, ora più che mai. Le luci invadono la città, già da qualche mese, gli alberi sono avvolti, abbracciati, da fili lampeggianti blu, rossi, bianchi, argentati e dorati.

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Zubovsky Boulevard

I bambini corrono felici nelle piazze e nei parchi innevati, pattinano sulle grandi piste ghiacciate come quelle della Piazza Rossa. Le palline di Natale riflettono tanti visi sorridenti. Profumo di zucchero a velo, caramelle e dolcetti di ogni tipo. E poi tanti colori, colori che si confondono con il bianco della neve che è recentemente caduta sulla città, avvolgendola in un candido e tenero mantello. Immagini d’altri tempi. Una fiaba.
Ai grandi magazzini Gum (Glavnyi universalnyi magazin) si respira aria di festa. Chiacchiericci, giocattoli, luci, profumi, stelle di Natale, regali, fiocchi. Così diversi dalle origini, dalla loro epoca sovietica, ma ora come allora al centro della vita della città.

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Il Gum nel 1893
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Il Gum oggi

Qui si sorride oggi, ci si racconta cosa si farà a Natale e a Capodanno, si sorseggia un thè o si mangia un gelato (eh sì, perché anche se fa freddo, questa tradizione è molto forte). Si compra, si sceglie, si vedono costumi d’altri tempi, collane colorate, luci che sembrano caleidoscopi, si passeggia mano nella mano, scappa anche un bacio. Tanti gli abbracci, cappellini che volano, sciarpe che volteggiano, specchi che riflettono. Si passa un fine settimana spensierato, in attesa di un po’ di meritato riposo. Mentre fuori nevica, candidamente, teneramente, lentamente. Non si vuole pensare alla crisi, per quella c’è sempre tempo. Oggi è tempo di leggerezza.

Immagini dal Gum Oggi, foto di Simonetta Sandri
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province

Provincialismo riformista

Mentre prendiamo atto che Giorgia Meloni dice di sentirsi pronta per fare il sindaco di Roma, tocca parlar ancora di Province.
C’è ormai largo consenso nel far risalire l’attacco mortale agli enti che stanno fra i Comuni e le Regioni a una sorta di diktat partito dall’Europa e indirizzato ai cosiddetti Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna).
Cari Maiali – pare essere stato il ragionamento – il vostro quadro di finanza pubblica non è più compatibile né sostenibile, perciò dovete stringere la cinghia cominciando a rivedere al risparmio il vostro assetto istituzionale. Altrimenti niente risorse.
Così l’attacco in Italia è stato messo a punto, già dal governo Monti, contro le Province che rappresentano notoriamente l’1,2 per cento dell’intera spesa pubblica nazionale.
Solo che il professore è stato bacchettato dalla Corte costituzionale, perché una riforma istituzionale non può essere fatta con logica emergenziale, cioè con decreto legge, ma dentro un disegno, un’architettura.
Tanto per rimanere in terreno edile, lo direbbe anche Calzinazza, il manovale nel film Amarcord di Fellini, che una casa si inizia dalle fondamenta e non dal tetto.
E invece, fa notare chi se ne intende, è dai tempi di Berlusconi che il Legislatore pretende di partire dal livello ordinario per cambiare equilibri definiti dalla Costituzione, infischiandosi del principi delle fonti del Diritto, che sorregge l’intero nostro ordinamento giuridico.
E’ pur vero che in Italia se si vuole cambiare la Costituzione si sa quando si comincia e non quando e se si finisce, ma così facendo si entra in un campo minato.
Tecnicismi? Mica tanto.
La legge Delrio (n. 56 del 7 aprile 2014), chiamata anche Svuota Province perché ne riduce funzioni e compiti, introduce un regime normativo provvisorio, in attesa che si compia l’iter della riforma che porta la firma della ministra Boschi per cancellare la parola dalla Costituzione.
Proprio chi mangia pane e Costituzione è del parere che in questo modo si aprono numerose questioni di incostituzionalità che se fossero sollevate sarebbe un bel casino.
Fosse solo questo il problema.
Prima la Svuota Province dice che le funzioni si devono ridurre essenzialmente a quattro (strade, edilizia scolastica, ambiente e territorio). Poi la Conferenza Stato-Regioni aggiunge che altri compiti possono essere delegati dalle Regioni alle Province, al termine di un lavoro di mappatura da compiersi all’interno di Osservatori regionali (molti dei quali non sono nemmeno partiti).
Nel frattempo il governo fa arrivare in Parlamento il disegno di legge di stabilità, nel quale sono previsti tagli alle Province di un miliardo ogni anno fino a raggiungere la somma di tre miliardi nel 2017.
Giusto il tempo di fare una botta di conti per accorgersi che su circa nove miliardi che costano le Province, 3,5 servono per tenere decenti strade e scuole. Si dice: se vengono a mancare tre miliardi di cosa stiamo discutendo?
Ma non basta.
Un emendamento alla legge di stabilità impone anche una riduzione di personale del 50 per cento entro pochi giorni dalla sua entrata in vigore.
I giornali di mezza Italia scrivono che la traduzione di questa misura sono 50mila fra dipendenti provinciali e delle Città metropolitane che dalla sera alla mattina dovranno trovare un altro posto di lavoro: nei Comuni, nelle Regioni, nello Stato?
In pratica, da un lato la Delrio dice alle Province di tuffarsi da un trampolino, indicando quanti carpiati e avvitamenti si devono compiere, dall’altro si leva l’acqua dalla piscina.
Così il Legislatore sta, di fatto, alzando la tensione tra livelli istituzionali del Paese, in un clima sociale ed economico già duramente surriscaldato dagli effetti di una crisi mai vista prima.
Ad essere comprensivi si può capire che qualcuno possa aver pensato: Provincia più leggera uguale a meno risorse e meno personale. Però in questo modo non ci sono i soldi non solo per le eventuali funzioni che continueranno a delegare le Regioni, ma nemmeno per le quattro superstiti della Delrio.
Gli esperti parlano di momento di grande ipocrisia legislativa ed istituzionale, dal momento che si sta di fatto spingendo dei profili istituzionali, per quanto provvisori, verso uno scenario di possibile interruzione di pubblico servizio che, fanno notare, è un reato penale.
Qualcuno sta provando a non farsi prendere dal panico, rilanciando una Provincia come agenzia tecnica al servizio del territorio (sul modello spagnolo). Una specie di centrale qualificata per acquisti, appalti, forniture e servizi, a disposizione dei Comuni. Un esempio di ottimizzazione di risorse e competenze.
Il problema è che se questi sono i termini, è lecito pensare che la preoccupazione numero uno dei presidenti di Provincia in questo momento sia far quadrare bilanci e pagare gli stipendi, assecondando un fuggi fuggi del personale comprensibilmente preoccupato per i propri destini lavorativi. Ed è altrettanto immaginabile che i primi a trovare nuovi approdi occupazionali siano le professionalità che hanno più mercato.
Il risultato potrebbe essere che le Province sopravvissute a questa emorragia di competenze si riducano di fatto a poco più che delle Caritas, oggettivamente impossibilitate ad essere il supporto tecnico immaginato.
In questo clima è poi sorprendente la preoccupazione, adesso, dei sindacati per le sorti dei dipendenti pubblici in questione, quando i loro stessi leader nazionali, a suo tempo, non hanno esitato ad accodarsi a gran voce al coro di quanti – politici, giornalisti, studiosi, esperti – hanno predicato l’inutilità delle Province.
Ma il bello della questione è l’approdo finale. Già, perché terminato il regime provvisorio della Delrio (non si sa come), chi sopravviverà assisterà a quanto previsto dalla riforma costituzionale Boschi, la quale cancella le Province dalla Costituzione ma consentirà alle Regioni di avvalersi di enti di area vasta.
A quel punto sarà curioso vedere la faccia di chi si prenderà la briga di spiegare, ad esempio, ai cittadini emiliano-romagnoli che sono state cancellate nove Province per sostituirle con decine di Unioni di Comuni. Per risparmiare, è chiaro.
Come se non bastasse, proprio sui giornaloni che più hanno tuonato conto lo spreco delle Province si inizia a leggere che questa riforma non solo le ha svuotate, ma fatte diventare poco democratiche.
Ma va?
E non per colpa dell’astensionismo, ma perché la Delrio le ha trasformate in enti di secondo livello, cioè sono i sindaci che si eleggono tra loro mentre i cittadini non possono più dire come la pensano su come sono tenute le strade, o le scuole dove vanno i loro figli.
Decisamente paiono destinate ad ingrossarsi le file del già affollatissimo club tricolore delle facce da paracarro.

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Cari genitori, date una carezza al vostro bambino

Oltre a garantire ai propri piccoli un buon sviluppo cognitivo e a riempirli di attenzioni e coccole, ci sono anche altri aspetti che rientrano nel ‘prendersi cura’ del proprio bambino accompagnandolo in un sano percorso di crescita. Un corretto svezzamento e una buona alimentazione nei primi anni di vita sono fondamentali per evitare disturbi da grandi. Assicurarsi che i piccoli riposino adeguatamente riduce la possibilità che soffrano di disturbi del sonno.

CONSIGLI PER LO SVEZZAMENTO E L’ALIMENTAZIONE DEI PICCOLI
Un altro aspetto importante è quello dello svezzamento. Nutrintake, un recente studio italiano che rivela i comportamenti alimentari dei bambini dai 6 ai 36 mesi, ha messo in luce le principali ragioni degli squilibri nutrizionali nella dieta dei più piccoli.
In sostanza, si parla di errori nello svezzamento che portano con sé il rischio di carenze nutrizionali, come anemie, sovrappeso, obesità ed ipertensione nelle età successive. La basi di questi disturbi vengono posti soprattutto a partire dai primi tre anni di dieta che vanno curati molto attentamente. Lo svezzamento e l’educazione al cibo ‘da grandi’ deve essere graduale, fatto senza ansia e senza fretta. Un’alimentazione troppo ricca di sale, proteine, zuccheri semplici e calorie può portare ad una carenza di ferro e fibre.

Cosa evitare:
– non introdurre il latte vaccino prima del dodicesimo mese;
– non introdurre cibi confezionati per adulti, non adatti ai bambini, come cracker, biscotti, merendine e pizze, prima dell’anno di vita;
– evitare porzioni troppo grandi, il piccolo non va riempito bensì alimentato;
– non stimolare fin da subito il bambino con sapori forti, ma puntare ad introdurre frutta e verdura nel primo semestre;
– bandire il sale, almeno fino all’anno e mezzo;
– evitare i cibi troppo conditi;
– ricordare che solo dopo i 2 anni il bambino può mangiare tutto.

Dopo i 9 mesi, e soprattutto dopo i 12, infatti, si cade nell’errore di considerare il bambino ‘un piccolo adulto’, abbandonando l’alimentazione specifica per l’infanzia e uniformandola a quella della famiglia. E così si sostituiscono i prodotti per l’infanzia con quelli per gli adulti, dalle merendine in giù.
Uno dei principali squilibri emersi è l’eccesso di proteine. Fino a 12 mesi, il 50% dei bambini ne assume il doppio rispetto al fabbisogno raccomandato e, superato l’anno di vita, il livello balza a quasi 3 volte rispetto al reale fabbisogno. Poca, invece, l’assunzione di ferra che cala dallo svezzamento in avanti. La maggior parte dei bambini nei primi 3 anni di vita non raggiunge il fabbisogno raccomandato. Oltre alle proteine, le mamme eccedono anche con la quantità di sodio, visto che l’abitudine di salare le pappe inizia già prima dell’anno, quando si tenta di rendere più gustosi i cibi pensando di facilitare lo svezzamento. A partire dai 18 mesi poi, 1 bambino su 2 consuma una quantità di sale che va oltre il limite raccomandato. Ricordiamoci che la corretta alimentazione nei primi tre anni di vita getta le basi della salute o di futuri disturbi che diventano poi difficili da correggere come il sovrappeso e l’obesità.

CONSIGLI PER ASSICURARE UN ADEGUATO RIPOSO AL BAMBINO
Come mettere a dormire i bambini e come fare in modo che rimangano addormentati è uno dei compiti più difficili dei genitori, soprattutto con i neonati. Un terzo dei bambini soffre di un qualche tipo di problema di sonno.

Mettere a letto presto i piccoli
I piccoli, in media, dormono un’ora in meno a notte rispetto ad un secolo fa e ciò influenza la loro crescita, la difficoltà ad addormentarsi e i continui risvegli di notte anche da grandi. Non lasciare che i bambini vadano a dormire troppo tardi, ciò crea un sovraffaticamento e la sovraeccitazione del cervello. Questo vale sia per i neonati che per i bambini piccoli.
La famiglia ormai è sommersa da impegni e il sonno può diventare una priorità dimenticata. Ma è buona abitudine impostare orari regolari in cui andare a letto e non aspettare fino a quando il bambino inizia a stropicciarsi gli occhi dalla stanchezza, sbadigli o pianga, il che probabilmente è troppo tardi. Mettetelo a letto prima. Anche 15 o 20 minuti di sonno in più possono fare la differenza.
La National Sleep Foundation afferma che i neonati e i bambini piccoli in genere hanno bisogno di 12 ore di sonno durante la notte, i bambini in età prescolare hanno bisogno fino a 13 ore ed i ragazzi più grandi dovrebbero dormire almeno 10 o 11 ore.

Evitare di farli dormire sempre in movimento
C’è un sospiro di sollievo quando si osserva che il piccolo si addormenta sul sedile posteriore della macchina, vero? Stupendo! Ma attenti a non cadere nella trappola di usare il movimento per fare in modo che il bambino si addormenti per la notte. Se il bambino si addormenta solo e sempre in movimento – nel passeggino o in auto – probabilmente non riesce a raggiungere una fase di sonno profondo e ristoratore a causa della stimolazione del movimento. Gli esperti paragonano il sonno in movimento di un bimbo al sonno indotto ad un adulto durante un viaggio in aereo. Il movimento va utilizzato per calmare i bambini, non per indurli a dormire.

Evitare di sovrastimolare il mondo dei sogni
Va bene offrire della musica rilassante al piccolo per addormentarsi, ma attenti a non fare in modo che l’insieme di giocattoli rotanti, suoni e luci, vadano a distrarre troppo il vostro piccolo. Abbassare le luci ed evitare di affiancare l’azione e il movimento al sonno notturno.

Favorire attività piacevoli
Quando nasce un bambino si tende ad introdurre una routine che consiste nel bagnetto, nella lettura di un libro e nella ninna nanna. Insomma, una serie di calmanti e piacevoli attività che portino alla distensione e al sonno. Quest’insieme di momenti servono al bambino affinché si riesca a conciliare con il sonno. Tuttavia, alcuni genitori di bambini più grandi tendono ad eliminare la stessa routine perché erroneamente ritengono che il loro bambino sia troppo grande o perché si sentono troppo stanchi per continuarla. Al pari degli adulti, anche i bambini più grandi hanno bisogno di un rituale per andare a dormire confortati e rilassati.

Cercare di essere coerenti
Può capitare che quando il bimbo si lamenta e piagnucola, ci si corichi con lui nel suo letto finché non si addormenta. Oppure che lo si accolga nella propria camera da letto, se si sveglia nel cuore della notte. Il problema non è il metodo, ma la pratica incoerente. Se il bambino si ammala o ha paura di una forte tempesta, sentitevi liberi di confortarlo. A molti genitori non dispiacerebbe avere il proprio bambino nel proprio letto, ma se succede troppo spesso si finisce per avere un “letto di famiglia”. Occorre invece stabilire delle regole e rispettarle: ognuno ha il suo letto e, una volta consolati i bambini e passati i momenti particolari, occorre tornare alla routine.