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BERLINO – Pochi mesi prima della sua tragica morte, probabilmente orchestrata con fine cinismo e accuratezza da coloro che non aveva mai esitato a denunciare come i veri corruttori dell’Italia, Pasolini si era dedicato non solo alla stesura di un imponente romanzo di politica (l’incompiuto ed eccessivo “Petrolio”) ma anche ad una non meno ambiziosa “riscrittura” della “Divina Commedia,” nientemeno: si tratta dall’incompiuta “La Divina Mimesis.” Non si trattava davvero di una “riscrittura” vera e propria bensì una via di mezzo tra una parafrasi e una traduzione, per con quest’ultima intendiamo propriamente l’aggiornamento di un testo allo stile, alle esigenze e ai costumi contemporanei.

L’opera cominciò già da metà degli anni Sessanta, in un’epoca di risveglio economico che oggi ci appare come un miraggio se non almeno come un periodo ormai molto antico (ma del resto cinquant’anni ci separano da quegli anni rampanti, gli stessi che separavano Pasolini dalla fine incipiente del periodo giolittiano e la tragica avventura del fascismo). Col tempo tuttavia Pasolini realizzò l’impossibilità dell’impresa. Si trattava di una difficoltà che non era semplicemente estetica, ovvero l’ovvia difficoltà di misurarsi con il Sommo Poeta, bensì eminentemente poetica: era possibile scrivere un poema sull’Italia dovendo servirsi di una lingua, quella italiana, che stava progressivamente perdendo i suoi toni e le sue sfumature, sotto la pressione livellante della televisione?

È a partire da questi interrogativi quanto mai attuali per la nostra Italia brutalizzata dalla corruzione non meno di quanto sia brutalizzata dalla televisione che si è tenuto un seminario ristretto presso il berlinese Institute for Cultural Inquiry Berlin assieme a diversi studiosi d’eccezione: Manuele Gragnolati, docente di Letteratura italiana ad Oxford, Christopher Holzhey, direttore dell’Ici Berlin, Irene Fantappiè, giovane ricercatrice di Italianistica alla università Humboldt di Berlino, lo studioso di religione Martin Treml, associato a Zentrum für Literaturforschung di Berlino nonché Arnd Wiedmayer, ricercatore presso l’Ici Berlin. Al seminario ristretto hanno partecipato anche altri collaboratori quali Claudia Pellel (Ici), Hans Peter Kammerer, Storch Ruschkowski, Barbara Stanek, Giorgio Passerone (Paris, Lile 3), Antonio Castore (Ici), Filippo Trentin (Ici) e il sottoscritto.

La possibilità di ritradurre in prosa la somma opera poetica di Dante riposa nella capacità di cogliere, da parte di Pasolini, in modo in effetti incoerente e contraddittorio, il cosiddetto “plurilinguismo” in Dante: questo consiste nel riconoscimento della necessità poetica di scrivere in volgare quello che sarà poi celebrato come il monumento poetico del Medioevo e già come la prefigurazione della modernità incipiente.

Da un lato, quindi, la rottura contro la rigidità teologica dell’uso del latino e il ricorso esclusivo al volgare come riproposizione dell’evangelico sermo humilis, scritto per gli umili con le parole degli umili, seppure venato e percorso però dalle sofisticate dispute teologiche della Scolastica così come dalla passione politica civile e dalla Realpolitik.
Dall’altro lato, seguendo le famosi tesi di Erich Auerbach, la conclusione e il superamento insieme del concetto medievale di “uomo,”proprio attraverso questo concetto di plurilinguismo: proprio quanto tante lingue abitano l’uomo (e il suo poema), così la sua identità è molteplice e nient’affatto riducibile a quella presunta monolitica unità teologica dell'”homo sacer,” l’uomo sacro e consacrato a Dio.

Rispetto a quest’ambivalenza del progetto poetico dantesco, ovvero la possibilità di interpretarlo esattamente a metà strada tra Medioevo e Età Moderna, Pasolini aveva scelto una non meno contraddittoria posizione: quella di rivendicare, come già accennato, il plurilinguismo di Dante e, contraddittoriamente, di rivendicarne il monolinguismo, tanto da appaiarlo a Petrarca. È questo ambiguo e contraddittorio riconoscimento della lingua poetica di Dante compiuto nel celebre e contorto saggio “La volontà di Dante a essere poeta,” che avrebbe portato alle medesime ambiguità formali del suo tentativo di riscrivere la “Divina Commedia,” mettendola in prosa e arrangiandola alle vicende dell’epoca contemporanea. Non si trattava cioè di narrare in versi la Penisola, come avrebbe tentato per trent’anni il bolognese Roberto Roversi nel suo enciclopedico e ipertrofico (446 pagine!) poema “L’Italia sepolta sotto la neve.” Al contrario, se seguiamo il suggerimento di Manuele Gragnolati di leggere “La Divina Mimesis” retrospettivamente come il “fallimento riuscito” di scrivere un romanzo sulla base del vero romanzo incompiuto “Petrolio,” ecco che la “parafrasi” dantesca in frammenti, appunti, foto avrebbe dovuto portare, alla fine, non ad un affresco sull’italianità contemporanea, bensì ad un pastiche cristallizzato in strati e strati di scrittura, in forma di diario, secondo appunti ordinati cronologicamente, con tutti gli errori e le correzioni inerenti alla scrittura d’autore. Si sarebbe trattato di “decostruire” l’idea stessa di romanzo, mantenendolo volutamente nella forma d’incompiutezza di un diario ordinato cronologicamente.

A margine di questo gioco letterario sofisticato non si può non notare, con un certo rammarico, come questo “progetto frammentario” di un romanzo (un ossimoro che avrebbe spinto il noto e teutonico filosofo Jürgen Habermas a ritenere che nulla sia più “progettuale” del “frammento,” quindi nulla “moderno” del “postmodeno”) si sia realizzato non tanto per la ferrea volontà poetica di Pasolini bensì per la sua tragica morte, ancora oscurata dal mistero. È con una certa ironia che si può concludere come questa sua morte ingloriosa e truce abbia fatto davvero della sua vita un’opera d’arte: frammentaria e fallimentare, certo troppo diversamente da come avrebbe desiderato Nietzsche, all’apogeo del Romanticismo tedesco.

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Federico Dal Bo

È giornalista pubblicista e traduttore, dottore di ricerca in Ebraistica, dottore di ricerca in Scienza della traduzione, residente a Berlino

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