Si parla spesso delle madri, soprattutto in queste ultime settimane in cui la cronaca è stata segnata da tragici infanticidi. Vorrei questa volta parlare dei padri, di come il loro ruolo si sia modificato in questi ultimi anni e di quanto sia fondamentale, soprattutto perché si possano evitare simili tragedie.
Il mio titolo ha un duplice significato. Da un lato, indica che è da poco che la figura del padre è cambiata. Si è passati da una figura di padre che non si occupava per nulla della prole e affidava il compito educativo e di crescita esclusivamente alla figura materna, a padri talmente coinvolti nella cura da non lasciare più spazio alle madri. Gli eccessi sono strutturali a questo periodo storico e si manifestano in ogni ambito.
Possiamo vedere oggi una nuova figura di padre. Padri preparati e attenti nell’accudimento del bambino, che sanno preparare pappe e provvedere alla pulizia e cura dello stesso. Padri che si dedicano ai figli, sanno che medicinali somministrare loro in caso di bisogno, si interessano delle tappe evolutive, giocano con loro, li seguono nei compiti. A volte troppo e in modo morboso. Talvolta, questa cura arriva all’eccesso tanto da passare al rischio opposto, cioè all’esclusione della figura materna e a fare coppia esclusivamente col bambino. In questo caso la relazione di coppia cessa di esistere e il padre vive esclusivamente per il bambino, soffocandolo esattamente come accade quando a fare coppia col bambino è la madre stessa. La madre esclusa totalmente dalla dinamica relazionale famigliare è costretta a spostare altrove il proprio desiderio e interesse.
Nelle relazioni famigliari è sano che si assista ad una triangolazione, quando ovviamente è possibile, cioè quando sono presenti entrambi i genitori. In ogni caso dinamiche relazionali fisse ed esclusive non sono mai indice di salute.
Il titolo “Padri da poco” può riferirsi anche alla situazione opposta: cosa accade quando la figura paterna è carente o manca del tutto? La funzione paterna è fondamentale affinché la madre non fagociti ciò che ha generato. Mi spiego meglio. Il desiderio materno ha di per sé la naturale predisposizione ad inghiottire ciò che essa stessa ha generato, cioè a riprendersi il proprio frutto.
La funzione paterna è quella funzione, incarnata dal padre reale o da un’altra figura, che si frappone tra il desiderio materno e il bambino, impedendone così la fagocitazione. Quando la funzione paterna è carente o manca del tutto, allora il soggetto porterà i segni di tale mancanza manifestando diversi disagi fino a vere e proprie patologie.
Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com
L’articolo 19 bis del per ora abortito decreto legislativo sul fisco ha rappresentato per il governo una brutta figura, senza scusanti possibili. Per la gioia di numerologi e cabalisti, appena sopite le polemiche su un celeberrimo art. 18, è ora quello che lo segue nella sequenza dei numeri naturali a tenere banco nella pubblica opinione: c’è già chi azzarda che il prossimo potrebbe essere il numero 20 di un qualche prossimo provvedimento o semmai una combinazione arcana dei fattori che compongono i precedenti; cosa questa che pare più difficile dato che 19 è un numero primo. Vedremo.
La brutta figura comunque rimane e mette in campo una importante questione di metodo. Perché, se è pur vero che nelle decisioni del governo si deve esplicare un ovvio primato della politica, è discutibile l’idea di poter ritoccare in una riunione di qualche decina di minuti un testo che incide in una materia complessa come la legislazione fiscale e che aveva richiesto ai tecnici parecchie settimane di lavoro. Da questo punto di vista, bene ha fatto Renzi ad assumersene in toto la responsabilità, né d’altronde poteva essere diversamente.
Come è naturale in occasioni come questa, tutti gli oppositori del governo cercano di trarre il massimo profitto dall’incidente, mentre gli organi di informazione hanno sfornato miriadi di ipotesi sul suo reale significato, concentrandosi prima sui possibili fini diretti per poi elaborarne sofisticate letture subliminali, che lo legherebbero indissolubilmente, come in un romanzo di Don Brown, a tutte le altre grandi questioni politiche ancora aperte, dall’elezione del Capo dello Stato alle riforme costituzionali ed alla legge elettorale: segnali, ammiccamenti, ritorsioni, allusioni, minacce velate, depistaggi e quant’altro. D’altra parte i giornalisti italiani possono essere accusati di tante cose, ma certamente non di mancanza di fantasia.
Sul fatto che si sia trattato di un tentativo messo volutamente in atto per togliere le castagne dal fuoco a Berlusconi, a titolo di ricompensa per qualche patto scellerato presente o futuro, e di cui l’attuale capo del governo era del tutto consapevole è questione sulla quale ciascuno ha una propria ben ferma opinione, legata inevitabilmente al giudizio a priori che dà di questa fase politica. Se di questo si è trattato non si può tuttavia non notare la totale ingenuità del tentativo, con quello che di solito dovrebbe essere un codicillo oscuro infilato in un testo fumoso, messo invece in piena evidenza in un articolo tutto suo. In un testo che, oltretutto, avrebbe dovuto passare due, seppur consultive, discussioni parlamentari.
O si tratta quindi di un ‘segnale’ (di cui natura, obiettivo e significato personalmente fatico a cogliere un razionale condivisibile) oppure di un altro episodio di pressapochismo all’italiana, che non può essere scusato nemmeno dalla necessità di fare in fretta. Pur non essendo convinto che le spiegazioni più semplici siano sempre le più corrette, in questo caso personalmente propendo per la seconda ipotesi. Consapevole di attirarmi in questo modo, da parte di chi è convinto che la realtà consista prevalentemente nella rappresentazione artefatta di trame occulte tessute da abilissimi quanto abbietti manovratori, prevedibili accuse di “ingenuità”, difetto tutto sommato lieve per un giovane, ma che acquista inevitabilmente un significato assai meno benevolo se attribuito a persone di età inesorabilmente matura. Ce ne faremo una ragione.
Diego Trentini, aspirante scrittore ferrarese, è tra i dieci finalisti selezionati dalla redazione del Festival internazionale di Poesia di Genova e in questi giorni sta partecipando al concorso di Repubblica “I libri più belli del 2014. Premio community” assegnato dai lettori. Il libro finalista s’intitola “0532 prefisso del blues” e si può votare on-line ancora per qualche giorno, fino al 12 gennaio, in modo molto semplice, accedendo alla pagina e selezionando il libro scelto [vedi].
Di seguito ne pubblichiamo il primo capitolo e facciamo il tifo per questo scrittore emergente brillante, ironico e capace. Il 12 gennaio stesso verranno decretati i vincitori con premiazione a Genova.
Il libro, in rima sciolta e verso libero, racconta l’atmosfera, il mood generale del periodo 1980-1995, momento storico che ha segnato interiormente ed esteriormente la generazione – X. Convinto che una sorta di ironico determinismo storico-mediatico abbia plasmato le menti e il modo di essere dei quarantenni di oggi, l’autore utilizza il pretesto dell’autobiografia e della descrizione di un contesto geografico e sociale marginale (Ferrara), con richiami alla storia contemporanea, alla musica e ai robot giapponesi.
di Diego Trentini
0532 prefisso del blues
che ho visto fiorire
in un asilo blu
di via Krasnodar,
che fa molto krautrock, cioè
quel genere di musica
che ascoltava mio zio
(mioddio!),
e io non capivo
però m’alienavo precoce
chiuso in una stanza
in segreto divagare
ondeggiare affondare.
Eran gli infausti anni ’80 bellezza:
gli anni dell’individualismo,
del Buondì e della Girella,
del Drive in, della Thatcher
e du Roi Michel,
che non era Míchel del Real
– gran portento della Quinta –
ma Platini da Saint-Étienne.
Non i platonici anni ’80
che eternamente ritornano di moda
– con Nietzsche che nella tomba si rivolta –,
ma gli Ottanta
che han posto le fondamenta
dell’italico fallimento,
del debito pubblico sopra cento.
I veri Ottanta,
quando Craxi,
il Mozart delle tangenti,
incurante si beccava
da Silvio et al. le palanche
e diceva così fan tutti
– sottinteso: i farabutti.
Non il decennio idealizzato
della Milano da bere,
ma quello della guerra fredda
in cui ci si cacava sotto
per l’apocalisse nucleare
che era lì lì per arrivare
– nonostante la sigla di Gundam
non aver paura mai
perché qui c’è
chi pensa a te
e quella di Goldrake
sto tranquillo
se ci sei tu.
E ancora
e non tanto
gli Ottanta del mondiale vinto,
ma quelli degli alberi
in cui fiorivan le siringhe,
in cui l’unica eroina
non era Wonder Woman
ma quella che a fiumi
scorreva in vena.
Di più,
gli anni in cui
persino i videogame
non erano innocui,
giochi per bambini innocenti,
ma risultavano alquanto ansiogeni
e per questo molto attraenti:
Ghosts ‘n Goblins, Pacman,
Space Invaders, Double Dragon, Tetris e così via.
Infine,
il decennio del caso Tortora,
in cui vedemmo il bianco
diventare torbido
e scoprimmo di non essere candidi,
perché alla persona onesta
sovente non basta
trovarsi nel migliore
dei mondi possibili.
Quegli Ottanta
in cui ci si domandava anzitempo
cosa ne sarebbe rimasto,
a parte un retrogusto di squallore
sottinteso.
0532 prefisso del blues
che già aleggiava in un asilo
da periferia sovietica mentre
si stava come
d’estate
le lucertole
sui muretti.
Diego Trentini, nato a Ferrara il 10 Maggio 1975, ha vissuto in città fino ai trentatré anni e ora abita a Bondeno. Insegna Storia, Filosofia e Sostegno, come precario. E’ laureato in Filosofia, specializzato in Storia della filosofia, abilitato Ssis. Si autopubblica sul sito “Il mio libro” [vedi], tra i suoi titoli: “Goal! (ovvero quando un numero uno faceva il giocatore)”, “L’inferno. E’ gli altri”, “Presente imperfetto”, “Achtung! Pericolo crolli“, “Lapsus digitali”.
Ecco il segreto: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.
Spesso è solo una foto capovolta o uno scarabocchio che svela forme sorprendenti a insegnarci la giusta prospettiva.
Queste sono le forme che ama Daniela Pareschi, autrice della collana Disegniamo insieme, edita per Lantana Editrice al figlio Elia, di cui è stato presentato il secondo volume – “Il mare, le onde” – per il ciclo Autori a corte.
Ferrarese di nascita, genovese e romana di adozione, il disegno è passione e studio, la visita a Cinecittà è il momento che ne modifica la percezione effettiva, con la sua possibilità di sviluppare concretamente mondi interiori, di creare suggestioni srotolate dall’immaginazione con supporti tecnici (il corso di architettura) e artistici (bozzettistica), rendendo vivo a ogni effetto qualcosa che prima aveva solo due dimensioni.
La magia si riduce, dopo l’arrivo del 3D. Cambiano le categorie nel tempo, cambia il cinema con l’avvento del digitale, i mezzi e gli strumenti; ma non la possibilità di tradurre in immagini un mondo interiore che si riversa nel disegno e nella sua tecnica.
Come in ogni cosa, è la capacità di guardare il motore da accendere; è la capacità di vedere la macchina con cui intraprendere il viaggio. Di “mettere gli occhi”, direbbe Wilhelm Reich.
Per riempire uno spazio interrotto, nelle teorie del disegno dedicate ai bambini tra l’essenziale e il minimale di Bruno Munari e il fiabesco aggraziato di Walter Disney, l’intento è quello di fornire la chiave per quella porta che rende in grado di esprimersi attraverso una matita e un foglio di carta.
Gli adulti non capiscono mai niente da soli ed è una noia che i bambini siano sempre eternamente costretti a spiegar loro le cose.
La capacità di guardare, essenziale in un bambino tanto quanto in un adulto, conduce a due differenti porte. Ci sono la visione e la scoperta, l’esplosione interiore di un mondo di immagini fatto di sensazioni, ma che esige proprie regole come ogni linguaggio. E ci sono milioni di sguardi che possono vedere, e restituire, milioni di immagini differenti. In una condizione in cui non c’è l’insegnante e l’allievo, l’adulto e il principiante, la piena coscienza e la chiusura a doppia mandata di un baule abbandonato.
Perché non si può discutere di fronte a un bambino che disegna un boa nell’atto di digerire un elefante, neppure quando tutti si ostinano a vederci solo un cappello dalla falda larga; perché quel bambino ha osservato e immaginato, perché sapeva esattamente cose guardare e perché riprodurre; perché era la forma di espressione naturale, quello che è il disegno; e perché a volte è semplicemente più semplice disegnare che non spiegare. “Non riesco a dirtelo, mamma; e allora te lo disegno.” Questa è l’etica dei libri della collana, costruita su una parte teorica ed esplicativa, razionale, da un lato; e di una sciolta e visionaria, semplice e impastata di collegamenti che tiene per mano fantasia e realtà, immaginazione e concreto, in un ambizioso progetto dalla semplice comprensione. Dove lettere e parole, sintassi e grammatica sono tratti, colori, proporzioni e sezioni.
Sarebbe meglio ritornare alla stessa ora… Ci vogliono i riti.
Regole, stili, codici e tecniche, sono i rituali da rispettare, che consentono proporzione della realtà, permettendole di spiegare la fantasia; di fluire una immagine interiore a un pennello.
Facce e corpi, colori ed emozioni, forme e cose si intersecano fino a creare un punto di incontro diverso per ognuno di noi, incrociati a un semaforo che ne detti le regole e li smisti nelle giuste direzioni. Incoraggiando l’emisfero sinistro, severa maestrina deputata alla logica, all’analitica e alla razionalità; e lasciando assopito l’emisfero destro, sognatrice ed emotiva zia prodiga di regali, fino al momento in cui la torta visuale è pronta da proporre. Depistandola momentaneamente, permettendole poi di collegare rotondi riccioli blu alle onde del mare, ordinate sull’attenti delle tre parche benigne che ne regolano la correttezza formale – profondità, direzione e superficie; fatiscenti omini scheletrici danzanti, con ovali sulla punta delle dita a spogli alberi d’autunno; mostri e paure che diventano occhi e fauci spalancate, nascosti in forme geometriche e nuvole; tre facce apparentemente uguali da guardare, che divengono tre persone distinte nella loro unicità, alterate non da un morphing dispettoso ma dalla semplice attaccatura dei capelli. E ancora collage, decorazioni, pagine al contrario e dialoghi che si completano a vicenda, complementari.
Come la teoria dei colori.
Venerdì 9 gennaio
Ciclo: “Viaggio nella comunità dei saperi. Istruzione e democrazia
“La formazione dell’uomo e il principio educativo in Gramsci”.
Saluto dell’Ass. alla Cultura e Vicesindaco Massimo Maisto Conferenza di Fiorenzo Baratelli
Presenta e coordina Anna Quarzi “Ogni maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro”
Antonio Gramsci (Ales 1981-Roma 1937) fu politico, filosofo, giornalista, linguista e critico letterario. Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia e nel 1926 fu incarcerato dal regime fascista. Nel 1934 in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in una clinica, dove passò gli ultimi anni di vita.
È uno dei più importanti pensatori del XX secolo. Nei suoi scritti di tradizione marxista, Gramsci analizza la struttura culturale e politica della società. Il problema educativo fu per lui di basilare importanza in quanto espressione, bisogno storico di crescita, sociale e culturale delle classi lavoratrici e delle nuove generazioni. I programmi indirizzati agli adulti figuravano con preminenza in questa strategia educativa ad ampio spettro Ha generosamente lasciato alla cultura italiana un prezioso patrimonio di idee sull’educazione, ancora oggi di grande attualità
Sala Agnelli,Biblioteca Ariostea, FERRARA dalle ore 17 alle ore 19
Un fantasma si aggira nelle nostre società opulente flagellate dalla crisi; aveva accompagnato lo sviluppo industriale e si ripresenta oggi in forme nuove, spesso non immediatamente accessibili al senso comune: è il timore che la tecnologia, le macchine, possano distruggere il lavoro e l’occupazione, lasciando fasce di popolazione sempre più ampie in balia della miseria. Fino a qualche anno fa si guardava con sufficienza e qualche facile sarcasmo alle rivolte dei luddisti nell’Inghilterra del XIX secolo, ritenute col senno di poi, ovvero dopo che furono migliorate le condizioni economiche e sociali, infondate e basate su paure irrazionali.
Oggi, il dubbio che le nuove tecnologie digitali, pur garantendo sviluppi tutti da esplorare ed ancora oscuri ai non iniziati, possano anche distruggere occupazione in modo irreversibile, sta prendendo nuovamente piede; questa preoccupazione professata da autorevoli esperti, che la danno come prospettiva assolutamente probabile, per non dire quasi certa, si contrappone a quella galassia tecno-visionaria ed utopica che preconizza per l’effetto delle tecnologie le più fantastiche evoluzioni della razza umana. Effettivamente, negli ultimi due secoli, lo sviluppo tecnologico ha contribuito ad alimentare le condizioni che hanno migliorato la qualità della vita di molte nazioni e la tecnologia ha grandemente contribuito a spostare milioni di persone dal settore agricolo a quello industriale, poi da questo a quello dei servizi. Ora, le nuove tecnologie digitali, in rapida diffusione, hanno alcune caratteristiche distintive rispetto alle tecnologie che hanno animato le precedenti rivoluzioni industriali che, in estrema e forzata sintesi, hanno sostituito il lavoro manuale con quello meccanico: da un lato, esse si reggono su una gigantesca struttura fisica tangibile, dall’altro, possono essere utilizzate per razionalizzare e gestire in modo intelligente qualsiasi tipo di processo in ogni settore: dalle catene di fornitura globale ai processi di apprendimento, dalla medicina alla ricerca aerospaziale, dallo sport al turismo, dall’autodiagnosi alla riparazione delle sue stesse componenti. Infine, sono sempre più spesso in grado di simulare e riprodurre operazioni che, fino a poco tempo fa, si pensava fossero attributi del cervello e patrimonio esclusivo della cognizione umana. Superata questa soglia, messo sotto esame il comportamento del cervello, avviata una ricerca massiva sull’intelligenza artificiale, agganciato stabilmente il comportamento umano alle applicazioni tecnologiche, si aprono scenari che, ad un tempo, esaltano e preoccupano. La domanda diventa dunque quanto mai attuale: la tecnologia digitale crea o distrugge lavoro? Oppure, semplicemente, trasloca l’occupazione spiazzando quote crescenti di lavoratori che rischiano così di essere espulsi dai processi di consumo e di creazione di valore?
Lasciamo un attimo in sospeso questa domanda per analizzare brevemente il nostro rapporto con queste tecnologie ed alcune conseguenze che ne derivano. Noi tutti infatti siamo abituati a cogliere solo un lato del problema: quello che ci vede come fruitori, come utilizzatori di dispositivi e consumatori di informazioni che ci vengono presentate ora gratuitamente ora a pagamento, a volte richieste a volte subite nostro malgrado. In questo preciso momento ognuno di noi è connesso ad un dispositivo digitale collegato in rete (altrimenti caro lettore non potresti leggere questo articolo). Per il semplice fatto di essere connessi stiamo fornendo informazioni al sistema: lo facciamo quando telefoniamo da qualsiasi dispositivo, quando usiamo il navigatore dell’auto, quando facciamo zapping in tv o quando ci sintonizziamo su una stazione radio. Lo facciamo quando usiamo il bancomat o la carta di credito e quando scarichiamo ed usiamo una qualsiasi app. Forniamo informazioni quando entriamo ed usciamo dall’autostrada usando il telepass, quando facciamo acquisti online o quando usiamo una tessera fedeltà o quando usiamo i social network. Certo, in alcuni casi paghiamo e, in cambio, riceviamo servizi che a volte ci semplificano la vita; in altri casi, non paghiamo nulla ignorando però che la nostra partecipazione gratuita è l’elemento chiave per generare enormi profitti. Non solo ne siamo consapevoli, ma forniamo informazioni ogni volta che passiamo sotto l’occhio di una telecamera di videosorveglianza ed ogni volta che usiamo la nostra tessera sanitaria; quando attraversiamo il tornello della metropolitana o prendiamo posto su un treno o un aereo. Finora tutte queste informazioni erano archiviate su supporti poco interattivi, sostanzialmente isolate tra di loro: la tecnologia digitale consente ora, con sempre maggiore facilità, di collegarli e renderli facilmente accessibili. Ma non solo. L’internet delle cose sta collegando sempre più strutture ed oggetti in gigantesche reti che producono quantità immense di dati digitali, rendendo possibile una realtà aumentata che arricchisce l’esperienza dei sensi incorporando informazione aggiuntiva in forma digitale. Su piccola scala lo vediamo nei Google glass, nelle applicazioni domotiche e, crescendo di livello, nelle applicazioni industriali di workflow management, nelle tecnologie di traffico intelligente, nelle nascenti smart city, negli ecosistemi militari, nella rete di calcolatori che gestiscono la finanza globale.
Da un lato, dunque si sta costruendo un nuovo ambiente di vita, digitale e digitalizzato, intelligente, caratterizzato da una sensoristica estremamente diffusa che raccoglie informazioni in modo sempre più automatico, depositandola in database sempre più capienti, numerosi ed interconnessi; dall’altro le macchine d’uso comune diventano sempre più intelligenti ed interagiscono sempre meglio con questo ambiente anche a prescindere dalle nostre decisioni. Infine noi stessi offriamo continuamente informazioni a questo ambiente attraverso i nostri comportamenti quotidiani e non solo per il fatto di essere connessi consapevolmente alla rete internet che conosciamo. Le tecnologie digitali consentono di valorizzare tutto questo moltiplicando esponenzialmente la produzione di informazione, rendendo informazioni inutilizzabili immediatamente disponibili, annullando i costi della raccolta di informazione e, in ultima istanza, conferendo valore d’uso enorme a qualcosa che prima, pur potenzialmente presente, non poteva essere utilizzato facilmente. Ovviamente questo è possibile se esistono le infrastrutture per farlo e se i cittadini continuano a funzionare come comoda fonte di informazione. Si tratta, a ben vedere, di una situazione senza precedenti che, per certi versi, ribalta la consolidata logica di un mercato dove ogni cosa ha un prezzo riconoscibile; dietro l’uso gratuito di molta tecnologia di comunicazione vediamo infatti la realtà, piuttosto inquietante per alcuni versi, di un sistema dove noi stessi (o meglio tutte le nostre scelte e comportamenti) siamo la merce che viene venduta. Big data è il nome attraverso cui si riconosce il nuovo campo disciplinare destinato a governare questa immensa mole di informazioni digitali attraverso la potenza computazionale dei calcolatori (computer).
Tutto questo pone ovviamente davanti a sfide gigantesche non ultima quella del lavoro che qui ci interessa. E’ assai probabile infatti che l’applicazione massiccia delle tecnologie digitali porterà all’abbattimento di moltissimi posti di lavoro anche nel settore dei servizi (inteso in senso allargato), seguendo il medesimo trend di quanto successo nell’agricoltura prima e nell’industria poi. Porterà anche ad aprire nuovi settori occupazionali tutti da esplorare e ad alto contenuto di innovazione e creatività, che con ogni probabilità potranno premiare solo le persone più competenti e preparate. Forse, spingerà anche molte persone a guardare con rinnovato interesse ad attività più semplici e naturali, magari facendo impresa innovativa in campo culturale o nel settore agroalimentare che rappresentano pur sempre delle autentica eccellenze italiane. Che ne sarà tuttavia della centralità del lavoro come strumento principe per la costruzione dell’identità e giusto mezzo per guadagnare da vivere? E come conciliare questa situazione con i valori fondativi della nostra Carta Costituzionale? Il documento fondativo del patto sociale su cui si regge la nostra democrazia all’articolo 1 dichiara infatti che:
“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”.
Con tali domande lasciamo anche questo scenario possibile, per prendere in esame un’altra vecchia idea, forse poco conosciuta, che sembra conservare una forte carica utopica: quella del reddito di cittadinanza, nozione che a volte e frettolosamente vene considerata equivalente a reddito di base o reddito minimo universale. In verità, esiste più di una differenza tra reddito di cittadinanza e reddito minimo anche se entrambe condividono la prospettiva comune di non abbandonare nessuno al proprio destino: il primo, infatti, richiama il valore etico dell’accesso universale ai frutti delle risorse comuni; il secondo, invece, è selettivo e rimanda al valore del contrasto alla povertà essendo direttamente connesso alla disponibilità di lavoro e di reddito. Come noto, si tratta di un’erogazione monetaria garantita ad intervalli di tempo regolari e per tutta la vita di una persona. Viene riconosciuta a tutti coloro che hanno cittadinanza e residenza, per consentire una vita minima dignitosa; l’erogazione è cumulabile con altri redditi derivanti da lavoro, da impresa e da rendita ed è indipendente dal tipo di attività lavorativa, dalla nazionalità, dall’orientamento sessuale, dal credo religioso e dalla posizione sociale.
In un mondo caratterizzato da un surplus di produzione che impone una sfrenata corsa al consumo, in un contesto che pone forti interrogativi circa la proprietà e l’uso degli enormi archivi di informazioni digitali, dove l’informazione è importante, largamente disponibile poiché largamente prodotta dai comportamenti dei cittadini digitalizzati e fortemente manipolabile, dove aumentano di pari passo la concentrazione della ricchezza e la povertà, dove la piena occupazione è ormai un miraggio, l’idea di un reddito di cittadinanza universale sembra essere pertinente al di là di ogni doverosa considerazione di tipo morale. In assenza di alternative sostenibili, non si può escludere neppure che tale soluzione diventi, in prospettiva, socialmente necessaria se solo pensiamo al potenziale esplosivo connesso ad una forte disoccupazione a fronte della crescente forbice tra ricchi e poveri, effetto non secondario dall’ultima ed attuale fase del capitalismo sostenuto dalle nuove tecnologie.
In aggiunta alle motivazioni di ordine etico e sociale, possiamo dunque pensare che i cittadini ricevano un trasferimento monetario (anche) per il semplice fatto di fornire comunque informazioni indispensabili al sistema anziché pagare per ottenerne i servizi? In uno scenario caratterizzato, se non dalla fine del lavoro, quantomeno da una sua fortissima crisi, può essere il reddito di cittadinanza la soluzione capace di semplificare e rilanciare il sistema di welfare, garantire la copertura dei bisogni essenziali, salvaguardare gli spazi di intrapresa e produrre quel minimo di giustizia sociale che il vecchio modello non sembra più in grado di garantire?
“Papa Francesco, todo cambia?” è l’accattivante titolo scelto da Massimo Faggioli per un incontro-intervista in pubblico in programma a Ferrara sabato 10 alle 17 al Mum, il Museo Ugo Marano di via Benvenuto Tisi da Garofalo 1, ospitato nella chiesa sconsacrata dei santi Pietro e Paolo accanto alla scuola media Boiardo.
Faggioli insegna Storia del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis/St. Paul e collabora con vari giornali, fra i quali l’Huffington Post. Si autodefinisce “italiano, ferrarese e americano, con pesanti e decisivi trascorsi in Francia e Germania”. Inoltre, “cattolico di scuola Vaticano II e democratico”. Considera ormai irreversibile il processo di riforma avviato dall’attuale pontefice, Jorge Bergoglio. A intervistarlo sarà Sergio Gessi, direttore di Ferraraitalia che organizza l’incontro in collaborazione con l’Azienda per i servizi alla persona e la Città del ragazzo.
Autore prolifico, Massimo Faggioli ha pubblicato, fra gli altri, “Vatican II: The Battle for Meaning” (2012; trad. italiana e portoghese 2013); “True Reform: Liturgy and Ecclesiology in Sacrosanctum Concilium” (2012; trad. italiana 2013); “Nello spirito del concilio. Movimenti ecclesiali e recezione del Vaticano II” (2013), “Papa Francesco e la chiesa-mondo” (2014). E’ in preparazione un nuovo volume sulle mancate riforme del governo della chiesa cattolica negli ultimi cinquanta anni.
La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte con le toppe alla sottana
Viva, Viva La Befana!
Il curioso piccione ferrarese mi aveva lasciato la sorpresa. E non parlo della sorpresina cui tutti pensiamo quando vediamo un piccione, quella che dicasi portare fortuna, per intenderci. Si tratta di ben altro, cari amici. Sul mio davanzale accarezzato dalla brina c’era, infatti, un bel biglietto arrotolato. Quasi una piccola pergamena. La mia curiosità era alle stelle ma, prima di scartarlo, così come si fa con un gustoso ovetto di cioccolata del quale si vuole immaginare, indovinare e pregustare la sorpresa, volevo sognare un po’, ancora per qualche minuto. La fantasia voleva volare, libera.
Cosa ci poteva essere scritto su quel piccolo pezzo di carta? Quale messaggio poteva contenere? Parole misteriose? Parole d’amore? Una favola d’altri tempi? Un segreto mai svelato? Una storia miracolosa? Uno scoop che avrebbe cambiato la mia vita? Una confessione unica? Cosa avrei voluto veramente trovarci? Cosa mi aspettavo? Romantica come sono, avrei voluto leggerci parole d’amore, arrivate da lontano. Un compagno ingegnoso, sagace, ardito e astutamente fantasioso come il mio sarebbe capace anche di questo, facendo sorvolare il ventoso Mediterraneo a quel piccolo pennuto spaventato. I miei pensieri erano, però, ancora stanchini, erano le sette meno un quarto del mattino e il caffè ancora non mi aveva svegliato del tutto. Dovevo aprire quel biglietto, quindi, e presto, per destarmi completamente e, soprattutto, per placare quella curiosità da scimmietta che non mi faceva ragionare e fantasticare troppo (scimmia o non scimmia sfido chiunque a non sentire il bisogno di precipitarsi ad aprire un bigliettino lasciato da un piccione sulla propria finestra…).
E voila’, allora, eccomi a leggere. Incredibile. Mi scrive la Befana. “Fa freddo, cara amica, e io arrivo, come sempre, con vento di tramontana e calze rotte. Quest’anno, nella tua grande calza appesa al camino, ti porto buone notizie, nessun pezzo di carbone, non te lo meriti proprio. Semplicemente perché dici sempre quello che pensi e aiuti bambini, anziani e cani, i miei veri amici. Mi piace poi come scrivi, sempre avvolta nella fantasia e nel rosa, nel voler trovare il bello a tutti i costi, nel saper dire e credere che la bellezza salverà il mondo. Devi però stilare un tuo elenco di buoni propositi, se vuoi qualche dolcetto in più. Affare non semplice.
Porterò, tuttavia, molto carbone a questo mondo, per le sue malefatte, ci tengo a dirtelo, un carbone nero come l’inferno, ma anche simbolo dell’energia della terra. Questa terra grande meravigliosa. Sai che, in fondo, sono quasi una fata-maga generosa ma anche severa, simile a Madre Natura pronta a essere bruciata come un ramo secco per poter rinascere dalle ceneri come giovinetta Natura, per ridar luce a una luna nuova. Prima di perire, però, passo a distribuire doni e dolci a tutti, in modo da piantare i semi che nasceranno l’anno prossimo. Sono un anno vecchio, pronto a sacrificarsi per far rinascere un nuovo periodo di prosperità. Mi sacrifico ancora, mia cara amica, ora come ogni anno, come sempre, da secoli. Questa volta però ti chiedo uno sforzo particolare. Sono stanca di sacrificarmi ogni benedetto anno che passa su questa terra, senza vedere nuovi frutti, senza scorgere veri cambiamenti positivi in questo mondo difficile, senza cogliere un segno di pentimento in ogni uomo che combini seri guai, per usare un gentile eufemismo. Gli esseri pensanti mi sembrano sempre meno tali, gli animali sanno essere più umani. Dovresti solo provare ad aiutarmi a far comprendere ai tuoi simili alcuni concetti fondamentali e esortarli con questi pensierini: regalate amore e tempo, fate pupazzi di neve, leggete di più (seriamente e intensamente), raccontate favole a lieto fine, fate castelli di sabbia, andate in bicicletta, ascoltate la vostra canzone preferita tante volte, improvvisate, fate attenzione al lupo, sfidate le comete, provate sempre e ora a fare ciò che vi piace, mangiate gelati e noccioline, conoscete i vicini di casa, spegnete la luce e non fate scorrere l’acqua inutilmente, salite sul primo treno che passa, rispettate la natura, mangiate una mela al giorno, fate un budino o impastate una torta, preparate una zuppa calda per un povero, fate un pic nic in campagna, parlate con gli angeli (soprattutto con il vostro paziente angelo custode), passeggiate un pomeriggio di sole senza smartphone, accarezzate le onde del mare con i piedi nudi, sognate, organizzate un viaggio impossibile, improvvisate cortesie, distribuite atti di gentilezza a casaccio, sfogliate margherite sapendo già che uscirà m’ama. Sorridete di più e sempre e, come diceva Augusto, anche tu, cara amica, festina lente, affrettati lentamente.
A questa lista, che ti chiedo di provare a seguire, ti prego di aggiungere anche solo due nuovi propositi. Il compito e’ un po’ arduo ma so che per te sarà un’avventura. Vai, dunque, per il mondo e aiutami a diffondere queste parole. Ognuno saprà cosa farne e se anche solo una di queste cose verrà realizzata da qualcuno dei tuoi amici, potremo sperare che qualcosina cambi. Piano piano.
Auguri dalla tua cara Befana, allora, piccola amica mia. Take care”.
Cari lettori di Ferraraitalia,
sono una scrittrice tedesca e sono arrivata a Ferrara sabato scorso, con l’idea di fermarmi qualche giorno nella vostra splendida città, prima di riprendere il mio viaggio per Roma. Questo viaggio a Ferrara era un progetto accarezzato da molto tempo, in onore di Giorgio Bassani, uno scrittore che mio marito ed io ammiravamo molto. Purtroppo la prima notte a Ferrara, una città che (meraviglia delle meraviglie!) non ha bisogno di un solo parcheggio controllato, la mia macchina è stata svaligiata in via Baluardi, molto vicino a Piazza Travaglio. L’avevo parcheggiata là, con due valigie e delle scatole all’interno, perché sembrava al sicuro e il padrone dell’albergo mi aveva garantito che non c’era pericolo. I ladri hanno preso le mie valigie che contenevano dei vestiti e delle scarpe, anche vecchi, e del materiale elettronico. Molte di queste cose non hanno un grande valore materiale e in più sono assicurata, ma ciò che mi rende inconsolabile è che hanno per me un grande valore sentimentale e per molti versi sono insostituibili. Mio marito, con cui volevo fare questo viaggio, è morto in ottobre. Quasi tutto quello che c’era nelle valigie ha un significato emotivo, è pieno di ricordi ed è quindi molto prezioso.
Ferrara sembra così cordiale e tranquilla. La gente è rilassata, il posto molto bello e tutti ne sembrano orgogliosi. Non c’è nulla che dovrebbe rendere la gente più orgogliosa della propria città, se non che altri si possano sentire sicuri e benvenuti. So che la povertà può indurre a rubare le cose degli altri, e che lasciarle incustodite può rappresentare una tentazione. Io non sono ricca, ma sono pronta ad offrire 400 euro per la restituzione del contenuto delle valigie, che è molto di più di ciò che varrebbero se andassero vendute in un negozio dell’usato, ma che ha per me un significato incalcolabile. Non ho bisogno delle valigie, né degli strumenti di valore che sono stati rubati. Non mi interessa chi ha preso le mie cose. Non ho bisogno della polizia. Vi chiedo solo, per piacere, di ridarmele indietro o di aiutarmi a recuperarle.
Potete rivolgervi al giornale in modo anonimo (interventi@ferraraitalia.it) o chiamarmi allo 06 9563532, per accordi sullo scambio di soldi e cose.
Grazie infinite,
Esther Kinsky
“L’Epifania tutte le feste si porta via”, recitava un vecchio detto popolare. È tempo di tornare al lavoro e a scuola, ma abbiamo ancora il tempo per un ultimo regalo e questa volta abbiamo pensato ai più piccoli. Abbiamo colto l’occasione della nostra chiacchierata con Luigi Dal Cin [vedi] per chiedergli di regalarci una storia da donare a tutti i giovani lettori e lui ha scelto un racconto tratto da un’antica fiaba eritrea che affronta il tema della paura di ciò che non si conosce… per affrontare il nuovo anno con un pizzico di fiducia in più nell’Altro.
di Luigi Dal Cin
C’erano un tempo due fratelli che si chiamavano uno Giuseppe e l’altro Giacobbe.
Giuseppe viveva nelle terre d’occidente, Giacobbe nelle terre d’oriente.
Questi due fratelli avevano abitato insieme per lungo tempo, ma poi si erano dovuti separare per cercare fortuna e non si erano più incontrati.
Più passava il tempo, più il desiderio di rivedersi diventava forte, finché una medesima mattina ciascuno di loro lasciò il proprio paese per andare a far visita al fratello.
Giuseppe così partì dalle terre dell’ovest e Giacobbe partì dalle terre dell’est, senza sapere nulla l’uno dell’altro.
E mentre camminavano, si avvicinavano sempre di più, finché a metà strada si incontrarono.
Ma era già notte, e ciascuno scambiò l’altro per un nemico.
“Fermati dove sei!” gridarono insieme.
Subito entrambi estrassero la spada, e ciascuno sferrò un colpo.
Tra di loro c’era una roccia, e così tutti i loro colpi si infransero lì, e continuarono a colpire la roccia per tutta la notte finché alle prime luci dell’alba si riconobbero.
“Fratello mio!” esclamarono insieme.
Allora lasciarono cadere le spade, e si buttarono entrambi in ginocchio.
E si abbracciarono sani e salvi, e si baciavano, e piangevano per la felicità.
Poi insieme meditarono su quello che era successo: su come fosse stupido e insensato che due fratelli, a causa del buio e della paura, si fossero scambiati per nemici!
Rimasero insieme per un giorno e per una notte, finché dovettero nuovamente separarsi per ritornare ai loro paesi. Così si salutarono e Giuseppe si incamminò verso le terre d’occidente, Giacobbe verso le terre d’oriente.
La roccia colpita dalle loro spade esiste ancora oggi.
La potrete riconoscere perché si notano numerosi colpi di spada sul lato est, e altrettanti sul lato ovest, lasciati da due fratelli che si scambiarono per nemici.
Lo “Stabat Mater“ (dal latino “stava la madre”) è una celebre preghiera del XIII secolo attribuita a Jacopone da Todi, che racconta il dolore straziante della Madonna dinanzi a Gesù Cristo sulla Croce. Numerosi sono stati i compositori ispirati da questo testo, la versione di Giovanni Battista Pergolesi, terminata poco prima della sua morte, rimane una delle più intense ed eseguite, ma occorre ricordare anche quelle di Gioacchino Rossini, Franz Schubert, Franz Liszt e Giuseppe Verdi.
La locandina
Questa premessa è necessaria per introdurre la nuova versione realizzata da Franco Simone, che andrà in scena il 16 gennaio, presso il Teatro Super di Valdagno (VI), in prima nazionale. Il noto cantautore italiano, conosciuto e apprezzato anche fuori dai confini nazionali, grazie ai tanti successi delle sue canzoni in lingua spagnola, ottenuti in Cile, Argentina, Uruguay e in altre nazioni. Simone è uno dei pochi artisti italiani che ha avuto il privilegio di entrare nella classifica Billboard dei dischi più venduti negli Stati Uniti, con la canzone “Magica” (versione in spagnolo del celebre brano “Malafemmena” di Antonio De Curtis, in arte Totò), nella chart “Hot Latin Song”.
Erano trent’anni che l’artista salentino desiderava scrivere un’opera rock basata sullo “Stabat Mater” e, finalmente, ci è riuscito, grazie all’ispirazione compositiva e alla collaborazione del cantante Michele Cortese e del tenore Gianluca Paganelli, voci che interagiscono perfettamente con quella di Simone. Un valido contributo è venuto anche dal chitarrista Adriano Martino, che vanta un’esperienza trentennale. Gli arrangiamenti sono stati curati da Alex Zuccaro.
Lo “Stabat Mater” è l’ouverture dell’intera opera rock sinfonica, che si compone di dieci brani. I tre cantanti si esibiscono in alcuni momenti solistici ma, soprattutto, dialogano tra di loro. Alcune parti, esclusivamente strumentali, riprendono e arricchiscono le melodie fondamentali. Nelle performance solistiche Gianluca Paganelli evidenzia i momenti vicini al mondo lirico-sinfonico, Michele Cortese dona la sua innata vocalità rock, Franco Simone, da autore e interprete, rende chiara l’affinità tra quest’opera e quanto di meglio espresso dal cantautorato italiano. I titoli degli altri brani sono: Benedicta, Quis est homo, Pro peccatis, Fons amoris, Sancta Mater, Tecum, Vigo virginum, In die e Quando corpus.
Le melodie si basano rigorosamente sul testo originale, spaziando dalla musica classica fino alle soluzioni rock che caratterizzano il sound attuale.
Per chi non conosce Simone potrà sembrare un azzardo l’essersi inoltrato in un campo tanto difficile e con precedenti così illustri, con cui inevitabilmente confrontarsi. In realtà, la profonda conoscenza della musica classica e del latino, oltre all’indubbio talento compositivo, gli hanno consentito di sorprendere ancora una volta chi lo ascolta.
Stupisce che, per la prima volta nei tempi moderni, una lingua considerata “morta” sia così attuale e cantabile. Non bisogna dimenticare però che la struttura ritmica del testo è la stessa del latino medievale e anche della lingua italiana: non si hanno sillabe lunghe e brevi ma toniche e atone, in una serie di ottonari e senari sdruccioli, che rimano secondo lo schema AAbCCb. L’uso del latino, in un’opera rock, è inconsueto ma la musica composta da Simone l’abbina alla perfezione con il rock moderno, senza dimenticarne la matrice classica.
Il video è stato girato alle “Tajate” di Acquarica del Caplo (LE)
“Stabat Mater” è anche un’opera visiva: per raccontare il dolore di Maria ai piedi della Croce è stata scelta una scenografia particolarmente suggestiva ovvero le “Tajate”, cave di tufo di Acquarica del Capo (LE), straordinariamente adatte a rappresentare questo evento religioso. L’intento è di avvicinare, con musica e immagini, il dolore della Santa Madre a quello di un’intera umanità dolente e smarrita, in un mondo che fatica a trovare punti di riferimento morali ed esistenziali, con la speranza di una possibile redenzione.
Il grande fascino che questo testo continua a trasmettere è la conseguenza di un paradosso artistico, ma soprattutto umano; rappresenta la sintesi ideale tra asprezza e dolcezza, sollievo e carità, paura e coraggio, in cui l’accettazione del sacrificio e delle contraddizioni, che spesso complicano la vita, aprono infinite prospettive di fede e di speranza.
L’opera rock sinfonica di Simone si sviluppa in una crescente tensione che culmina nello struggente Amen finale del brano “Quando corpus”, cui spetta il compito di aprire uno spiraglio di fiducia nel presentimento della vita eterna: “Quando corpus moriétur, fac, ut ánimae donétur paradísi glória. Amen”. E quando il mio corpo morirà, fa’ che all’anima sia data la gloria del Paradiso. Amen.
“Stabat Mater” di Franco Simone, Prima nazionale dell’Opera il 16 gennaio 2015, presso il Teatro Super di Valdagno (VI).
Il video ufficiale del brano “Stabat Mater” [vedi]
Ci sono presentazioni di libri durante le quali non si riesce proprio a stare fermi e zitti, ma si fanno i versi, si ride a crepapelle e si ascoltano domande molto interessanti, che tutti vorrebbero fare anche se nessuno ne ha mai il coraggio, come per esempio “Come hai fatto ad incollare le pagine del libro?” oppure “Come mai sei ancora vivo anche se sei uno scrittore?”. Sono gli incontri con l’autore di Luigi Dal Cin, scrittore ferrarese per giovani lettori, con all’attivo più di 90 titoli tradotti in 10 lingue e una decina di premi nazionali di letteratura per ragazzi, tra i quali il prestigioso Premio Andersen 2013 come autore del miglior libro 6/9 anni. Quando apre la sua valigia, che fa il paio con la borsa di Mary Poppins per le stranezze che contiene, la fantasia prende il sopravvento e anche i grandi tornano bambini. “Perché scrivi libri?”, “Per chi li scrivi?”: ecco, in genere, le difficilissime domande dei piccoli fans delle sue storie.
Abbiamo voluto provare anche noi a chiedergli qualcosa sul suo lavoro, cercando però di rendergli le cose un po’ più semplici.
Come hai deciso che da grande saresti… ‘rimasto bambino’, scrivere racconti per giovani lettori forse significa fare come Peter Pan e non crescere mai, tu cosa ne pensi?
Copertina del libro ‘Il puzzle di Matteo’
Quando si scrive un libro, si dice di solito, lo si fa per esprimersi e per comunicare. Io preferisco dire che scrivo per dire la verità attraverso l’invenzione: le mie scoperte, i miei sogni, bisogni, desideri, paure, ma soprattutto le mie speranze. Sembra un paradosso pensare di dire la verità attraverso un’invenzione, eppure è proprio il modo dei bambini quando per spiegare la realtà inventano delle storie: facevamo che io ero…
Si può anche scrivere per sé stessi, come si può canticchiare sotto la doccia. Ma se desidero che un bambino legga quello che scrivo, devo chiedermi se lo può davvero interessare anzi, di più, se lo sa affascinare. Canticchiare sotto la doccia trovo equivalga a dire: “Scrivo solo per esprimermi”. Credo che scrivere con un lettore di fronte sia l’attività esattamente opposta: è non accontentarsi di stare da solo, ma andare verso l’altro.
Come passi da un foglio bianco a una mirabolante avventura?
Copertina del libro ‘La casa del vento’
“C’è bisogno di un aiutante magico”: così rispondo ai miei giovani lettori quando mi fanno questa domanda. Io lo chiamo la ‘Penna bambina’. La Penna bambina è uno strumento che sta dalla parte dei bimbi e che consente allo scrittore adulto di esprimere il pensiero e il linguaggio adulto in una lingua non più parlata con gli altri adulti, ma mai dimenticata: la lingua dei bambini. La ‘lingua madre’ di cui parla Bianca Pitzorno. Non si tratta solo di saper utilizzare vocaboli comprensibili ai più piccoli, ma soprattutto di toni, di capacità nel creare corrispondenze tra il testo e ciò che il piccolo lettore vive. Con il tempo mi sono convinto che la magica Penna bambina si riveli solo a chi sta davvero dalla parte dei bimbi: a chi li considera davvero delle persone. D’altronde, il vero scrittore per ragazzi, per vocazione, sta sempre dalla loro parte, altrimenti non è uno scrittore per ragazzi: magari scrive di ragazzi, ma non per loro. Se siamo convinti che il bambino ha la dignità di una persona, con i suoi desideri profondi, le sue individuali caratteristiche e le sue specifiche aspirazioni, e il nostro compito non è altro che quello di aiutarlo a far emergere tutto ciò, se partiamo da questo, penso che la maggior parte degli errori che possiamo fare nei suoi confronti – come scrittori, insegnanti, educatori, genitori – vengano già evitati alla sorgente.
Come inventi le tue storie?
Il piccolo Barbanera tradotto in Tedesco
Di solito all’inizio c’è appena una scintilla nella nostra mente: brilla, ma non è ancora una storia. Spesso ci si butta a scrivere quando in testa c’è solo l’ispirazione iniziale, il seme della storia. Ma il seme va coltivato, fatto germogliare, bisogna attendere di far maturare nella propria mente la storia in modo quanto più completo possibile, annotando le soluzioni narrative che via via emergono, prima di cominciare a scrivere davvero. Nel momento in cui tracciamo le frasi su un foglio, quei segni segnati, tracciati, scritti, si difenderanno dall’essere eliminati. Così la storia già scritta si può anche migliorare e correggere ma la sua essenza resterà, non si potrà più re–immaginare. E se l’invenzione non era ancora matura, il testo resterà comunque nella sua essenza incompleto, perché frutto di un’invenzione incompleta, senza fascino. Quando arriva una buona idea trovo invece sia bello indugiare il più possibile per farla maturare e raccoglierne i frutti.
Gli illustratori dei tuoi libri come vengono scelti?
Copertina del libro ‘Wiligelma Cook’
Vengono concordati con l’editore. Se c’è una medesima sensibilità e professionalità nell’autore e nell’illustratore, il libro diventerà molto più di un semplice accostamento tra testo e illustrazioni: il suo valore sarà dato dalla loro sinergia. Credo, inoltre, che il percorso iconico debba avere la stessa autonomia e la stessa dignità del percorso letterario, in quanto espressioni di due modalità artistiche differenti con la medesima dignità. Il testo deve essere scritto prevedendo fin dal principio che sarà illustrato, lasciando spazi immaginativi autonomi per l’illustratore e pieghe narrative non del tutto svelate da cui l’illustratore può partire per il suo percorso. Un testo troppo ricco di descrizioni particolareggiate non è un buon testo perché ‘obbliga’ l’illustratore a illustrare solo ciò che il testo impone.
Nei tuoi libri ti piace viaggiare alla scoperta dell’immaginario di altri popoli e altre culture…
Fiabe delle regioni articheFiabe del Brasile
Da oltre 10 anni collaboro con la Mostra internazionale di illustrazione per l’infanzia “Le immagini della fantasia” e con Franco Cosimo Panini per una collana dedicata ogni anno alle fiabe tradizionali di paesi e culture. Ho pubblicato libri di fiabe da Medio Oriente, Africa, Estremo Oriente, regioni artiche, Oceania, Brasile, India, Russia, Messico, Scozia.
Le fiabe per me sono capolavori preziosi. Sono nate nella notte dei tempi più antichi: accanto al fuoco, in riva al mare, sotto le stelle, quando gli antenati di ogni popolo del mondo esprimevano, con un racconto di fantasia, le questioni più importanti per la vita delle loro comunità, quelle che dovevano essere trasmesse alle generazioni future e dare speranza ai piccoli e ai deboli. Le fiabe sono capolavori preziosi anche per un altro motivo: sanno viaggiare nel mondo.
Fiabe e leggende della Scozia
È una grande fortuna per noi adulti e per i bambini, perché ci fanno scoprire ambienti, avventure e personaggi che non avremmo mai nemmeno immaginato, ci fanno intravedere nuovi punti di vista e nuove sensibilità. È così che le fiabe degli altri popoli ci arricchiscono e ci aprono all’incontro con culture differenti rispetto alla nostra. Ciò che le accomuna, qualsiasi sia il luogo del mondo in cui sono nate, è la capacità di esprimere gli stessi desideri, le stesse aspirazioni, le stesse paure e le stesse sofferenze che appartengono al cuore dell’umanità intera.
Hai pubblicato anche tante guide turistiche per ragazzi e sei impegnato in progetti per la valorizzazione e la narrazione del patrimonio artistico e culturale italiano ai tuoi piccoli interlocutori… Credo che il patrimonio artistico, storico e culturale debba essere raccontato a bambini e ragazzi in modo efficace e adeguato alla loro età, utilizzando uno strumento a volte nuovo per l’arte, la cultura e i musei, eppure potentissimo: la narrazione. Sono convinto che solo l’utilizzo di una sapiente narrazione consenta di trasmettere – con un coinvolgimento non solo intellettivo, ma anche emotivo – informazioni storiche, artistiche e culturali. Nei testi cosiddetti di “divulgazione per ragazzi” spesso le informazioni sono invece presentate senza alcun fascino narrativo, senza una vera storia, e dopo un po’ si scopre che il personaggio non è un vero personaggio, ma una semplice “funzione”: la guida.
La sfida per avvicinare i ragazzi a un qualsiasi contenuto credo stia invece proprio nel saper costruire una vera avventura capace di creare fascino e di divertire. I racconti che ho scritto sono un invito per tutti, adulti e bambini, a vivere bellezza e cultura intensamente, penso infatti che esista un diritto alla bellezza, da esercitarsi con forza sempre maggiore di fronte alle fantasie preconfezionate e stereotipate in cui siamo immersi.
Spesso poi usi lo strumento narrativo per affrontare tematiche difficili: è successo con “Un drago sottosopra” in cui bimbi ferraresi hanno raccontato il terremoto, mentre in “La fiaba del Vajont” narri insieme ai bambini di Longarone la tragedia della diga del Vajont, e ancora con “Il puzzle di Matteo” affronti i problemi neurologici di una sindrome genetica…
Copertina de ‘La Fiaba Del Vajont’
Dopo il terremoto mi sono subito chiesto che cosa potessi fare e ho iniziato a tenere incontri con i bambini nelle tendopoli. A volte qualcuno di loro mi chiedeva: “Ma le storie a cosa servono, quando il terremoto è sempre lì in agguato?” Allora io raccontavo la storia di un personaggio delle ‘Mille e una notte’ che rappresenta benissimo la potenza della narrazione: è Shahrazàd. Il re Shahriyàr, straziato dal tradimento della moglie, per vendicarsi ordina che ogni sera gli venga portata una fanciulla che sposa e poi la notte immancabilmente uccide. Shahrazàd, la figlia del visir, si offre di sposare il re per salvare la vita delle altre ragazze: ogni notte racconterà una nuova storia, ma prima che sia terminata ogni volta sopraggiungerà il mattino e dovrà interromperla per consentire al re di occuparsi del regno, così il re giurerà di farle salva la vita finché non avrà ascoltato il resto del racconto la notte successiva. Così le storie narrate da Shahrazàd tengono lontana la morte, sospendono il tempo: le storie di Shahrazàd salvano il futuro dell’intero regno e alla fine lo stesso re, che si pentirà della propria vendetta e saprà di nuovo gioire della vita. “Alla fine allora vincono i racconti?” mi chiedevano i bambini e io rispondevo: “Alla fine credo che vincano i bambini e gli adulti che provano a esprimere e comunicare i propri sentimenti, le proprie paure e sofferenze, le proprie speranze, i propri desideri più profondi, attraverso la parola, la narrazione, il racconto. Così, se anche la terra dovesse crollare sotto i nostri piedi, noi possiamo imparare a volare”.
Per saperne di più sul lavoro di Luigi Dal Cin [vedi] Per leggere la storia che Luigi Dal Cin ha regalato ai lettori per la Befana leggi qui.
Célia è una ragazza francese di vent’anni, con la sindrome di Asperger. Si tratta di un disturbo pervasivo dello sviluppo, comunemente connesso allo spettro autistico. Ancora non se ne conosce l’eziologia. Compromette le interazioni sociali, produce comportamenti ripetitivi e stereotipati, attività e interessi sono molto ristretti. Ma la sindrome di Asperger non è una malattia, è invece un modo di essere, un modo di pensare ‘diverso’.
Ricordate Cristopher, genio della matematica, protagonista di “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte”? Leggendo le pagine scritte da Mark Haddon, ci si può facilmente rendere conto del dramma personale e famigliare di quanti soffrono di questa sindrome.
Apprendo la notizia dall’articolo che, su Le Monde, Pascal Krémer ha dedicato a Célia il 23 dicembre scorso, “La meilleure de la classe est autiste”. Perché Célia è risultata la migliore tra gli studenti dell’ultimo anno del liceo Lakanal di Sceaux, nell’Alta Senna.
Una rinascita per questa ragazza che per lungo tempo ha patito senza che la medicina desse un nome alla sua sofferenza: la sindrome di Asperger.
Per anni, a partire dalla scuola elementare, è stata isolata dai compagni, considerata folle e bizzarra, curata con ansiolitici, sonniferi, antidepressivi e antipsicotici, fino a quando incontra il dottor David Gourion, uno psichiatra che a lungo ha esercitato nell’America del Nord.
Un incontro che apre le porte del mondo a Célia, che le permette di scoprire la sua umanità, che il suo essere è la normalità per tante altre persone come lei, nella sola Francia almeno 650.000, di cui 150.000 bambini. I dati mondiali della sanità ci dicono che l’autismo è in aumento e che entro il 2020 un bambino su dieci soffrirà di questa patologia.
Célia è dotata di un quoziente intellettuale insolito, come spesso accade per i portatori della sindrome di Asperger. Ed è questo quoziente intellettuale del tutto eccezionale che le consente di compensare il deficit di interazione sociale per tentare di assecondare “i nostri comportamenti irrazionali”, osserva il dottor David Gurion, con un costo psichico enorme.
Ora che la sofferenza di Célia ha finalmente un nome, non più schizofrenia o altro, è curata con un solo farmaco regolatore dell’umore, frequenta un gruppo di abilità sociale che l’aiuta ad adattare i suoi comportamenti ai nostri e soprattutto le permette l’incontro con la sua famiglia.
Célia non vive più sola, non è più condannata all’isolamento nella sua alterità. Incontra altri giovani Asperger come lei, con i quali intrattiene conversazioni profonde, senza doversi preoccupare di riflettere correttamente i sentimenti o dell’intonazione giusta per ogni frase che pronuncia.
Ha preparato la maturità in due anni, appassionandosi alla filosofia delle religioni e alla teologia. Gli insegnanti sono entusiasti di questa studentessa rara, che beve le loro parole, che ha una memoria prodigiosa. Ha imparato a memoria cinquantaquattro poesie di Eluard, possiede una finezza di ragionamento unica, una straordinaria capacità di costruire relazioni tra i diversi autori.
C’è davvero dell’eccezionale nei progressi compiuti dalla scienza nella diagnosi dell’autismo e della sindrome di Asperger. L’eccezionalità è però data dal contributo che diverse personalità affette da autismo hanno fornito alla ricerca e alla conoscenza di questa patologia.
È il caso di Josef Schovanec, trentatré anni, laureato in scienze politiche e filosofia, autistico con la sindrome di Asperger. Per anni ha trascorso le sue giornate chiuso in una stanza, senza uscirne per mesi. Per cinque anni, etichettato come schizofrenico, sedato con una camicia di forza chimica, una batteria di psicofarmaci di quelli più pesanti per l’organismo e, nello stesso tempo, più discussi nella pratica psichiatrica.
Da allora Josef Schovanec ha imparato a comunicare con i neurotipici, a introiettare tutti i codici della ‘commedia sociale’, a viaggiare e a parlare di autismo in giro per il mondo. È diventato lui stesso ambasciatore di chi soffre come ha sofferto lui, dell’incapacità di accettare la propria differenza. Come ha osservato il genetista Thomas Bourgeron dell’Istituto Pasteur, è importante che le persone con autismo possano comunicare la loro visione di questa sindrome complessa e spiegare tutte le difficoltà che incontrano nella nostra società.
Com’è il cervello autistico e soprattutto come funziona? Molti libri scritti da medici e ricercatori cercano di fornire una risposta a questa domanda.
Temple Grandin, una professoressa associata della Colorado State University, una delle più famose personalità affette da autismo, nel suo ultimo libro, “Il cervello autistico”, propone una visione che intreccia i risultati della ricerca scientifica con la propria esperienza personale. Già con “Pensare in immagini ed altre testimonianze della mia vita d’autistica”, pubblicato dall’Erickson, ci ha offerto uno spaccato unico e affascinante del vissuto interiore, della cognizione e delle emozioni delle persone con questa sindrome. Una lettura preziosissima e ricca di spunti per genitori, insegnanti, psicologi, educatori e per tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono a contatto con l’autismo e con le sue zone d’ombra.
La sua nuova testimonianza è ancora più emozionante. Non senza una buona dose di umorismo, Temple Grandin ripercorre le principali tappe dell’evoluzione della concezione dell’autismo nel succedersi delle varie edizioni del Dsm, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la classificazione americana tanto criticata della malattia mentale. “Una collezione di diagnosi burocratiche” per la studiosa statunitense che si ribella alla pratica di etichettare i pazienti.
Secondo lei è necessario lavorare sui sintomi, non sulle diagnosi, non disprezzare le testimonianze, ma incominciare a studiarle con molta attenzione. Troppo poco è il lavoro condotto per conoscere l’ipersensibilità sensoriale, onnipresente in ogni forma di autismo e molto invalidante.
Temple Grandin richiama gli specialisti, i genitori e quanti sono interessati a conoscere l’autismo, non solo a vederne le difficoltà, ma a comprendere i punti di forza che scaturiscono dal modo singolare di funzionare del cervello autistico, utili a tutti noi. Ma soprattutto ad essere particolarmente prezioso è l’apporto dei singoli pazienti, perché possono diventare loro stessi esperti nella conoscenza di sé e insostituibili partner dei ricercatori.
Ferraraitalia ha pubblicato un articolo interamente dedicato a Temple Grandin, in occasione della Giornata mondiale dell’autismo [vedi].
“Più ancora sorprende chi visiti (…) anche le chiese di Ferrara, l’incontro con Bastianino, quasi un William Blake del michelangiolismo italiano. I suoi titani cinerei e nebulosi, dipinti in quel gusto velato (…) diventeranno una volta , e speriamo sia presto, i beniamini di qualche giovane critico “.
Così Roberto Longhi introduceva nell’Officina ferrarese ( 1934) la personalità di Sebastiano Filippi detto il Bastianino (Ferrara 1528 /32 – 1602), ritenuto il maggior poeta del Manierismo italiano.
E di giovani e non più giovani storici dell’arte si avvalse la fortuna critica di questo pittore ferrarese, che dalla metà del Cinquecento si impegnò a dissolvere la sintassi figurativa tardoclassicista guardando al vecchio Michelangelo e a Tiziano.
Il Bastianino, infatti, trionfa in tutta la sua eroica diversità nelle pagine di Francesco Arcangeli (1963) in una monografia indimenticabile che, non solo è articolata in confronti e nuove attribuzioni, ma è opera di comprensione profonda di un artista coinvolto nelle inquietudini della Controriforma, di una città misteriosa avvolta nella nebbia e di un ducato avviato al declino.
Negli anni 80 e 90 del secolo scorso gli importanti studi di Jadranka Bentini e i successivi di Vittoria Romani aprono la strada alla dimensione storico – documentaria delle imprese di Bastianino, della sua famiglia e della sua équipe giungendo ad indagare i grandi cicli ad affersco del Castello Estense e della Palazzina Marfisa.
Oggi, a vent’anni di distanza, Lampi sublimi a Ferrara, curata da Anna Stanzani e dalla Soprintendenza Bsae di Bologna, nata dall’esigenza di condividere con la città l’opera di tutela, valorizzazione e salvataggio di opere d’arte e di edifici religiosi danneggiati dal terremoto del 2012 prosegue in quelle fondamentali indagini, rivolgendosi non solo agli addetti ai lavori ma a un più vasto pubblico. Perché Bastianino, ancora oggi, è un illustre sconosciuto per le generazioni che si accostano all’arte del passato con interesse un po’ sospettoso.
Ancorare la conoscenza della cultura figurativa ferrarese del secondo Cinquecento al restauro della Chiesa di San Paolo danneggiata dal terremoto, significa andare con la memoria e senso visivo alle analoghe vicende della riedificazione della chiesa dopo il tristemente noto terremoto del 1570. In quell’occasione Alberto Schiatti fu l’autore del nuovo progetto e nella fase del completamento decorativo furono all’opera lo Scarsellino (catino absidale) e Bastianino (pale d’altare).
Preceduto da testi figurativi contestualizzanti e da modelli giovanili di Battista Dosso e Camillo Filippi, il salto di sensibilità si fa subito evidente nella grande Circoncisione (1560 circa) per la Cattedrale (Ferrara Pinacoteca Nazionale), dove le michelangiolesche figure occupano l’intero spazio di una cappella illuminata con scenografica teatralità. La luce soffusa penetra dal fondo, si sofferma sulle vesti della Madonna e di Simeone per attardarsi sul primo piano prospettico con l’effetto virtuosistico di valorizzare la muscolosità michelangiolesca del portatore d’acqua e l’identità dei due committenti. Non siamo ancora alla decomposizione della materia pittorica o a quella pennellata sciolta che smaterializza i corpi come ci indica Gesù e il buon ladrone di Tiziano (1559 – 1563), opportunamente messo qui a confronto con la Resurrezione dalla chiesa di san Paolo che integra negli effetti fluorescenti e nelle vivissime cromie filamentose l’antica adesione ai modi romani, già evidente nel Giudizio del catino absidale della Cattedrale.
In un fondamentale convegno internazionale e nella conseguente mostra a Palazzo dei Diamanti nel 1997, relativo all’incidenza della sintassi poetica di Torquato Tasso sulla cultura figurativa tardo cinquecentesca (indimenticabile l’intervento di Andrea Emiliani) , a fondo era stato indagato il paragone tra luce e colori, elementi dominanti in Tiziano e “accelerazione luministica che dissolve la forma esterna delle figurazioni” in artisti come Tintoretto e Bastianino. Operando una sorta di demolizione della sintassi figurativa manierista attraverso la disgiunzione (la mostra infatti aveva come titolo I pittori del parlar disgiunto) la sintassi pittorica si rivelava costruita solo dalla luce che, come sottolineava Raimondi (1985) “introduce un’idea di visionarietà, di sogno visto da sveglio. I corpi si incastrano fra di loro e pesano come lastroni di macigno, angolosi e spaccati come in un quadro del Greco”. L’intesa tra il poeta Raimondi e il pittore Bastianino si incarna così nella monumentale Resurrezione della Chiesa di San Paolo, dove la luce liquida del Cristo glorioso teatralizza l’evento che sfuma solo nella luce, anzi nella velocità della luce .
La bella mostra della Pinacoteca non si conclude qui ma presenta altre importanti opere e altri importanti artisti ferraresi: tuttavia la sua rilevanza sta nel sottolineare la modernità di un artista drammatico, ansioso e in crisi di identità come è oggi ognuno di noi..
Lampi sublimi a Ferrara. Tra Michelangelo e Tiziano. Bastianino e il cantiere di San Paolo Ferrara, Pinacoteca Nazionale del Palazzo dei Diamanti (fino al 15 marzo 2015)
La frazione organica è la componente principale del rifiuto solido urbano prodotto nella fase del consumo finale. Da un confronto di diverse analisi sulla composizione in peso dei rifiuti, l’organico rappresenta infatti circa il 30%, plastica e gomma rappresentano circa il 13-15%, carta e cartoni il 25-27%, il vetro il 5-7% e i metalli rappresentano il 3-5% dei rifiuti urbani. Sulla base di analisi condotte direttamente nella fase della raccolta (al cassonetto), la parte organica, comprendente legno e verde, rappresenta dunque quasi un terzo del totale dei rifiuti urbani e varia in funzione della grandezza dei comuni: è minore nelle aree urbane e metropolitane, mentre è crescente al decrescere del numero di abitanti. Il Rapporto rifiuti organici 2014 del Cic (Consorzio italiano compostatori) sul recupero delle frazioni organiche, conferma la crescita del settore. Aumenta ancora la raccolta dell’organico. Con una crescita media nell’ultimo decennio di quasi il 10% l’anno, lo scarto organico si consolida come la componente principale dei rifiuti urbani raccolti in Italia, attestandosi al 42% nel 2013 (era il 37% nel 2012). Su un totale di 12,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani differenziati nel Paese, la raccolta della frazione organica (umido e scarto verde) è stata di 5,2 milioni, seguita dalla carta con 3 milioni di tonnellate e dal vetro con 1,6 milioni. In verità, la composizione merceologica dei rifiuti urbani (in peso e in volume) sta cambiando negli ultimi anni con la crescita delle frazioni secche (carta, plastica, vetro, metalli) rispetto alla frazione organica, ma per ora limitiamoci a parlare di umido, ovvero di frazione putrescibile, ovvero di organico, dunque di compost.
Il cambiamento del sistema dei consumi alimentari ha prodotto una standardizzazione di produzione dei rifiuti abbastanza netta tra distribuzione e consumo finale nelle famiglie: è aumentato il consumo esterno alla famiglia e sono cambiate le modalità di consumo nelle famiglie. Complessivamente le famiglie producono direttamente circa la metà dei rifiuti urbani, mentre l’altra metà viene prodotto dagli operatori dei servizi, del commercio, dei pubblici esercizi che gestiscono tutto il sistema del consumo. E’ importante perciò sottolineare che la famiglia, come consumatore finale, controlla solo una parte dei rifiuti urbani e pertanto le strategie della raccolta differenziata dovranno considerare il peso che questo canale ha nella produzione dei rifiuti. Nello specifico le famiglie consumano il 50% dell’organico presente nei rifiuti (si stima una produzione media giornaliera pro-capite di organico di circa 200-250 grammi), il 40% degli imballaggi (per la maggior parte primari) e insieme a terziario e servizi (uffici) circa il 90% della carta da giornali e della carta non da imballo (fogli, ecc.).
E’ dunque strutturalmente cambiato il sistema di distribuzione attraverso nuovi sistemi di imballaggio: secondario e terziario presso gli operatori commerciali, primario per il consumo finale delle famiglie. Gli imballaggi sono diventati la componente principale negli Rsu – Rifiuti solidi urbani (35% in peso e 50% in volume). Lo sviluppo dell’imballaggio a perdere è diventato decisivo nel sistema del consumo. Si stima che il “non-domestico” produca l’altro 50% di organico presente negli Rsu, ma che soprattutto il commercio tradizionale, la grande distribuzione e l’industria (escludendo i rifiuti industriali) producano come rifiuto, per la maggior parte, gli imballaggi (ossia cartoni, vetro, plastica, legno, ferro, alluminio) che rappresentano circa il 50% del totale degli imballaggi rifiuto. Bisogna tenerne presente quando si definiscono i sistemi di raccolta. A cosa servono queste informazioni? Il settore della raccolta differenziata e del trattamento mediante compostaggio dei rifiuti organici sta evolvendo verso la produzione di materia (il compost di qualità) e di energia (biogas convertito o meno in energia elettrica/termica) ma che, soprattutto, sta incrementando la costruzione di impianti di digestione anaerobica (come pretrattamento per la produzione di biogas) e compostaggio (come fase di finissaggio per la produzione di fertilizzante organico).
Il compostaggio è una tecnica attraverso la quale viene controllato, accelerato e migliorato il processo naturale a cui va incontro qualsiasi sostanza organica per effetto della flora microbica naturalmente presente nell’ambiente. Si tratta di un “processo aerobico di decomposizione biologica della sostanza organica che avviene in condizioni controllate e che permette di ottenere un prodotto biologicamente stabile in cui la componente organica presenta un elevato grado di evoluzione”. La ricchezza in humus, in flora microbica attiva e in microelementi fa del compost un ottimo prodotto, adatto ai più svariati impieghi agronomici, dal florovivaismo alle colture praticate in pieno campo.
Il processo di compostaggio si compone in due fasi: bio-ossidazione, nella quale si ha l’igienizzazione della massa, che è la fase attiva, caratterizzata da intensi processi di degradazione delle componenti organiche più facilmente degradabili; e maturazione, durante la quale il prodotto si stabilizza arricchendosi di molecole umiche (da humus), caratterizzata da processi di trasformazione della sostanza organica. La migliore utilizzazione del compost è quella di essere un ammendante utile al terreno e utilizzabile in tutti i comparti agricoli (pieno campo, orticoltura, frutticoltura, coltivazione in contenitore, ecc.) e, come tale, può venire commercializzato. La capacità ricettiva del comparto agricolo risulta essere notevolmente superiore alla capacità produttiva del settore; infatti la superficie agraria nazionale è pari a circa 16 milioni di ha della quale circa il 30% può essere prudenzialmente interessata all’applicazione di ammendanti compostati, in sostituzione dei tradizionali letami, difficilmente reperibili.
Questa mattina mi sono svegliata, quando, piano piano, sento un piccolo brusio e intravvedo un’ombra piccola, leggera e discreta. Quatta quatta, proprio come lei, mi avvicino alle tende bianco-verdine, un profilo regale si affaccia sul mio davanzale, visto da lontano potrebbe sembrare un volatile elegante. Filtrato dal velo delle tende, incuriosisce la mia immaginazione sempre viva e fertile.
Un piccione curiosa sul davanzale tra i tetti ferraresi
Capisco subito, chiaramente, che è un semplice e curioso piccione ferrarese, nulla di più, ma questa mattina, come spesso negli ultimi tempi, sono in vena poetica. Mi piace immaginare che sia arrivato da lontano, che in quel momento stia riposando da un lungo viaggio, guardando i tetti romantici e sereni, respirando aria fresca.
Adoro vederlo sorvolare laghi dorati, mare in burrasca, terre fertili e piccoli orti curati da instancabili pensionati, con negli occhi immagini uniche e irripetibili, quasi un Yann Arthus-Bertrand di provincia. Senza offesa per questo immenso e instancabile artista.
Mi piace pensare che sulle sue ali si sia appoggiata qualche goccia di brina pungente che, lasciata cadere per caso, ha accarezzato i capelli intrecciati di una giovane e bella ragazza innamorata.
Bello fantasticare, immaginare che quell’animale gentile abbia sfiorato, con ali docili e leggere, i pensieri e i desideri dei bambini a Natale, che abbia portato loro qualche idea per un regalo gradito agli anziani nonni o ai genitori un po’ stanchi.
Bello credere che abbia lasciato note di una musica dolce e soave su qualche tegola ancora un po’ traballante, lasciandole scivolare giù per un camino che aspetta solo la Befana, ora.
Quel piccione non immagina nemmeno lontanamente che lo sto guardando e che quei pochi minuti che resta appollaiato sulla mia finestra mi hanno fatto immaginare una sua vita tanto ricca e avventurosa. Magari è un semplice piccione ferrarese, che mai ha volato tanto lontano, magari è lì per lasciarmi una missiva. Un tempo i piccioni viaggiatori portavano lontani e romantici messaggi. Apro la finestra e, anche se piano, lui vola via spaventato e impaurito. Sul davanzale c’è un biglietto…
“Quello di cui avremmo veramente bisogno, in realtà, è una moglie. Ma di quelle tradizionali, di una volta, mica una di quelle moderne con tutte quelle velleità e quei grilli per la testa. Mica come noi.”
Lella Costa sta dalla parte delle donne perché ci sta in mezzo a quell’universo che, dal di dentro, è ancora più variopinto di quanto appaia da fuori. Che poi, da fuori, a guardarlo ci stanno gli uomini, o almeno alcuni.
Tra i tanti, ci sono anche gli uomini della violenza, della forza volgare contro cui l’attrice si è impegnata in molti modi, andando nelle scuole e partecipando alla tournée “Ferite a morte” con Serena Dandini. Le donne sono spesso accompagnate da una sensazione di non poter essere veramente al sicuro, facili bersagli di violenza anche solo verbale, quella di quando passi per strada e qualcuno ti approccia, ti rovescia addosso quelle schifezze che gli passano per la testa. Tu non l’hai provocato, non l’hai nemmeno guardato, ma quelle parole ti toccano lo stesso, anche se non te le meriti e non le volevi, ma passavi di lì.
“Che bello essere noi” racconta l’anima e l’animo delle donne, concentrate, tridimensionali e molto banalmente ridotte a quote rosa, una questione di percentuale, di posti a sedere. Ma le donne ci rinunciano anche ai posti di potere, alla politica attiva perché hanno altre priorità, “a noi non interessa la concezione maschile del potere, e dunque della politica. Non ci somiglia”. Le donne preferiscono sorellanza e mutuo soccorso, il bello dell’essere noi è questo, riconoscersi tra poche parole e confidenza, è continuare a scegliersi oppure prendere altre strade.
E poi c’è la questione del punto di vista, dello sguardo. Il mito di Orfeo ed Euridice, a cui Lella Costa ricorre, ne è un esempio: dopo tutta la fatica fatta, dopo averla recuperata dal mondo dei morti, dopo essere quasi arrivato, Orfeo si volta a guardarla e la perde per sempre. Le interpretazioni e i tentativi di risposta a questo gesto di Orfeo (non ce la faceva a resistere? voleva una rassicurazione che fosse proprio lei? che non fosse cambiata? gli erano venuti dubbi?) sono stati tanti. Ma di uomini come Orfeo, dice Lella Costa, il mondo è pieno. Sono quelli che nel momento in cui davvero ti guardano, nel momento in cui realizzano, ti abbandonano. Quando vedono veramente te e non il tuo simulacro, l’idea, anzi l’idealizzazione che si erano fatti, scappano. E allora “che benedetti siano gli uomini che ci guardano”, ma non distrattamente, così se capita, ma quelli ci colgono nei nostri dettagli, negli elementi meno evidenti e perciò singolari che ciascuna ha, “quelli che sanno diventare tornasole, reagente chimico, lente che ingrandisce. Che come Alice non temono gli specchi ma li attraversano. Che siano per sempre benedetti gli uomini che ci amano guardandoci”.
E la fiducia in se stesse e nel loro sguardo le donne ce l’hanno? Forse troppo, per tradizione, dipendenti dallo sguardo altrui, specie maschile, forse spesso in cerca di approvazione, di amore e in ansia, forse, dice Lella Costa, divise tra Ade e Orfeo, si sono perse Euridice. Per fortuna c’è sempre “quell’alfabeto comune” di scelte e pensieri che ci fa ri-conoscere quanto sia bello essere noi.
Nella sua carriera Sergio Endrigo ha collaborato con poeti, artisti e colleghi importanti, realizzando progetti indimenticabili. Si è trattato di un percorso di ‘crescita’, che vogliamo in piccola parte raccontare.
Sergio Endrigo
Nel 2002, il Club Tenco produsse l’album-omaggio“Canzoni per te. Dedicato a Sergio Endrigo”, che raccoglieva canzoni interpretate, tra gli altri, da Bruno Lauzi, Marisa Sannia, Arsen Dedić, Gino Paoli (lui e Dedić hanno pubblicato album live in Croazia), Roberto Vecchioni, Nada ed Enzo Jannacci. In quell’occasione il paroliere Sergio Bardotti eseguì il brano “La casa”, inserito come bonus track nella ristampa in cd dello storico disco del 1969 “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, una straordinaria opera su disco, firmata Rca italiana, che vedeva insieme Sergio Endrigo, Vinicius de Moraes, Giuseppe Ungaretti, Toquinho, Sergio Bardotti, con gli arrangiamenti di Luis Enriquez Bacalov.
Con Luigi Tenco
Molti degli artisti che incisero le canzoni di Endrigo nel 2002, parteciparono poi al progetto Ciao Poeta, uno spettacolo in omaggio di Endrigo (scomparso nel 2005), tenutosi l’11 gennaio 2006 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Sergio Bardotti fu il direttore artistico della manifestazione, con la collaborazione di Claudia Endrigo (la figlia), per la regia di Emanuele Scaringi. Arsen Dedić e Sergio Endrigo erano amici e si sono esibiti insieme nelle numerose manifestazioni musicali, che si tenevano in Jugoslavia sin dai primi anni sessanta. Nel 1990, grazie ad Arsen, Endrigo ritornò per la prima volta nella natia Pola, tenendo due concerti, al Teatro popolare istriano e all’Acy marina. “1947” è il brano che il cantautore istriano ha dedicato a Pola, una canzone contro la guerra, anche se non se ne fa esplicito riferimento. Si tratta di un brano struggente, dove tra nostalgia e rimpianto Endrigo parla dell’esodo dalla città istriana, compiuto insieme alla sua famiglia: “Da quella volta non l’ho rivista più, cosa sarà della mia città, ho visto il mondo e mi domando se, sarei lo stesso se fossi ancora la… come vorrei essere un albero che sa, dove nasce e dove morirà”.
Endrigo ha inciso due brani in lingua croata: “Kud Plove Ovaj Brod” (Dove va la nave) di Esad Arnautalic e Luca Juras (presentata al Festival di Spalato del 1970) e “Više Te Volim” (Ti amo di più), dello stesso musicista istriano e del croato Zdenko Runjic, noto per avere scritto la canzone “Skalinada”, portato al successo da Oliver Dragojević.
Negli ultimi anni, in suo ricordo, numerosi artisti croati hanno eseguito “Kud Plovi Ovaj” dal vivo, tra questi Rade Šerbedžija e Kemal Monteno, oltre allo stesso Arsen Dedić. Monteno e Šerbedžija, sono artisti molto seguiti in Croazia e nelle altre repubbliche della ex-Jugoslavia. Rade Šerbedžija è noto anche per l’importante carriera di attore in film quali Prima della pioggia – Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 1994, Il Santo, Batman Begins e Henry Potter e i doni della morte 1.
“Si comincia a cantare” è il titolo dell’album postumo di Sergio Endrigo, pubblicato nel 2010 da onSale music, che contiene ventiquattro tracce registrate nel 1959 e firmate da famosi autori (Migliacci, Bindi, Calabrese e Modugno). In alcuni brani Endrigo appare con i suoi pseudonimi: Sergio Doria, Notarnicola e Riccardo Rauchi e il suo complesso.
Nel 2012, con l’aiuto dell’Unione italiana, del municipio di Pola e della Regione istriana è stato realizzato un cd tributo intitolato “1947 Hommage a Sergio Endrigo”, che contiene una trentina di brani scelti con cura tra i più conosciuti, eleganti e riflessivi, interpretati da artisti polesi.
Pola, monumento dedicato a Sergio Endrigo
Il 30 maggio 2013, in occasione dell’anniversario dell’80° anno dalla nascita di Endrigo (15 giugno 1933), Radio Capodistria ha trasmesso il concerto registrato al Teatro di Capodistria in occasione del Forum Tomizza, dedicato alla sua musica.
Il 26 luglio 2013 il Folk Festival, che si svolge a Spilimbergo in provincia di Pordenone, ha dedicato una serata a Sergio Endrigo, invitando Simone Cristicchi con la Mitteleuropa Orchestra del Friuli Venezia Giulia diretta dal M° Valter Sivilotti. L’evento è stato trasmesso su Raiuno il 15 agosto ed è tuttora visibile, in versione integrale, su Youtube.
La città di Pola ha dedicato a Endrigo una splendida scultura ispirata alla famosa canzone “L’Arca di Noè”. L’opera, dell’artista Ciro Maddaluno, è stata realizzata dallo scultore Eros Cakic, con il contributo degli architetti Davor Matticchio e Zvonimir Vojnič.
Durante questo breve viaggio nei “mari di poesia di Endrigo”, abbiamo incontrato artisti, poeti, luoghi e suoni che la memoria aveva per un po’ dimenticato. Chiudiamo con due bellissime frasi, la prima tratta da “Canzone per te”, che nel 1968 vinse il Festival di Sanremo: “… la solitudine che tu mi hai regalato, io la coltivo come un fiore”. Il secondo testo è tratto da “Poema degli occhi”, con le parole di Vinicius de Moraes: “… amore mio che occhi i tuoi, quanto mistero negli occhi tuoi, quanti velieri e quante navi, quanti naufragi, negli occhi tuoi…”.
Folk Festival Spilimbergo, Concerto integrale di Simone Cristicchi [ascolta]
Si ringrazia Claudia Endrigo per il supporto dato per la realizzazione dell’articolo.
STANDING OVATION: I PIU’ ACCLAMATI SPETTACOLI TEATRALI DEL XXI SECOLO
“Erano tutti figli miei” di Arthur Miller, regia di Cesare Lievi, Teatro Comunale di Ferrara, dall’8 al 12 gennaio 2003
La stagione teatrale 2002/03 del Comunale tocca forse il suo apice, almeno per quanto attiene la prosa vera e propria, con un dramma “giovanile” del grande Arthur Miller: “Erano tutti miei figli” (1947), anteriore addirittura a “Morte di un commesso viaggiatore” (1949) e a “Uno sguardo dal ponte” (1955). Arthur Miller è autore di opere drammaturgiche animate da una viva coscienza etica e da finalità polemiche nei confronti della società americana, dei suoi falsi miti e delle sue tare ereditarie. Fra i suoi lavori si ricordino, fra i tanti, anche “Il crogiuolo” (1953, ridotto alcuni anni fa per il cinema da Nicholas Hytner), “Gli spostati” (1961), “Dopo la caduta” (1964).
“Erano tutti miei figli” racconta una storia di ordinaria corruzione: nell’ambito di un nucleo familiare si scopre, dopo diversi anni, che il padre si era arricchito vendendo ricambi d’aereo difettosi all’aviazione americana. Ma ben più profondo è il tema della incomunicabilità e dello scontro fra due generazioni. Lo stesso Miller ebbe a commentare al riguardo: «La fortezza cui “Erano tutti miei figli” cinge d’assedio è quella della mancanza di rapporto. È l’asserzione non tanto d’una morale in termini di bene e di male, ma di un mondo morale che è tale perché gli uomini non possono separarsi da certe loro azioni». Ambientato nel secondo dopoguerra, “Erano tutti miei figli” è un atto d’accusa nei confronti del capitalismo americano, della sua ipocrita e già corrotta utopia dell’“american dream” ma incarna pure, non va dimenticato, la sincera e patriottica ansia di redenzione di un popolo.
Come una tempesta. Preceduta da una calma innaturale e vagamente annunciata, in un inquietante sereno, da lontani bagliori e soffocati brusii, che prima addensa poche nubi ancora chiare e poi sconvolge l’atmosfera ovattata con qualche fulmine e raffiche di vento, quindi si scatena terribile e devastante tanto da non saper più dove ripararsi, da non poter fare altro che rassegnarsi alla furia degli elementi; il testo di Miller è di una potenza tale da far vibrare per l’emozione, laddove in una sorta di catarsi novecentesca la sofferenza dei personaggi e la volontaria espiazione del protagonista universalizzano e rendono atemporale. Infatti, questo capolavoro giovanile di Arthur Miller contiene già ‘in nuce’ i temi etici che il drammaturgo svilupperà in seguito: il diffuso lassismo, il demone del profitto, le tensioni familiari, la ribellione all’“american way of life”. L’allestimento vede protagonisti due ‘mostri sacri’ come Umberto Orsini e Giulia Lazzarini. La regia è di Cesare Lievi, la traduzione di Masolino D’Amico.
Sequestrato l’oleodotto Civitavecchia-Fiumicino: una notizia per me sconvolgente, sembra che stia accadendo da noi quello che succedeva in Nigeria, ossia il furto di petrolio dagli oleodotti. Segno di un Paese oramai non recuperabile? Per molti si tratta di una delle tante notizie che passa spesso inosservata: su Repubblica di oggi si legge “ll gip del Tribunale di Civitavecchia, Massimo Marasca, ha disposto il sequestro dell’oleodotto Civitavecchia-Fiumicino, a novembre scorso oggetto di alcuni furti che ha procurato danni ambientali per lo sversamento di cherosene, “finché non saranno installati adeguati sistemi di controllo atti ad impedire ulteriori reati”. Il sequestro è stato effettuato dai carabinieri del Noe al termine dell’indagine avviata dal procuratore di Civitavecchia, Gianfranco Amendola. Il procedimento al momento è contro ignoti.”
Ho ripensato alle molte volte (dal 1997) in cui ho partecipato alla presentazione del Rapporto sulle ecomafie di Legambiente. Sul suo sito Legambiente scrive “ecomafia è un neologismo coniato da Legambiente che indica quei settori della criminalità organizzata che hanno scelto il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, l’abusivismo edilizio e le attività di escavazione come nuovo grande business in cui sta acquistando sempre maggiore peso anche i traffici clandestini di opere d’arte rubate e di animali esotici.” Insomma tutto.
Il Rapporto ecomafia 2014 dice che “29.274 infrazioni accertate nel 2013, più di 80 al giorno, più di 3 l’ora. In massima parte hanno riguardato il settore agroalimentare: ben il 25% del totale, con 9.540 reati, più del doppio del 2012 quando erano 4.173. Il 22% delle infrazioni ha interessato invece la fauna, il 15% i rifiuti e il 14% il ciclo del cemento. Il fatturato della criminalità ambientale, sempre altissimo nonostante la crisi, ha sfiorato i 15 miliardi.”
Pazzesco. Ma, soprattutto, gravissima è ancora la scarsa considerazione che attribuiamo ai danni ambientali perché i tempi sono spesso molto lunghi per verificare l’effetto del danno, spesso i danni non si verificano (le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo) perché mancano gli strumenti di controllo, ma soprattutto dove il danno è troppo alto (e dunque non pagabile) spesso non si procede; infatti spesso si rileva il danno solo quando si riesce a trovare i colpevole (dove vi sono responsabilità diffuse spesso si tende a coprire).
Allora vediamo come siamo messi a livello normativo. Solo da febbraio 2014 si è fatto qualche passo, ma il Codice penale ambientale ancora non è operativo (siamo solo alla solita proposta di legge ferma). Prima comunque esisteva solo il Codice civile (art. 2043 e 2050) e si inizia a parlare di Danno ambientale solo dal 1986 art. 18 349/86 (che però non lo definisce); solo con il decreto Ronchi si introduce la responsabilità oggettiva e il Regolamento attuativo Dm 471, 25/10/98, ma solo in campo di applicazione e definizioni. Sui principi siamo bravi: il Danno è subito dalla Collettività e l’Ente territoriale è titolare del diritto al risarcimento. Chi viene colto in grave responsabilità però al massimo se la cava con qualche multa.
C’è molto, molto da fare.
Mentre si spegne l’eco dei botti di Capodanno che producono fremiti e ohhhh di meraviglia di fronte all’incendio del Castello nella città estense, o i concerti nelle piazze fiorentine, seguiti dai fuochi d’artificio tra frotte inenarrabili di turisti che si fanno scudo della grande bellezza per proclamare il dogma immortale dell’ “anche io c’ero!” testimoniato dai milioni di selfie, rimane quel retrogusto amaro nel non volere arrendersi alla noia prodotta e provocata dal voler essere per forza in pista in quella notte. La mia irriducibile avversione ai botti risale forse alla paura del fuoco o forse più verosimilmente alla notte del bombardamento di Ferrara, quando bambinetto fuggivo verso il rifugio in braccio alla mamma, inseguito dai tonfi sordi e dalle lingue di fuoco che s’alzavano circondandoci. Ci sono, a mio avviso, momenti migliori per passare quella manciata di ore tra Natale e Capodanno. Penso ai bellissimi film che sono riuscito a vedere nel tempo propizio ai cinepanettoni: da “Jimmy’s Hall” a “Saint Vincent”, passando per “Il giovane favoloso” a “Torneranno i prati” e, alla televisione, l’immortale “A qualcuno piace caldo” e “Il giardino dei limoni”. Storie di emarginati e di poeti, o di irrisolvibili contrasti e conflitti: Irlanda, Palestina, Israele, la Prima guerra mondiale. Il mondo reale, la verità riscoperta attraverso l’arte.
Così, in questi momenti inopportuna e stridente si leva la polemica sulla mostra del Bastianino e sul destino di Casa Minerbi che il critico Vittorio Sgarbi irride, forse senza saperne il destino e la fruizione imminente. Sembra quasi che i ferraresi affascinati da parole forti e scaltramente pronunciate s’abbandonino, come nell’incendio del Castello, a perdersi tra botti e fuochi dell’intelligenza e del mestiere. La memoria corta così tipica di “Ferara” s’infiamma e si compiace nel denigrare ciò che è frutto di progetti, criticabili quanto si vuole, ma sempre sostenuti da una meditata consapevolezza. E’ stato così nella Ferrara “smangona” e, solo per fare esempi recenti, per il progetto Ermitage, per il ridimensionamento dell’Istituto di studi rinascimentali e per molto di quello che si è tentato di costruire per uscire dalle Mura, a volte paradiso, a volte carcere della depisissiana città pentagona.
Non è scetticismo né tantomeno pensiero negativo.
La constatazione di ciò che la nostra città invidia a se stessa deve essere impegno etico a resistere e a non abbandonarsi all’ovvietà. Perciò bisogna controbattere alle provocazioni: specie quelle intellettuali, sapendo però che quasi sempre si è destinati a perdere.
Si veda la magnifica proposta di Piero Stefani su come dare contenuti forti al Museo dell’Ebraismo, caduta nel vuoto. Si assista alle splendide conferenze organizzate dall’Istituto Gramsci sul “carattere degli italiani”, seguitissime, applauditissime. E poi? Si considerino le mani alzate dopo la reprimenda di Vittorio Sgarbi sulla mostra del Bastianino alla domanda su quanti avessero visitata l’esposizione: tre! nella sala stracolma che applaudiva toto corde.
Dovremmo dichiararci sconfitti? Eh no! Anzi, sono queste le prove che ci devono indurre a non lasciare la presa. Che all’incendio del Castello, nella mente, si può contrapporre la riposata e placida constatazione di quanto sia straordinario far fiorire gli alberi dei limoni e non abbatterli come nello splendido film di Eran Riklis.
Gianni Toti, originario di Roma e scomparso nel 2007 è tra i pionieri della video-art a Ferrara e a livello internazionale, protagonista nella grande stagione di fine secondo Novecento del Centro video arte a Ferrara curato dal Maestro Farina.
Gianni Toti fu un autentico genio d’anticipazione. La videopoesia, poi poetronica, ha in Toti uno dei suoi fondatori e ineguagliati interpreti: inventata, creata, distillata, innestata nel divenire della poesia contemporanea, al passo con i vertici della sua stessa mutazione, parallela alle trasformazioni sociali e tecnologiche.
Toti da decenni, con esiti stupefacenti di nuova bellezza techno, il fare arte con le macchine, persino letteratura, niente affatto un degrado del cuore e della creatività umana: proprio il contrario…
E anzi, capace Toti di dare un nome, un volto bello e riconoscibile alla nostra Era, non solo una
specie di top model nevrotica e complessa, ma anche una femme fatale intelligente oltre che
ammaliante. Per la realizzazione delle sue opere collaborava anche con il Centre de recherche Pierre Schaeffer di Montbéliard-Belfort.
Tra le sue opere video e poetroniche, “L’originedite” (1994), “Planetopolis” (1993), “Tupac Amauta”
(1997)… forse un vertice è semplicemente una suite “Trilogia majakovskiana” dedicata a
Majakovskij e a Lili Bric, anni ’80, poesia e rivoluzione al 100%, quasi un megafile già destinato
alla net-generation contemporanea. Capolavoro dell’Arte video e punto di riferimento assoluto per il futuro e per le nuove generazioni video e net generation.
Ha anche pubblicato “L’altra fame” (Rizzoli, 1970), “Il padrone assoluto” (Feltrinelli, 1977) “Planetario. Scritti giornalistici” (a cura M.Borelli e F.Muzzioli, Ediesse, 2008), “I meno lunghi o i più corti racconti del futuremoto” (a cura G.Perego, Fahrenheit, 2012), Raccolte poetiche “Che c’è di nuovo” (Premio Rapallo 1962), “La coscienza infelice” (1966), “Tre ucronie” (1970), “Chiamiamola poemetànoia” (1974).
Su Gianni Toti: “Gianni Toti in cine ma video” (Sandra Lischi, a cura di, Ed. Ets, 1996); “Gianni Toti o della poetronica” (Sandra Lischi, Silvia Moretti (a cura di), Ed. Ets, 2012), “Re-video ergo zoom (o zaúm?)”; “Totilogia Gianni Toti” (a cura di Daniele Poletti, Floema-esplorazioni della parola [dia•foria, 2013); “Totilogia”, ([dia•foria, Daniele Poletti (a cura di), in collaborazione con La Casa Totiana, Ed. Cinquemarzo, 2014).
Per saperne di più su Gianni Toti visita la pagina relativa su Wikipedia [leggi], la puntata su Rai arte [vedi]
* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi]
Dopo il bianco della neve, la nostra Ferrara ci ha stupito con i colori. Un tramonto così bello non lo vedevo da tempo. Davvero. Rosso, rosa, violetto, azzurro, blu e celeste. Le tinte della serenità, quelle del riposo, della felicità, dell’ozio meritato, del non pensare a nulla, almeno per qualche istante. O dell’immaginare, se la mente non riesce proprio a starsene tranquilla, scenari di calma e di pace.
Perché, mentre concludo il libro di Mauro Corona “Una lacrima color turchese”, seduta comodamente sul mio divano lilla, penso che questo mondo ha perso l’orientamento, che molti valori se ne sono volati via, quasi volatilizzati, andati in fumo; che, spesso, non sappiamo più cogliere il senso delle piccole cose e l’importanza dei veri sentimenti, che perdiamo la sicurezza dell’amicizia e la pazienza con i nostri anziani, perché fermarsi a riposarsi e smettere di correre è considerato un privilegio di pochi, perché sognare e realizzare i propri sogni non è davvero per tutti. Perché il tempo passa ed è sempre più danaro, perché questo non è vero proprio per nulla e lo si dovrebbe comprendere una volta per tutte. Perché il tempo è la sola cosa davvero preziosa e regalarlo è il vero dono che si può fare, perché non ritorna, perché è unico e perché è qualcosa di veramente solo nostro che si offre a chi si ama. A Natale, questo si doveva donare, forse. Solo questo, null’altro. Nessun pacchetto vale lui, il tempo fugace e sfuggente.
Questo cielo ferrarese mi fa guardare lontano, un po’ di malinconia per il passato ma anche tanta fiducia per il futuro. Perché sono ottimista e davanti a questo spettacolo non si può che esserlo.
Questo cielo ferrarese, che scorgo dalle stesse finestre di amici vicini, si offre a me, senza parsimonia, in tutta la sua bellezza e splendore, libero, leggero, spazioso, etereo, aperto, sincero, unico. Sempre fedele, sempre presente, sempre generoso e coraggioso.
Questo cielo mi manca, quando sono lontana. Mi consola solo sapere che tutti i miei cari sono sotto le stesse stelle e che, da luoghi diversi e perduti nel mondo, guardiamo a esse, pensandoci l’un l’altro. Ferrara è generosa, in questo inizio d’anno freddo e rigido. Riscalda mani e cuori con questi colori tenui e caldi. Allora scosto la tenda e ammiro ancora quel lilla prezioso sui tetti.
Mi pare proprio di vedere Campanellino svolazzare qua e là, leggera e piccolina, tra un camino fumante e l’altro…
La natura riconsegna le sostanze organiche al ciclo della vita, riproducendole in forma accelerata e controllata; con il compostaggio domestico in fondo si copia dalla natura il processo per creare il compost. Si tratta infatti di processo naturale per riciclare e ricavare buon terriccio dagli scarti organici della cucina e del giardino. Tutti lo possono fare, basta un giardino, anche piccolo. Chi ci ha provato sa quanti “rifiuti” verdi esso produca, soprattutto se è affiancato da un piccolo orto. Il compostaggio permette di utilizzare quei rifiuti organici che si producono in grande quantità e che possono diventare materie prime.
I contadini e gli ortolani lo sanno bene come si fa per produrre una discreta quantità di ottimo terriccio. L’opportuno stoccaggio e trattamento di rami, foglie, erba, avanzi di cibo, bucce di frutta e verdura, permette a batteri, microrganismi e piccoli insetti di cibarsene, di svilupparsi e di decomporre le sostanze organiche presenti nei nostri rifiuti. Dopo alcuni mesi, il materiale organico così trattato diventerà una massa di microrganismi e di sostanze nutritive chiamato compost, simile all’humus che possiamo trovare nel sottobosco: un terreno soffice, ben aerato e ricco di minerali, ottimo per le nostre colture, ma anche per i nostri fiori in vaso.
Si possono compostare scarti di frutta e verdura e scarti vegetali di cucina, perché sono la base per un buon compost; inoltre pane raffermo, gusci d’uova e ossa, purché ridotti in piccoli pezzi; fondi di caffè e filtri del tè, foglie, segatura e paglia, perché per un buon compost è fondamentale la parte più secca dei rifiuti; sfalci d’erba possibilmente fatti seccare prima; bucce di agrumi, purché in quantità non eccessiva (perché hanno tempi di decomposizione più lunghi); avanzi di carne, pesce e salumi, ma senza esagerare. Insomma, quasi tutto quello che esce dalla nostra tavola e dalla nostra cucina.
In alcune zone, si sono anche create attività comuni, di condominio o di zona, con risultati eccellenti.
Diverse statistiche indicano che ognuno di noi produce circa 90/100 kg di rifiuto organico all’anno mentre un orto di 100 mq ne produce circa 350 kg.
Per fortuna anche i migliori gestori hanno iniziato a incentivare questa attività, fornendo anche il contenitore, e su internet si trovano tanti interessanti manuali di come produrlo. Provate!
Idir, nome d’arte di Hamid Cheriet, è nato in Algeria nel villaggio di Aït Lahcène, vicino a Tizi Ouzou, nella Grande (Alta) Cabilia, il 25 ottobre 1949. Idir, in lingua cabila, significa “vivrà”, così come le madri chiamavano tradizionalmente i figli più fragili.
Idir è il cantante e musicista cabilo più conosciuto all’estero, grazie al suo brano d’esordio intitolato “A vava inouva” (Il mio papà), una dolce ninna nanna, con il testo scritto da Ben Mohamed. Il musicista algerino esordì a Radio Algeri, inventandosi lo pseudonimo che lo avrebbe reso celebre, per non far capire ai propri genitori che stava intraprendendo la carriera artistica. “A vava inouva” ebbe un exploit immediato, da allora Idir ha prodotto un numero limitato di album, avvalendosi spesso dei testi di Ben Mohamed. Questo brano è considerato il primo grande successo venuto dall’Africa settentrionale e rappresenta l’affermazione del ritorno alle radici, un sentimento molto sentito dagli algerini.
In concerto
La sua opera ha contribuito al rinnovo della canzone amazyghe e ha portato la cultura della Cabilia all’attenzione del pubblico internazionale, proseguendo la tradizione famigliare iniziata da sua nonna e sua madre, entrambe poetesse. Grazie alle donne della sua famiglia è cresciuto ascoltando storie ed enigmi, un valore immenso in una società basata sulla cultura orale, come ha detto lo stesso Idir: “La capacità di cesellare le parole e di inventare delle immagini, da noi, è ancora oggi molto apprezzata”.
Emigrato a Parigi nel 1975, Idir fa parte di quegli esuli senza “patria ufficiale” che si battono per il riconoscimento della propria cultura d’origine. In quel periodo la casa discografica Pathé Marconi gli produsse il suo primo album “A Vava inouva”, che diventò un successo planetario, distribuito in 77 paesi e tradotto in 15 lingue. Una versione francese è stata interpretata dal duo Davide Jisse e Dominique Marge. La musica della Cabila era la più diffusa nei quartieri a prevalenza araba di Parigi, perché gli immigrati provenivano da quella regione dell’Algeria. Dopo il successo del primo Lp, Idir pubblicò nel 1979 “Ay Arrac Neg” (Ai nostri bambini), iniziando una lunga serie di concerti ma, non riconoscendosi nel mondo dello show-business, scelse di eclissarsi per circa dieci anni, interrotti soltanto da alcuni recital.
Alcuni cd e dvd di Idir
La sua carriera riprese nel 1991, in occasione della pubblicazione della compilation con i brani tratti dai suoi primi due album. Grazie al successo discografico ritornò sulla scena musicale, con una serie di concerti al New Morning di Parigi, dove raccolse numerosi elogi e il riconoscimento, da parte della critica, di precursore della World music.
L’anno successivo uscì l’attesissimo nuovo Lp “Les chasseurs de lumière” (I cacciatori di luce) dove cantò i suoi temi prediletti: l’amore, la libertà e la tristezza dell’esilio. Nell’album introdusse, a fianco dei darboukas, strumenti quali flauti, mandole e chitarre acustiche, dando un tocco di modernità al suo sound. Nel brano “Isaltiyen”, il cantante algerino duettò con Alan Stivell. Quello stesso anno si esibì all’Olympia di Parigi.
Idir all’Olympia di Parigi
Idir, uomo di principi, partecipa spesso ai concerti per sostenere le cause in cui crede, nel 1995, insieme a Khaled, appoggiò un grande evento per la pace, la libertà e la tolleranza. In quella storica occasione il Raï oranais incontrò la poesia contestataria della Cabilia. Si trattò di un grande successo, per i due artisti, che riuscirono nella difficile impresa di riunire le comunità kabylophones e quella arabophones. Nel 2001, quando delle violente sommosse devastarono la Cabilia (la cosiddetta “Primavera nera”), il cantante organizzò un grande concerto allo Zenit di Parigi, dove numerosi artisti sostennero la rivolta del popolo di fronte al potere centrale algerino. Partecipò anche al concerto organizzato per ricordare Lounès Matoub, il cantautore algerino assassinato da un commando armato.
Con l’album “Identités” (1999) Idir si aprì alla Wolrd culture, collaborando con Manu Chao, Tulawin, Dan Ar Braz, Maxime Le Forestier (molto noto in Francia) e i gruppi Gnawa Diffusion e Zebda. L’esperienza prosegui con “La France des couleurs” del 2007, dove giovani autori composero con lui delle canzoni sul tema dell’identità. Collaborano artisti come Akhenaton, Leeroy, Sink, Kenza Farah, Wallen, Grand Corps Malade e Zaho.
Il più recente album di Idir, porta il suo stesso nome ed è del 2013, si tratta di un’opera intimista e personale, meno politica delle precedenti, con un brano dedicato alla memoria della madre, scomparsa qualche anno prima all’età di 96 anni. L’artista, liberatosi del suo status di chanteur militante, abbassa un po’ la guardia per lasciarsi andare alle emozioni. Il disco contiene la traduzione e l’adattamento di un’aria britannica del XVII secolo, “Scarborough Fair” e un pezzo di Beethoven “Tajmilt i Ludwig” (Clin d’œil à Ludwig).
Una delle varie iniziative umanitarie a cui ha partecipato
La musica di Idir nasce dalla fusione di differenti sonorità ma, il punto di riferimento, resta il flauto del pastore cabiliano. Si tratta del primo strumento su cui ha imparato a suonare, costruito tramite il taglio di un giunco. La chitarra folk è venuta molto più tardi, al tempo del liceo, dove un francese gli insegnò i primi accordi che lui riprodusse con le cadenze e gli accompagnamenti tradizionali della sua regione natia.
Le sue canzoni, scritte in cabilo o in francese, hanno una portata universale e accompagnano sempre le cerimonie nuziali dei giovani della Cabilia. Il sociologo Pierre Bourdieu di lui ha detto: “Idir non è un cantante come gli altri, è un membro di ogni famiglia”.
Per ascoltare il concerto acustico di Idir (30’) trasmesso dall’emittente internazionale Tv5 Monde nel 2013 clicca qui.
Buena vista central club: nel centro storico di Ferrara ormai abbondano i negozi di ottica: solo in corso Martiri, cuore della città, ce ne sono tre nello spazio di cinquanta metri. Negli ultimi mesi, infatti, due nuovi punti vendita (La lente e Dieci decimi) si sono aggiunti a Salmoiraghi. A conferma che, di questi tempi, in pochi ci vedono chiaro…
La chiusura dei denti fra loro (occlusione) e la postura del corpo sono strettamente legate. E’ infatti ormai noto come la disarmonia occlusale della bocca possa causare squilibri alla colonna vertebrale e quindi un’alterazione della postura. La deglutizione, l’occlusione e la postura sono legate l’una all’altra in quanto si realizzano tutte grazie all’azione della muscolatura.
Il corpo umano può essere paragonato ad un orologio. Perché funzioni è necessaria la sincronia perfetta di tutti i suoi componenti tra cui i muscoli, tutti collegati tra loro e indispensabili al corretto funzionamento. La mancanza di bilanciamento tra i vari gruppi muscolari è spesso la causa di alterazioni a livello della postura corporea.
Le componenti del sistema stomatognatico (lingua, labbra, mandibola, muscolatura orofacciale) e le quattro subunità funzionali muscolo-scheletriche del corpo umano (la cranio-cervico-mandibolare, il cingolo scapolare, il cingolo pelvico e l’area podalica) mostrano una stretta interdipendenza funzionale e posturale. Alcune abitudini come il bruxismo (serramento dentale notturno involontario) possono essere collegate a disturbi dolorosi del rachide (lombalgie, cervicalgie, dorsalgie). Nella moderna valutazione dei disordini cranio-mandibolari, un ruolo primario lo rivestono le abitudini posturali. Per occlusione si intende il contatto tra le arcate dentarie. Quando l’occlusione è corretta, i denti si toccano senza provocare scivolamenti della mandibola e si ha la sua massima stabilità durante la funzione. Quando è scorretta, i denti vanno ugualmente a cercare la massima intercuspidazione e la mandibola deve scivolare per trovare una posizione che consenta di avere il più alto numero possibile di contatti per ottenere la sua stabilizzazione durante la funzione.
L’ortodonzia e la gnatologia sono i rami dell’odontoiatria che studiano e curano i disturbi dell’occlusione; anche l’osteopatia è necessaria per la valutazione della postura cranio-cervico-dorsale in una visione globale. L’osteopata, attraverso dei test, esamina le disarmonie che possono alterare l’equilibrio fra bocca e colonna vertebrale o fra appoggio anomalo del piede e colonna vertebrale. Il sistema cranio-cervicale è considerato, da un punto di vista funzionale, come una unità; così, ad esempio, uno sbilanciamento posturale del mascellare superiore o della mandibola rispetto al cranio, provoca variazioni posturali generali con il coinvolgimento anche di organi.
Inoltre, la postura è il risultato di un adattamento fisiologico e psicologico alle varie funzioni dell’organismo come la masticazione, la respirazione, la visione, l’ascolto, il rapporto con il suolo, che garantisce al corpo un equilibrio. Le zone deputate all’equilibrio nel sistema nervoso centrale (Snc) ricevono impulsi dai muscoli del collo, del rachide cervicale e dalla pianta dei piedi. Poiché tutte queste informazioni hanno un loro ruolo nel mantenimento della postura, si rende importante valutare con attenzione se, ed eventualmente in che misura, ogni singola afferenza sia coinvolta nella determinazione dell’alterazione posturale. E’ quindi importante prestare attenzione alla sintomatologia per saper riconoscere e differenziare le patologie di tipo ascendente (ad esempio un appoggio podalico alterato che genera una disfunzione occlusale), da quelle di tipo discendente (ad esempio un’alterazione occlusale che genera un’alterazione nell’appoggio podalico).
Quindi alterazioni delle catene muscolari, con spasmi o contratture in alcuni gruppi muscolari, possono provocare tutta una serie di spostamenti rispetto alla normale postura che a loro volta richiedono compensi che causano la modificazione ulteriore dell’atteggiamento posturale del corpo.
È davvero importante far valutare la bocca e il cranio dei bambini all’osteopata che potrà riequilibrare le possibili deviazioni della bocca. Il corretto sviluppo della dentizione è fondamentale per la salute orale dei soggetti in età pediatrica, poiché contribuisce ad una occlusione stabile, funzionale ed esteticamente armonica. La cura e la prevenzione della salute del bambino comincia nei primi anni di vita, in cui il piccolo necessita di un controllo sullo stato della mascella e della mandibola per migliorare la condizione dei suoi dentini.
Di seguito una definizione delle più frequenti malocclusioniin età evolutiva:
• MORSO APERTO – OPEN BYTE: in occlusione, i denti posteriori sono a contatto, mentre gli anteriori rimangono distanziati.
• MORSO PROFONDO – DEEP BYTE: in occlusione, gli incisivi superiori coprono eccessivamente quelli inferiori.
• MORSO CROCIATO – CROSS BYTE: in occlusione, alcuni denti superiori chiudono all’interno dei rispettivi denti inferiori con possibile deviazione della mandibola ed asimmetria facciale. Può essere mono o bilaterale.
• AFFOLLAMENTO: i denti sono sovrapposti, in genere perché l’osso di supporto è piccolo o i denti sono larghi. In questi casi è frequente che alcuni denti non trovino lo spazio necessario per erompere in arcata (denti inclusi).
In età adulta ci sono dei sintomi che possono far pensare che la causa sia una disarmonia della bocca, un disturbo cranio-mandibolare.
Quali sono questi sintomi?
• Dolori all’articolazione temporo-mandibolare (Atm), localizzati e spesso confusi con dolori all’orecchio
• Bruxismo, digrignamento e/o serramento dei denti la notte
• Acufeni (fischi all’orecchio), vertigini, senso di ovattamento delle orecchie
• Nevralgia del trigemino
• Mal di testa di varie tipologie
• Dolori cervicali
• Tensioni muscolari alla mascella, al collo, alle spalle
Da quali conflitti sono attesi i nostri “ragazzi del ’99” e quale mondo affronteranno? I loro coetanei, un secolo fa, sedicenni, furono mandati allo sbaraglio in guerra a morire al fronte per difendere la Patria. I nostri giovani, nati al serrar del sipario del ‘secolo breve’, nel 2015 si dovranno misurare con guerre non dichiarate, in uno scenario fatto pur sempre di macerie. Dovranno difendere se stessi dai detriti tossici di una società che, nell’età dell’opulenza, non ha saputo frenare i propri appetiti e a una pacifica e dignitosa convivenza ha preferito la logica della sopraffazione in funzione del profitto. La ricchezza individuale a discapito d’ogni equa e solidale coesistenza.
Così mentre nei convegni dibattiamo degli orrori del secolo scorso, di là dai vetri si consuma un presente non meno cruento.
Nel mondo di oggi, popolato da oltre 7 miliardi di uomini e donne, quasi un miliardo di persone vive in condizioni di povertà. Ogni cinque secondi un bambino muore di fame. Secondo il Wfp (World food programme) oltre 800 milioni di persone soffrono la fame e un individuo su nove non ha abbastanza cibo per condurre una vita sana e attiva. La malnutrizione favorisce le malattie e nei casi più drammatici porta alla morte. La Fao stima che ogni giorno 24mila persone muoiano per carenze alimentari: significano quasi nove milioni ogni anno. Eppure ci sarebbe cibo a sufficienza per sfamare l’intera popolazione mondiale.
Due miliardi vivono senza strutture igienico-sanitarie adeguate. Più di 4.000 bambini sotto i 5 anni muoiono ogni giorno di diarrea, una malattia facilmente curabile. Inoltre 72 milioni di bambini (in maggioranza femmine) non vanno a scuola.
Sull’umanità, paradossalmente, incombono rischi di siccità. Un miliardo di persone vive senza avere accesso all’acqua pulita. Un paio d’anni fa quaranta ex capi di Stato e di governo hanno messo a punto un rapporto sulla crisi idrica mondiale. Secondo il documento se non cambierà il modo in cui viene gestita l’acqua a livello globale, entro vent’anni molti Paesi – a cominciare da Cina e India – si troveranno di fronte a una domanda che non saranno in grado di soddisfare, con gravi ripercussioni per la pace, la stabilità politica e lo sviluppo economico. Il problema riguarda anche il nostro continente. Secondo le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente l’11% della popolazione e il 17% del territorio europeo sono colpiti da carenza idrica.
E c’è dell’altro: nel 2015 potrebbero essere 375 milioni le persone colpite da calamità legate ai cambiamenti climatici, con un aumento del 50% rispetto agli attuali 250 milioni.
Si stima un aumento di 133 milioni di persone fra 6 anni, a causa di catastrofi naturali determinate dal riscaldamento globale.
Il 2013 secondo il Conflict Barometer dell’Heidelberger Institut für International Konfliktforschung è stato l’anno che ha fatto registrare il maggior numero di guerre dal 1945: 20 oltre a 414 conflitti armati. Il settore che trae profitto da questa drammatica situazione è ovviamente il mercato delle armi. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, nel 2012 sono stati investiti in spese militari 1.750 miliardi di dollari. La maggior parte degli Stati belligeranti è in Africa, il fronte più caldo assieme al Medio-oriente.
Ma ciò che emerge dalle stime dell’ Heidelberger Institut, secondo l’opinione di Caritas, Famiglia Cristiana e il Regno, artefici del rapporto “Mercati di guerra”, è solo la punta dell’iceberg.
Secondo il Gcap (Global call to action against poverty) ogni anno nel mondo si destinano oltre mille miliardi di dollari a spese militari, circa 325 miliardi all’agricoltura e solo 60 miliardi per aiuti allo sviluppo. Per ogni dollaro speso in cooperazione allo sviluppo, 20 dollari sono spesi per armamenti.
Sempre in tema di violenza nel 2012 sono stati censiti 437mila omicidi in tutto il mondo. L’area centro-settentrionale del Sud America risulta la più pericolosa.
Non meglio va sul fronte dei diritti umani. Tra il 2009 e il 2014, Amnesty International ha registrato torture e altri maltrattamenti in 141 Paesi. In 58 Stati resta in vigore la pena di morte, benché solo una minoranza la applichi con sistematicità. Fra i regimi democratici sono solo 7 a mantenerla nell’ordinamento, fra essi Stati Uniti, India e Giappone.
I regimi dispotici risultano essere 47. Secondo Freedom House le società meno libere del mondo, a pari demerito, sono Repubblica Centrafricana, Guinea equatoriale, Eritrea, Corea del Nord, Arabia saudita, Somalia, Sudan, Siria, Turkmenistan e Uzbekistan.
Infine i dati sulla corruzione: l’Italia qui mostra la propria eccellenza e guadagna la medaglia di fango. Il Corruption Perception Index 2014 di Transparency International, che riporta le valutazioni degli osservatori internazionali sul livello di corruzione di 175 Paesi del mondo, colloca il nostro al 69esimo posto della classifica generale, fanalino di coda del G7 e ultimo tra i membri dell’Unione Europea, scavalcato da Bulgaria e Grecia. Un bel primato.
Al tirar delle somme, non è un bel mondo. Ma lo sapevamo già. Così, mettendo in fila un po’ di numeri forse fa più impressione, però. Tanto c’è da fare. Non con le armi, ma con l’intelligenza e la forza della ragione. La temperie è quel che è. Ma lo abbiamo imparato da tempo e lo insegneremo ai nostri figli: scarpe rotte eppur bisogna andare.