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Fossato del castello estense: indice di criticità

Da: Marco Falciano

Cartoline da Ferrara.

Oggi il bellissimo castello estense fiorisce… si ma di alghe nel suo fossato! A causa dello scarso ricircolo di acqua, alte temperature, anossia, ed alti livelli di sostanze azotate assistiamo malauguratamente all’insorgere di quest’eutrofizzazione fuori norma.

Con adeguata manutenzione al fossato, con il suo necessario dragaggio, unito a una gestione più oculata dell’afflusso e deflusso di acqua, ció non avverrebbe.

Il fossato del castello rappresenta perfettamente il cattivo stato delle acque superficiali di tutto il territorio ferrarese, inquinate dalle attività agricole, di allevamento e dai liquami fognari dei centri abitati. Ben 800 Comuni italiani sono stati deferiti alla Corte di Giustizia EU per infrazioni relative a scarichi illegali. Le fogne non reggono il carico di reflui e scaricano abusivamente in acque superficiali o in suolo, soprattutto in occasione di forti piovaschi. Secondo l’ONU, procedendo con questo ritmo di consumo ed inquinamento idrico, entro il 2030 perderemo il 40% delle risorse di acqua potabile rispetto ad oggi sull’intero pianeta. E noi siamo i primi a seguire alla lettera questo trend negativo.

Non si tratta semplicemente di un brutto spettacolo per la città, ma è un segnale di allarme che impone una riflessione approfondita sullo stato di conservazione delle nostre acque. Chi ci governa ha il dovere morale, sociale e la responsabilità politica di occuparsi dell’acqua. La partita del futuro si giocherà tra quei paesi che sapranno depurarla, tutelarla e gestirla in maniera più efficiente.

Fotografia: Stefano Diegoli

Articolo: Marco Falciano

La politica popolare e le camicie sudate

Che cos’è la politica che oggi governa l’Italia e che cos’è la politica che oggi si oppone a chi governa l’Italia? Come si potrebbe rappresentare e a che cosa ci potrebbe portare? Domande a cui dovremmo cominciare a dare delle risposte, visto che il futuro è nostro e realisticamente è già iniziato. Potrebbe essere il momento di fermarsi a riflettere seriamente, piuttosto che lasciarci trasportare dalla corrente e dai sondaggi che danno continuamente in crescita uno dei partiti di maggioranza, la Lega.
E più i sondaggi sono favorevoli alla Lega, più Salvini si trasforma in padre della Patria. La stessa Patria che fino a poco tempo fa, quando la Lega era Nord, non sembrava andare più in là del Po, mentre adesso difende i confini siciliani dall’invasione africana.
“Se mio figlio ha fame non posso negargli il pane”, così parla il Capitano che però studia da comandante supremo. E un comandante, si sa, non lascia indietro nessuno.

Salvini il rivoluzionario, vuole abbattere gli schemi, fa di tutto per mostrarsi uno del popolo e come il popolo agisce. Usa i social sempre e la cravatta solo in caso di necessità. Cavalca i temi della gente e non si nega mai un bagno di folla. Coinvolge e urla. E si tira tutto il Paese dietro le sue camicie sudate e, grazie al suo eterno show, la Lega vince anche nelle città del Sud.
Perché la Lega oggi è il popolo, come poco tempo fa lo è stato il Movimento 5 Stelle. E questo perché in politica, come nel trading, ci sono due modi di giocare. Seguire il trend oppure andare contro il trend. Salvini sta seguendo il trend, la pancia dell’elettorato stufo delle cattiverie sociali del Pd e delle vuote parole della Sinistra in generale. Il M5S, invece, vuole rimanere fedele alle origini che non sono più il trend giusto. I no che dovevano aiutare a crescere – per dirla alla Paragone – e che avevano caratterizzato la sua ascesa non sono stati riempiti di contenuti e non pagheranno nel lungo periodo proprio perché oramai la gente è stufa e vuole empatia immediata.
Basti guardare alle vicende delle Olimpiadi 2026, che seguono di poco gli eventi del Tav, un successo per il trend rialzista di Salvini e un’ulteriore battuta d’arresto per i M5S. Basta inseguire sogni a lunga scadenza, le persone hanno aspettato il cambiamento per troppo tempo e ora vogliono dei risultati. Lavoro, sicurezza e pochi discorsi. Cose semplici insomma.
I vuoti dei no andavano riempiti al momento giusto, dedicarsi adesso alla riflessione sarebbe chiedere troppo e, obiettivamente, appare un compito impossibile per un partito senza storia e senza scuola. Compito che dovrebbe spettare alla Sinistra del resto, che ha sia l’una che l’altra. Ma non può perché è orientata anch’essa ai grandi eventi, ai grandi appalti e quindi al capitale. Dimenticando che sarebbe tanto più utile dare a tutti i cittadini la possibilità di andare in palestra e praticare qualsiasi sport magari in forma gratuita. Tanti piccoli passi certo, ma per tutti, meglio di grandi e veloci salti che alla fine premiano solo qualche politico e i grandi imprenditori. Certo, temporaneamente anche lavoratori impiegati negli appalti e a negozianti impegnati a vendere qualche souvenir. I danni delle grandi opere e dei grandi eventi, invece, sono sempre stati ben distribuiti tra i contribuenti.

Il Movimento 5 Stelle non può sostituirsi alla Sinistra, è confuso politicamente e non ha un suo posto chiaro, per i grillini le ‘cose’ di destra o di sinistra sono pensieri vecchi mentre le ‘cose fatte bene’ sono buone per tutti. Come dire che non esistono più i conflitti sociali e che la politica a favore di Jeff Bezos è anche a favore di Mario Rossi, operaio siderurgico all’Ilva. Nel mondo reale sei costretto a dichiarare per chi stai lavorando, oppure urli, cavalchi l’onda e menti. Ma prima o poi ti scoprono.
E la Sinistra, quella che avrebbe gli strumenti, continua nella sua arroganza a inseguire l’altra parte della pancia degli elettori e quando il Capitano urla da una parte, lei va a dormire sulla Sea Watch per poter essere identificata dalla parte ostile alla Lega, ma la maggioranza non apprezza, anzi si distacca da loro sempre di più. Più si camuffa da migrante, da buonista o da lgbt e più viene emarginata.
Non siamo noi che “non abbiamo capito” le ragioni del Pd di Calenda o del qualcosa di Fratoianni. Noi abbiamo capito e sappiamo che dietro l’ossessione della tenuta dei bilanci, del debito pubblico e del rigore c’è il mostro neoliberista disegnato nei trattati europei. E Salvini ha capito che molti hanno cominciato a intuirlo e cavalca l’onda creando empatia con il suo fare antieuropeo da cui il Movimento si è tirato fuori. Ma, purtroppo per noi, il neoliberismo non si combatte da dentro, proprio come l’Europa che genera tassi di disoccupazione ‘strutturale’ troppo alti per qualsiasi paese normale al mondo.

Il neoliberismo e l’Europa delle élite e della finanza si combattono senza tentennamenti e con chiarezza, con la filosofia e il dialogo. Perché le persone devono comprendere il reale motivo per cui perdono il lavoro oppure non lo trovano, per cui le banche falliscono e le aziende chiudono. Quindi c’è bisogno di spiegare bene i fattori in campo, il che include anche gli esponenti politici e la loro posizione nel mondo reale, tralasciando l’incapacità di gestire quaranta migranti. Bisogna, insomma, uscire dalla propaganda che oggi guida il mondo politico.
Ma chi ci aiuterà a districarci tra le urla del Capitano, il naufragar dolce del Movimento e l’abbaglio neoliberista della sinistra moderna?

Che politica ci sta governando e che politica si sta opponendo a chi ci governa? Nessuna a mia avviso. Stiamo seguendo l’istinto, la ricerca dell’aggiudicazione del piatto, dell’elezione perfetta che azzererà tutto il dissenso, già molto basso, futile e perso nell’attenzione alla nave, mentre i porti d’approdo stanno bruciando. Ma siccome il momento buono per prendere il piatto potrebbe passare velocemente, allora i toni si alzeranno sempre di più fino a quando Conte e Di Maio dovranno scegliere se passare ai sì in ogni caso, e lasciare di fatto il Paese nelle mani del Capitano, oppure lasciare che le urne ne sanciscano la vittoria elettorale. Insomma, c’è solo la vittoria nel futuro prossimo della Lega.

A meno di sorprese dell’ultimo minuto, ovviamente.

Save the Children: via libera alla mozione contro l’esportazione di armi italiane

Da: Save the Children

Yemen: Save the Children, soddisfazione per il via libera alla mozione contro l’esportazione di armi italiane. Primo passo importante, ma ora il Governo dia seguito immediato

Oltre 103.000 firme già raccolte con la petizione lanciata dall’Organizzazione per chiedere all’Italia lo stop alla vendita di armi italiane usate contro i bambini in Yemen

“Accogliamo con favore la notizia dell’approvazione, da parte della Camera, della mozione per chiedere la sospensione delle esportazioni di bombe d’aereo e missili italiani verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti e che possono essere utilizzati nella terribile guerra in corso in Yemen. Un primo passo importante al quale però ora il Governo è chiamato a dare seguito immediato, impegnandosi concretamente perché nessun armamento, e non solo bombe d’aereo e missili, prodotto nel nostro Paese venga più utilizzato contro civili inermi e bambini vulnerabili vittime del conflitto in Yemen”, ha dichiarato Filippo Ungaro, Direttore Comunicazione e Campagne di Save the Children.

“La mozione approvata oggi va nella giusta direzione ed è positivo che richiami il governo italiano ad esercitare un ruolo importante, anche in sede europea, in vista della possibile adozione di un embargo da parte dell’Ue contro la vendita di armamenti ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Tuttavia, apprendiamo con rammarico che il testo approvato non contenga alcun riferimento a impegni diretti e concreti a sostegno dei processi di riconversione produttiva dell’industria militare, come invece previsto nella legge 185/1990”, ha proseguito Ungaro.

Dall’inizio del conflitto in Yemen almeno 6.500 bambini sono rimasti uccisi o feriti dai bombardamenti e più di 19 mila radi aerei hanno colpito scuole e ospedali. Per tenere alta l’attenzione sul conflitto in Yemen e sulle sue terribili conseguenze sulla vita e sul futuro dei bambini, Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare la vita dei bambini a rischio e garantire loro un futuro – ha lanciato, nell’ambito della campagna “Stop alla guerra sui bambini”, una petizione on line per chiedere all’Italia di fermare la vendita di tutte le tipologie di armi italiane usate contro i bambini in Yemen. Una petizione che è già stata firmata da più di 103.000 persone e alla quale continuiamo a chiedere di aderire al sito https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/campagne/stop-alla-guerra-sui-bambini/petizione-armi-yemen

“I bambini dello Yemen non possono più attendere oltre e non possono più continuare a subire sulla propria pelle il prezzo di un conflitto del quale non hanno alcuna responsabilità. La risoluzione di questa guerra non può certamente essere soltanto nelle mani dell’Italia, ma è fondamentale che il nostro Paese non si renda in alcun modo complice delle gravi violazioni dei diritti dei minori e, da parte nostra, continueremo a fare tutto il possibile per mantenere i riflettori accesi su quanto accade in Yemen e a monitorare le misure che prenderà il nostro governo”, ha concluso Filippo Ungaro.

Da: Save the Children

Ferrara International Piano Festival 2019

Da: Ferrara Musica

FERRARA INTERNATIONAL PIANO FESTIVAL 2019

Quattro concerti e due masterclass a Palazzo Costabili con solisti, docenti ed allievi che provengono da tutto il mondo: torna l’edizione 2019 di Ferrara International Piano Festival, rassegna promossa e organizzata dal pianista Simone Ferraresi, da più di dieci anni residente a New York dove insegna e svolge attività concertistica.

Dal due al dieci luglio il Festival sarà momento di spicco dell’attività culturale ferrarese, con una nuova serie di eventi di grande interesse per tutti gli appassionati di pianoforte classico. Martedì 2 alle 21 a Palazzo Costabili, sede del Museo Archeologico Nazionale diretto da Paola Desantis, si esibirà Sonia Rubinsky, pianista brasiliana dalla prestigiosa carriera internazionale e dalla ricca discografia. Bach, Mendelssohn e Villa-Lobos saranno i tre compositori affrontati da un’interprete pluripremiata anche per le loro incisioni discografiche. Domenica 7, sempre alle 21 a Palazzo Costabili, sarà la volta del giovane britannico Alexander Ullman. Ha vinto numerosi premi tra i quali il Concorso Liszt 2011 di Budapest. Eseguirà musiche di Haydn, Liszt e due monumentali Sonate come l’Appassionata di Beethoven e la Seconda Sonata di Chopin.

La sesta edizione della manifestazione viene organizzata in collaborazione da Ferrara Piano Festival di New York e dagli Amici di Ferrara International Piano Festival, l’associazione italiana costituita a Ferrara nel 2018.

Ospiterà a Palazzo Costabili le masterclass dei celebri professori Piotr Paleczny (Accademia di Musica di Varsavia) e Dina Yoffe (pianista e didatta lituana, per la prima volta a Ferrara): gli allievi effettivi Pavle Krstic, Susanna Braun, Andrea Molteni, Daniel Nemov, Leonardo Pierdomenico, Elia Cecino, Sayaka Nakaya, Sophia Zhou, Noa Kleisen e Yui Yoshioka provengono da Serbia, Svizzera, Russia, Olanda, Cina, Giappone e Italia. I loro concerti/saggio sono programmati alle 18.30 di venerdì 5 e mercoledì 10 luglio sempre nei magnifici spazi di via XX Settembre 122. Alle due masterclass si aggiungerà, dal 2 al 10 luglio, quella tenuta dello stesso Simone Ferraresi.

Si accede ai concerti del 2 e 7 luglio con il biglietto di ingresso al museo, adulti 6 euro, gratuito fino a 18 anni e ridotto 2 euro dai 18 ai 25 anni. Soci Coop e Romagna Visit Card 3 euro. Godono dell’ingresso gratuito: i Soci delle associazioni Amici di Ferrara International Piano Festival, GAF e Bal’danza; gli allievi e i docenti di Conservatorio e i possessori di MyFE Card.

Per l’occasione la direzione ha disposto l’apertura continuata fino alle 20.30 del Museo Archeologico Nazionale, dove sarà possibile seguire un percorso tematico sulle immagini della musica sui vasi attici di Spina.

Il costo del biglietto di ingresso al museo per i concerti/saggio del 5 e 10 luglio alle 18.30 è di € 1.

Ferrara International Piano Festival si svolge nella nostra città dall’estate del 2014, ospitato nella splendida cornice di Palazzo Costabili sede del Museo Archeologico Nazionale. E’ stato ideato per permettere a giovani e promettenti pianisti di tutto il mondo di frequentare, in una città italiana Patrimonio dell’Umanità, master classes di pianoforte tenute da Maestri di altissimo livello; durante il Festival sono stati eseguiti concerti dai Maestri stessi, dagli allievi e da artisti di fama internazionale appositamente invitati a Ferrara. Particolare significato ha assunto l’iniziativa (anche questa fortemente voluta da Simone Ferraresi) di ospitare gli allievi presso famiglie locali, offrendo così ai giovani talenti un’esperienza unica della bellezza e dell’ospitalità della città estense. Partner istituzionali del Festival sono il Polo Museale dell’Emilia-Romagna, il Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, la Fondazione Teatro Comunale, Ferrara Musica e il Comune di Ferrara. Le associazioni culturali del territorio ferrarese che sostengono il Festival sono il Garden Club Ferrara, l’Associazione Amici della Biblioteca Ariostea, l’Associazione Culturale Jazz Club Ferrara, e l’Associazione Culturale Bal’danza. Inoltre il Festival collabora strettamente con il Conservatorio Statale di Musica “G. Frescobaldi”, il quale mette le proprie aule a disposizione degli allievi del Festival. Partner tecnico è la fabbrica di pianoforti Fazioli di Sacile, famosa in tutto il mondo, che garantisce la massima qualità di strumenti per tutti i corsi e concerti.

Da: Ferrara Musica

Save the Children: 40 organizzazione scrivono al presidente Conte

Da: Save the Children

Sea Watch: 40 Organizzazioni scrivono al presidente Conte chiedendo con urgenza un porto sicuro per i minorenni e per le altre persone a bordo della Sea Watch 3

“Apprezziamo che nei giorni scorsi l’Italia abbia consentito lo sbarco di bambini, donne incinte e altre persone vulnerabili. Resta tuttavia di urgenza inderogabile che tutte le persone a bordo, in particolare i minorenni e le altre persone vulnerabili, possano toccare terra in un porto sicuro nel minor tempo possibile e che alle valutazioni politiche venga anteposta la tutela della vita e dell’incolumità degli esseri umani.”

Questo il messaggio contenuto nella lettera inviata venerdì al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte da oltre 40 associazioni e organizzazioni impegnate per la tutela dei diritti dei minorenni e di rifugiati e migranti, in riferimento alle 42 persone a bordo della nave Sea Watch, giunta ormai al suo 12° giorno nel Mediterraneo.

Ricordando le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, i 40 firmatari chiedono che l’Italia adempia ai suoi doveri di solidarietà, assistenza e accoglienza, così come previsto dalla Costituzione Italiana e dal diritto internazionale.

Sottolineando come la Sea Watch non possa ottemperare all’ordine di ricondurre le persone salvate in Libia, in quanto porto non sicuro, le Organizzazioni firmatarie dell’appello evidenziano la necessità che l’Italia e gli altri Stati coinvolti collaborino attivamente al completamento delle operazioni di soccorso con il rapido approdo in un porto sicuro di tutte le persone a bordo e chiedono al Presidente Conte di ricorrere alle sue responsabilità per fare sì che le operazione di sbarco possano essere condotte nelle prossime ore, assicurando l’opportuna immediata presa in carico dei minorenni ancora a bordo e di tutte le altre persone bisognose di cure e supporto.

Da: Save the Children

Il geometra e l’architetto… Alan Fabbri presenta la sua Giunta

Sindaco, vicesindaco e otto assessori. La squadra di governo di Alan Fabbri ha preso corpo oggi alle 13, in una delle conferenze stampa più brevi della nostra storia municipale, poco più di una decina di minuti. Sala degli Arazzi piena ma pochi sorrisi, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato dai rappresentanti di coloro che hanno appena vinto le elezioni, con uno storico cambio della guardia alla guida del Comune: volti tesi e sguardi accigliati, che si sono sciolti solo nel finale, per la foto di rito. Evidentemente le schermaglie per la composizione della squadra hanno lasciato qualche ematoma, ben visibile persino nelle espressioni dei designati, oltre che – naturalmente – dei trombati, rimasti fuori dalla porta non solo in senso metaforico: parecchi degli aspiranti, delusi, sono infatti mestamente confluiti nell’attiguo salone d’onore, per l’occasione ridotto ad anticamera dello scorno.

Dunque, i nomi.

Il sindaco Alan Fabbri (Lega) ha riservato a se stesso le deleghe alla Sanità, all’Agricoltura, agli Affari generali, alle Relazioni istituzionali e alla Comunicazione: “Competenze cruciali”, commenterà poi, a margine.

Vicesindaco è Nicola Lodi (Lega), il famigerato Naomo dai vivaci trascorsi, spesso alla ribalta delle cronache per le sue gesta. A lui sono state attribuite deleghe pesanti (Sicurezza e Mobilità), un incarico politicamente redditizio (Frazioni) e un cotillons (Protezione Civile).

Quel ruolo (da vice) era stato in qualche modo promesso (e atteso) dal felpato Andrea Maggi (Ferrara cambia), artefice, con la sua lista, del traghettamento di quasi seimila voti moderati sulla sponda leghista: un capolavoro politico, poiché la civica nata dal nulla è risultata terza – dopo Lega e Pd – nelle preferenze dei ferraresi ed è stata determinante per l’esito elettorale, poiché se il voto di quegli elettori (perlopiù centristi, espressione del ceto medio-alto) fosse andato a Modonesi gli averebbe permesso di pareggiare il conto…
All’assessore Maggi vanno Lavori Pubblici, Urbanistica, Edilizia, Rigenerazione Urbana e Sport (forse in omaggio alla sua passione per il golf!): di estrazione accademica (per anni e sino al recente pensionamento è stato addetto alla comunicazione della nostra università), dovrà ora misurarsi con quel saper fare pratico che odora di bitume più che di antichi manoscritti o di moderni computer.

Al contrario, il geometra Marco Gulinelli (lista Forza Italia – Rinascimento), che di quegli ambienti – in quanto tecnico – ha pratica diretta, come ampiamente preannunciato ha ottenuto le deleghe a Cultura, Musei, Unesco, Monumenti Storici e Civiltà Ferrarese. Ma non avrà necessità di cercasi un insegnante per il doposcuola, poiché può confidare su un potente nume protettore: su di lui infatti si staglia l’ombra benevola di Vittorio Sgarbi, che in campagna elettorale gli ha tirato la volata e che ora potrà abilmente architettare e ispirare le strategie culturali di Ferrara. D’altronde il geometra se la cava brillantemente anche fra le righe e per questo ha conquistato pure i favori di Elisabetta, sorella di Vittorio e direttrice editoriale della lanciatissima ‘Nave di Teseo’, che a Gulinelli ha pubblicato “Il trapezista”, romanzo che narra vicenda e rimpianti di un brillante chirurgo e del suo sogno svanito di far vita circense. Vedremo, ora che per Gulinelli invece il sogno s’è fatto realtà, come il nostro geometra saprà destreggiarsi nei suoi voli pindarici.

Da ‘Bunden’, dove fino a ieri è stata assessore alle politiche sociali e abitative, arriva Cristina Coletti (Forza Italia – Rinascimento), consulente legale ed ex impiegata di Equitalia, fedelissima del sindaco Fabbri. A ‘Frara’ (prepariamoci, la toponomastica vernacolare al nuovo sindaco piace) avrà le medesime deleghe con contorno di Servizi Demografici e Stato Civile.

Dorota Kusiak (Lega), giovane pugile di origine polacca, insegnate in un nido per l’infanzia con laurea a Unife, che fra le sue passioni nella pagina Facebook indica “moda, cucina, salute e benessere”, avrà cura di Pubblica istruzione, Formazione e Pari opportunità.

Al giovane virgulto di casa Balboni (lui è Alessandro, esponente di Fratelli d’Italia e presidente di Azione universitaria; mentre il padre è l’avvocato Alberto, che fu senatore del Movimento sociale italiano), vanno Ambiente, Rapporti Unife, Progetti Europei, Tutela degli animali.

Il coordinatore provinciale di Forza Italia, Matteo Fornasini – anch’egli sovente accanto al Vittorio di Ro ferrarese – è stato nominato assessore a Bilancio, Partecipazioni, Commercio e Turismo, una delega che viene sganciata dalla cultura e (almeno apparentemente) ricondotta nell’alveo delle attività mercantili: può essere un indizio significativo della direzione di marcia…

Ad Angela Travagli (Ferrara cambia), commercialista e moglie del suo omologo Riccardo Bizzari (ora sindaco di Masi Torello), va la supervisione di Personale e Lavoro (ambiti dei quali ha certo competenza, almeno sul piano tecnico), nonché Attività Produttive, Patrimonio, Fiere e Mercati. Si tratta di vedere se alla conoscenza saprà coniugare la visione che dovrebbe essere propria del politico e del pubblico amministratore.

Infine, Micol Guerrini (Ferrara civica) che, per dirla ‘alla Cevoli’, ha ottenuto la delega ‘alle varie ed eventuali’, avrà cura di Politiche giovanili, Cooperazione internazionale, Palio e Servizi informatici. Battute a parte, per favorire l’inserimento lavorativo dei giovani bisognerà seriamente ragionare in termini originali e lungimiranti. E lo sviluppo delle tecnologie informatiche è un presupposto al miglioramento della qualità dei servizi. Scopriremo se la Micol dei nostri giorni avrà la necessaria tenacia.

Fuori lista, non presente ma già designato per un ruolo fondamentale, direttore generale sarà Sandro Mazzatorta, avvocato, eletto senatore per la Lega nel 2008, sindaco di Chiavari dal 2004 al 2014 e ora consulente a Unife.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Lapsus rivelatori e sguardi complici: due lettori si confessano

Situazioni in bilico in cui scegliere se cogliere o abbandonare, carpire uno sguardo o tirare dritto, rivolgere una domanda o tacere. I lettori rispondono a Riccarda e Nickname.

Le verità indigeste…

Cara Riccarda, caro Nickname,
eravamo a cena io e lui, mi raccontava di un suo recente viaggio che credevo avesse fatto da solo e invece gli è scappato un verbo al plurale, smozzicato, quasi ritirato mentre lo diceva.
Ho fatto finta di niente, ho preferito passare per scema perché non sono stata capace, in quel momento, di approfondire o anche solo alzarmi e andare via, ma non sono stata neanche capace di dimenticare di averlo sentito.
Dopo qualche mese, sono stata pronta per difendermi dalle mezze verità e abbandonare quel tavolo.
M.

Cara M.,
a volte scegliamo di rimanere a un banchetto fino a provare nausea. Se fossimo capaci di abbandonare subito, al primo segno di disgusto, non conosceremmo quella sensazione di saturazione, che è poi quella decisiva. A noi donne, generalmente, piace proprio essere ultra convinte (e nauseate) prima di alzarci e andare via.
Puoi stare sicura che un uomo così non ti farà più gola.
Riccarda

Cara M.,
i lapsus degli uomini sono celebri. Non abbiamo memoria, siamo stronzi senza premeditazione.
Nickname

Galeotto fu il concerto!

Cara Riccarda, caro Nickname,
capita di incrociare lo sguardo con una sconosciuta, ma subito si fugge, specialmente se si è folla su un prato in attesa di un concerto, se lei ha lo sguardo più dolce del mondo, se tu sei con un amico e anche lei è in compagnia. Capita di incrociarlo di nuovo, quello sguardo, e magari, dopo un altro incrocio, di soffermarsi un istante di troppo, l’uno che guarda negli occhi dell’altro. Quell’istante che fa strappare a lei un lieve sorriso e a te lo stesso, e non hai proprio idea di che cosa sia quel sorriso, lanciato da una ragazza con lo sguardo più dolce del mondo, che come te aspetta l’inizio di un concerto sul prato. Capita che la musica inizi, tutti comincino a ballare e, per caso, per fatalità, o per volontà, lei si trovi a ballare proprio davanti a te, mentre il suo compagno è qualche metro più avanti. Si sa come vanno i concerti, tra uno spintone della folla e le braccia alzate al cielo per un assolo di chitarra, siete schiacciati l’uno contro l’altro. Capita che la testa inizia a girarti, vorresti dirle qualcosa, ma il volume è troppo alto, non sentirebbe mai, e poi c’è lui, non sai chi sia. Capita che le sfiori il collo con la mano e lei si lasci andare, appoggiandosi per un attimo a te. Mescolati alla calca, tu hai perso il tuo amico, nemmeno il suo lo vedi più. Capita che l’unica cosa che ti viene disperatamente in mente, è che in tasca hai un biglietto da visita, le prendi la mano e glielo passi. Il concerto finisce, gli sguardi si incrociano ma ora sono complici e quando si allontanano, tu col tuo amico e lei col suo, sono come vecchi amici che si salutano. Capita che un mese dopo, suoni il telefono dell’ufficio, tu rispondi e dall’altra parte “Ciao, sono la ragazza del concerto di Pino Daniele”.
Luigi

Caro Luigi,
“Abbracciami perché mentre parlavi
Ti guardavo le mani
Abbracciami perché sono sicuro
Che in un’altra vita mi amavi
Abbracciami anima sincera
Abbracciami questa sera
Per questo strano bisogno
Anch’io mi vergogno
Che male c’è
Che c’è di male”
Pino Daniele

Caro Luigi,
secondo me Riccarda potrebbe contattarti in privato per avvicendarmi con te. Hai della stoffa. Salutaci la ragazza del concerto.
Nickname

I Dialoghi della vagina vanno in vacanza, ci rivediamo venerdì 6 settembre con nuove storie e scambi A due piazze.

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

LETTERA APERTA DI UNA VENTENNE
Noi e voi… Lasciateci sognare, lasciateci sbagliare

di Jessica Mantovani

Tra noi giovani chi è un sognatore è solo. Vorrei provare a farmi portavoce dei miei coetanei, pur senza che nessuno me lo abbia esplicitamente chiesto. Pensavo fosse un atto pretenzioso, ma dagli sguardi rassegnati che incrocio quotidianamente tra i corridoi dell’Università ho capito che scegliere di non parlare sarebbe un errore. È come se tra noi giovani e voi grandi si ponesse un alto velo trasparente, una membrana sottilissima ma insuperabile, una sorta di tenda capace di isolare i suoni; e per quanto da una parte si cerchi di parlare forte, nessuna voce è in grado di oltrepassare la barriera. Ci guardate come se fossimo degli incompetenti, come se sapessimo sempre come rovinare tutto, come se fossimo persi e pensate pure che non ci importi ritrovare la strada.

Secondo l’opinione comune, i giovani non hanno ideali e se ne fregano di tutto e di tutti, gli importa solo del loro telefono e di fare festa. I giovani non si impegnano abbastanza, non hanno voglia di fare niente, non gli importa di studiare e non sanno fare nessun lavoro. Vi guardiamo mentre vi disperate tenendovi le mani nei capelli quando pensate al futuro che vi aspetta, un futuro non molto lontano nel quale noi saremo gli adulti e voi invece sarete vecchi. Vorrei provare a tranquillizzarvi: vi sembriamo smarriti, ma qualcosa in mente ce lo abbiamo e ce lo abbiamo tutti. Il rischio, a mio avviso, è che pian piano passeremo dall’avere in testa un grande focolare ardente, al conservare solo un piccolo cumulo di cenere grigia, unico rimasuglio di un grande fuoco che con il passare degli anni si farà sempre più debole fino a spegnersi.
Il nostro fuoco è pieno di idee, di speranze, di sogni… Sogni che abbiamo paura di raccontare perché fin da piccoli ci hanno insegnato a stare con i piedi per terra, a comportarci come fanno gli altri, a pensare razionalmente, a non cadere mai troppo lontano dall’albero se questo ha sempre dato buoni frutti. Se finora tutti si sono sempre comportati in un certo modo e a tutti questi è andata bene, noi dovremmo comportarci esattamente come loro, altrimenti siamo certamente destinati a fallire.

Abbiamo grandi piani per le nostre vite ma non li raccontiamo spesso perché non ridiate di noi, non ci va che non ci prendiate sul serio per gli inediti progetti in cui speriamo. Quello che ci serve sono parole di sostegno, sarebbe bellissimo sentire che finalmente qualcuno crede in noi, per una volta ci servirebbe non dover ascoltare la voce di chi mette in conto i possibili fallimenti conseguenti alle nostre aspirazioni.
Di queste tristi possibilità siamo già a conoscenza e ne abbiamo già fin troppa paura, nonostante voi pensiate che non siamo in grado di capire cosa potrebbe accadere se qualcosa del nostro piano andasse storto.
Lo sappiamo, lo abbiamo già messo in conto e se decidiamo di andare avanti comunque, se non abbandoniamo la sfida nonostante siamo consapevoli dei rischi, non è perché siamo degli sciocchi ma è perché il fuoco che abbiamo dentro brucia di speranza, freme di voglia di fare del bene vero. Per una volta non ridete di noi se vi raccontiamo di voler salire in cima alle montagne più alte, per una volta non scoraggiateci e non metteteci nemmeno in guardia, lasciateci andare. Smettetela di dirci che dobbiamo seguire il sentiero battuto, quello dove le trappole sono già tutte scattate ed hanno ucciso chi è passato prima di noi, lasciate che siamo noi i primi a rischiare, anche se questo può farvi paura. In fondo è meglio soffrire per la delusione che non provare nessuna emozione, è meglio scivolare e poi rialzarsi che rimanere sempre distesi per evitare di cadere.
Sperate insieme a noi, tornate giovani e incoscienti, lasciatevi emozionare dal nostro fuoco e tifate per noi anche se ci sono alte probabilità di vederci fallire. La delusione non ci fermerà se invece di cercare di fermarci ci avrete insegnato che il fallimento non è la fine di tutto, non è la prova che non avremmo mai dovuto tentare ma è solo un normale fatto che si presenta a chi desidera tanto e si muove per ottenerlo.
Gli adulti sembrano sempre così avviliti, dicono che peggio di così non potrebbe andare, li sentiamo borbottare su quanto questo mondo faccia schifo. Se non c’è nulla da perdere, allora perché non provare qualcosa di nuovo? Perché non fare un tentativo e credere in noi? Piuttosto di crogiolarvi nella vostra rassegnazione, fateci capire che c’è qualcosa in cui sperare. Se raggiungeremo la vetta o se ci fermeremo a metà, avremo sempre ottenuto più di quanto non avremmo fatto se avessimo deciso di non agire per paura di fallire.

DIARIO IN PUBBLICO
Cambio di mano. Di fronte al nuovo

Un silenzio assai breve il mio in attesa di capire come Ferrara verrà governata dalla nuova amministrazione e di intuire, almeno per il momento, quale sarà la via che verrà intrapresa nell’ambito che meglio conosco: quello della cultura. Non mi devo rimproverare molto nel ripensare a come ho seguito, accompagnato, proposto l’evolversi di un’idea della cultura che prendeva piede e consistenza man mano che crescevo e mi si offrivano tante occasioni per vederla realizzata nella città che non a caso per un periodo si fregiò del titolo di ‘città d’arte e di cultura’. La nascita di associazioni come gli Amici dei Musei e Monumenti Ferraresi o il Garden o gli Amici della Biblioteca. L’impegno assiduo allo sviluppo e alla organizzazione dell’Istituto di Studi Rinascimentali di cui fui per anni presidente e direttore e ora la co-curatela del Centro Studi Bassaniani. Sempre con l’entusiasmo proprio a chi svolgeva un compito in perfetta assonanza con il lavoro che si era scelto e che ha amato moltissimo, nonostante le solenni bacchettate che la ‘mia’ parte m’infliggeva regolarmente.

Con la nuova amministrazione, il cosiddetto ‘cambio di mano’, come mi proporrò nel gestire i rapporti con l’amministrazione entrante? Per ora è troppo presto per avanzare ipotesi, soprattutto fino a quando non si saprà chi ricoprirà l’incarico di assessore alla cultura, e quindi disegnare un modus operandi specifico. Sicuramente è assai confortante sapere che almeno sulla carta i ruoli dei funzionari che hanno a che fare con il Centro Studi, le dottoresse Ethel Guidi e Maria Teresa Gulinelli, sono i medesimi. Bisognerà sapere se il futuro assessore li riconfermerà.

Questi problemi pratici mi hanno indotto a una pausa di silenzio che ora, dopo l’importante articolo di Fiorenzo Baratelli apparso su questo giornale – Sinistra: intransigente nei principi, innovativa nei metodi, radicale nelle proposte – viene interrotto per commentare una disfatta lungamente annunciata e mai presa di petto. Si è discusso molto se fosse più utile proporre un mea culpa che finalmente riavvicinasse le idee (o ideologie?) della sinistra a quel ‘popolo’ che si diceva trascurato, oppure si reclamasse una maggiore incisività e pregnanza in quelle figure politiche che di seguito si sono accampate tra le proposte fino alla scelta di Aldo Modonesi. Frattanto ciò che mi procurava (e mi procura) fastidio è il ritornello con cui i vincenti in modi diversi coniugano la frase “Era ora!” Ma perché prima dove stavano? Tutti acquattati in Gad a ripetere il falso ritornello “Basta con i comunisti!”? E tanti di noi a ripetere “Ecco sono arrivati i fascisti!” Banalità pericolosissime messe in luce dall’ottimo articolo di Baratelli, che semmai pecca di eccesso di cultura, provocando in tanti avversari la reazione pronunciata con la bocca impostata a ‘cul de poule’, “il solito culturame della sinistra”.

E mentre sotto il sole feroce della Bassa la città è in attesa del cambiamento, si spegne Franco Zeffirelli e declina Andrea Camilleri, due vecchi della generazione precedente la mia, che ho conosciuto e che ho ammirato (e per Camilleri amato). Nella Firenze della colonia inglese, quella degli ‘anglo-beceri’, Zeffirelli era amatissimo, invitatissimo, seguitissimo. Non tanto per le sue indubbie capacità quanto perché declinando l’origine di Firenze come capitale del Rinascimento, convalidava la tesi delle radici angliche di Firenze capitale del Rinascimento. Una tesi che piacque moltissimo fino a consolidarsi nella presenza di Berenson ai Tatti, o di Violet Trefusis a Bellosguardo, o dei Browning a passeggio per le vie e piazze di Firenze. Il mito di Firenze nasce inglese e Zeffirelli ne fu il cantore. E si veda il mediocre film ‘Un thè con Mussolini’ che ben ha illustrato questo principio. E quante serate da Doney al seguito dei grandi Maestri nella mia giovinezza fiorentina!

Mentre Zeffirelli ha i giusti onori di un grande a cui viene tributato il massimo dei riconoscimenti da una città governata dalla sinistra, Camilleri si sta spegnendo tra gli insulti schifosi di chi non perdona il suo credo politico, la sua dirittura umana e civile, il suo saper essere non solo il padre di Montalbano, ma una figura di riferimento di fronte alle esitazioni della sinistra. Lordare la memoria e il rispetto a chi ha svolto il suo ruolo civile non lasciandosi travolgere dalla fama, dalla ricchezza, è un segno della preoccupante incapacità degli ‘itagliani’ di sapere, una volta tanto inchinarsi al merito.

Spero che il nuovo sindaco Alan Fabbri sappia raccogliere l’invito tante volte proclamato, ma quasi mai messo in pratica di essere il Sindaco di tutti.

virtù-felicità

Save the Children: 1,2 milioni di bambini ancora in povertà assoluta

Da: Save the Children

Infanzia, Save the Children: 1,2 milioni di bambini ancora in povertà assoluta sono la vera emergenza del Paese. Indispensabile e urgente un piano nazionale per contrastarla

“Un milione e duecentomila bambini in Italia vivono ancora in povertà assoluta e questa è la vera emergenza del Paese che non può più essere ignorata. I dati Istat confermano la triste realtà che vediamo ogni giorno nei nostri interventi in Italia: la povertà minorile rappresenta una piaga diffusa che affligge il presente e il futuro dei bambini e delle bambine in tutto il Paese e in modo particolare in quei luoghi dove minori sono le opportunità di crescita e di sviluppo. È sempre più urgente e indispensabile che la politica lavori a un piano nazionale di contrasto alla povertà minorile che non può più essere procrastinato”. Questo il commento di Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro – in relazione ai nuovi dati sulla povertà diffusi oggi dall’Istat.

Più di 1,2 milioni di minori, nel nostro Paese – rilevano i dati Istat – oggi vivono in condizioni di povertà assoluta, pari al 12,6% del totale dei bambini, con un’incidenza in aumento di mezzo punto percentuale rispetto al 2017 (12,1%) e che si traduce in 52 mila minori in più, rispetto allo scorso anno, che vivono senza l’indispensabile per una vita quotidiana dignitosa.

Una piaga, quella della povertà, che colpisce in particolar modo proprio le famiglie con figli minorenni. “Parliamo di 725 mila famiglie con minori che vivono in povertà assoluta e per le quali gli interventi di contrasto alla povertà non hanno avuto l’efficacia desiderata. Ad essere maggiormente colpiti, in particolare, sono i nuclei monogenitoriali: di questi, infatti, quasi 1 su 6 è in povertà assoluta, con un aumento di 5 punti percentuali tra il 2017 e il 2018”, ha proseguito Raffaela Milano.

“La povertà materiale si associa alla povertà educativa che blocca sul nascere le prospettive di crescita dei bambini e il loro futuro. In questo modo, va avanti la catena intergenerazionale della povertà. Questi dati non possono passare sotto silenzio. È quindi indispensabile un impegno straordinario per garantire a tutti i bambini e alle bambine le opportunità di crescita e di sviluppo alle quali hanno diritto, attraverso un intervento deciso di contrasto alla povertà minorile che incida su più ambiti: la povertà materiale delle famiglie, l’accesso alla istruzione fin dalla prima infanzia, la cura della salute, lo sviluppo di opportunità educative e culturali nei territori più colpiti”, ha concluso Raffaela Milano.

Da: Save the Children

I minibot spiegati in modo chiaro

Per comprendere i minibot è necessario comprendere ciò che viene prima.
Un’economia è la somma delle transazioni che la costituiscono. Una transazione non è altro che uno scambio di merce o servizio all’interno di un sistema economico.
Le transazioni avvengono all’interno di un determinato mercato e poiché esistono diversi tipi di mercato (ad esempio frutta, azioni o valute vengono scambiati all’interno dei loro rispettivi mercati) è la loro somma che costituisce l’economia.
Ad effettuare le transazioni sono i cittadini e le imprese oppure le banche e lo Stato. Tutti scambiano, i cittadini comprano scarpe dal calzolaio ma anche lo Stato compra anfibi per le sue Forze Armate. Le banche comprano scrivanie per i loro impiegati e vendono consulenze allo Stato. I cittadini sono impiegati dalle imprese, dalle banche e dallo Stato e da essi ricevono uno stipendio oppure acquistano dei servizi. Tutto avviene all’interno del sistema economico, viene conteggiato sotto il nome di Prodotto Interno Lordo e questo viene poi messo in relazione al debito pubblico dello Stato.
Per convenzione si è deciso qualche millennio fa di effettuare questi scambi, queste transazioni, utilizzando un mezzo denominato moneta.
La moneta più vicina alla nostra comprensione è il biglietto da 5 fino a quello da 500 euro oppure le monete in circolazione che vanno da 1 cent. a 2 euro. Quando invece paghiamo la camicia nuova con il bancomat stiamo utilizzando il nostro conto corrente, moneta elettronica insomma. Attraverso un sistema di compensazione il nostro conto corrente diminuirà di 100 euro mentre quello del negoziante aumenterà dello stesso importo.
Del primo tipo di moneta, cartaceo e metallico, ne viene emesso davvero poco rispetto all’economia in cui viene immesso, ed è autorizzato a farlo solo una Banca Centrale.

Come si può vedere dal grafico (fonte Banca d’Italia) in questo momento ne abbiamo in circolazione poco più di 181 miliardi. Somma che è conteggiata come passivo e quindi debito pubblico. Per intenderci, il debito dello Stato italiano ammonta a 2.315 miliardi comprensivo della moneta cartacea e metallica di cui sopra. Se togliessimo dalla circolazione quei soldi il debito pubblico scenderebbe di 181 miliardi portando il suo rapporto con il Pil al 123%, più o meno.
Chiaramente si potrebbe anche pensare di non toglierli dalla circolazione ma, per esempio, restituirle alla Bce e decidere di immettere nel nostro sistema economico la stessa cifra senza però conteggiarla come debito, magari seguendo le orme delle 500 lire create qualche decennio fa da Aldo Moro. Ma questo non è possibile perché l’emissione di moneta a “corso forzoso” oggi può farla solo la Bce. A corso forzoso vuol dire che una volta emessa tutti i cittadini devono accettarla in pagamento delle obbligazioni che sono insite in ogni transazione. Pago 1 euro per estinguere l’obbligazione contratta quando ho chiesto il quotidiano all’edicolante.
Riepilogando, fino ad adesso abbiamo individuato due tipi di moneta utile per le transazioni e quindi per tenere in piedi l’economia: quella della Bce e quella elettronica che si muove attraverso il sistema bancario delle compensazioni.
La parte più importante dell’economia è costituita da una terza forma di moneta: il credito.
Il credito compare quando si ha voglia di comprare qualcosa che normalmente non potremmo permetterci tipo una casa, un’auto o una ristrutturazione dell’appartamento. Si chiede un prestito ad una banca che eroga appunto quella forma di moneta che si chiama credito e che quando arriva al richiedente diventa debito.
Questa transazione, richiesta credito, si chiude alla restituzione del prestito più gli interessi. Nel frattempo quel credito permette al debitore di effettuare un certo numero di transazioni e ogni volta che lui spende crea un reddito per chi gli avrà venduto qualcosa. Il credito, quindi, permette di muovere l’economia, permette le transazioni. Permette che queste continuino e non si fermino causando una crisi (economica).
La somma di tutti i crediti delle banche diventa sostanzialmente l’ammontare complessivo del debito privato dei cittadini e delle imprese.
In ogni caso quando una persona, o un soggetto qualsiasi, all’interno del sistema economico di riferimento, spende, questa spesa diventa reddito per qualcun altro.
Il credito è dunque creato dalle banche che, se lasciate a se stesse o al mercato e ai cicli economici, lo faranno in funzione dei propri interessi e solo quando l’economia va bene. Questo per assicurarsi di rientrare di quanto emesso e relativi interessi, il che non è sbagliato ovviamente.
Quando il ciclo è positivo, è soprattutto il credito ad oliare il circuito e a farlo scorrere regolare, le transazioni avvengono e la produttività generale cresce. Alcuni vendono e altri acquistano. Alcuni producono e altri usufruiscono volentieri di quanto prodotto.
È importante dunque che le persone spendano, che abbiano abbastanza moneta in tasca o in banca o sotto il materasso per poterla utilizzare, perché il fine è far girare l’economia, non la moneta utilizzata per farla girare. La spesa di qualcuno diventa reddito per altri che a loro volta potranno spendere ed acquistare alimentando positivamente il ciclo. Fino a quando l’olio finisce o scarseggia e la macchina si inceppa, ovvero fino a quando si entra in un ciclo economico negativo (crisi economica).
Spero a questo punto di aver chiarito alcuni aspetti della faccenda, ovvero: l’economia si basa sugli scambi, per fare gli scambi in un sistema economico basato sulla moneta è fondamentale avere… moneta. Tutta la moneta che viene fornita ai cittadini è a debito, crea debito pubblico oppure debito privato. Comunque crea debito. E per avere moneta qualcuno la deve fornire, magari con regolarità, oppure preoccuparsi di controllare che il flusso sia regolare.
Poi abbiamo compreso che la moneta esiste sotto varie forme e che tutte quelle attuali sono debito ma anche reddito e che tutte servono allo stesso scopo: permettere gli scambi. Inoltre, che i cittadini e le imprese non possono creare moneta ma solo spostarla.
Io spererei che avessimo chiarito implicitamente anche un altro aspetto: la moneta non ha un valore in sé ma serve in funzione di qualcosa, ha uno scopo che è quello di far girare l’economia. E che l’economia è la somma delle transazioni che avvengono in un determinato sistema economico, cioè le transazioni determinano il Pil di una Nazione.
E ai più attenti non sarà sfuggito che il fine ultimo di tutti queste parole che ho scritto è per dimostrare che ciò di cui un popolo necessita è la produttività generale del sistema, cioè produrre beni e servizi da potersi poi scambiare, perché ognuno di noi non è autosufficiente. Il fine non è la moneta, il mezzo di pagamento, ma la possibilità di avere accesso a beni e servizi prodotti. Di poterseli scambiare.
Se riusciamo ad avere un punto di partenza accettato da tutti, cioè se riusciamo ad essere semplicemente logici, allora possiamo passare al punto successivo e che ci riporta al titolo di questo articolo: i minibot.
Non è importante se i minibot creino debito pubblico o meno, perché non è la domanda giusta da porsi. L’importante è uscire dalla crisi economica e quindi fornire ai cittadini un mezzo che possa far riprendere gli scambi. Un mezzo che possa rendere accessibile i beni prodotti a chi li vorrebbe acquistare. Se si accettasse semplicemente il presupposto dei minibot poi si potrebbero sviluppare i Certificati di Credito Fiscale, se dovessero piacere di più. Oppure tante monete complementari secondo gli insegnamenti dell’economista belga Bernard Lietaer. Ma anche sviluppare un sistema completamente nuovo e proposto addirittura dal Pd o da Forza Italia.
Oggi il problema non sono i minibot, ed è totalmente inutile andare ad analizzare se possano creare debito o meno oppure se siano simili ai soldi del monopoli, come dice qualcuno. Perché qualsiasi moneta è tale se viene accettata come pagamento, come diceva l’economista Nando Ioppolo. Ma se devo preservarmi la possibilità di poterla utilizzare a mia volta, allora deve essere lo Stato a darle validità. Quindi la deve accettare in pagamento delle tasse, cosa che in questo caso sarebbe garantito. E se lo Stato accettasse in pagamento delle tasse i soldi del monopoli allora anche questi sarebbero buoni per acquistare le scarpe o la frutta.
Sarebbe invece carta straccia la banconota firmata da Draghi se non fosse garantita dallo Stato. Ricordate quando con i gettoni telefonici ci si poteva comprare il gelato? Succedeva perché poi le persone li accettavano come resto, e perché tutti, prima o poi, entravamo in una cabina telefonica per telefonare ridandoli alla Sip (Società Italiana Per le Telecomunicazioni).
Creano debito? Crea debito pubblico la moneta emessa da Draghi, eppure non ci poniamo il problema. E creano debito tutte le monete che devono essere restituite a qualcuno ma non abbiamo mai pensato di farle emettere direttamente dallo Stato. Ci sono debiti che accettiamo e altri che rifiutiamo, chiediamoci il perché e rivediamo le nostre priorità. Magari la nuova scoperta ci piacerà.
Come scrive l’economista Marco Cattaneo, “Sì, i minibot possono creare debito.”
“Ma non secondo Maastricht Debt,” continua, “che è l’unico rilevatore per i parametri di controllo presi in considerazione nell’ambito dell’Eurozona.”
Lo creerebbero per perdita di gettito fiscale se chi lo ricevesse lo utilizzasse immediatamente per pagarci le tasse, ma a questo punto lo Stato lo potrebbe cedere ad altri per tentare di far partire il ciclo.
Di sicuro non sono illegali perché circolerebbero su base volontaria aggirando i vincoli della Bce.
Ma se solo la Bce può creare moneta, se gli Stati devono attenersi scrupolosamente ai parametri europei e se le banche devono essere libere di creare credito allora vuol dire che non si può oliare il circuito economico e quindi permettere all’economia di risollevarsi attraverso l’aumento delle transazioni. Quindi si sta legalizzando la crisi economica e rendendo illegale cercare vie d’uscita. Ed è questo che dovrebbe sembrare pazzesco, di questo si dovrebbe parlare.
Smettiamo di chiederci se i minibot creano debito o se sono moneta. Sono discorsi inutili e non portano a niente se non alla confusione e all’inasprimento dei rapporti sociali. Chiediamoci piuttosto se vogliamo uscire o meno dalla crisi.
E se qualcuno pensa che si possa farlo senza un intervento degli stati e delle banche centrali allora ci sta prendendo in giro. Perché è vero che potremmo farlo. Seguendo la strada indicata dai mercati, dallo spread e dalla finanza: l’austerity e i sacrifici (nostri). Possiamo continuare a vivere immersi in cicli economici altalenanti e distruttivi e soprattutto continuare a spostare sempre più ricchezza reale dalla maggioranza dei cittadini ad uno sparuto gruppo che muove i fili e ci dà in pasto argomenti come: i minibot creano debito?
Potremmo… ma vogliamo veramente farlo?

PER CERTI VERSI
Di Anna, Enrico e d’altre memorie

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’.

ANNA FRANK

Vi scongiuro
non rilascio interviste
a novant’anni
faccio fatica
a fare la bisnonna
e nonostante tutte
le tecnologie
i fili e i satelliti
non arrivano di là dal cielo
lo so che parlano di me
sono in tanti
che ringrazio
mi chiedono perché il male si ripeta
non si guarisce mai
dal male fatto
e patito
gli uomini hanno dentro di loro
le stelle
per meravigliarsi
o per usare il loro fuoco
per mandare in fumo la storia e le vite
di altri uomini
con truce e fulgida
alternanza
non chiedetemi perché
ho novant’anni
faccio fatica a fare la bisnonna
e niente funziona bene
di là dal cielo

LAKOTA

Era la memoria del popolo Sioux
Me lo hai detto tu caro amico
O dei Dakota dei Lakota
Dei loro bambini
Scomparsi come una nuvola nel cielo rosso
Di gelo e sangue
Poi nevicava
Ma non era Dio che la mandava
Dio era assente
C’erano solo bambini indiani
E camicie blu
Sì i soldati blu
Con le loro mani madide di morte
Nuvola Rossa Alce Nero Toro Seduto
No lui non c’era non c’era più
Il cuore sepolto come gli altri a caccia mentre i soldati blu falciavano gli indifesi per una guerra alle spalle
Vigliacca e decorata di merda e feccia gialla come piscio
A Washington
Loro non chiedono mai scusa
La storia però non è chiusa
Vivono ancora i Lakota fieri discendenti
Nelle riserve
Della memoria
Della vita
Della loro arte
Di oggi e di ieri

ENRICO BERLINGUER

Prima veniva il noi
Prima dell’io
L’ombrello della Nato
Piuttosto che Mosca
La questione morale
Intuita e già fosca dentro ai partiti
Pensando ad oggi come sono finiti
Statista vero
E uomo di stato
Il socialismo dal volto umano
Come una stretta di mano
Uomo del dialogo
Della solidarietà nazionale
Nobile d’animo
Figura universale
Una persona perbene
Amato dal popolo
un milione di persone gli dissero addio
Morto sul palco
Morto di politica
Pertini la sua bara baciò
trentacinque anni or sono
Berlinguer Enrico
Uomo antico
Fermo e mite
Se ne andò

Le ragioni della sconfitta? Autoreferenzialità ed equivoci su buon governo e diritti

Nei commenti di questi giorni a proposito della sconfitta del centro-sinistra e, segnatamente, del Pd, nella tornata elettorale amministrativa nella nostra città, è ormai diventato un ritornello quello di individuare la responsabilità primaria nell’opzione di continuità politica e programmatica rappresentata dalla scelta di aver candidato a sindaco Aldo Modonesi e nell’atteggiamento di “arroccamento” del Pd locale. Tutto ciò è senz’altro vero e indica gravi errori di impostazione della vicenda elettorale da parte del Pd ferrarese, cui è necessario che seguano coerenti interventi. Ritengo però quest’analisi un po’ troppo sommaria, con il rischio che essa finisca persino quasi auto assolutoria per troppi. Intendo dire che, forzando solo un poco questo ragionamento, si potrebbe arrivare alla conclusione che, se si fosse avanzata la proposta di un candidato “civico” sostenuto dal Pd, ciò sarebbe stato da solo in grado di produrre un altro risultato oppure che, oggi, il pur indispensabile azzeramento e ricambio dei vertici locali del Pd sortirebbe di per sé un effetto risolutivo rispetto ai problemi aperti. In realtà, a me pare che la scelta di continuità operata dal Pd ferrarese anche in quest’ultima vicenda elettorale non sia altro che la “punta di un iceberg” di questioni ben più profonde e che datano da non poco tempo. Infatti, se, da una parte, è evidente che il voto amministrativo nei Comuni discende sia da elementi di contesto nazionale che da specificità locali, dall’altra, non c’è dubbio che, in una fase di forte mobilità del voto e di frammentazione sociale e politica in particolare nel campo del centro-sinistra e della sinistra, queste ultime acquistano particolare rilevanza. Detto in altri termini, se il Pd paga fortemente gli errori del renzismo e della stessa nuova stagione a guida Zingaretti che non riesce a distaccarsi sufficientemente da esso, quelli che l’hanno portato a separarsi da una parte molto significativa dal “popolo della sinistra”, è altrettanto chiaro che, a livello locale, sempre dal Pd, sono state avanzate ipotesi politiche e di governo che non si discostavano da quell’impostazione e che, in un contesto economico e sociale non semplice come quello ferrarese, hanno rappresentato ulteriori ragioni per alimentare il distacco con le persone che storicamente sono state rappresentate dalla sinistra, a partire dai settori più deboli e fragili della società.

Vale la pena, allora, indagare alcune di queste ragioni. Lo faccio in modo certamente incompleto e in termini esemplificativi ma, spero, sufficientemente chiaro, anche a costo di essere un po’ schematico. Il primo tema riguarda le politiche economiche, sociali e di bilancio realizzate in tutti gli anni dei mandati del sindaco Tagliani dal 2009 ad oggi, di cui peraltro sono stati artefici anche esponenti – penso ad esempio a Marattin – oggi tra i più impegnati a prendere le distanze dalle scelte del Pd ferrarese.

Intanto, penso si possa dire che, in questi anni di crisi economica e sociale, la ricetta del “buon governo”, gravata anche da forti vincoli nazionali, ha assunto come priorità anche a Ferrara la riduzione del debito, sacrificando ad essa la spesa del lavoro pubblico, che è stata presentata come costo e non come risorsa che produce servizi, e la stessa spesa sociale, che pur non riducendosi in termini significativi, ha finito tuttavia per risultare insufficiente rispetto alle povertà, vecchie e nuove, che la crisi produceva. Tutto ciò, oscillando, tra l’altro, tra rappresentazioni ottimistiche – la crisi è alle nostre spalle – e asserzioni “rinunciatarie” – le risorse sono scarse, non possiamo più permetterci le tutele e le protezioni precedenti – ha ulteriormente rafforzato l’effetto di rendere più vulnerabili, e anche più sole, le fasce di reddito medio-basse.

Una seconda fondamentale questione è quella relativa al discorso sulla sicurezza e al legame improprio costruito con l’immigrazione, in particolare quella extracomunitaria. Qui, da parte di chi ha governato la città in quest’ultimo decennio, dapprima – e anche giustamente- si è voluto contrastare un’idea per cui Ferrara o almeno una sua parte era strumentalmente diventata “città invivibile e sotto assedio”, per poi, però, successivamente, dimostrarsi subalterni ad una lettura per cui essa andava affrontata prevalentemente come problema di ordine pubblico. Non si è costruita una “narrazione” alternativa e tantomeno politiche efficaci di legalità, accoglienza e inclusione, che fossero contemporaneamente capaci di produrre contrasto alla criminalità, rigenerazione del territorio e creazione di dialogo interetnico e interculturale. Lasciando spazio ad una “narrazione” di stampo sostanzialmente razzista e xenofoba, quella del “prima gli italiani”, su cui il populismo estremista di destra sta costruendo un egemonia culturale anche nei ceti sociali deboli. Che, non a caso, ha anch’essa come substrato l’idea che, in una situazione di “scarsità delle risorse”, non è possibile ragionare sul rispetto e l’estensione di diritti universali, ma qualcuno, necessariamente, starà indietro e, in questo caso, meglio gli ultimi che i penultimi.

Infine, terzo punto che merita una riflessione, e che ha a che fare con l’impostazione politica di fondo che il centro-sinistra ha messo in campo anche a Ferrara, è quello dell’autoreferenzialità del Pd e dell’Amministrazione comunale di questi ultimi anni, che, proprio per essere messo in discussione, va vista come corollario di una lettura sbagliata della società e delle sue dinamiche dentro la crisi. Detto in altri termini, è evidente che quando si usano lenti che non sanno cogliere i processi e le trasformazioni in atto e questi vanno in una direzione diversa da quanto si supponeva, ciò che mette in discussione dall’esterno le  certezze consolidate (e questo è valso non solo per il Pd, ma anche per settori della sinistra cosiddetta “radicale”, in specie quella di derivazione partitica) viene percepito come potenzialmente minaccioso, le critiche vengono vissute come attacchi strumentali e la partecipazione diffusa viene, nella migliore delle ipotesi, confinata e ricondotta lungo percorsi predefiniti.

Ho ben presente che già la sostanza del ragionamento che ho avanzato indica che risalire la china non sarà compito agevole e di breve durata. Non solo perché dobbiamo aspettarci che la nuova Amministrazione a trazione leghista, al di là di quello che potrà essere un “buonismo” di facciata, non potrà, come del resto succede a livello nazionale, che mettere insieme l’ incapacità di risolvere i problemi di fondo della città (imputati ovviamente ad altri) al fatto di fare strame di diritti umani fondamentali e produrre ulteriori regressioni sul piano culturale. Non solo perché le questioni da affrontare, a partire dai punti di criticità che ho sollevato, sono impegnative e necessitano di risposte complesse, non tutte risolvibili solo a livello locale. Soprattutto perché, se sono almeno parzialmente vere le considerazioni che ho avanzato, ciò significa predisporsi  ad un lavoro importante sul piano culturale, su quello sociale e su quello politico. Non si tornerà ad essere egemoni se non si lavorerà con un progetto sufficientemente definito sull’insieme di questi piani.

Ciò a me pare implichi almeno due terreni di impegno, da far vivere entrambi: un nuovo pensiero, che progressivamente faccia emergere un progetto rinnovato per la Ferrara degli anni a venire, ripartendo e potenziando il lavoro con cui diversi soggetti si sono cimentati anche nella vicenda elettorale (ho in mente, per esempio, i punti programmatici che Il battito della città, La città che vogliamo e Addizione civica avevano condiviso a suo tempo), e una nuova pratica, prima di tutto sociale. Che metta insieme su decisive questioni di scontro culturale e politico, a partire dall’antirazzismo e dall’antifascismo, le tante realtà che sono presenti in città e che possono convergere su contenuti condivisi e precisi, superando le spinte alla frammentazione e le tentazioni della primogenitura. Ma di questo, se il dibattito continuerà, si potrà tornare a parlare in modo più approfondito.

Il neoliberismo non è la fine della storia, serve un’uguaglianza sostenibile

Ottimo consiglio quello di Giangi Franz, lanciato via social, di leggere l’intervista di Fabrizio Barca a Gea Scancarello e pubblicata su Business Insider Italia. L’incipit è già un programma: “Oggi la sinistra è più moderata dei liberali: mancano i valori e una classe dirigente capace”. Un titolo che sembra cadere a fagiolo su un dibattito aperto anche a Ferrara, all’indomani dello storico risultato del ballottaggio alle elezioni amministrative di domenica 9 giugno.

Giuro che ignoravo quest’analisi quando ho scritto il pezzo che Ferraraitalia ha pubblicato con il titolo: “Voto e discernimento: strumenti democratici contro l’internazionale sovranista”, ma conforta verificare che la ben più autorevole lettura della realtà dell’ex ministro per la coesione territoriale del governo Monti, non fa sembrare frutto di allucinazioni le righe che ho messo in fila lo scorso 7 giugno. “Quando si raggiungono certi livelli di disuguaglianze e il malessere è così diffuso – dice Barca – l’idea stessa del capitalismo non può reggere, perché il capitalismo dà il meglio di sé quando è stimolato dalla riduzione delle disuguaglianze”.

A scanso di equivoci, il cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, è perfettamente consapevole che “il capitalismo è sfruttamento per definizione”, ma subito dopo aggiunge che “è questione di bilanciamenti”. È l’antico adagio socialdemocratico del tosare la pecora. Se quindi da decenni si sono prodotte disuguaglianze mai viste prima è perché “sono state fatte scelte politiche sbagliate”. Anziché tosarla, la pecora è stata pettinata.

E qui arriviamo al cuore delle critiche mosse alla sinistra. “La prima è culturale: 30 anni fa, non ieri, molti partiti socialdemocratici – afferma – hanno comprato l’ideologia del “Non c’è alternativa: il capitalismo è uno solo” e se si pensa che non ci siano più i margini per lavorare sui meccanismi di formazione della ricchezza, non lo faccio; non per interesse ma perché mancano i valori”. La seconda è rivolta alle classi dirigenti: “quelle venute su in questi 30 anni sono state selezionate su questo credo, senza più la convinzione di un cambiamento che toccasse i sentimenti delle persone”. Di questo passo i partiti sono diventati “non valoriali”, quasi ossessionati dalla “mitologia del centro”, del “bisogna governare”, dei governi del fare, lasciando stare le visioni. Se si concorda che il ragionamento fila, si può osare un passo avanti.

Si discute, comprensibilmente, di ripartire in casa Pd dopo la caduta di Ferrara, con un dibattito già nelle prime battute plurale di posizioni, opinioni, riflessioni e analisi. Ora, se la questione di fondo è di uscire dallo schema “Non c’è alternativa”, per mettere al centro la necessità di un riequilibrio del sistema capitalista che così com’è non sta in piedi, per la stessa logica capitalista, allora parrebbe logico pensare di trovare un rilancio sfatando quella che Barca chiama la “mitologia del centro”, per riabitare, innanzitutto culturalmente, lo spazio che Bobbio definì quello naturale per la sinistra: l’uguaglianza. Vale a dire quel concetto che sottende un retroterra valoriale, che in questa lunga fase storica è stato svuotato da una drammatica e insostenibile situazione di disuguaglianza e di suicida concentrazione di ricchezza.
Per non parlare della spaventosa concentrazione di potere per il mancato governo dello sviluppo tecnologico e in particolare di internet, che fa dire ad Alex Zanotelli intervistato da Ferraraitalia: “Attraverso i nostri smartphone sanno tutto di noi, ci spiano di continuo. Quelle informazioni sono oro, chi le possiede comanda il tavolo. È ridicolo e grottesco che poi ci riempiono di moduli da firmare a garanzia della privacy”.

Quello di Barca non pare essere il solito appello per una sinistra di testimonianza, dei pochi ma buoni, perché dall’alto della sua osservazione registra che “c’è un pezzo del mondo del business, rappresentato dall’Economist, cioè un giornale liberale, che dice apertamente che così non si può reggere e sta dicendo che è tempo di accettare cambiamenti significativi”. E prosegue citando come esempio concreto l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria sulla “necessità di una partecipazione strategica attiva dei lavoratori nelle aziende”, perché “bisogna ridare al lavoro una parola significativa nelle scelte strategiche imprenditoriali”.
Ci sarebbe – così afferma – anche parte del mondo imprenditoriale “che non vuole un mondo autoritario, che ha incassato i benefici di un brutto mondo e adesso si accorge della degenerazione”.
Un segnale che si aggiunge in questa direzione è il documento prodotto dal gruppo socialdemocratico europeo intitolato “Uguaglianza sostenibile”, presentato a Bruxelles il 27 novembre 2018. Fabrizio Barca è inoltre cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, impegnato a studiare e proporre soluzioni concrete che restituiscano senso ai concetti di uguaglianza, pari opportunità e dignità del lavoro, garantiti dalla Costituzione.

Una sfida, quella di uscire dal vicolo cieco neoliberista del “Non c’è alternativa”, che si gioca sul piano europeo, ma che non vede completamente disarmati i contesti nazionale e persino locale, tanto che Barca si dice sicuro che “ogni livello ha spazi di manovra: chi dice il contrario semplicemente non vuole cambiare”. Anche il tempo per aprire questi nuovi fronti ci sarebbe e non pare neppure consegnato a un futuro indistinto: “un arco di tempo di tre, cinque anni”, se ci fosse la volontà delle “forze più avanzate della produzione, del mondo del lavoro e della cittadinanza attiva” di costruire nelle città “piattaforme aperte, collettive, tecnologiche e trasparenti”, di avviare “consigli di lavoro e cittadinanza” e di “sperimentare una strategia sulle periferie”. Un insieme di azioni “che farebbe la differenza e costruirebbe un’alternativa, che diverrebbe poi anche un’alternativa elettorale”.

Senza sapere leggere né scrivere, io un orecchio lo presterei a queste proposte, studiandoci sopra e magari invitando anche gente così a un congresso o a un convegno, giusto per avere un’idea di come ripartire dopo una sconfitta, si dice, non qualunque. Altrimenti occorre prepararsi a “una spirale di meno libertà, meno crescita e più disuguaglianza – è la conclusione – in cui vince il peggio del nostro paese, non il meglio”.

L’Eremo di Camaldoli: fuori dal tempo… per trovare un nuovo tempo

La mia recente esperienza, limitata a qualche giorno, all’interno di un monastero dalla tradizione millenaria, l’Eremo di Camaldoli, cercando di vivere il quotidiano ‘nella prossimità‘ della vita monastica potrebbe apparire a prima vista anacronistica per quella parte di donne e di uomini che mai l’hanno vissuta. È un percorso che non appartiene in generale alle persone, me compreso, che vivono la contemporaneità troppo spesso distratte dalla velocità delle proprie azioni e che non si accorgono, se non tardi, dello scorrere rapidissimo del tempo e di ciò che ci lasciamo di prezioso della Vita irrimediabilmente alle spalle.

All’inizio del Millennio precedente, ma ancora secoli prima, una certa nobiltà si rifugiava nei monasteri per obbligo o per necessità, mentre ora il sentire comune, alimentato dai media di ogni ordine e grado, giudica l’estraniarsi dalla roboante società che ci circonda un esercizio corroborante per la mente e per lo spirito.
Se escludiamo le sincere vocazioni, l’esperienza viene generalmente intrapresa da diverse categorie di esseri umani di vita laica: imprenditori e alti manager dell’industria afflitti nel profondo dallo stress da frenesia di obiettivi o da politici presi da sincera autocritica o da persone comuni attratte all’interno delle mura del monastero dal dubbio esistenziale circa la possibilità di un distacco dall’incombente quotidiano in un diverso equilibrio di vita basato sul silenzio e, perché no, sulla meditazione. Oppure, come il sottoscritto, interessato alla celebre e antica biblioteca dell’Eremo, fondata nell’XI secolo e ampliata nel Cinquecento, ricca di migliaia di preziosi manoscritti, cinquecentine, incunaboli e alla conoscenza del secolare quotidiano dei monaci, utile per un mio lavoro di scrittura in preparazione, ma poi presto coinvolto emotivamente nel temerario tentativo di comprendere il mistero che da circa due millenni motiva donne e uomini a pregare per la salvezza di altre donne e uomini.

Il Sacro Eremo di Camaldoli è stato ‘il mio quotidiano’ per alcuni giorni. Lo si raggiunge dopo circa quaranta minuti di auto uscendo dalla E45 a Bagno di Romagna con direzione Passo dei Mandrioli. Le alte e aride rocce stratificate della prima parte del percorso si trasformano percorrendo la strada tortuosa in pochi attimi in un bosco continuo denso di alberi ad alto fusto fra i quali si intravedono all’ultimo istante, e prima di un pianoro, le alte mura di sasso e malta che cingono le costruzioni monastiche.
Fondato a metà dell’XI secolo da San Romualdo a 1200 metri di altitudine in un’area isolata, di grande emotività, fra i boschi secolari del Casentino che lo hanno protetto come un confine naturale, il complesso dell’Eremo è circondato da mura che si elevano per oltre tre metri e abbracciano la foresteria, la chiesa, l’orto dalle piante officinali e, all’interno di un’area non accessibile ai visitatori, le tante singole cellette che ospitano i monaci di clausura.
Nei suoi quasi mille anni di storia l’Eremo ha ospitato i pellegrini in viaggio verso la Terrasanta e ha conservato immutato per i fedeli più ferventi lo status di luogo di preghiera e di meditazione. Per il sottoscritto, un laico, un luogo di grande fascino, attrazione interiore, misticità e anche curiosità.
Un tempo forse troppo limitato di permanenza il mio, ma l’ho deciso in funzione del mio crescente dubbio di non riuscire a resistere dentro un modello di vita che per certo volevo indagare e conoscere meglio, ma che avevo solamente appreso nei libri letti sul tema storico-politico del monachesimo medievale e dalle informazioni fatte circolare da chi con probabilità ne aveva solamente sentito parlare.

La vita monastica occidentale, eremitica o di comunità nel cenobio, pur nei secoli declinata dai diversi ordini è ancora riferibile alla Regola di San Benedetto, scritta a Montecassino dal santo nel VI secolo d.C. La prima stesura poneva forti limitazioni nella vita quotidiana ai monaci quali la povertà, la castità, l’obbedienza. Tutta la vita si svolgeva all’interno del monastero e, in larga parte, ancora si svolge nella preghiera e nella meditazione per la salvezza degli uomini e, nel passato, nel lavoro interno all’orto e nelle attività collegate che per alcuni ordini rappresentavano la fonte di sostentamento: “ora et labora”. Le attività lavorative si sviluppavano poi anche all’esterno grazie alla popolazione contadina e alle risorse e ai frutti che nei secoli si erano resi disponibili al monastero in ragione le consistenti donazioni di terreni e immobili da parte di nobili o proprietari terrieri locali.

Il lato forse meno conosciuto del monachesimo medievale, e certamente di valenza più terrena, fu l’influenza che famosi abati, il più noto l’Abate Bernardo poi diventato San Bernardo di Clairvaux, esercitarono a partire dall’ XI fino al XIV secolo su papi, re e imperatori. Fu decisivo il loro ruolo giocato nell’epopea delle Crociate in Terrasanta, dall’epica liberazione di Gerusalemme nel 1099 nella prima crociata e nelle successive, e in seguito la presenza si rafforzò con la filiazione delle abbazie in Europa e oltre e con il controverso clamore ottenuto con gli ordini dei monaci guerrieri/cavalieri fra cui il più famoso il potente ordine dei Cavalieri Templari.

La Storia si evolve. Oggi all’interno delle mura l’ambiente della foresteria camaldolese nel quale ero ospitato mantiene i caratteri invalicabili dell’estremo silenzio utile a ripercorrere, nei momenti del quotidiano riposo combinato alla mancanza di ‘connessione’, i cardini della nostra esistenza, il dolore, l’amore, la speranza, la gioia o le profonde amarezze della vita. Questi pensieri venivano bruscamente interrotti dal violento suono delle campane che nei secoli hanno scandito, e ancora oggi scandiscono e organizzano, la giornata dei monaci.
Nel nostro contemporaneo, cosi come nel Medioevo, i momenti della preghiera dei monaci sono regolati con il primo forte scampanio di possenti campane per le preghiere prestissimo il mattino quando ancora è buio. Le Lodi e poi attraverso l’ora sesta, la nona, il Vespro fino alla serale Compieta, verso le 20, che conclude la giornata monastica dedicata alla preghiera per monaci e laici all’interno delle abbazie, ma che secoli orsono gestiva anche la vita lavorativa nei campi dei contadini e degli abitanti dei villaggi non impegnati, come tutti noi oggi con continuità, alla schiavitù (ora irrinunciabile) del telefono portatile o delle conferenze via Skype.
Un mondo monastico quello dell’Eremo di Camaldoli oggi aperto all’esterno con monaci, quelli di Comunità, che insegnano nelle Università, vicini e sempre disponibili al dialogo con le persone ospitate, ma che all’interno delle alte mura di sasso ha conservato nei secoli i principi fondanti originari, declinati in parte alla vita contemporanea ma protetto per i credenti e per i monaci da un filtro antico che è quello della fede e della preghiera.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Alfabeto di sguardi, le parole silenti

Sguardi fugaci e muti mentre si aspetta il treno possono essere la metafora di una voglia di evasione, un tentativo di seduzione, ma anche di una incomunicabilità che non trova parole.

N: In attesa del treno, uomini e donne in attesa del treno. Peccato sia chiaro, guardando anche distrattamente, chi è maschio e chi è femmina; almeno nella grande maggioranza dei casi. Sarebbe divertente mascherare tutti, uomini e donne, con un analogo burkini nero, che lasci scoperti solo centimetri di pelle, per giocare a individuare chi è maschio e chi è femmina solo dall’atteggiamento.
Vedresti individui che lasciano passare altri individui e concentrano lo sguardo su di loro solo dopo che sono passati: e lo sguardo si posa, come uno scanner, prima sui piedi, poi sale lungo le gambe, indugia sul sedere come a soppesare mentalmente una fulminea equazione, infine risale fino alla testa, non prima di una ulteriore tappa intermedia di tre quarti.
Vedresti altri individui che, invece, ti catturano con un’occhiata fugace, fulminea, lunga quella frazione di secondo in più che non ti lascia scampo: o capisci tutto lì o non capisci niente, e non ti sarà data un’altra possibilità.

R: Sulla banchina del treno o dove vuoi tu, se non capisci in quel momento, non lo capirai mai. Un po’ manicheo, ma è così. Prova a pensare a qualcosa di importante che tu non hai afferrato in un certo momento, puliscilo dal contesto in cui eravate (lo sai vero che è solo con l’altro che capita di prendere o perdere per sempre?) e fatti venire in mente tutte le volte che poi è successa la stessa cosa. Chiaramente vale anche il contrario: quando cogli lo sguardo e il messaggio, ci sei. E credo stia davvero tutto lì, centrare quell’occhiata fugace e fulminea, farla tua oppure guardare da un’altra parte, facendo finta di non avere visto.

N: A dire il vero di occhiate fugaci e fulminee ne colgo troppe per seguirle tutte. Credo che spesso siano davvero la spia di una fuga istantanea dalla propria vita, di un altrove che non verrà mai sperimentato, di un invito al quale il proprietario stesso dello sguardo si sottrarrebbe, imbarazzato o sdegnato.

R: Caro Nickname, ci piace anche giocare con l’immaginazione delle nostre possibilità: attirare l’altro, vedere quanto siamo capaci in pochissimo tempo di agganciare uno sguardo, pensare che sì potrebbe essere, ma questa banchina del treno non mi permette altro tempo e non voglio fermarmi proprio ora. Che tu sia proprietario dello sguardo o il destinatario, in stazione o a una cena con chi conosci da sempre, è un attimo decidere di non andare avanti e non fare quella domanda che potrebbe metterti su un altro binario.

Vi è mai capitato di essere in situazioni in cui uno sguardo, un gesto, una parola avrebbero deciso o cambiato il corso delle cose?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

PER CERTI VERSI
Ode inversa per Ferrara leghista

Ferrara
Che strazio
Ha perso la testa
Ha verniciato il suo cuore
Sepolto in un angolo di miseria
Gettando nel fango la memoria il prestigio di una storia ora venduta alla paura
E all’ebbrezza del vuoto
Di una cupio dissolvi
Furente e indifferente
Ha perso la testa
Verniciato il suo cuore
La pancia no
Ha trionfato
Di odio risentito
Di bieco sentore provinciale della gente bramosa di nemici
Ribollente

Tristi ma non sconsolati. Si riparte dalla ‘questione ecologista’

Esiste una bellissima frase di un bravo, anche non molto conosciuto scrittore tedesco, Johannes Kühn: “Ganz ungetröstet bin ich nicht”. Vuol dire: “Sono triste ma non totalmente sconsolato”.
Vale anche  per le elezioni di Ferrara, la città che ho scelto come seconda patria. La Lega ha vinto questa tornata elettorale senza se e senza ma, come ha scritto giustamente Fiorenzo Baratelli su questa testata (leggi QUI). Devo dire, grazie a Dio o, come più si addice a un laico, grazie all’elettorato democratico è stato un risultato chiarissimo che non lascia spazio per qualsiasi scusa. Così esiste finalmente una possibilità di cogliere un ‘momento storico’ per ricominciare e far nascere una ‘sinistra nuova’: più giovane, più aperta, meno chiusa in se stessa, meno ‘arrogante’ – “noi siamo i buoni sempre parte del mondo migliore, loro i cattivi che pensano solo alla sua pancia” – più ‘ecologica’, come peresempio in Germania con l’avanzata dei Verdi.

Un po di questo ‘Rinascimento civile’, senza i riferimenti dogmatici, l’ho sentito personalmente anche in occasione dei alcuni incontri del Terzo polo di Ferrara. Certo il risultato del voto ferrarese è molto deludente, quasi un incubo, certo un brusco risveglio come ha scritto Francesco Monini su Ferraraitalia (leggi QUI-link), ma per un democratico è da accettare. Una realtà politicamente nuova di sicuro apre anche un momento da non perdere per creare qualcosa di nuovo: un progresso di una città con tantissime risorse di passione civile.

La Lega, secondo me, vuole difendere solo un sogno di un passato che non c’è più e un’idea di società ormai anacronistica. Curare solo il proprio giardino, pensare solo e prima di tutto ai connazionali ‘di sangue’ sono concetti senza futuro in un mondo che cambia velocemente e nel quale è spesso molto difficile capire in quale direzione ci porta la ‘globalizzazione’.

Devo dire che all’inizio non sono stato un grande fan delle manifestazioni Fridays for Future perché mi sembravano un po’ troppo naiv e anche sponsorizzate da una grande macchina mediatica (e dalla famiglia di Greta ecc.). Dopo la grande vittoria dei Verdi in Germania (e non solo) ho cambiato il mio giudizio. Oggi ogni tipo di politica deve avere al suo nucleo la ‘questione ecologica’.  Parafrasando il famoso slogan di Trump e di Salvini: “Il mondo prima di tutto”. Così si può difendere il proprio territorio: ‘regionalismo’ sì, ma in un altro modo.
Come ha detto una volta Pier Paolo Pasolini parlando del regionalismo di Giorgio Bassani – che diventa nei tempi della Lega sempre più importante da conoscere – “Abbiamo bisogno di un regionalismo estremamente moderno, ovvero un regionalismo civile e non popolare”. Forse un bel punto di partenza dopo il deludente voto ferrarese.
Morale: sono molto triste per il voto ferrarese, ma non totalmente sconsolato…

Save the Children : “dolore per la morte di un bambino di 5 anni, primo caso in Uganda”

Da: Save the Children
Ebola: Save the Children, dolore per la morte di un bambino di 5 anni, primo caso in Uganda. In 24 ore sono già tre i casi confermati. Stigma e disinformazione tra le principali cause di diffusione della malattia

Save the Children esprime profondo dolore alla notizia della morte del bambino di cinque anni a cui era appena stata diagnosticata l’Ebola in Uganda. Il bambino era il primo caso di Ebola confermato nel Paese, era stato isolato e aveva cominciato la procedura per il trattamento, ma non è stato possibile salvarlo. Nelle ultime 24 ore altri due casi sono stati confermati, portando a 3 il numero totale in Uganda.

“L’Ebola è una terribile malattia che sconvolge il corpo umano, provocando gravi sintomi, come il vomito di sangue. Siamo particolarmente preoccupati per lo stigma che continua a esistere in alcune comunità, che può ostacolare gli sforzi delle equipe sanitarie e far sì che la malattia si diffonda più rapidamente. La disinformazione e la sfiducia delle comunità riguardo all’Ebola è un fattore importante nella sua diffusione nella Repubblica Democratica del Congo e stiamo sollecitando i donatori e i governi a investire di più nelle attività di prevenzione a livello di comunità in Uganda”, afferma Brechtje van Lith, direttore di Save the Children in Uganda.

In risposta a questi primi casi di Ebola in Uganda, Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro – sta incrementando le attività di prevenzione già in corso, incluse le sessioni di sensibilizzazione e mobilitazione delle comunità e la formazione dei team sanitari dei villaggi. Finora nella confinante Repubblica Democratica del Congo orientale sono stati segnalati più di 2.000 casi – tra cui centinaia di bambini – e sono aumentate le paure di un contagio oltre confine.

L’Uganda occidentale sta facendo fronte a un forte afflusso di rifugiati congolesi, quasi 20.000 finora solo quest’anno e oltre 300.000 in totale. Il mese scorso Save the Children e altre 17 organizzazioni umanitarie hanno lanciato l’allarme sul crescente rischio di diffusione dell’Ebola a causa di un giro di vite che limita la fuga delle persone dalla violenza nella Repubblica Democratica del Congo orientale verso l’Uganda. Di conseguenza, molti hanno evitato i punti di confine ufficiali e attraversato le foreste o il lago Albert. È fondamentale che i rifugiati e gli altri civili possano attraversare legalmente e trovare adeguata assistenza ai punti di frontiera ufficiali.

Nell’ultimo anno Save the Children ha lavorato con le comunità locali dell’Uganda occidentale per aiutare a mitigare la diffusione dell’epidemia. L’Organizzazione ha formato più di 1.000 operatori sanitari, volontari, insegnanti, squadre sanitarie dei villaggi e personale di laboratorio ugandese per prevenire e rispondere ai casi; ha fornito i materiali principali per il controllo e la prevenzione delle infezioni nelle strutture sanitarie e nei punti di ingresso e installato strutture per lavare le mani nelle comunità rurali al fine di ridurre il rischio. Nel caso di ulteriore diffusione della malattia in Uganda, Save the Children è pronta a garantire una protezione ai bambini in situazioni critiche e servizi psicosociali per i minori e le famiglie colpite dall’Ebola.

Da: Save the Children

A Ferrara il suicidio di un Pd che ha perso contatto con la realtà

di Nicola Cavallini

Parto da Ferrara. Stavolta il Pd poteva schierare anche l’Uomo Ragno, e avrebbe perso lo stesso. Stavolta la Lega poteva schierare anche Naomo, e avrebbe vinto lo stesso. Ah, c’era Naomo. Appunto. Ha vinto.
A poco è servito l’ultimo roadshow di un onnipresente Modonesi,novello Zelig. Il Pd ha perso perché si è suicidato a Ferrara. Al ducetto toscano è bastato tirare appena il guinzaglio per indocilire una già mansueta pattuglia di parlamentari ferraresi, il cui grado di fedeltà al capo di turno è canino. Guai a muovere un dito, guai ad alzare un sopracciglio per difendere non la banca, ma i risparmi dei propri compaesani, quelli che li avevano mandati a Roma. Trentamila famiglie azzerate, tipo un quinto del bacino elettorale della Provincia. Alle ultime politiche il mitico Franceschini ha avuto meno preferenze di un semisconosciuto 5stelle, ed è stato ripescato con il proporzionale. Impensabile fino a qualche anno fa, eppure è accaduto. Quindi questa è una sconfitta annunciata e tafazziana, a dispetto di un Sindaco che ce l’ha messa tutta ma è stato isolato dal suo stesso partito, fatto di mezze figure e che Ilaria Baraldi non poteva certo risollevare in qualche mese (anche se un candidato sindaco discontinuo si doveva trovare, ma il guinzaglino del Regionale ha dettato la linea, prendendo l’ennesimo granchio).
Passo alla nazione, quella che non siamo: noi siamo un insieme di famiglie, alcune delle quali controllano il territorio e l’economia. Non parteciperò al coro autoriferito e troppo comodo che si indigna sui social per il nuovo fascismo dei brutti, sporchi e cattivi. Noi siamo belli? Può darsi che siamo troppo belli, che siamo dei fighetti, e che qualcuno che friggeva pinzini ai festival adesso si senta più a suo agio tra i finti celti della Burana. Noi siamo puliti? Forse troppo, perché a forza di stare in un posto pulito, illuminato bene, poi in un caffè come quello del racconto di Hemingway così intitolato è più credibile trovarci un Alan Fabbri(e chi non l’ha capita vada a leggersi il racconto). Siamo buoni? No, siamo tremendi. Siamo settari, perpetuiamo faide sanguinose coi nostri compagni e il nostro settarismo non è duro, puro, ideale, macché, serve solo a ritagliarsi uno spazio di piccolo, tapino, miserevole potere. Parliamo sempre delle masse popolari e a forza di parlarne le abbiamo perse. Alcuni di noi sono più colti, più formati, e questa è una aggravante. Le masse sono moltitudini di singoli individui. Credo che alcuni di noi – non i migliori, che sono spesso i più sommessi – dovrebbero riavvicinarsi alle loro mitiche masse partendo da una severa analisi di come sono loro, di che individui sono.

Save the Children : almeno 20 bambini uccisi nell’attacco di Sobanou-Kou

Da: Save the Children
Save the Children, almeno 20 bambini uccisi nell’attacco al villaggio di Sobanou-Kou.
I corpi carbonizzati dei minori trovati nelle case date alle fiamme

Almeno 20 bambini sono stati uccisi nel terribile attacco di ieri nel villaggio di Sobanou-Kou, nel Mali centrale, nel quale hanno perso la vita circa 95 persone. I corpi carbonizzati di alcuni dei minori sono stati ritrovati nelle loro case date alle fiamme, rende noto Save the Children, che chiede una indagine indipendente che faccia luce sugli attacchi e che sia in grado di assicurare alla giustizia i responsabili dell’uccisione e delle violenze nei confronti dei bambini e delle loro famiglie.

Secondo Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro – il massacro di ieri è solo l’ultimo caso di violenze in corso nella regione e a subirne le conseguenze maggiori sono soprattutto i bambini. A causa dell’insicurezza, infatti, 935 scuole sono state chiuse e circa 250.000 bambini, nel nord e nel centro del Paese, non possono andare a scuola.

“Ancora una volta, i bambini e le loro famiglie perdono la vita a causa degli attacchi che dall’inizio dell’anno stanno colpendo diverse comunità. Questa strage è avvenuta di sera, quando le persone si trovavano nelle loro abitazioni sulle colline. Gli assalitori hanno dato fuoco alle case mentre le famiglie erano dentro, le persone e il bestiame sono stati massacrati e all’interno delle abitazioni sono stati ritrovati i corpi carbonizzati di bambini innocenti”, ha raccontato Amavi Akpamagbo, Direttore di Save the Children in Mali.

“I dettagli dell’attacco non sono ancora noti del tutto, quindi non sappiamo esattamente cosa sia successo ai sopravvissuti, molti dei quali risultano ancora dispersi. I bambini potrebbero essere stati rapiti o sono scomparsi. Molti di quelli che sono sopravvissuti potrebbero avere visto i loro cari ammazzati davanti ai loro occhi. Tutto questo è inaccettabile, i bambini devono essere protetti sempre e comunque ed è fondamentale che ricevano il prima possibile gli aiuti di cui hanno bisogno e il supporto per riprendersi da questa terribile esperienza. Chiediamo inoltre alle autorità e alla comunità internazionale di agire con tempestività per garantire la sicurezza nella regione e fare in modo che i minori colpiti dalle violenze nel Mali centrale e settentrionale possano tornare a vivere in pace”, ha proseguito Amavi Akpamagbo

Save the Children, attraverso i propri partner locali, è già al lavoro per raggiungere i bambini e le loro famiglie sopravvissuti a questa tragedia e garantire loro tutto il supporto che necessitano per superare il trauma subito, come già avvenuto in seguito a un attacco simile avvenuto nel marzo 2019 a Ogossagou.

Da: Save the Children

Le responsabilità della sconfitta

La vittoria della Lega a Ferrara è netta. La sconfitta del centro-sinistra è pesante. Il significato simbolico di questo esito ferrarese assume giustamente un valore nazionale. La batosta di ieri segna il culmine di una catena di sconfitte subite dal centro-sinistra in molti comuni ferraresi negli anni scorsi. A ciò si aggiunge la clamorosa sconfitta di Dario Franceschini nelle elezioni del 4 marzo 2018 nel confronto diretto con una mediocre e anonima candidata leghista. A fronte di questi segnali inequivocabili di crisi profonda dell’identità culturale, politica, programmatica e organizzativa del maggior partito della sinistra ferrarese, il suo gruppo dirigente ha sempre evitato un’analisi seria delle ragioni delle sconfitte, rimuovendo i ‘fatti’ e perpetuando se stesso. Adesso basta!

La vittoria della destra a Ferrara è evento troppo pesante e traumatico per archiviarlo senza trarne le rigorose conseguenze. Nel merito, poche osservazioni…
1) Sarebbe errore grave attribuire la sconfitta ferrarese alla tendenza nazionale, perché questa ‘causa’ è smentita da ottimi risultati ottenuti sia in Emilia-Romagna (la netta vittoria del candidato del centro-sinistra a Reggio Emilia e la vittoria a Modena nel primo turno), sia in altri ballottaggi tenutesi domenica dove la Lega non ha stravinto (sette a sei).
2) E’ sulle responsabilità locali che bisogna concentrare l’analisi. Come culmine di una sequela di errori compiuti da chi ha diretto il Pd negli anni scorsi va considerato la scelta di un candidato sindaco vissuto come perdente fin dall’inizio. Da parte mia non è in discussione il valore di amministratore di Aldo Modonesi, ma la sua immagine di ‘continuità’ con un passato che una parte larga di opinione pubblica chiedeva di interrompere con una forte discontinuità di programma e di leadership. Non c’è dubbio che durante la campagna elettorale il candidato del centro-sinistra abbia compiuto uno sforzo di innovazione sul piano programmatico, ma la sua immagine ‘vecchia’ e in assoluta continuità con una classe dirigente che monopolizza la rappresentanza del Pd ferrarese da troppi anni ha annullato ogni possibile impatto positivo delle proposte nuove.
3) La domanda che viene spontanea è evidente: esisteva la possibilità di proporre alla città una candidatura diversa e vincente? Sì, esisteva… E c’è chi l’aveva segnalata per tempo sia nel dibattito interno al Pd, sia nel campo largo e plurale della coalizione del centro-sinistra. Quindi si poteva vincere, come è accaduto in altre città emiliane e nel Paese. E’ questa convinzione che rende più dolorosa e bruciante la sconfitta subita.

E ora, che fare? Intanto, non va demonizzato l’elettorato che ha eletto il nuovo sindaco. Quando si perde in modo così netto, bisogna fare i conti con i propri errori, senza inventarsi alibi di nessun tipo. Abbiamo bisogno di un severo esame a raggio largo, non di ripiegamenti lamentosi e vittimistici. Ritengo che le condizioni per risalire dal buco nero in cui siamo caduti ci siano. A patto che il Pd ferrarese archivi autosufficienza e chiusura in se stesso del gruppo dirigente. C’è bisogno di organizzare una grande e capillare discussione che coinvolga le fresche risorse umane messe in campo con generosità dalle liste civiche che hanno sostenuto Modonesi nel ballottaggio. E, più in generale, rendere permanente il rapporto con la cultura e il vario e plurale associazionismo democratico per capire meglio i grandi cambiamenti in corso nella società civile e per riqualificare la presenza di un nuovo centro-sinistra come unica alternativa etico-politica alla Lega nello spazio pubblico. In conclusione… Ciò che è avvenuto non è la fine del mondo, ma l’esito normale della democrazia. E come deve avvenire in democrazia, da qui bisogna ripartire…

Rispettare il voto

È la prima regola della democrazia: rispettare il voto. Alan Fabbri è il nuovo sindaco di Ferrara, la Lega e i suoi alleati hanno vinto le elezioni e amministreranno il Comune di Ferrara per i prossimi cinque anni. Piaccia o non piaccia l’esito delle urne, il dovere di tutti è accettare il risultato. Dare atto, prendere atto. Riconoscere la vittoria dell’avversario da parte dello sconfitto; assumere consapevolezza dei doveri (oltre che dei diritti) e svolgere con equilibrio le funzioni di governo da parte del vincitore, trattando amici e avversari alla stessa maniera.

La democrazia si fonda su questo presupposto: il riconoscimento della dignità dell’altro, anche nella divergenza, quando professa idee o propone soluzioni non gradite. Ma deve esserci reciprocità fra gli attori sociali: da parte degli sconfitti nel riconoscere il legittimo diritto dei vincitori di governare e sviluppare i propri programmi; e simmetricamente il dovere, da parte di chi ‘pro tempore’ assume la conduzione della casa comune, di considerare anche esigenze e diritti di coloro che dissentono, tutelando sempre la libertà di azione e di espressione di tutti.

Nelle prossime ore e nei prossimi giorni, svilupperemo e approfondiremo a trecentosessanta gradi l’analisi sul voto, sui suoi presupposti e le sue conseguenze

DIARIO IN PUBBLICO
Le mani, i gesti, gli eventi nella città delle 100 meraviglie

Ho resistito fino all’ultimo, ma non ce l’ho fatta! E penso alla faccia dell’ottimo direttore, Sergio Gessi, che con aria fatalistica sarà costretto a pubblicare il mio pezzullo quando ormai le jeux sont faits, dopo le 23 di domenica.

Questa volta partiamo dal movimento delle mani evidentissimo in tutte le trasmissioni o nelle informazioni social.
Salvini le congiunge in atto di preghiera secondo quella mistica del rosario che ha fatto furore in questi ultimi giorni.
Di Maio le strofina come se le lavasse. Probabilmente gesto apotropaico a scongiurare eventuali interventi in Europa.
Calenda avvicina pollice e indice quasi a sottolineare la minimalità della presenza del Pd nel ‘dibbattito’ nazionale e internazionale
Nicola Zingaretti le sbattacchia rumorosamente o ne alza una in timido segnale dei suoi trascorsi di sinistra radicale anche, diciamolo, radical chic.

E i nostri?
Uso contenuto del candidato Pd Aldo Modonesi che se le infila spesso in tasca.
Alan Fabbri le usa per non mollare il microfono o per stringere in morsa d’acciaio Matteo Salvini.
Ds gran signora l’uso che ne fa la Fusari: non gesticola ma al massimo delinea cerchietti in aria.
E avanti così.

Mentre i nostri dunque si esercitano nella speranza di arrivare primi, a Ferrara e per Ferrara sono successe cose ed eventi mirabili, spesso ignorati da tutti. Vale a dire la strepitosa presentazione alla J. Cabot University di Roma del volume su Bassani “Vivere è scrivere” presenti un’ottantina di studiosi americani, inglesi, italiani con commovente finale di una cena alla casa della Fornarina. Sì! Proprio la casa della giovanetta immortalata da Raffaello. Al premio Ippogrifo d’oro assegnato a Portia Prebys per i meriti acquisiti nel donare a Ferrara opere e oggetti appartenuti al grande scrittore e ora depositati nel bellissimo Centro studi bassaniani allocato in Casa Minerbi di Via Gioco del Pallone, ha fatto seguito un importantissimo convegno in cui si sono misurati i migliori critici di Bassani delle due sponde dell’oceano. Probabilmente l’argomento non sembrava adatto al tempo e alla curiosità dei ferraresi se solo una ventina di qualificatissimi uditori si sono presentati all’appuntamento che si è concluso con una visita speciale al Meis condotta dalla direttrice Simonetta della Seta che ha illustrato la splendida mostra sul Rinascimento ebraico, ricca di capolavori e di idee. Il convegno darà luogo a un volume di Atti che sanciranno l’attività scientifica del Centro studi bassaniani per il 2019/2020.

Dopo un giorno ecco che nell’afoso pomeriggio mi sovviene con un po’ di ansia di dovermi recare al Meis per sentire il concerto dedicato alle musiche di Salomone de’ Rossi nell’ambito della mostra sul Rinascimento ebraico. E’ stata un’esperienza straordinaria. Quelle musiche inducevano alla gentilezza e alla cortesia. Di là dal muro spuntavano le cime degli alberi e mi sembrava di essere in un racconto di Amos Oz o di David Grossman. I profumi del giardino si mescolavano al profumo dei sentimenti e accanto a me una deliziosa bambina batteva le mani e si lasciava andare accarezzandosi i lunghi capelli all’armonia. Che pace dei sentimenti, che nobiltà del cuore! Grazie al Meis e al Conservatorio Frescobaldi e a tutti gli straordinari artisti che hanno permesso questo momento di ‘cortesia’.

Ecco allora che in tutta la sua potenzialità si spiega l’attività culturale di questa strana città che s’inventa in una turbinosa ripresa di motivi, interventi, spunti, un passato e un presente degno di alta considerazione.

E domani? Chissà.

Voto e discernimento: strumenti democratici contro l’internazionale sovranista

“La convinzione che sia l’efficienza economica dei mercati liberalizzati e globali a portare all’aumento del benessere collettivo, è alla radice dell’esplosione di populismi e particolarismi nazionali”. Lo scrive Francesco Saraceno su ‘Il Mulino’ (1/2019).

Al di là dei responsi delle elezioni europee e amministrative dello scorso 26 maggio, che pure non hanno decretato l’annunciato sfondamento della destra populista e nazionalista, almeno a livello continentale, se non si capisce il motivo di quest’avanzata, che pure c’è, chi intende porvi argine rischia una navigazione senza bussola. E quindi di combattere contro i mulini a vento.
Il punto di partenza è l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze prodotto dalla crisi deflagrata nel 2008, cioè l’anno in cui falliva Lehman Brothers. Aumento spaventoso che vede vincitori un ristretto gruppo chiamati dagli esperti i “plutocrati globali” e un chiaro perdente che è la classe media e inferiore dei paesi avanzati, usciti da questo terremoto con meno redditi, meno welfare e meno reti di protezione.
Per la verità, il crollo iniziato nel 2008 è solo il risultato di scelte che risalgono a decenni prima. È l’affermazione – nelle università, nella politica, nei governi e cancellerie – del modello neoliberista.
Il politologo polacco Jan Zielonka, allievo di Ralf Dahrendorf, parla (‘L’Espresso’ 26 maggio) della resa incondizionata all’ineluttabilità del Tina: l’acronimo di conio thatcheriano per dire che ‘There Is No Alternative‘.
Non c’è alternativa alla vittoria inarrestabile della “dittatura dei mercati”. Lo scrive, da liberale, anche sul suo libro ‘Contro-rivoluzione. La disfatta dell’Europa liberale’ (Laterza 2018).
Lo scrive Alessandro Somma commentando le elezioni europee (‘La Nuova Ferrara’ 30 maggio): “il quadro politico è monopolizzato da due modi di interpretare il neoliberalismo come ideologia fondativa dell’Unione Europea: un neoliberalismo nazionale e un neoliberalismo cosmopolita”.
Lo sta scrivendo da tempo anche Claudio Pisapia su Ferraraitalia.
Si può continuare con gli esempi, ma non è questo il punto.

All’adagio “Non c’è alternativa” si sono accodati per anni partiti e governi indistintamente conservatori e progressisti.
Il capitalismo predatorio e deregolato, degli animal spirits, è stato assecondato e pettinato nelle varie declinazioni, credendo alla teoria che gli studiosi chiamano dello ‘sgocciolamento’: ridistribuire in favore dei più ricchi favorisce la crescita, perché remunerando chi è più produttivo da un lato aumenta risparmi e investimenti e dall’altro fornisce i giusti incentivi per l’accumulazione del capitale.
Un circolo virtuoso che si è imposto nella sua autoevidenza meccanica, ma che gli economisti giudicano dotato di pochissimo supporto empirico.

Questo ha portato acqua al mulino di chi sostiene che efficienza ed equità sono alternative, non possono stare insieme.
Carlo Triglia (‘Il Mulino’ 2/2019) scrive che sono ancora parecchi coloro che sostengono che “il capitalismo non sarebbe compatibile con una democrazia politica forte e ben salda, perché quest’ultima, perseguendo inevitabilmente obiettivi di riduzione delle disuguaglianze, finirebbe per intralciare la libertà dei capitalisti di ricercare il profitto”.
E qui arriviamo al punto.
Se non c’è alternativa, hanno cominciato a dire in tanti, a cosa serve andare a votare? Se il nostro voto non serve a cambiare marcia, che ci andiamo a fare?
Il fenomeno corrosivo dell’astensionismo nelle democrazie occidentali, troverebbe in questo dilemma una sua spiegazione.
Si arriva così a quella che è stata chiamata ‘democrazia a bassa intensità‘.
Se non c’è altra strada all’inevitabile contrazione della spesa sociale, all’impossibilità di redistribuire la ricchezza, ai tagli e all’erosione progressiva del welfare, la politica stessa abdica al suo ruolo fondamentale di riequilibrio e le distanze sociali sono lasciate correre.
Si fa strada la narrazione secondo la quale la proliferazione di istituzioni non elettive provochi una sensazione di confisca del meccanismo decisionale, di un suo inaridimento verso un binario laterale, se non morto di certo burocratico.

Le reazioni di un Matteo Salvini alle ‘letterine’ di Bruxelles e, più in generale, il dilagare dell’eurosceticismo, non dicono niente?
Non fanno forse più breccia in opinioni pubbliche stremate e impoverite queste letture, di quelle più articolate, e spesso fumose, di moderati e progressisti alla ricerca di complicate misure di contenimento, equilibrio, rispetto di parametri, tutte comunque dentro a quel There is no alternative?
C’è bisogno che qualcuno dica che capitalismo e giustizia, e quindi democrazia politica, possono stare insieme, come sostiene Carlo Triglia.
C’è bisogno di dimostrarlo nelle aule universitarie di mezzo mondo, tante delle quali, come ci ricordò Luciano Gallino, restano contrarie.
C’è bisogno di dimostrarlo sul piano politico, perché queste idee si traducano in proposte, in azioni che stiano in piedi, come, per esempio, scrive Fabrizio Barca (‘L’Espresso’ 26 maggio), declinando il concetto di giustizia sul piano sociale e ambientale.
E c’è bisogno che lo dimostrino i governi, nazionali ed europei, perché dicano che un’alternativa invece c’è e che sarebbe bene che lo Stato ritrovasse il proprio ruolo regolatore, perché questo ha garantito stabilità .

Altrimenti?
Altrimenti si fa strada il morbo populista e nazionalista, che con i suoi slogan d’assalto rimane l’unico giocatore in campo a sostenere che un’alternativa c’è. L’unico giocatore in campo che sfilando dalle mani il tema per antonomasia della sinistra, come disse Norberto Bobbio, ossia l’uguaglianza, trova orecchi sempre più stufi, arrabbiati e disposti a rivoltare il tavolo.
E proprio qui, in questo rumore assordante di parole d’ordine, si rischia di non prestare l’attenzione dovuta alla vera posta in gioco.
Papa Bergoglio lo chiama discernimento.
Non ci si accorge che l’onda sovranista, finalmente liberata dai vincoli di burocrati e banchieri, vorrebbe declinarsi in un nuovo ordine internazionale, mentre è un controsenso, un ossimoro: come sta in piedi un’internazionale sovranista, quando è basata sulla difesa, ciascuno e prima di tutto, dei propri interessi nazionali? Come può reggere un ordine basato sul “Prima i nostri”?

È esattamente il motivo per il quale l’Unione Europea di adesso non funziona, perché ancora prigioniera di un assetto intergovernativo che la trattiene dall’essere completamene foedus .
Come non capire che misure come la flat tax sono musica per le orecchie degli straricchi, cioè nuova linfa allo strapotere dei plutocrati globali e di quel neoliberismo destinato a moltiplicare le distanze?
Qualcuno vuole ancora credere alla teoria dello sgocciolamento?
L’unica sovranità possibile è quella europea, come scrive Massimo Cacciari (‘L’Espresso’ 19 maggio), perché sbandierare la difesa degli interessi nazionali fuori da quel perimetro, significa “ridursi a nani impotenti nei confronti dei grandi Imperi contemporanei”.
Come altrimenti interpretare l’esultanza di un Donald Trump di fronte alla Brexit, cioè al tentativo riuscito di disarticolare l’Ue con la promessa di accordi commerciali mirabolanti, o l’iniziativa cinese di insinuare la propria via della seta?
Lo spirito europeo non è nato per generare sviluppo di scienza, tecnica ed economia, disgiunte dal sistema di libertà e giustizia. Per quanto, purtroppo, il percorso appaia decisamente in salita, è su questo piano, non su quello nazionale e tantomeno locale, che si gioca la vera sfida di questo incremento.
Se vincono populismo e nazionalismo si continua cioè a viaggiare, con l’illusione di rovesciare regole e parametri e di disintermediare corpi intermedi e rappresentanze, sul binario neoliberista, nel quale la ricchezza esclude democrazia e giustizia.
Se in Cina il problema nemmeno si pone, negli Usa di Trump non si pensa lontanamente di redistribuire la ricchezza in senso egualitario.
Senza parlare di un Orbán che da tempo predica una democrazia illiberale.

Così la democrazia a bassa intensità viaggia diritto verso l’assenza d’intensità e verso l’assenza di democrazia.
E tutto accade lentamente, come dovrebbe insegnare la storia, con la legittimante acquiescenza di opinioni pubbliche abbagliate dal ritorno degli Stati-nazione, euforicamente salite sul treno populista, utile veicolo per trasbordare in modo non traumatico l’oggi verso un futuro tremendamente simile a un passato che è sbagliato pensare definitivamente alle nostre spalle.
Dopodiché, noi sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale …, cantavano Dario Fo, Enzo Iannacci e Giorgio Gaber.