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Osservazioni sulla poesia dialettale: ‘Scartablar int i casit’ di Edoardo Penoncini

Il Penoncini che scrive in dialetto ferrarese, il suo vernacolo la sua lingua madre, mi pare un po’ distante dal solingo, architettonico poeta in lingua, appartato ma vicino a tutte le cose, che ho introdotto e recensito. Dove si trova questa distanza si chiederanno i lettori e me lo chiedo anch’io tanto da farne la chiave interpretativa di questo scritto. Credo stia nell’essenzialità e nell’esistenzialità. Dunque per definizione i “nostri” dialetti (io sono bolognese ma non cambia moltissimo) sono “secchi”, tronchi e, dunque, portati per natura e per struttura all’essenzialità. Il Penoncini però ci mette del suo e accentua tale innata caratteristica del vernacolo ferrarese concedendo un’asciuttezza tale da occhi che non lacrimano andando diritto al cuore delle cose con una modestia tale che si fa semplicità pura, non certo posa: «Io parlo come mi viene/ non conosco nemmeno le lingue… Mi a ciàcar còm am càpita/ an sò gnanch ill lingv». Infatti non occorre sapere le lingue pàr ciàcarar… (non era forse una bella sezione di uno splendido libro di Raffaello Baldini, grande poeta romagnolo dialettale? Penoncini ama i grandi poeti romagnoli, e giustamente aggiungerei io. As ciàmeva Ciacri cla paert che dgeva prema, ovvero: Si chiamava Ciacri quella sezione di cui dicevo prima detta in bolognese… Le chiacchiere appunto. Esattamente tutto il contrario di quello che il filosofo Heidegger intendeva per tali. Egli pensava alla dimensione della inautenticità del dominio del Sì sull’Esserci cioè sull’uomo, una dimensione della quotidianità opaca dove la “vita non vive” per citare un altro grande nome: Th. Adorno. Ove si è dominati da un linguaggio che non è nostro, quello della chiacchiera appunto. Ma qui è esattamente il contrario. È nelle chiacchiere che appare improvvisamente la vita, la sua stoffa etica ed estetica, il suo trambusto, il suo gioire, il suo passare grandi eterni temi della poesia e anche di quella del Nostro che ascolta il cuore e le sue ragioni e le sue stagioni, la sua semenza diremmo con il friulano Leonardo Zanier.
Penoncini, in questo libro davvero bello e robusto quanto sottile, coltiva la semenza, la sa gettare, in molti anni ha covato in silenzio questa sua Arte e poi è uscito allo scoperto, una volta sentito che il terreno fosse quello giusto per gettare la semenza e sul come fare a gettarla, quale codice linguistico scegliere: «…Noi abbiamo bisogno del tempo/ è come gli amici/ più ce ne sono e meglio è… Nu a gh’én biso’gn dal témp/ l’è cmè j’amigh/ più agh n’è mèj l’è…». A conferma della mia tesi vanno anche gli Haiku in dialetto ferrarese che vantano passaggi non certo secondari e sono una vera e propria novità per quanto concerne la scrittura e la produzione del poeta Penoncini. Ne propongo uno citato dall’ottimo poeta Giuseppe Ferrara che nel testo ivi recensito ha scritto una nota in specifico riferimento agli Haiku: «l’àn ch’l’è pasà/ l’à lasà int al mè cuór/ muć ad but nóv… l’anno che è passato/ ha depositato nel mio cuore/ tanti nuovi germogli». Questa scelta mi permette di introdurre l’altro grande tema della poesia di Edoardo: la sua dimensione esistenziale.
Oltre alla essenzialità si diceva infatti del tono esistenziale di queste liriche. Anche in questo caso il Penoncini in lingua non è certo estraneo a tale cifra tematica. Ma nelle liriche in dialetto il poeta si lascia come andare ad una rivalutazione del “tempo del consistere” rubo un’espressione a Gianfranco Fabbri, poeta tosco-romagnolo, del tempo del quale noi consistiamo e che è depositato nei giacimenti infiniti di “una volta”, del mondo di ieri e dell’altro ieri al quale Edoardo Penoncini attinge con sagacia ed acutezza a piene mani. Ritrovo qui una poetica quasi Morettiana delle poesie scritte col lapis, delle piccole cose di un crepuscolarismo tutto padano che non fa sorprendere che l’autore abbia vinto in passato il premio Gozzano. I campanili, il Po, il suo scorrere, i paesini che lo costellano, Ferrara nei giorni spenti quasi morti, la veglia, i camini e le stufe, la lentezza, insomma la vita e l’amore. Certo l’amore e perché no? È uno dei temi eterni della poesia e dell’esistenza e Penoncini da vero poeta non vi ci si sottrae. A tutto questo, direi questi, mondo e mondi fa da seguito il nostro tempo dell’inconsistenza della fretta della mancanza di pensiero poetante piuttosto che di pensiero irriflesso, impulsivo adatto e adattatosi alle macchine, ai cellulari sempre in connessione. Si avverte in Penoncini non la paura per tale dimensione che non gli appartiene per generazione e per cultura, ma una sofferenza per quello che l’uomo potrebbe diventare abusando di tale sistema dei social e informatico. Vale forse sempre il detto di Epitteto : “Il bene e il male non stanno nelle cose, ma nell’uso che di esse se ne fa”? Ai posteri…

Il rating del buon cittadino nuova frontiera del controllo sociale

di Nicola Pavera

Attribuire ad ogni cittadino un punteggio che ne certifica affidabilità e reputazione, e che implica benefici o svantaggi. Ad esempio: chi ha un punteggio alto avrà un canale preferenziale nei controlli, ai check-in nelle stazioni e negli aeroporti e iter di accesso semplificati ai servizi; chi ce l’ha basso, sarà sottoposto a controlli sistematici e approfonditi.
E’ questo il senso del primo esperimento sociale basato sul rating delle persone. Una sorta di teoria dell’etichettamento riadattata nell’era dei social e del digital media che dovrebbe farci porgere lo sguardo alle conseguenze negative che da ciò potrebbero derivare; effetti già studiati da Howard Becker e segnalati nello scritto “The outsider”: secondo il sociologo americano il comportamento individuale si conforma alle aspettative sociali coerentemente con l’etichetta a ciascuno assegnata.

Il criterio di premialità si basa sui comportamenti ritenuti virtuosi. Si guadagnano punti compiendo azioni virtuose nell’ambito della comunità, se ne perdono, ad esempio, litigando negli aeroporti… Fare del volontariato nel quartiere comporta l’acquisizione di punti di credito sociale. Investire il proprio tempo per gli altri, a  favore di chi ne ha bisogno, come già fanno i membri di associazione di volontariato, sarà ‘remunerato’ in punti: chi si prodiga per la comunità e segue standard di vita corretti viene premiato, o quantomeno non viene screditato.

Si prospettano interrogativi di natura etica. Studiare, capire e comprendere i motivi e le cause che potrebbero indurre le persone ad accettare questo sistema che li metterebbe in catene digitali. Non è la massima forma della burocratizzazione e del controllo? E poi, c’è davvero bisogno di valutare con un sistema di ranking le azioni individuali? La domanda che dobbiamo porci, in ordine alla psicologia delle masse e alle nuove condizioni morali indotte dal mondo digital è: come verrà reso desiderabile o quantomeno accettabile questo bisogno di una classificazione?

Pensiamo alla velocità con cui la nostra cultura – e di conseguenza i nostri valori etici – cambiano nel tempo. Un tale sistema e gli ipotetici futuri governi che lo adottassero su quali basi decideranno i canoni per la stima delle persone? Nella “repubblica” popolare cinese, popolata da oltre un 1 miliardo e 300 milioni di persone (più di un ottavo della popolazione mondiale) entro i prossimi due anni il metodo verrà applicato su tutta la popolazione. La città di Rongcheng, affacciata sul mar Giallo e popolata da ben 700 mila abitanti, dall’anno scorso l’ha già sperimentato: è stato un preludio, una prova per capire fino a che punto l’egemonia dominante può esercitare il proprio volere, spingendosi forse fino ad un punto di non ritorno.

Tutto ciò porterebbe ad attribuire all’individuo un capitale simbolico, legato dunque alla virtù comportamentale e allo status sociale che lo catapulterebbe in quanto individuo nelle logiche del mercato, in una sorta di quotazione del soggetto equiparabile a quella che si attribuisce ad un titolo in borsa, visto e considerato che i dati saranno pubblici e quindi consultabili da chiunque: grosse banche o datori di lavoro potrebbero basare su questi attributi i criteri per concedere prestiti o per assunzioni.
Sembra naturale pensare che persone delle classi sociali più agiate siano più facilitate ad aumentare il loro “capitale sociale”.
E poi, una domanda sorge spontanea, se si pensa al fatto che attualmente un problema sociale che affligge la Cina è la fallacia del computo demografico, visto che oltre 14 milioni di persone non sono denunciate nei registri anagrafici, e rimangono così nel limbo dell’anonimato. Queste persone non avranno credito sociale?

Inoltre, considerando il fatto che i crimini e i comportamenti devianti sono prodotti puramente sociali, risposte agli stimoli dati dal nostro ambiente, è evidente come chi vive situazioni di marginalità e isolamento sarà quasi escluso dall’acquisire punti, e anzi sarà più facilmente indotto a perderne, entrando in un irrimediabile circolo vizioso.
Un esempio concreto sta nella perdita di punti sociali sulla base delle regolarità dei pagamenti. Persone della classe operaia, pensionati o disoccupati potrebbero veder compromesso – e ancor peggio reso pubblico attraverso la rete il loro – prestigio sociale, con conseguenze facilmente ipotizzabili, dato che già oggi il numero dei follower e i giudizi della rete incidono significativamente sulla popolarità popolarità e la reputazione delle persone.

Il prestigio sociale di ogni singolo componente della famiglia inciderà, peraltro, sul capitale del credito sociale familiare, o ne eleverà o pregiudicherà in qualche modo lo standard e l’identità esterna. Questa prassi dell’etichettamento digitalizzato confligge poi con il diritto di privacy, e con il “diritto all’oblio”, ponendo ciascuno costantemente sotto un “grande occhio” spia. Già il nostro comune uso del telefono è radicalmente mutato rispetto a qualche anno fa e ci espone al controllo esterno. Prendiamo coscienza che attraverso quel piccolo strumento – che ci conosce meglio di noi stessi – possiamo essere ascoltati, spiati ed esposti nella nostra intimità.

In ogni caso, nella società delle etichette, i rapporti stessi delle persone sarebbero radicalmente alterati. Forse questa nostra voglia di sapere chi c’è dall’altra parte e valutarlo preventivamente ci sta portando a una qualche perversa forma perversa di voyeurismo, e la patente a punti sulla vita ne è l’ennesima manifestazione. Resta solo una domanda, ora: siamo ancora in tempo per fermare tutto ciò, sfuggendo a quel futuro distopico prefigurato dagli scritti di Orwell?

Madre

Si fa presto a dire ‘madre’, incensare e mitizzare questo ruolo, osannare la figura archetipo, simbolo e rappresentazione della vita. Soprattutto nelle ricorrenze e nella giornata a lei dedicata. Poi esiste la realtà, quella che indirizza lo sguardo verso un ampio spettro di immagine materna e accanto alla madre santificata, protettrice, solida, paziente, coraggiosa, irreprensibile, quasi mistica, riconosciamo le madri fragili, minacciose, rassegnate, degeneri, inconsapevoli, nei casi estremi omicide, che interpretano presenza o assenza nelle esistenze delle loro creature. Fotografie che si discostano completamente dal luminoso immaginario collettivo che ogni epoca storica ha elaborato su colei che dà la vita. Accanto alla madre nutrice che si prende cura dei figli fino all’abnegazione, è onesto riconoscere anche la valenza negativa della madre-matrigna, proiezione dell’abbandono e della perdita: i due archetipi estremi più incisivi dell’essere madre.
La figura della madre, comunque, resta un topos in ogni era, che proietta le caratteristiche del momento storico, ma anche esperienze individuali forti, perché raccontare la ‘Madre’ significa scavare in profondità, fino all’alba dei tempi. L’arte, in generale, ha sempre tributato un ruolo centrale alla figura della madre; la letteratura, in particolare, ha riservato pagine e pagine dedicate alla descrizione di figure materne che hanno suscitato emozioni e forti sentimenti di ammirazione, dissenso, disprezzo, amore, entusiasmo, desiderio di emulazione, disdegno, repulsione a seconda delle vicende e del profilo delle protagoniste. Madri coraggiose e decise come la vedova Cornelia, madre dei Gracchi, che si rifiuta di sposare Tolomeo VIII Evergete re d’Egitto, per consacrarsi alla cura e crescita dei propri figli; madri tristi che hanno assistito alla morte del figlio, come Andromaca, madre di Astianatte e moglie di Ettore; madri assassine come Medea, che per vendetta uccide i figli avuti da Giasone.

Memorabile resta la figura di Cecilia, nel romanzo ‘I promessi sposi’ (1840) di Manzoni, in una Milano devastata dalla peste e dal dilagare della morte. Ci siamo commossi all’immagine di quella donna, descritta di una ‘bellezza avanzata, ma non trascorsa’, che sotto il velo di un languore mortale nasconde una grande passione e maestosamente scende le scale della sua casa reggendo al collo la figlioletta morta di 9 anni, per consegnarla al convoglio dei monatti. Una madre che non ha più lacrime perché le ha versate ormai tutte e che non ha perso il desiderio di pettinare, riordinare e rivestire di bianco per l’ultima volta quel corpicino ormai senza vita. Cecilia chiede ai monatti di ripassare la sera, quando l’altra figlia ormai allo stremo, e lei, saranno morte dello stesso morbo. E di una donna singolare si parla anche nel romanzo di Verga I Malavoglia’ (1881), Maruzza detta ‘la Longa’. Una madre apprensiva che riesce a capire i problemi dei figli al solo sguardo, molto legata alla famiglia, ligia ai doveri di moglie e madre. Una donna che attinge forza dalle avversità, dopo la morte del marito, e dopo aver accettato privazioni e perdite di ogni genere, muore di colera, stroncata dal male e dal dolore per il tragico destino dei figli. E madre fino alla fine, anche se lontana dalla figlioletta illegittima Cosette, è Fantine nel romanzo di Victor Hugo I miserabili’ (1862): una donna che rappresenta l’incoscienza del primo amore, l’amore oblativo di una madre, il ruolo di vittima della morale bigotta dell’epoca. Fantine entra nel romanzo sorridente, radiosa, innamorata, con i capelli d’oro e i denti di perla; esce di scena morendo disperata per non aver potuto vedere la figlia, dopo aver fatto la serva, l’operaia in fabbrica e la prostituta, costretta a vendere denti e capelli per vestire la bambina e acquistare medicine. A lei, lo scrittore dedica molte pagine tra le più commoventi dell’intera opera.

Madre Coraggio e i suoi figli’ (1939) di Bertolt Brecht, è un’opera teatrale scritta alla vigilia della Seconda guerra mondiale, ambientata nella Guerra dei Trent’Anni che insanguinò l’Europa centrale dal 1618 al 1648. Anna Fierling, ‘Madre Coraggio’, è una vivandiera al seguito degli eserciti coinvolti nel conflitto. Non parteggia per nessuno ma il suo credo è la sopravvivenza sua e dei figli . Sfida le cannonate per vendere le sue pagnotte, spostandosi su un carro diventato la sua casa, trainato dai due figli maschi, prendendosi cura particolare della figlia muta Kattrin. I figli muoiono e la donna impara dalla vita ad essere più forte della vita stessa, emblema dell’istinto di sopravvivenza come un animale impegnato nella strenua difesa della propria tana.

Nel 1975 viene pubblicato il libro di Oriana FallaciLettera a un bambino mai nato’, un monologo drammatico effettuato da una donna senza nome e volto, una donna contemporanea priva di biografia, una donna che vive la maternità non come dovere ma come atto responsabile. Le domande che essa affronta, riguardano la legittimità e l’accettazione della nascita di un bambino in un mondo ostile, violento e disonesto. E di una madre al termine della propria esistenza parla ‘L’invenzione della madre’ di Marco Peano (2015). E’ una profonda storia d’amore tra una donna irreversibilmente malata e il figlio che non vuole sprecare nemmeno un attimo di vicinanza alla madre, conscio che niente e nessuno potrà salvarla. Un legame unico e insostituibile, che vive ormai di ricordi, compromessi con le contingenze del quotidiano; un filo che intesse una forma di amore puro e prezioso.

Madri troppo giovani, ancora troppo ‘figlie’ per fare le madri; madri troppo vecchie che vogliono procreare per sentirsi ancora giovani; madri che si arrabattano in contesti sociali difficili; madri che si dimenticano di esserlo. Ma anche madri felici e consapevoli, madri custodi dell’anima, terapeute, maestre di vita, madri adottive dal grande cuore, animi di madre che si prendono cura degli esseri viventi, chiunque essi siano, Auguri!

Razzismo, politica e giustizia al centro della riflessione nei seminari dell’Etica in pratica

L’invenzione delle razze è il titolo del seminario tenuto dal professor Guido Barbujani, genetista, scrittore e docente a Unife che inaugurerà lunedì 13 maggio alle 12,15 al polo degli Adelardi la quarta edizione dei seminari del ciclo l’Etica in pratica organizzati dal professor Sergio Gessi nell’ambito del corso di Etica della comunicazione di cui è docente al nostro ateneo.
Gli incontri hanno lo scopo di approfondire le tematiche affrontate a lezione e di offrire ulteriori stimoli, strumenti di comprensione attraverso l’analisi di casi concreti svolta con l’ausilio di professionisti il cui operare assume un pubblico rilievo.
Con Barbujani si parlerà quindi di multiculturalismo e migrazioni, il giorno successivo, martedì 14 alle 16,15, con l’europarlamentare Elly Schlein si ragionerà invece della politica come passione e servizio, nell’ambito di una riflessione riferita a etica, comunità, rappresentanza.
Infine a conclusione di questo primo ciclo primaverile di “seminari per conoscere, capire e riflettere”, lunedì 20 alle 12,15 il colonnello della Guardia di Finanza, Fulvio Bernabei, in riferimento a etica, diritto, giustizia svolgerà un intervento dal titolo: “Applicare la legge: l’angoscia dei tutori dell’ordine”, che metterà a rilievo quei casi in cui coloro che sono preposti ad applicare la legge sono tenuti a intervenire anche laddove ravvisino elementi di sostanziale ingiustizia dei quali però non possono tenere conto non essendo a loro demandato il giudizio di merito e avendo invece l’inderogabile obbligo della formale e rigorosa applicazione delle normative vigenti.
La partecipazione agli incontri è consentita non solo agli studenti ma a tutta la cittadinanza.

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L’arte del turbamento tra blasfemia e moralismo

Dopo il ‘Cristo LGBT’ o ‘Cristo gay’ di Veneziano, una tela anch’essa molto discutibile che rasenta la blasfemia, esposta a Palazzo Ducale di Massa alcuni mesi fa, rappresentante un Cristo in croce con tanto di slip leopardati e un cartiglio sul palo della croce con su scritto LGBT, al posto dell’usuale INRI, pensavo di aver visto di tutto e di più e, invece, mi sbagliavo.

Apprendiamo dalla stampa che la notte scorsa a Vergato (Bo) è stata imbrattata di letame la statua del noto artista Luigi Ontani, inaugurata pochi giorni fa e posizionata davanti alla stazione dei treni. Questo terribile gesto è da condannare sempre, anche se per onestà dobbiamo aggiungere che era stata molto criticata perché ritenuta discutibile e disorientabile, soprattutto nei confronti dei bambini, e perciò a rischio di vandalismo. Che cosa rappresenta questa “orrenda statua fallica”, come è stata definita da molti osservatori? Un fauno adulto, dal grosso fallo eretto, che tiene sulle spalle un bambino alato aggrappato alle sue corna. Ai piedi un serpente, che dovrebbe rappresentare la libido che si introverte, la zampa e la coscia caprine e l’occhio degli illuminati sull’ombelico.
Bisogna ammettere che l’arte provocatoria è sempre più di moda, dove certi artisti vogliono scioccare lo spettatore e convincerlo che è lui stesso a non capire un’arte troppo spesso incomprensibile. E’ anche vero che l’artista deve essere libero di fare ciò che sente e gli detta il suo estro: noi poi, abbiamo il diritto di giudicare, perché non sta scritto da nessuna parte che gli artisti dovrebbero avere una specie di salvacondotto di incriticabilità.

Il tutto mentre in Italia si coprono le statue “ignude” durante la visita di Rohani, e oggi si vorrebbero coprire le croci nei cimiteri per non “turbare” altre religioni.

Etica, politica e stampa: considerazioni a margine della vicenda Lodi-Estense.com

La buona informazione è come l’ape: punge senza guardare in faccia a nessuno, agendo per istinto naturale. “Cane da guardia della democrazia”, come la definì John Stuart Mill, o “Quarto Potere” come la etichettò Orson Welles, a sottolinearne il ruolo di vigilanza sui tre massimi vertici istituzionali (Governo, Parlamento e Magistratura), la funzione della stampa è quella di tenere d’occhio il comportamento di coloro che la comunità designa come propri rappresentanti, delegati protempore all’esercizio delle funzioni politiche e amministrative; osservarne i comportamenti e le azioni e rendere conto di tutto alla pubblica opinione, del bene e specialmente delle nefandezze, poiché le cose positive sono logicamente promosse e sbandierate dai fautori, mentre i peccati tendono a essere negati e occultati sotto le pietre della vergogna.

La vicenda innescata in questi giorni a Ferrara dall’eccellente servizio pubblicato da Estense.com e firmato dal direttore Marco Zavagli (al quale va l’apprezzamento e la piena e affettuosa solidarietà dei colleghi di Ferraraitalia e mia personale) è in questo senso esemplare, e ha causato vivaci e scomposte reazioni.
L’articolo documenta le cinque condanne penali inflitte al candidato delle Lega, Nicola ‘Naomo’ Lodi, da lui sempre negate e sino ad ora non emerse semplicemente perché tutte hanno beneficiato della non menzione nel casellario giudiziale. Bravi i colleghi a scoprirlo e segnalarlo.

Il diretto interessato ha reagito scompostamente, definendo (secondo quanto pubblicato da Estense) “il collega ‘un verme’” e promettendogli “di aspettarlo sotto lo scalone del palazzo comunale dove davanti a migliaia di ferraresi sarà deriso”, per una sorta di pubblica gogna, dunque, di antica nefasta memoria. Lodi quindi assomma alla precedente menzogna (inaccettabile da un politico), l’aggravante dell’intimidazione.

Il candidato sindaco della Lega, Alan Fabbri, dal canto suo, rivolgendosi a Estense, replica che “agli inutili e insensati attacchi politici rivolti al segretario della Lega di Ferrara Nicola Lodi rispondiamo con un sorriso”. Ma non si tratta di “attacchi politici” quanto della segnalazione di fatti finora ignoti che il cittadino-elettore ha il diritto di conoscere soprattutto ora, al momento delle scelte, in cui va al voto per scegliere i propri delegati. E ben poco c’è da ridere, perché l’evenienza di essere rappresentati da un pluricondannato, a molti riteniamo appaia una fosca prospettiva. E Fabbri, che oggi aspira al ruolo di vertice dell’amministrazione comunale e quindi di rappresentanza della città tutta, di questa sensibilità dovrebbe tener conto. Qui non c’entra la politica, ma la moralità di chi è chiamato a rendere un pubblico servizio alla collettività.

Andrebbe inoltre considerato, con il dovuto rispetto, il ruolo della stampa e la sua insostituibile funzione: nel caso specifico le cose scritte dai colleghi sono fatti documentati e circostanziati. E non si tratta certo di faccende private, come Fabbri lascia intendere per sminuirne il rilievo, parlando di “mezzucci” e tirando in ballo la “privacy”: chi si dispone a far parte di una pubblica istituzione non può pretendere, sotto questo profilo, il rispetto normalmente dovuto a qualsiasi altro cittadino, ma deve disporsi a rendere trasparente l’attività svolta nell’ambito pubblico e nello spazio collettivo, e accettare di essere scandagliato dai riflettori, poiché liberamente si offre come pubblico rappresentante.

Triste è che ad alimentare la campagna di denigrazione web – attraverso una macchina del fango ingrassata da commenti infamanti postati sotto l’articolo di Zavagli secondo un preordinato piano – si sia prestato un giornalista, Michele Lecci, ora responsabile della comunicazione della Lega: un incarico che evidentemente gli ha fatto dimenticare i suoi primari doveri etici e professionali.

Roboante, al riguardo, è apparso anche il silenzio del presidente della locale associazione stampa, Riccardo Forni, e peggiori ancora sono risultate le sue tardive e farfugliate giustificazioni. Il fatto di essere capolista in corsa per un posto in Consiglio comunale a sostegno del candidato Alan Fabbri evidentemente condiziona la sua azione e conferma la necessità delle sue dimissioni, o quantomeno di una sua autosospensione dal ruolo di presidente che tuttora – inopportunamente – riveste. Si tratta di una elementare forma di rispetto nei confronti dei colleghi che già da tempo avrebbe dovuto attuare. Ma qui, in tanti, sembrano avere perso la testa e il senso della misura. Oltre che quello della decenza. E nulla più può esser dato per scontato.

Presentazione “Istanti”

Da: Organizzatori
“Istanti”, il nuovo libro di poesie e racconti brevi di Franco Stefani, verrà presentato sabato 11 maggio alle 18 a Cento, alla Galleria d’arte moderna “Aroldo Bonzagni”. Con l’autore dialoghera l’attore Saverio Mazzoni che leggerà alcuni testi del libro. L’incontro é patrocinato dal Comune di Cento.

Zanotelli: “Abbiamo risorse per fare del mondo un paradiso, ribelliamoci all’ingiustizia”

“Sei persone nel mondo possiedono tante ricchezze quante sono distribuite fra il cinquanta per cento della popolazione mondiale. Ripeto: i sei uomini più ricchi hanno ciò che è suddiviso fra 3 miliardi e 700 milioni di individui. E l’un per cento ha quanto il 90%”. Parla con trasporto Alex Zanotelli, missionario comboniano, per molti anni attivo in Africa e oggi impegnato come prete di frontiera al rione Sanità di Napoli.

Cominciamo dalla fine, padre Alex: come si esce da questo pantano?
Abbiamo il diritto e il dovere di ribellarci, la situazione è intollerabile. C’è bisogno di una rivoluzione culturale se vogliamo uscire dalla situazione drammatica in cui ci troviamo. Il nostro mondo si regge su produzione e consumo ed è su quel meccanismo che dobbiamo far leva per metterlo in crisi… Le banche sono al centro del sistema, abbiamo il diritto di chieder conto di come vengono utilizzati i soldi che depositiamo. Molti impieghi, per esempio, sono funzionali ad alimentare il traffico d’armi. E allora usiamo la minaccia del ritiro. Certo, se lo fa uno conta nulla, ma se lo facciamo in tanti creiamo un cortocircuito. E poi abbiamo il dovere di praticare acquisti secondo criteri etici, verificando che ciò che comperiamo non sia stato prodotto attraverso forme di sfruttamento del lavoro, molto frequente a carico di donne e minori. E in questi casi bisogna boicottare. Ci sono già stati molti episodi che dimostrano l’efficacia di queste forme di contrasto, d’altronde vanno a toccare proprio le arterie del sistema. Boicottaggio, consumo critico e consapevole sono le nostre risorse. Ma dobbiamo muoverci.

Come ci siamo ridotti così?
Dal dopoguerra e fino alla metà degli anni Ottanta comandava la politica, che pur con le sue storture aveva una visione d’insieme. Poi c’è stata l’eclissi della politica e il timone è passato nelle mani dell’economia e della finanza, che hanno un solo obiettivo: il profitto. Oggi tutto è finalizzato alla produzione e al consumo, si generano grandi guadagni, la redistribuzione è minima e il divario fra ricchi e poveri è sempre più grande e inaccettabile. Si muore ancora di fame e tante persone nel mondo sopravvivono in condizioni di miseria estrema. Abbiamo le risorse e le ricchezze per garantire a tutti una vita dignitosa e invece va sempre peggio. Mai come oggi l’uomo ha prodotto tanta ricchezza. E mai come oggi ci sono state tante ingiustizie e tanti squilibri.

E poi incombe la catastrofe ambientale…
Ci restano 12 anni per scongiurare il disastro. Se interveniamo subito ce la possiamo cavare con uno ‘tsunami’, se no andiamo verso un’ecatombe. L’acqua è sempre più scarsa, se le cose non cambiano sarà il petrolio di domani. Chi avrà i soldi potrà permettersi ‘l’oro blu’, gli altri moriranno di sete…

Qualcuno invoca il padreterno.
Dio non si immischia in queste faccende, non viene a far miracoli, lui ci ha messo a disposizione tutto ciò di cui abbiamo bisogno, noi ci siamo inguaiati e ora tocca a noi tirarci fuori.

Però sembriamo quelli del Titanic: l’orchestra suona e noi spensierati corriamo verso il baratro…
E’ così. Ci hanno addormentati con le pantofole davanti alla tv. Manca la consapevolezza della gravità della situazione. Gli organi di informazione in maggioranza assecondano gli interessi ‘dei padroni’, d’altronde giornali e tv sono proprietà dei ricchi che hanno tutto l’interesse a mantenere questo stato di cose. Però, cercando e documentandosi, si trova anche chi segnala i pericoli, il problema è che siamo spesso ottenebrati e fatichiamo a renderci conto del disastro che incombe proprio perché sui canali ufficiali se ne parla solo marginalmente.

Fra le voci fuori dal coro lei considera anche quella di papa Francesco?
Certamente, il papa è straordinario e ha pronunciato parole nette di condanna per questo modello di capitalismo. In “Laudato si’” scrive: “Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”. E in un altro libretto, “Terra, casa lavoro”, sono raccolti i tre principali discorsi di papa Francesco riferiti a giustizia sociale e ridistribuzione delle ricchezze, rivolti ai movimenti popolari. E’ significativo che siano stati pubblicati dal Manifesto. Le sue sono parole chiarissime, ma inascoltate dai potenti della terra. E persino la Chiesa tace, le esortazioni del papa non sono divulgate, neppure ‘Laudato sì’ è stato diffuso nelle parrocchie.

A proposito dei vertiginosi squilibri fra ricchezza e povertà, anche nella conferenza che ha tenuto a Ferrara, allo spazio Grisù su invito dell’associazione ‘Il battito della città’, ha segnalato come fra i sei uomini più ricchi quattro sono i signori del web. E’ un caso?
Certo che no: è la prova che l’informazione oggi è il bene più prezioso, chi la possiede vince. E il web, i social media, il traffico di dati generato attraverso i nostri smartphone rappresentano le fonti di approvvigionamento. Sanno tutto di noi, ci spiano di continuo. Quelle informazioni sono oro, chi le possiede comanda il tavolo. E noi gliele regaliamo, storditi e inconsapevoli dell’uso che ne verrà fatto. Siamo al controllo totale. E’ ridicolo e grottesco che poi ci riempiano di moduli da firmare a garanzia della privacy. E’ carta straccia. Siamo osservati istante per istante. Per dire: il centro controllo del Pentagono è in grado di processare milioni di telefonate al minuto.

Lei per molti anni è stato missionario in Africa, cosa ci dice di quella terra?
E’ un continente piegato agli interessi economici dell’Occidente, che per cinquecento anni è stato padrone del mondo e ha depredato l’Africa d’ogni ricchezza. La tribù bianca ha colonizzato quelle terre, schiavizzato la sua gente, imposto i propri valori. Ma ora è finita l’epoca dell’oro nero, ciò che conta non è più il petrolio, che ormai va ad esaurimento, adesso sono la tecnologia e l’informatica i nuovi motori propulsivi del sistema. Le migrazioni dall’Africa sono conseguenza delle depredazioni compiute dall’uomo bianco, il frutto amaro di un sistema profondamente ingiusto. Anche per questo abbiamo il dovere di accogliere chi chiede ospitalità. E nei prossimi anni a causa delle mutazioni climatiche e dell’aumento delle temperature il fenomeno si intensificherà: si prevedono 135 milioni di migranti in arrivo entro il 2030. Cosa pensiamo di fare? Riace è un esempio per tanti: offrire accoglienza e far rinascere i nostri borghi spopolati. Ma abbiamo visto come si sta cercando di soffocare questo modello. Il processo contro il sindaco Mimmo Lucano è un processo politico, quel che sta avvenendo mi fa piangere il cuore.

Durante la conferenza il pubblico è rimasto impressionato dalla sua capacità di snocciolare nomi, dati e cifre senza mai consultare un appunto…
Ho buona memoria e la tengo allenata leggendo tanto, tantissimo: saggi solo saggi. Gli anni ci sono, ottanta ormai, ma la testa per fortuna funziona ancora bene.

Anche per ragioni anagrafiche è rientrato in Italia e ora ha concentrato il suo impegno a Napoli, rione Sanità. Com’è la situazione?
Difficile, come in tutte le periferie delle grandi città. Se andiamo avanti così fra qualche anno la situazione sarà esplosiva. Questi ragazzini armati di coltelli colpiscono alla luce del sole, animati da una rabbia senza precedenti, figlia di un disagio profondo. Non c’è solo indigenza, ma una totale povertà culturale che forse è anche peggio. Un tempo anche le famiglie più povere si alimentavano di valori morali, c’era il senso della comunità, della solidarietà, il rispetto. Oggi per i ragazzi l’unica cosa che conta è il denaro e per procurarselo sono pronti a tutto, la vita vale nulla. La strada per guadagnare facilmente è la droga, ne circola tanta e questo alimenta i problemi. Servirebbero scuole aperte, inclusione, e invece… E’ anche questa la ragione per cui mi muovo poco e malvolentieri da Napoli, se si vuole avere davvero cura delle persone e delle cose bisogna essere sempre vigili e presenti.

Un’ultima domanda: come fa l’un per cento della popolazione a tenere a freno tutto il resto?
Quel che consente a pochi di fare il proprio comodo sono gli armamenti. Si calcola che siano stati spesi lo scorso anno 1.736 miliardi di dollari in armi e materiale bellico. Se investissimo questi soldi in sviluppo trasformeremmo il nostro mondo nel paradiso terrestre.

Le pagine della vendetta

Il desiderio di vendetta prospera attorno a noi e trova la sua nefasta realizzazione, il suo tragico epilogo, nei fatti di cui leggiamo ormai quotidianamente. La sua presenza, come gramigna infestante, segnala uno scollamento tra senso di giustizia e senso di legalità, facendo perdere i riferimenti a valori certi, a comportamenti ragionevoli e civilmente ammissibili, a una gestione dell’impulso di rivalsa e al senso di impotenza, che spesso l’accompagnano e che conducono a uno sbocco finale potenzialmente distruttivo.
Il desiderio di vendetta è un’emozione che appartiene ai nostri impulsi più elementari e scatta ogni volta che ci sentiamo vittime di ingiustizia, inducendoci a fantasie più o meno elaborate sul modus operandi da adottare e sui possibili effetti. Se da un lato coltivare fantasie di vendetta aiuta a ‘riparare’ e compensare interiormente il senso di giustizia, creando uno spazio di sospensione tra reazione abnorme e impotenza, due eccessi frustranti e pericolosi, dall’altro può alimentare irrazionalità, aggressività, e agire insano, se non governato. Andare oltre il rancore diventa un’elaborazione sempre più difficile, perché significa riconoscere il danno subìto in tutta la sua portata e sospendere ogni azione pur senza privarsi del biasimo, trasformando la concretezza di azioni irreparabili di cui potremmo pentirci, in una visione superiore, più intelligente, al di sopra delle miserie dell’esistenza. E per questo, dobbiamo fare i conti con il narcisismo diffuso, un’affettività che nella nostra epoca si presenta fragile, equilibri relazionali tutt’altro che solidi, assenza di fiducia e considerazione dell’’altro’, superficialità, incapacità di tollerare pesi e sofferenze che vengono risolti d’impulso, sbrigativamente, con drammatici effetti.

Nelle società arcaiche più primitive era la ‘legge del taglione‘ il meccanismo regolatore della convivenza sociale; oggi conveniamo che la vendetta sommaria non rappresenta mai la soluzione migliore per dirimere torti e ingiustizie e lo Stato di diritto ha sostituito iniziative personali arbitrarie. Rimurginare e dare vita alla rabbia e alle emozioni negative può cronicizzare un livello di stress tale da mettere in serio pericolo l’incolumità fisica e psicologica, in una spirale di violenza senza fine (si pensi alle faide fra band criminali, ma anche all’escalation della conflittualità in molti casi di divorzio, separazione, tensioni nella coppia e nel vivere sociale quotidiano).

La vendetta è il sentimento meschino che nutre abbondantemente anche la letteratura, perché non si finisce mai di sondare l’animo umano, scandagliare emozioni e sentimenti, scrivere di quegli aspetti oscuri che altrimenti verrebbero tenuti nascosti, riflettere sulle luci ed ombre che ci appartengono, in ogni epoca e in ogni luogo. Dante Alighieri catapulta nell’Inferno tutti i suoi nemici personali tra i quali Bonifacio VIII, ancora vivente all’epoca della stesura, al quale preconizza l’Inferno, secondo la pena destinata ai simoniaci: conficcato a testa in giù in un foro. C’è anche l’avversario politico Farinata degli Uberti, che appare con le fattezze di una statua, di cui Dante però riconosce la grandezza. Una sorta di giustizia personale che dipende dal ‘verdetto’ che ognuno di noi, giudice implacabile, emette su azioni e comportamenti degli altri nei nostri stessi confronti e crea un contesto in cui la “vittima” diventa giudice e aguzzino. Nella mitologia nordica, la ‘dea’ vendicatrice è personificata da Crimilde, principessa dei Burgundi che, per vendicare la morte dell’amato Sigfrido, sposa Attila re degli Unni e fa sterminare il proprio popolo ottenendo, secondo profezia del mago Hugen, anche il tesoro del Reno. Vendette risarcitorie, vendette d’onore, vendette avide di giustizia mosse dall’ambizione, dall’empietà, dal dolore. Le vicende de ‘Il conte di Montecristo’ di Alexandre Dumas padre (1844), la storia del diciannovenne marinaio Edmond Dantés, il sedicente Conte di Montecristo, sono ispirate a una vicenda realmente accaduta nella Francia napoleonica. L’elemento della vendetta percorre tutto il romanzo e fa da sfondo alla condanna del giovane, imprigionato al castello d’If, prigione di Stato, su un’isoletta al largo di Marsiglia. Lo accompagna nei 14 anni di detenzione, nelle sue ricerche di informazioni, nei colpi di scena avventurosi e, alla fine, nella realizzazione di quei disegni di riabilitazione e rivalsa che lo avevano sostenuto nella disperazione. La vendetta si concretizzerà nell’eliminazione sistematica dei nemici, di tutti coloro che hanno avuto parte nella sua epopea. E di profondo risentimento che chiede rivalsa parla anche il romanzo di Emile Zola del 1867, ’Teresa Raquin’, dove la vendetta arriva inaspettata, all’improvviso, come nemesi fatale che rimescola le carte della vita. Teresa e il marito Lorenzo, avvertono sempre più pressante il peso dell’omicidio di Camillo, cugino e primo marito della donna, ordito dalla coppia. Dopo aver sfruttato l’anziana zia per anni, giungono all’omicidio-suicidio lasciando soddisfatta l’ormai invalida, finalmente libera dal sentimento di odio covato da tanto. ‘I cani là fuori’ di Gianni Tetti (2011), è una raccolta di storie di cinismo e crudele vendetta, non importa se commissionata, eseguita d’impulso o giunta dopo anni. Una ragazza che sconta gli errori di due famiglie, un padre violento trovato morto in un cassonetto, un malavitoso a cui viene commissionato ‘un lavoretto’, un bambino che decide di ‘sparire’ e altri individui, animano i racconti, mettendo in luce uno dei lati più sinistri dell’esistenza umana: il farsi giustizia da sé. Istinti, vite e pensieri borderline di persone che non posseggono una reale coscienza, o forse ne hanno troppa. “Un cecchino si apposta, sistema l’arma, guarda tutto il tempo nel mirino, e non si muove finchè non gli dicono di muoversi, o finchè il bersaglio non esce allo scoperto. Allora spari, e speri di tornare a casa il prima possibile”. Sogni infranti e incubi ricorrenti che esplodono negli istinti primordiali, uscendo dai meandri più reconditi della mente; anime deviate che si risolvono nella stessa violenza malata di cui sono involontariamente state oggetto, scambiando continuamente i ruoli di vittima-carnefice. ‘Il viaggio della vendetta’ di Rosemary Rogers (2011), una delle regine del romance epico, è ambientato tra America e Inghilterra tra il 1810 e il 1819. E’ la storia della giovane Celia Sinclair, che approda a Londra dall’America, animata da un forte desiderio di vendetta per la morte della madre, la cui rovina è da attribuire al visconte di Northington, colui che le ha distrutto la vita. Un continuo alternarsi di sensi di colpa, relazioni laceranti, rabbia, sospetto, che confluiscono in un’unica tematica: la volontà di arrivare a farsi giustizia.

Possiamo dare alla vendetta tutti i connotati che vogliamo definendola, con Oriana Fallaci, volgare come il rancore, oppure assimilabile all’impotenza, come ebbe a dire George Orwell. Francis Bacon scriveva che, nel vendicarsi, un uomo è soltanto pari al suo nemico e Alda Merini sosteneva che la miglior vendetta è la felicità, che fa impazzire il nemico. Resta il fatto che la vendetta è una pulsione orribile, un gesto estremo anche quando è sostenuta dalle ragioni, che trova forma e terreno in un mondo duro, smarrito, che non sa dare spesso risposte. Riappacificare, empatizzare e, se possiamo, ‘perdonare’ nel senso laico del termine, prendendo le distanze dagli eventi scatenanti, potrebbe dare un valido supporto alla gestione delle emozioni per ripristinare relazioni ed equilibri sani.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Tutti presenti e assenti

Da sempre la città è il luogo dei pensieri. Perché la città è vicinanza, è prossimità, e i pensieri per nascere ed essere condivisi di questo hanno necessità. La nascita delle università nei centri urbani questo prometteva e questo ha permesso.
La grandezza di una città è sempre venuta dalla cultura e dall’intelligenza della sua gente. Era così ai tempi della Firenze di Brunelleschi, Donatello e Masaccio, come per la Ferrara di Francesco del Cossa, Cosmè Tura e Ercole de Roberti.
Così è ancora oggi, con l’innovazione tecnologica che ha accresciuto i benefici di un sapere migliore se prodotto da persone che stanno in prossimità di altre persone.
Ci sono città come Detroit, come Chicago e come altre ancora nel mondo che nell’era post-industriale non potevano più essere quelle di prima e si sono reinventate. Per questo le città hanno bisogno di pensieri.
La forza che si ricava dalla collaborazione tra gli individui è la principale ragione per cui esistono le città.
A salvarci non potrà che essere la qualità delle persone, in particolare la qualità del capitale umano. A crescere il capitale umano sono le città, ma bisogna che se ne occupino.
Occorre convincersi che la conoscenza diffusa è il primo ingrediente di cui abbiamo bisogno. E non si tratta solo della conoscenza che si apprende sui banchi di scuola e nelle aule universitarie. Neppure di quella episodicamente attinta ai musei, alle mostre e agli eventi.
La conoscenza che consente di essere se stessi, di migliorarsi, di apprendere a pensare e a capire, a produrre idee ed opinioni, a scegliere e criticare, a sperimentare ed inventare. La conoscenza che è dialogo e confronto, ragionamento e approfondimento, che è anche somma di competenze antiche e nuove da recuperare.
La conoscenza attiva che consente di partecipare della propria contemporaneità, da competenti, senza dover subire i bagni invasivi dell’informazione.
Occorrono politiche della città che stimolino il pensare e favoriscano ogni occasione di circolazione del sapere. Che diano visibilità attraverso l’informazione, col metterle in rete, a tutte le opportunità di apprendimento che la città offre, evitando che si disperdano nell’aria come monadi in esilio.
Occorre tenere aperte le scuole sempre, alla sera come nei giorni di festa, affinché divengano luoghi di iniziative di apprendimento continuo, di opportunità per tutta la popolazione per recuperare e accrescere i propri saperi, ma anche luoghi di convivialità e di familiarizzazione. Bisogna dare vitalità, progettualità, forza propositiva al Centro provinciale per l’istruzione degli adulti, evitando che si trasformi in un ghetto di recuperi e integrazioni, ma divenga un luogo famigliare per tutti e per tutti i bisogni formativi, un luogo di offerte e di orientamento, un luogo di iniziative diffuse con cui contaminare la città.
Fare della cura dei saperi e degli apprendimenti della popolazione dai più piccoli ai più grandi uno degli impegni centrali dell’amministrazione comunale, una festa cittadina, perché il diritto al sapere è un diritto universale che non si interrompe mai, che accompagna tutta la vita, per questo, appunto, si chiama educazione permanente.
È la rete delle “città che apprendono”, il “Global network”, la rete internazionale delle “Learning cities” che dal 2015 l’Unesco ha promosso, tesa a valorizzare le esperienze di formazione diffusa e continua, anche attraverso l’uso delle moderne tecnologie, nelle città. Il ‘Learning City Award’ è il riconoscimento dell’Unesco che incoraggia e premia i progressi compiuti dalle “città che apprendono” in tutto il mondo.
Sono 205 le città che aderiscono alla rete mondiale promossa dall’Unesco. L’Italia non c’è, fatta eccezione per Torino e Fermo. Non a caso l’analfabetismo funzionale colpisce il settanta per cento della nostra popolazione adulta.
Sono anni che da queste pagine chiediamo che la nostra città, città del Rinascimento, per questo patrimonio dell’Unesco, aderisca alla rete globale delle “città che apprendono” e che l’amministrazione cittadina ne faccia propri gli impegni. Chiunque apre le pagine web del nostro giornale s’imbatte nel manifesto ‘Ferrara Città della Conoscenza‘.
Eppure la distrazione, o l’impreparazione, di chi ci governa e di chi si candida a governarci continua ad essere preoccupante, come se tutti fossero presenti ma assenti. Assente è anche la nostra università, che pure ha aderito alla rete europea delle Unitown, ma non si fa promotrice, a partire dal suo dipartimento di Scienze dell’Educazione e della Formazione, dell’adesione al ‘Global network of learning cities’.
Apprendimento e conoscenza sono le vere sfide che ognuno di noi ha di fronte e, con noi, soprattutto le giovani generazioni. Questo è un impegno che non può essere più sottovalutato e, quindi, mancato.
Pensare che infrastrutture, turismo, imprese vengano prima a prescindere dall’acquisto continuo dei saperi e dalla loro diffusione è una grande illusione e non può che promettere alla città un futuro sempre più povero umanamente ed economicamente.

Un mondo sempre più vecchio e sempre più iniquo

Il mondo invecchia. A dircelo è l’Institute for Health Metrics and Evaluation di Bill e Melinda Gates con un grafico che mostra l’età media nel 2017.

Nei primi posti dell’invecchiamento ci sono la maggior parte dei Paesi europei, quattro dei quali nei primi cinque

Posizione Nazione Età media Regione
1 Giappone 47 anni Asia
2 Germania 45 anni Europa
2 Italia 45 anni Europa
3 Grecia 44 anni Europa
3 Bulgaria 44 anni Europa
3 Portogallo 44 anni Europa

Seguono con un’età media di 43 anni: Austria, Croazia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Spagna e, unico Paese non europeo, Bermuda.

La classifica non tiene conto dei paesi estremamente piccoli come il principato di Monaco che, se considerato, diventerebbe il Paese più vecchio in assoluto con una età media di 53 anni.

L’Africa, invece, è il continente che ha i paesi con l’età media più bassa, due addirittura si fermano a quattordici anni mentre ben altri 7 paesi si devono “accontentare” di occupare la seconda posizione con sedici anni di età media.

Posizione Nazione Età media Regione
1 Chad 14 anni Africa
1 Niger 14 anni Africa
2 Afghanistan 16 anni Asia
2 Angola 16 anni Africa
2 Burkina Faso 16 anni Africa
2 Mali 16 anni Africa
2 Somalia 16 anni Africa
2 Sudan del Sud 16 anni Africa
2 Uganda 16 anni Africa

Unico paese non africano in questa classifica è l’Afghanistan, il cui primato probabilmente è dovuto alle devastazione della lunga guerra ancora in corso.

Seguono altri paesi con un’età media di 17 anni: Benin, Burundi, Etiopia, Madagascar, Malawi, Nigeria, Tanzania, Zambia, Yemen e Timor-est. Anche qui tutti africani fuorché gli ultimi due.

Secondo alcune proiezioni dell’Onu che arrivano fino al 2060 si prevede che l’età media in alcuni paesi europei arriverà addirittura ai 50 anni, in particolare in Spagna, Italia, Portogallo e Grecia, e successivamente Germania, Polonia, Bosnia e Croazia.

Tutti i paesi nord-americani supereranno i 40 anni di età media (Canada 45 anni e Messico 44 mentre gli Usa si manterranno mediamente più giovani a quota 42 anni). Più vecchi al Centro e Sud America dove il Brasile raggiungerà i 47 anni di età media.

L’invecchiamento procede di pari passo con l’aumento della popolazione. “Prevediamo ancora che per il 2050 la popolazione raggiungerà i 9,1 miliardi” ha dichiarato Hania Zlotnik, direttore della Divisione Popolazione del Dipartimento degli Affari Economici e Sociali (Desa), presentando quest’anno la Revisione 2008 del ‘Word Population Prospects’. Secondo il documento nove paesi contribuiranno per metà all’incremento mondiale nel periodo compreso tra il 2010 e il 2050: India, Pakistan, Nigeria, Etiopia, Stati Uniti, Repubblica Democratica del Congo (Drc), Tanzania, Cina e Bangladesh.

E’ importante notare che la popolazione dei paesi in via di sviluppo passerà dai 5,6 miliardi del 2009 ai 7,9 miliardi nel 2050, mentre la popolazione delle regioni più sviluppate non cambierà di molto, passando da 1,23 a 1,28 miliardi.

Dovrebbe spaventarci di più la crescita della popolazione oppure il suo invecchiamento? Dipenderà tutto probabilmente dal tipo di sviluppo.

John Maynard Keynes spiegava nel 1936, quando usciva la ‘Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta’, che il capitalismo aveva due grossi difetti. Il primo era quello di non essere in grado di garantire tassi di disoccupazione sufficientemente bassi, il secondo che provocava una ripartizione della ricchezza arbitraria e priva di equità. Creava cioè disuguaglianza.

Oggi che il capitalismo è diventato finanziario e ha mostrato la sua parte peggiore, possiamo apprezzare la sua analisi in tutta la sua attualità, infatti, secondo il World Inequality Report  2018 presentato a Parigi alla metà di dicembre scorso, “A livello mondiale, tra il 1980 e il 2016 l’1 per cento più ricco della popolazione mondiale ha intascato il doppio della crescita economica rispetto al 50 per cento più povero”, ha spiegato l’economista Lucas Chancel, principale coordinatore del rapporto.

Questo grafico mostra come la mancanza di equità nella distribuzione della ricchezza vari significativamente da regione a regione. Nel 2016, la porzione di reddito nazionale intascato dal 10 per cento più ricco è stata del 37 per cento in Europa, del 41 in Cina, del 46 in Russia, del 47 in America del Nord e attorno al 55 per cento nell’Africa subsahariana, in Brasile e in India. Fino a toccare la punta massima nei paesi del Medio Oriente, con il 61 per cento.

Uno sviluppo basato sull’accumulazione finanziaria perpetrato da una piccola parte della popolazione mondiale che detta le condizioni e impone le soluzioni, creerebbe un mondo di tensioni e una moltitudine di persone costretta a elemosinare pane e lavoro. Laddove la moneta continuasse ad essere un bene da tesaurizzare, i debiti un male da punire e la concorrenza il motore della crescita sappiamo fin da ora che sarebbe impossibile fornire un minimo di previdenza sociale, sanità o pensioni. L’unico futuro possibile allora sarebbe quello di un mondo di anziani super potenti con libero accesso a tutte le risorse, mentre il resto della popolazione giovane lavorerebbe per fornirle.

Altra soluzione, auspicabile, sarebbe la fine di questo tipo di capitalismo in favore di uno sviluppo equo e solidale nei confronti dei più deboli, di noi stessi e della natura che ci ospita. Basato sulla tecnologia che è già in grado di assicurare il necessario a tutti con il minimo sforzo e ancora di più ne sarà capace domani. Un’ipotesi del genere dovrebbe necessariamente prevedere la fine dell’accumulo finanziario, dello sfruttamento delle risorse umane e naturali e una netta separazione tra finanza e beni reali, i quali andrebbero equamente distribuiti.

DIARIO IN PUBBLICO
Il mio 25 aprile 1945

Cosa può testimoniare chi il 25 aprile 1945 aveva esattamente 7 anni e 44 giorni?
Eppure da quella data comincia la consapevolezza, una consapevolezza che diventa storia della mia vita e delle mie scelte etiche, culturali, politiche.

In breve. Mio nonno materno, munito di una scolarizzazione che si è fermata alla terza elementare, dalla natia Porotto si reca in città a far fortuna. Nel frattempo mette al mondo sette figli, ultima mia madre, la più bella, che si avviano a diversi destini e scelte: uno militare, l’altro pezzo grosso del fascismo locale, il terzo soccombe negli scontri del 1924 tra fascisti e sinistra. Questo zio rimane ucciso e alla sua memoria il nonno innalza un tempio funebre alla Certosa dove ai lati del timpano sono scolpiti due enormi fasci. Qui, da allora, ogni domenica il nonno si recava portandoci con lui e raccontandoci all’andata la storia della ‘Divina Commedia’ come un semi-analfabeta poteva recepirla, mentre la nonna si chiude in casa e non fa più nulla: legge solo. Di tutto. Nel bombardamento di Ferrara del 1943 il nonno perde il suo patrimonio edile; perfino la bellissima casa natale verrà alienata. Ci ritiriamo in una piccola casa in via Saraceno, a pochi passi dalla via dei Sabbioni e dall’ex ghetto ebraico. La mamma, abbandonata dal marito, diventa ‘la tabacara dal Liston’, ovvero vende sigarette in un negozietto costruito allora sul Listone, la lunga striscia di terreno che costeggia il lato lungo della Cattedrale. L’esperienza della guerra è stata terribile: vivevamo in due stanze in cinque in una bellissima villa – la Villa delle Statue – a pochi chilometri dalla città. Nella stalla erano radunate le armi e gli esplosivi dei tedeschi che per impedire ai bambini di avvicinarsi distribuivano caramelle amare come il fiele. L’unica consolazione fu ammaestrare un tacchino tenuto al guinzaglio che inevitabilmente nella Pasqua del 1944 è finito sul tavolo.

La mattina del 25 aprile il nonno ci prende per mano, mentre trascino faticosamente il mio cane di legno snodato mio fratello fa i rumori di un auto in corsa. Arriviamo al cimitero. Il nonno prende una lunga scala e furiosamente scalpella dal timpano i fasci che vi erano scolpiti; poi, rivolgendosi a mio fratello che come secondo nome porta quello dello zio ucciso, gli impone di rispondere solo quando lo si chiamerà col suo primo nome: Umberto. Torniamo di fretta a casa. Dopo un poco cominciano a passare gli alleati tra gli applausi della folla e io eccitatissimo frugo nell’armadio della mamma: trovo un foulard e mi metto a sventolare. Due sonori schiaffi e la cacciata in bagno segnano il mio entusiasmo. Perché? Mi domando. Solo dopo anni l’ho saputo. Il foulard era di un rosso acceso! Frattanto in casa la parola fascista è abolita. Si parla solo di monarchia e di democrazia cristiana. Mi piaceva sentirmi monarchico. Una specie di nobiltà farlocca. Nel frattempo mio fratello è a scuola con Guido Fink. Diventiamo amici – e mai avrei pensato che sarei diventato suo collega a Firenze – mentre pian piano si snodano i piccoli avvenimenti quotidiani. La razione di legna da portare a scuola per scaldarci, le stoffe Unra, il difficile compito che mi era affidato (l’età dell’innocenza): andare dal panettiere a chiedere di segnare il conto che avremmo pagato a fine mese. Frattanto vengo praticamente adottato da amici carissimi e facoltosi che diverranno i miei nonni adottivi. E pian piano questa famiglia piccolissimo borghese che si lavava il sabato nel mastello comune in cucina comincia a rivelare il suo destino. Gian Antonio, il genietto, è destinato alle lettere, ma comunque la mia scelta è la lettura! Lo zio amico dei federali ferraresi ritorna dall’esilio sardo, gestirà la tabaccheria.

La moglie erede di una dinastia di grandi vinai trasferita in Canada se ne va. Si scoprirà che era una spia inglese. Sposerà due miliardari uno dopo l’altro. Torna lo zio militare dall’India e ci prende sotto la sua protezione. Niente politica, solo dovere e dovere di essere bravi figlioli. Mio fratello tenta invano di entrare in accademia militare. Non può perché figlio di separati. Leggo, leggo sempre di più, assistito da un vero maestro: Claudio Varese. Ma rimango monarchico e mi commuovo sul re di maggio… e sul destino di Sciaboletta. Poi l’Università e l’incontro con l’altro grande maestro: Walter Binni. Al primo colloquio mi domanda subito: ‘Come la pensa politicamente?’ Non ho esitazione. Monarchico rispondo. Nel pomeriggio ricevo una telefonata da Claudio Varese che mi domanda se ero impazzito, riferendomi lo sdegno di Binni. E da allora angosciato di aver deluso un tale studioso, uomo della Costituente, mi metto a riflettere ‘politicamente’; finché ho trovato la mia via: quella di sinistra.
Mentre rivedo ‘Roma città aperta’ per l’ennesima volta mi domando angosciato: sarà vero che cambieremo così totalmente? Che l’anima populista e sovranista vincerà?

Si snoda il tempo. Nel mio campo ricevo fiducia e forse consenso; poi la politica s’impone e si scontra col mio spirito libero e vengo, come a 7 anni, trascinato per mano per demolire ciò che non vorrei fare. Ho dato tanto a questa città,’Ferara’, forse troppo, per amore di un luogo, di una patria che mio padre mi aveva negato. Ora aspetto la fine del corridoio della vita nel Centro Studi bassaniani o nella Bassano di Canova. Ma è giunto il momento (un carissimo amico mi dice che si tratta di rivendicare la competenza) di alzare la voce. Riconoscere gli errori. Ammetterli e tentare di ricostruire ciò che noi stessi abbiamo purtroppo dimenticato. La liberazione. La liberazione di qualsiasi accostamento con tutto ciò che si chiama e si chiamerà fascismo.

Siamo stati una famiglia dove il fascismo era una condizione ‘naturale’. Ora è con orgoglio che ricordo come lo zio militare è stato insignito della medaglia d’oro e pure la zia ‘Leia’ (così pronunciavamo il nome della zia maestra che ci portava al mare) anch’ella medaglia d’oro. E tutto questo perché del fascismo ci siamo liberati.

Poesia per un giorno di libertà

Un prato folto di margherite
e di gialli fiori di tarassaco
che il sole fa più brillanti ancora
è la vacanza che ti posso offrire.
Non la rifiutare, tu che giri il mondo
e torni avendo scordato tutte
le estreme emozioni. T’invito
ad essere profonda, a ripensare
al fiore che ricresce ad ogni stagione
e rende questa vita meno grigia.
Còricati, distendi il tuo corpo
su questo lembo dell’universo,
dimentica la finitezza del tuo essere,
riannodati alle radici, imbeviti di luce.

(25 aprile 2019)

LA FOTONOTIZIA
Buon 25 aprile!

Anche a Ferrara il 25 aprile, la Festa della Liberazione, è stata un’occasione per ritrovarsi insieme, faccia a faccia, i momenti nei quali, dopo anni di dittatura e di guerra, il nostro Paese è tornato ad essere libero e democratico: un passaggio sancito definitivamente poi dal referendum del 1946 e dalla elaborazione e approvazione della nostra bellissima e ancora più che attuale Carta Costituzionale.
Attuale, perché non ancora attuata fino in fondo, perché sancisce valori che non possiamo far ‘passare di moda’, perché per costruire un futuro di speranza, bisogna andare con la memoria a quegli anni in cui si è usciti finalmente da anni di paure e sospetti.

Il nostro Valerio Pazzi ha seguito ‘LiberAzione’, lo spettacolo teatrale che è ormai appuntamento consueto del 25 aprile ferrarese, e il concerto che è seguito, con la partecipazione del Coro delle mondine di Porporana Yoruba.

Clicca sulle immagini per ingrandirle.

Fascismo è il contrario di libertà: Resistenza per un mondo senza oppressi né oppressori

di Cristiano Mazzoni

Ha ragione signor Ministro, lei col 25 aprile non c’entra niente. Noi il 25 aprile del 1945 abbiamo vinto, abbiamo abbattuta la dittatura nazi-fascista, lei signor ministro ha perso. Giusto, vada a festeggiare la più bella festa dell’anno a Corleone o a Cinisi. Le ricordo però che “Cosa Nostra”, odiava realmente solo un partito, il mio, non il suo. La mafia dalle origini pasteggia con lo Stato, e coi padroni del vapore, il prefetto Mori inviato da Mussolini, ottenne in realtà dei risultati, che sparirono appena il prefetto lasciò l’isola, e “l’onorata società” aderì in blocco al fascismo.
Quindi, signor ministro lei fa assolutamente bene a non festeggiare, l’antifascismo, non è roba per lei. I nostro nonni combatterono e morirono in montagna e nelle valli, nelle città, nei paesi e nei borghi, i nostri padri fronteggiarono la Celere di Scelba, rivisitazione post fascista del sopruso e della violenza dopo la guerra, noi siamo i discendenti di quei combattenti, di quei giovani che credettero in un mondo migliore, quello stesso mondo che lei ora divide per razze e racchiude entro muri.
La Costituzione repubblicana è figlia di quel 25 Aprile, lo sviluppo, le lotte sindacali, i diritti comuni, la libertà, rinacquero quel giorno.
In Italia per vent’anni – lunghi e bui anni – la dittatura con l’arma del ricatto e della violenza, pasteggiò con le anime dei morti in guerra, dei morti a causa delle leggi razziali, dei morti fucilati, o picchiati in seguito alle scorribande delle camice nere.
E no, non fece anche del buono signor ministro, legga meglio, si informi, Inps, Inail, pensioni, diritto di voto iniziarono prima il loro percorso e lo finirono dopo la guerra, sempre grazie a noi.
Certo, infrastrutture e bonifiche vennero fatte, ma nello spirito di una finta autoreferenzialità, per dimostrare quanto la dittatura fosse potente.
I morti, signor ministro non furono tutti uguali, durante la guerra civile, da una parte i patrioti, dall’altra quelli che vendettero l’Italia allo straniero, che la condussero in guerra, che causarono centinaia di migliaia di morti, altroché qualche migliaia “per sedersi al tavolo delle trattative”.
Il revisionismo oramai ha contagiato l’intero Paese e lei signor ministro ne è l’espressione massima.
Fascismo, non è il contrario di comunismo, è il contrario di libertà
E poi smettetela di affiancare una teologia del sopruso e della forza, quale fu il fascismo ed il conseguente nazismo, con l’ideale che Marx teorizzò nel Manifesto e nel Capitale.
Libertà contro oppressione, finitela di tirare in ballo Stalin e Pol Pot, i dittatori sono tutti uguali, le idee e le ideologie no. Le brigate Garibaldi, le brigate di Giustizia e Libertà, le Brigate Bianche, liberarono l’Italia spargendo il loro sangue giovane sulle baionette degli oppressori, non era un derby, signor ministro.
Per me l’unico derby è quello col Bologna, la liberazione d’Italia fu la speranza di un popolo oppresso che spezzò a forza le proprie catene, come è possibile dimenticarlo?
Il mio cuore il 25 Aprile sarà ovunque un fiore rosso indichi il luogo del martirio di un partigiano, perché la Resistenza per noi non è un semplice esercizio della memoria, ma un punto di arrivo, nella infinita ricerca di un mondo migliore, senza oppressi e né oppressori.
E lei signor ministro, fa bene a non festeggiare la nostra festa, si mangi un buon piatto di bucatini, perché lei con gli ideali della resistenza, davvero, non c’entra nulla. Ora e sempre, resistenza.

BORDO PAGINA – Franco Cardini
“Noi schiavi della ‘ruota dei dannati’: produzione-consumo-profitto”

Cardini, la sua produzione/ricerca è da sempre politicamente scorretta: per fortuna nessuno discute la sua autorevolezza, tuttavia spicca anche certo andazzo, spesso è bollato di pensiero reazionario, ci pare per questioni meramente ideologiche… Perché in Italia l’Ideologia è come una “religione”e subordina la Cultura?
Di solito a sinistra mi bollano come reazionario, se non come fascista (termine ormai divenuto incomprensibile dato il suo ingiustificato abuso); a destra mi danno del comunista e/o del filoislamico. A chiunque mi chieda se io sia l’una o l’altra cosa, io rispondo di solito “faccia lei”. A giudicare dalla Sua domanda, Lei si riferisce evidentemente a critiche “da sinistra”: se non altro la sinistra, pateticamente, polemizza ancora su cose che essa definisce “cultura”. Mi pare commovente.

Cardini, Lei ha liberato il cosiddetto Medioevo da secoli bui di pensiero unico Illuminista e da certi stereotipi: tuttavia non è ancora pensiero comune o intellettuale. Orwell il suo famoso libro l’ha in realtà scritto nel 1384?
Orwell il suo libro lo ha scritto esattamente quando doveva scriverlo, solo che è partito da un’intuizione geniale ma sbagliata di 180 gradi. Il futuro totalitario ch’egli immagina è tale in termini che sono fantanazisti o fantastalinisti; come avrebbe mai potuto immaginare, ai suoi tempi, un totalitarismo liberal-liberista, una tirannia fondata sul “pensiero unico” e sul politically correct? Ciò rischia di superare ancor oggi, perfino oggi mentre ci stiamo in mezzo,qualunque immaginazione.

Cardini, il “futuro anteriore” a spirale.. e non “lineare” che Lei ha scoperto (certo cosiddetto Medio Evo precursore proprio del Rinascimento e della cosiddetta modernità- ma anche certo Islam e/o pensiero arabo- Avicenna ecc… ben diversi da certa realtà e/o percezione contemporanea) nella sostanza (succintamente) non rigenera anche il “modernismo” contemporaneo dopo certa tabula rasa di certo Grande Passato del “postilluminismo”, liberandolo dalle sue contingenze e fanatismi “storici”.
Nel “futuro anteriore” a spirale c’è un elemento incontrollabile: la variante “imponderabile”, come diceva Pareto; o lo Ezba Elohim, il “dito di Dio”, come nella Bibbia dicono i sacerdoti-maghi al Faraone dopo il prodigio della verga di Mosè mutata in serpente.

Cardini, un breve sguardo sul futuro, come “capta” l’anno… 2100?
Anzitutto, con realistica malinconia, come un orizzonte che non potrò vedere: e me ne dispiace, perché credo sarebbe interessante. Diciamo comunque che “capto” il futuro in modo analogo a come lo “captano” Chomsky, Latouche e Stiglitz: o ci liberiamo dalla “ruota dei dannati” produzione-consumo-profitto che tra XVI e XX secolo ha spinto l’Occidente ad asservire la terra ai suoi progetti di arricchimento e di progresso tecnologico-scientifico illimitato, se non recuperiamo la cultura del limite e il senso del limite, al XXII secolo non ci arriveremo o ci arriveranno in pochissimi, come miserabili superstiti di una qualche catastrofe (è umanamente considerabile come verosimile che la terra rigurgiti di testate nucleari e nessuno le usi mai, o mai accada un errore di gestione, un banale incidente?); dopo di che tutto potrebbe ricominciare da capo per alcuni altri millenni, non so… Ma non è detto: l’uomo propone, poi Dio dispone: e allora, quando ci sentiamo forti, sicuri, inarrestabili, arrivano sempre gli unni, o i mongoli, o la Peste Nera.

Link:
https://www.francocardini.it/
https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Cardini

Per non rimpiangere il patrimonio dell’umanità

1666 non è un richiamo ad un personaggio satanico, ma è l’anno in cui il Grande Incendio sconvolse l’architettura e la topografia di Londra determinando la fine anche della grande peste. Da ieri Parigi deve rimpiangere la perdita di Notre-Dame. Mentre sto scrivendo, il personale del Museo Nazionale del Brasile di Rio de Janeiro sta passando in rassegna i resti recuperati dall’incendio avvenuto il 2 Settembre 2018. Alcuni di loro hanno rischiato la vita per salvare oggetti preziosi mentre l’inferno ancora imperversava. Il Museo, fondato nel 1818, custodiva circa 20 milioni di oggetti rappresentanti il patrimonio geologico, biologico, archeologico e storico del Brasile. La perdita per i brasiliani è incalcolabile ed irrimediabile, ma il danno è anche per l’intera umanità. L’eredità della conoscenza contenuta nelle collezioni museali apparteneva a tutti noi. Ciò che è particolarmente sconvolgente è che la distruzione era prevedibile. Il museo ha sofferto per decenni di abbandono ed il sistema antincendio era completamente obsoleto. I costi per mantenere adeguatamente il museo erano una frazione infinitesimale dell’incredibile somma spesa per le recenti Olimpiadi. Le Olimpiadi sono durate poche settimane. Il museo, più antico del riconoscimento della Repubblica Federale del Brasile (1825), avrebbe dovuto sopravvivere per i secoli a venire. Così quanto Notre-Dame e tutte le altre cattedrali e musei al mondo.
La perdita del Museo Nazionale del Brasile è appena l’ultimo di una serie di recenti ed irreparabili danni al nostro patrimonio culturale. Il Museo Nazionale dell’Iraq è stato saccheggiato e pesantemente danneggiato durante la guerra del 2003. Lo stesso è successo per il Museo Nazionale dell’Afghanistan da quando è iniziata l’invasione russa durante gli anni ’80. E poi tutti i siti archeologici distrutti in Siria.
Una simile distruzione, a scala inferiore, avvenne a Chicago. Il palazzo originale, le collezioni e la biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Chicago, il museo più antico della città, furono distrutti dal grande incendio del 1871. L’Accademia venne ricostruita e le sue attuali collezioni naturalistiche di incalcolabile valore scientifico rappresentano molte specie di organismi oggi estinti nella regione di Chicago.
Tutti i nostri musei, piccoli o grandi, e le relative biblioteche sono depositi del patrimonio della nostra regione, della nazione e del Mondo. I nostri musei sono molto più di un’attrazione (e richiamo turistico) per una mostra sui dinosauri o su Leonardo Da Vinci. Nascoste alla vista ci sono collezioni molto più grandi che documentano la portata della consapevolezza umana del mondo naturale e culturale. Le minacce ai nostri musei non sono solo il fuoco o le inondazioni, ma anche l’erosione della base di conoscenze posseduta dai curatori, gli specialisti nei contenuti delle collezioni e del loro valore scientifico.
Molti musei stanno soffrendo difficoltà economiche. Alcuni piccoli musei stanno chiudendo, altri riducono il personale. I fondi destinati ai musei civici, nazionali ed universitari si riducono sempre più. Negli Stati Uniti, ad esempio, i fondi destinati ai musei si sono ridotti notevolmente. Nel 2000 la città di Chicago finanziava il Field Museum con 7.4 milioni di dollari che sono diventati 5.4 nel 2013, somma mai più modificata. La perdita dei curatori scientifici è poi patologica anche per il famoso Smithsonian National Museum of Natural History di Washington D.C. Ci sono responsabili delle collezioni, ma non curatori scientifici. La perdita dei curatori significa che, mentre le collezioni possono essere mantenute, non c’è nessuno addetto ad implementarle, aggiornarle o utilizzarle pienamente. Uno studio appena pubblicato  suggerisce che nelle collezioni museali paleontologiche ci sono almeno 23 volte più località fossilifere che non località presenti nella letteratura scientifica pubblicata. In altre parole, per ogni dato scientifico ricavato, per esempio, da un esemplare fossile ben studiato ed esposto in una sala del museo, ci sono altri 23 dati scientifici in attesa di essere scoperti negli oscuri magazzini dell’istituzione museale. Sospetto fortemente che lo stesso sia vero per gli insetti, le piante, gli uccelli e tutti gli altri oggetti nascosti sugli scaffali dei musei e nelle cassettiere. Lo stesso fenomeno avviene anche nei musei archeologici e d’arte. Senza un personale adeguato queste collezioni, definite black data, non saranno mai descritte scientificamente ed in caso di disastro (e.g., terremoti, inondazioni, incendi) saranno perse per sempre.
I nostri musei sono la registrazione materiale diretta delle conoscenze scientifiche, tecniche e culturali nel tempo. Sono anche la prima esposizione alle meraviglie della Scienza e dell’Arte per molti bambini e rimangono una fonte di meraviglia e bellezza per gli adulti. Per non rimpiangere la loro perdita meritano ed hanno bisogno di essere supportati e protetti per continuare ad acquisire, catalogare, conservare, ordinare ed esporre beni culturali.

PER CERTI VERSI
Il gomitolo di fuoco, Notre Dame

Povera Notre-Dame
In un bailamme
Di fuoco e fumo
Coinvolta
Morsa e sbriciolate
Il campanile le vetrate
Il cuore del cuore
L’isola e le sue gemme più visitate
Al mondo
Sono un bossolo
Di fiamme
Un gomitolo di fuoco
Che nessuno
Riesce a placare
Come fa male
Questo disastro
Molto male
Ma una voce
Ci fa sperare
In questo storico morire
La bellezza si potrà ricostruire

Pare

Tre poesie di Angelo Andreotti: La scelta, La pena, Incuria

di Angelo Andreotti

 

LA SCELTA

Niente è più chiuso di una porta chiusa.

Oltre la porta soltanto lamenti

su un filo di voce si arrampicano
da un filo di voce scivolano
a un filo di spine si avvolgono.

Tu sei il possibile ascolto.
Tu sei

la speranza
il rifiuto
oppure l’indifferenza.

Tu sei la scelta, la parte del tutto
e il tutto della tua parte.

La differenza nel mondo sei tu.

LA PENA

Preme forte, il grido, sull’aria
scagliandosi contro la porta.
Trema la casa, dove sei svegliato
di soprassalto. Dalle imposte chiuse
non puoi guardare. Soltanto l’udito
chiama scuotendo il tuo corpo. Tu ascolti
il silenzio svuotato dal grido
che continua a tremarti la pelle.
Quel grido ti assale, raggiunge
te. Ovunque tu sia ti raggiunge
attraversando qualsiasi distanza
che ti separa dal te stesso più intimo
chiuso a chiave nella diffidenza.

INCURIA

In quell’esitazione
– quasi il tremito di un’amnesia –
sulle cui bianche spiagge
da tempo muovi in cerchio i tuoi passi,
a testa bassa, senza più un orizzonte,
stupisci distinguendo tra i fragori
in un suono una voce che ti cerca.

E cerca te, te come fossi un altro,
ma tu sei l’altro che nel cerchio resta,
dentro a fissarne il centro chiuso in solchi
così profondi da arginare il vento

ma non la voce a cui volgi le spalle
dopo aver inflitto
un dolore di cui non hai contezza.

(Angelo Andreotti – tutti i diritti riservati)
Le poesie inedite, anticipate per Ferraraitalia, fanno parte dell’antologia ‘L’attenzione’, in uscita a maggio per i tipi di Puntoacapo edizioni.

 

Gianni Berengo Gardin: il mio primo libro l’ho fatto a Ferrara

“La fotografia è documentazione del reale e deve essere verità”. Un’idea chiara, classica, che appartiene alla generazione di un fotografo nato nel 1930, ma che ha ancora una limpidezza schietta quella che Gianni Berengo Gardin esprime con un’energia indomita sul palco allestito nel cortile di Grisù, l’ex caserma dei vigili del fuoco dentro le mura di Ferrara. Berengo Gardin è stato ospite del festival di fotografia “Riaperture”, organizzato a Ferrara per la terza edizione per i fine settimana dal 29 marzo al 7 aprile 2019.

Gianni Berengo Gardin con Daniela Modonesi al festival di fotografia Riaperture 2019 (foto Luca Pasqualini)

“Il mio mito – racconta Berengo Gardin sollecitato dalle domande della giornalista Daniela Modonesi – era Ugo Mulas, e quando mi sono trasferito a Milano frequentavo il bar Jamaica per conoscere lui e gli altri fotografi. Una volta Mulas mi ha invitato nel suo studio e mentre mi mostrava le sue foto non facevo che dire ‘che belle’, ‘questa è bellissima’, ‘guarda questa che bella che è’. Alla terza volta che dico così, lui mi avverte ‘se dici ancora che bella, ti caccio via’. ‘Cosa devo dire allora?’, gli ho chiesto. E lui: ‘Che è buona. Una foto bella può essere ben composta, ma non dice niente. Una foto buona può essere anche tecnicamente imperfetta, può essere un po’ sfuocata , ma ti racconta qualcosa e a volte anche molto. Per lavorare e per vivere, io ho dovuto fare anche una quantità di belle fotografie. Anzi, all’inizio ho fatto di tutto, la puttana nel senso più completo: per il giornale fascista ‘Il Borghese’, per ‘Novella 2000’ con i bambini belli sulle spiagge italiane, per ‘Panorama’ andando a fotografare tre ristoranti al giorno, per i matrimoni. Dopo due anni, però, sono riuscito a incanalare la fotografia dove volevo io”.

“Grandi Navi” di Gianni Berengo Gardin in mostra a Ferrara 29 marzo-7 aprile 2019

Diretto e impietoso anche verso se stesso Berengo Gardin dichiara: “Di libri ne ho fatti 258 e tra questi, di buoni, ce ne sono una quarantina: sono quelli che illustrano anche alle generazioni future come vivevamo nel 2000. Una foto buona è quella che racconta il nostro mondo, la nostra vita”.

Pubblico all’incontro con Gianni Berengo Gardin a Ferrara (foto Riaperture photofestival 2019)

Legame con Ferrara. “A Ferrara sono particolarmente legato, perché è qui che è nato il primo dei 258 libri fotografici. Ero ancora un foto-amatore e Bruno Zevi che insegnava Architettura a Venezia mi ha chiesto di fare le foto delle architetture realizzate a Ferrara da Biagio Rossetti (‘Biagio Rossetti, un architetto ferrarese’, Einaudi, Torino, 1960, ndr). Prima avevo già preparato una serie di immagini scattate a Venezia per un libro che mi avevano rifiutato tutti gli otto editori italiani a cui lo avevo proposto. Perché era una Venezia poco veneziana, sotto la pioggia, avvolta nella bruma e con scorci poco turistici. Piacque a Mermood, un editore svizzero. Uscì nel giro di ventitré giorni (1965, Clairefontaine di Losanna, ndr), ed era un miracolo… erano gli anni Sessanta e ancora non si usava il computer. I testi erano scritti da Giorgio Bassani e Mario Soldati e anche per questo, quel libro intitolato ‘Venise des saisons’, resta forse quello a cui sono più legato. L’amicizia con Giorgio Bassani, poi, mi ha portato ancora una volta qui, per fare un servizio sul cimitero ebraico”.

Il fotografo sul palco dello spazio Grisù, a Ferrara, per il festival di fotografia 2019 (foto Luca Pasqualini)

Fotoamatore o fotografo professionista? “Io ho iniziato a fotografare per passione. Fare il fotoamatore è uno step importantissimo, perché impari tutte le regole fondamentali. All’epoca era anche un po’ più complicato, non c’erano tante scuole o corsi, e neanche libri. C’era solo il manuale Hoepli sulla tecnica e il libro di William Klein con le foto di New York. Noi ci siamo fatti le ossa su questi libri, oltre che guardando la rivista ‘Life’. Io però ho avuto una fortuna in più, rispetto ai colleghi della mia generazione, perché avevo uno zio in America, molto amico del fratello del fotografo Capa. E lui mi consigliò e mi fece avere i libri dei grandi fotografi americani, che qui ancora non erano arrivati. Questo è stato un grande vantaggio per me, perché vedere quelle cose mi ha ispirato e indirizzato nel modo di scattare”.

“Grandi Navi” di Gianni Berengo Gardin in mostra a Ferrara 29 marzo-7 aprile 2019

Libri fotografici anziché scatti per i giornali.  “Io ho iniziato a lavorare per un giornale tra il 1950 e il ’54, che era ‘Il Borghese’ di Longanesi. Poi mi sono stancato di lavorare per una redazione di tendenza fascista e mi hanno suggerito di andare a ‘Il Mondo’ di Pannunzio, che era diverso dagli altri, metteva foto a piena pagina quando ancora non lo faceva nessuno. Non prendevo molto, però, e allora ho tentato di lavorare per altri giornali, ma non sono riuscito. Così mi sono concentrato a fare lavori da proporre per l’editoria, anche se non prendi molti soldi neanche lì. Ma facevo servizi che mi piaceva fare e mi interessavano. Perciò ho preferito continuare a fare quelle cose, anche se guadagnavo relativamente poco”.

Gianni Berengo Gardin abbraccia il collega fotografo Francesco Zizola (foto Luca Pasqualini)

L’impegno politico. “Sono diventato (e sono) comunista non perché avessi letto i testi sacri del comunismo, ma perché frequentavo gli opera dell’Olivetti e soprattutto dell’Alfa Romeo, che all’epoca erano il nocciolo duro del partito. Ancora oggi questo mi rende un nostalgico del vecchio Pci e di quegli uomini straordinari che avevano fatto la Resistenza”.
“Grazie a Carla Cerati, che mi ha chiesto di accompagnarla a Gorizia dove doveva fotografare l’ospedale psichiatrico per Franco Basaglia, è nato ‘Morire di classe’ (Einaudi, Torino, 1969, ndr), il libro con le immagini che documentano non la malattia, ma le condizioni terribili in cui venivano tenuti i malati. Si usavano le camicie di forza (anche se erano già state vietate), le persone venivano legate ai letti, i capelli rapati a zero in modo umiliante e i parenti, in manicomio, non ci andavano nemmeno a trovarli, perché questi legami erano sentiti come una vergogna. Basaglia ha fatto una grande rivoluzione, ha fatto vestire i malati in borghese e ha fatto abbattere da loro stessi le recinzioni che li rinchiudevano”.

Gianni Berengo Gardin a Ferrara (foto Riaperture photofestival 2019)

Colore o bianco & nero.  “Il colore distrae sia il fotografo sia lo spettatore. Fotografare a colori va bene se devi fare un catalogo di garofani. Ma, per il mio genere di fotografia, il bianco e nero è più efficace. C’è anche da tener conto che io sono nato con il cinema in bianco e nero, la tv in bianco e nero e che i miei grandi maestri fotografavano in bianco e nero. Willy Ronis è stato il mio primo maestro, a Parigi, non Cartier Bresson a cui molti mi paragonano. E io mi sento vicino a quello che era lui, un fotografo vero, non un artista. Nel ’55 ho litigato con Robert Doisneau perché faceva foto false. Dentro le immagini ci sono tutti amici o parenti suoi, sono costruite. Per me la fotografia deve essere verità”.

Pubblico all’incontro con Gianni Berengo Gardin a Ferrara (foto Riaperture photofestival 2019)

Digitale o analogico. “Il digitale è una truffa legale. Spendi 5mila euro se non di più per una macchina che, dopo otto anni al massimo, è da buttare. Io ho una Leica del 1955, che è tutta meccanica e va ancora come il primo giorno. In più, quando si usano le tecnologie elettroniche, bisogna tenere conto che i mezzi di lettura cambiano. Già i nuovi pc non leggono più i cd. Gli archivi digitali rischiano quindi di andare perduti. Il milione e 200 scatti che ho io su pellicola, invece, sono archiviati e – dai più recenti fino a quelli di 68 anni fa – si possono stampare anche oggi. Gli assistenti che ho avuto sono arrivati tutti che avevano il digitale e se ne sono andati via che avevano anche la pellicola. La pellicola è più plastica, calda. Il digitale resta luminoso anche a mezzanotte, è freddo, metallico. Ha solo due vantaggi: che la foto la puoi mandare a New York dopo due secondi che l’hai fatta e che puoi cambiare la sensibilità”.

Gianni Berengo Gardin a Ferrara (foto Riaperture photofestival 2019)

Mestiere fotografo. “Oggi è ancora più difficile fare il fotografo di mestiere. Perché, le foto, le fanno tutti e magari le regalano per la semplice soddisfazione di vedersele pubblicate”. Che dire ai giovani che si apprestano a fare questo mestiere? “Bisogna studiare, guardare gli altri fotografi, leggere. Ma il fatto è che con le foto di reportage, che sono l’anima vera del lavoro, non si vive più. Si vive con le foto di moda, con la pubblicità. Consiglio quindi di aprire una drogheria o una parafarmacia e poi di andare a fare le fotografie il sabato e la domenica”.

Foto-servizio per Ferraraitalia di Luca Pasqualini

Il Def garantisce i mercati e scontenta i cittadini

È durata davvero poco la riunione del Governo di martedì sera, circa mezz’ora, a seguito della quale è stata pubblicata una nota che è possibile trovare qui http://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/2019/comunicato_0073.html in cui si chiariscono i punti principali del nuovo Def 2019.
I numeri sembrano in sintonia con quanto dichiarato precedentemente, quindi nessun aumento di tasse e (più o meno) rispetto degli obiettivi fissati dalla commissione Ue.
Osservando il quadro macroeconomico rilasciato si legge di una crescita programmatica allo 0,2% e di una disoccupazione che non scenderà mai sotto il 10% e fino al 2022.

La crescita del Pil dovrebbe migliorare dall’anno prossimo grazie al fatto “che il Governo ha fronteggiato (…il momento di crisi generale …) mettendo in campo due pacchetti di misure di sostegno agli investimenti (il dl crescita e il dl sblocca cantieri) che dovrebbero portare ad una crescita aggiuntiva di 0,1 punti percentuali, fissando così il livello di Pil programmatico allo 0,2%, che salirebbe allo 0,8% nei tre anni successivi,”

Deficit, debito e investimenti
Il deficit (la spesa non coperta da entrate) nel 2019 tornerà al 2,4% scendendo poi fino al 1,5% nel 2022 mentre il deficit strutturale si dovrebbe attestare al 1,6% nel 2019 per arrivare allo 0,8% per la fine del triennio.
Il debito pubblico salirà al 132,6% quest’anno, al 131,3% nel 2020, 130,2% nel 2021 fino all’ottimistica previsione del 2022 quando si dovrebbe attestare al 128,9%. Debito che comunque cresce anche in considerazione dei 58 miliardi che l’Italia ha versato all’Europa nel 2018 (vedi nota 3) e che continuerà a versare fino al 2022.

Il governo ha in animo di aumentare gli investimenti portandoli dall’1,9% del 2018 al 2,5% del Pil nel 2022 agendo su più fronti per incrementare la produttività di diversi comparti dell’economia e spingendo sulle riforme.

In tale ottica sono previste misure quali:
· l’introduzione di un salario minimo orario per chi non rientra nella contrattazione collettiva;
· la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro;
· strategie nazionali per la diffusione di banda larga e 5G
· il rilancio della politica industriale;
· lo stimolo alla mobilità sostenibile
· le semplificazioni amministrative
· maggiore efficienza della giustizia
· interventi di sostegno alle famiglie ed alla natalità.

Sembra che il Def 2019 prevederà anche la Flat Tax ma difficile dire quali potrebbero essere i termini. Matteo Salvini continua a spingere per la sua introduzione mentre il Ministro dell’economia Tria continua a non esserne entusiasta proponendo come contropartita addirittura l’aumento dell’Iva (23 miliardi di euro), che anche se può non piacere, in macroeconomia ha un senso. Il Movimento 5 stelle e Di Maio ondeggiano tra la fedeltà al contratto di governo e l’evidente ingiustizia sociale del provvedimento.
Si parla comunque di una graduale estensione del regime d’imposta sulle persone fisiche con due aliquote del 15 e del 20%, ad iniziare dai redditi più bassi. Prevista anche una riduzione dell’aliquota Ires applicabile agli utili non distribuiti, una misura volta ad incentivare gli investimenti delle imprese.

Risparmiatori truffati
E il tema dei risparmiatori truffati? Nella giornata di lunedì, l’atteso accordo è stato trovato. Cosa prevede? Nello specifico l’erogazione di rimborsi automatici per chi ha redditi inferiori ai €35.000 o patrimoni immobiliari sotto i €100.000. L’approvazione del decreto è stato per ora rinviato.
La nota programmatica evidenza anche che non vi è nessuna inversione di tendenza sul piano del pagamento degli interessi sul debito pubblico e che questo continuerà ad essere pagato dai cittadini. Infatti si prevede un aumento costante del saldo primario (ovvero entrate superiori alle uscite) fino al 2,4% nel 2022 a fronte di interessi che rimangono costanti nel tempo, il tutto a fronte di un deficit sempre più contenuto. Insomma si continua la strada del consolidamento di bilancio, i cittadini non potranno vedere reali miglioramenti ma continueranno a ricevere generalmente meno servizi rispetto a quanto pagheranno di tasse mentre nulla cambia per i mercati finanziari che avranno, come sempre, chi pagherà i loro guadagni.

Delitti e segreti alla corte estense. Il nuovo romanzo di Elettra Testi

L’attesissima presentazione del romanzo di Elettra Testi, “Il segreto di Barbara. Un delitto alla Corte estense”, Minerva, 2019 che si è svolto nella sala dei Comuni in Castello è stato organizzato impeccabilmente da Ethel Guidi. Dialogava con l’autrice l’ottimo Fabrizio Fiocchi e le letture erano affidate a Riccarda Dalbuoni. E’ già difficile nel mestiere di critico essere obiettivo con chi non si conosce se non per la sua opera; ancora di più se l’autore, come in questo caso, è legato da profondissima amicizia tanto che se non sei capace di equilibrio critico può accadere che più che parlare del libro finisci per parlare di te stesso.
Questo è il terzo romanzo della Testi; i primi due si titolano, ‘La sorella. Vita di Paolina Leopardi’ (1992) e ‘Tavor’ (2005).
Così il profilo della scrittrice:
Elettra Testi, di nobile origine romagnola, vive da quarant’anni a Ferrara, città che adora e che coccola con attività culturali di vario genere. A Ferrara ha a lungo insegnato negli istituti superiori. Nel 1992 con la casa editrice La Luna di Palermo ha pubblicato ‘La Sorella. Vita di Paolina Leopardi’, romanzo che le è valso il premio Bellonci con la segnalazione quale libro di lettura per le scuole. Oltre a Ferrara adora gli amici, suo marito e gli animali, però ha un debole per le pellicce.

Per questo mio intervento occorre ricordare un articolo che pubblicai nel 2005 su ‘Ferrara. Voci di una città’ dal titolo ‘Un secondo viaggio nella realtà letteraria ferrarese’:
“La lettura come baluardo alla disgregazione della psiche, la scrittura come difesa al male di vivere, l’ironia come medicina dell’anima e del corpo intrecciandosi tra realtà autoriale ed esistenziale sostengono, illuminano, chiarificano le pagine di questo singolare e bellissimo racconto di Elettra Testi, ‘Tavor’ (Minerva Edizioni, Bologna, 2005), che conferma la maturità raggiunta da questa scrittrice e le premesse mantenute del debutto, ‘La sorella. Vita di Paolina Leopardi’ (La Luna editrice, Palermo, 1992).
Se sono stato un fedele lettore delle opere di Elettra l’occasione del libro rinvia ad anni lontani quando entrambi insegnavamo, giovanissimi docenti, all’Istituto per Ragionieri di Ferrara ‘Vincenzo Monti’. Ci organizzammo per prepararci all’esame di abilitazione all’insegnamento con la serietà (forse) degna di miglior causa perché gli esaminatori si rivelarono meno preparati di quello che noi fossimo. Cominciò allora una complicità intellettuale che non si è mai spenta e che ha influito anche sulle scelte esistenziali di entrambi, fosse la garbata presa in giro delle mie ossessioni floreali nel buen retiro della campagna veneta quando alla stagione della fioritura delle gardenie, il Conte, cioè chi scrive, riceveva fasci dell’amatissima pianta fiorita secondo un racconto dell’amica scrittrice o, da parte mia, l’accusa di “slealtà” nell’incantare lettori e ascoltatori con la sua splendida voce – rimasta intatta nel tempo – per attrarli nel suo universo fantastico dove la realtà si tinge di vero e il vero trascende nel fantastico.
La laboriosa preparazione de ‘Il segreto di Barbara’ contempla non solo la lettura di ponderosi volumi il cui accesso è riservato solo agli storici di mestiere, ma anche la minuziosa esegesi di testi che una volta si sarebbero definiti “allotri” cioè estranei alla composizione di un’opera letteraria; vale a dire studi come quello di Stefania Macioce sugli ori nell’arte o di Elisabetta Gnignera sui soperchi argomenti doverosamente ringraziate come tutto il personale della Biblioteca Ariostea.
Ma veniamo al romanzo che così viene presentato:
‘Il segreto di Barbara’ è un romanzo storico nel quale si dipanano personaggi e vicende dell’età rinascimentale a Ferrara. Barbara Torelli, originaria di Montechiarugolo, una piccola contea vicino a Parma, sposa senza amore il capitano Bentivoglio, di origine bolognese, che la porta a vivere a Ferrara. Se l’amore per la città aumenta, il rapporto con il marito si fa sempre più difficile finché Barbara s’innamora del grande poeta e giureconsulto ferrarese Ercole Strozzi che ricambia il sentimento. La situazione precipita al punto che Barbara organizza, per sé e per la figlia una rocambolesca fuga dal tetto coniugale. Dopo la morte del marito Barbara sposa Ercole Strozzi, il cui assassinio notturno con 23 pugnalate è rimasto impunito. Non si trovò o non si volle trovare il colpevole. In base alle proprie ricerche l’autrice, per la prima volta, ne svela il nome…”
Il tema dunque s’incentra su un fatto indubitabile come la stessa consistenza storica dei personaggi e la verità letteraria segnata dal sonetto della Torelli tra i più grandi risultati della letteratura italiana del Rinascimento e oltre. Questi fatti si trasformano nella scrittura di Elettra Testi in un universo fantastico dove Barbara è l’autrice e l’autrice è la protagonista. Il tutto avviene per vis stilistica che a mio avviso rappresenta la novità e la bellezza del romanzo: la contemporaneità come prodotto del passato e nello stesso tempo indicazione per il futuro.
La dedica ‘A Giampietro’ nasconde nella semplicità dell’enunciazione una lunga connivenza tra l’autrice e il marito che condividono tutto, anche il nome se non nella vocale finale: Giampietro Testa, Elettra Testi, Nella ricostruzione della scrittrice è stato il marito a farle conoscere il personaggio Barbara e nel primo intento il romanzo doveva essere scritto a quattro mani; ma secondo prassi l’intento non ebbe un seguito e di Giampi rimane solo la dedica, apparentemente ma non solo, come si può riscontrare, in ben più solidi contributi. La lettera a p. 149 che comincia con ‘Amore caro’ non è né della Torelli, né di Ercole Strozzi o di qualche altro letterato bensì de marito. E qui si rivela la capacità stilistica di Elettra che proprio nella “inventio” di una lingua riesce magistralmente a fondere in un’unica, straordinaria prosa lingue classiche e contemporanee, dialetti, piani strutturali diversi fino a ricorrere alla raffinatissima “mise en abyme” o come si suol scrivere anche “mise en abîme”.
Da questo momento l’universo fantastico di Elettra-Barbara si spiega in tutta la sua forza sia nel prato-giardino della Smarrita dove Barbara e la sua “copia” vivono i fremiti e i sogni dell’infanzia-adolescenza:
“Si incamminava per il sentiero dei campi di quella terra parmense che le apparteneva e arrivava fino al limite estremo della proprietà nella spianata del querceto che in casa chiamavano ‘la Smarrita’ […] Era, quel bosco buio, il teatro ideale di una rappresentazione della quale la piccola si appagava di essere l’unica regista e interprete” (p.14). Ecco le parole della trasformazione fantastica affidata ai mezzi di comunicazione contemporanea: “regista e interprete”. Qui è possibile come nei romanzi cavallereschi interpretare le grandi eroine del passato secondo il modello del trobar: Cleopatra, Didone, la fata Melusina, Isotta la Bionda e, of course, Francesca da Rimini. Dalla solitudine fantastica della ‘Smarrita’ fa parte anche il fratello di Barbara Amorotto ‘l’innocente’ che condivide le scelte della protagonista e che nonostante la malattia morirà quasi centenario.
Nel mondo di Barbara-Elettra sfilano paesani e signori, gente umile e potente come l’amica più cara di Barbara che diverrà duchessa di Ferrara: Lucrezia Borgia o le suore e le abitanti del monastero del Corpus Domini. Ma anche la zia Venusta, la mitica zia di Elettra.
E poi Ferrara, che si prende la scena diventando come in Giorgio Bassani la protagonista del romanzo con i suoi palazzi, piazze, cattedrali, castelli. Infine, alla morte dell’amatissimo Ercole, s’apre il mistero che non è giusto svelare e che, pagando pegno, diventa necessità perché chi vorrà svelarlo dovrà leggere fino all’ultima pagina dell’opera.
Brava Elettra!

Nella foto Elettra Testi e Gian Pietro Testa al Premio stampa 2017 (foto Giorgia Mazzotti)

Festival internazione del giornalismo 2019

Da: Organizzatori

Un’edizione emozionante e coinvolgente, la più internazionale e appassionante di sempre.
Cinque giorni intensi per un viaggio attraverso le storie di chi lotta ogni giorno per la libertà dell’informazione, contro ogni censura.

Quest’anno il Festival ha raccontato il coraggio attraverso storie di persone non hanno avuto paura di sporcarsi le mani e hanno messo la loro vita e la loro intelligenza al servizio degli altri e della verità.

Il coraggio di Maria Ressa che nelle Filippine con il suo giornalismo investigativo sfida il governo autoritario di Duterte e, nonostante gli otto arresti e le tremende pressioni ricevute, continua a mettersi al servizio della sua comunità; di Matthew Caruana Galizia che cerca la verità sull’omicidio della madre, la giornalista Daphne Caruana Galizia uccisa nel 2017; di David Hogg e Jaclyn Corin, gli adolescenti sopravvissuti alla strage di Parkland e che con il loro movimento di massa March for our lives lottano per cambiare la legge sul possesso delle armi e non si arrendono all’odio; quello di Oscar Camps direttore e fondatore dell’ONG Open Arms che negli ultimi anni ha salvato oltre 60mila vite umane salvate nel Mediterraneo; e di Rana Ayyub la giornalista investigativa indiana che ha rivelato le collusioni di due importanti uomini indiani, Narendra Modi (attuale presidente dell’India) e Amit Shah e che per questo motivo è stata bersagliata online con allusioni totalmente false.

E ancora, il coraggio dei giornalisti e delle istituzioni che vivono sotto scorta e continuano a indagare su chi li minaccia e dello scrittore Roberto Saviano che ha salutato così il Festival: “Solo qui incontro tutti questi giovani. Riparto da Perugia con un senso profondo di speranza.”

“Quest’anno, più del solito, siamo stati fermati per strada dal pubblico, italiano e straniero, che ci ha più volte ringraziato per la possibilità di scambio, anche umano, fra comunità diverse di tutte le età e con differenti interessi” racconta Arianna Ciccone.

Il pubblico del Festival è cambiato: sempre più giovane, sempre più cosmopolita. Perugia è stata la destinazione di tantissimi giornalisti di testate internazionali – tra cui Reuters, Bloomberg, Politico Europe, Guardian, NBC – a conferma del valore formativo e costruttivo del Festival, evento ormai irrinunciabile per chi fa del confronto la chiave di crescita professionale e personale.

Tantissimi i cittadini che hanno partecipato in massa agli eventi per capire e riflettere. Lunghissime le file per Oscar Camps, ma anche per Nicola Gratteri che ha parlato di lotta alla ‘ndrangheta. Per Domenico Iannacone che ha parlato di sociale a una sala attenta e gremita. Per Veronesi e Albinati e le loro letture sull’odio.

È stato un Festival sui diritti, sulla condivisione, sulla visione di società aperta solidale che vede i cittadini camminare insieme per le conquiste di tutti per una società più giusta e gentile. Citando Gipi, che al Festival ha partecipato a un dibattito molto emozionante e molto seguito sulla satira: “Se lo spirito di un ragazzo verte alla bontà invece che alla crudeltà può essere merito solo della bellezza, non della critica sociale, ma del contatto con la bellezza e la bontà di altre persone.”

La formula del Festival di quest’anno è stata coraggiosa e ha funzionato dimostrando che certe cose si possono fare. Si può organizzare un Festival con più di 300 eventi e 760 speaker da ogni parte del mondo. Si può fare un festival perfettamente bilanciato tra uomini e donne tra i relatori, come ha riconosciuto anche Michela Murgia in un estratto di un suo tweet: “A Perugia le speaker di #ijf19 erano il 49% del totale. Allora si può”

Si può fare un festival in cui parlare di diritti, di minoranze, di migrazioni, di blockchain, di intelligenza artificiale, di cambiamento climatico e avere le sale piene. Si può fare tutto questo in Italia, a Perugia, e lo faremo di nuovo.

L’edizione 2020 del Festival si svolgerà a Perugia dal 1 al 5 aprile.
L’hashtag ufficiale: #ijf20

Dalla Cina a Mosul: quando i libri bruciano

Là, dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini. Heinrich Heine

E’ sempre un gran brutto segno quando si bruciano i libri. E non solo nei falò e nei roghi, ma anche metaforicamente, con le liste nere degli autori scomodi, con la censura di quegli scrittori che hanno esercitato la piena libertà di espressione rivendicando il diritto di pensiero con la fantasia, la formulazione di ragionamenti e riflessioni, l’esposizione di storie, fatti e circostanze da ‘occultare’ al popolo dei lettori perché ritenute ‘pericolose’.
Una nefasta pratica voluta e ordinata da autorità politiche e religiose sulla spinta del fanatismo ideologico, della visione ristretta che passa per rigore morale, dell’odio. I roghi dei libri e la distruzione delle biblioteche, pratiche del passato e di un presente più recente, mirano all’estinzione della storia precedente come fosse un’azione di pulizia intellettuale, l’annullamento del pensiero scomodo che incombe su governi e organizzazioni restrittive. Il fuoco non lascia niente dietro di sé se non cenere; nessuna traccia sulla quale poter ricostruire le testimonianze del passato.

I roghi di libri nella storia sono numerosi. Nel 212 a.C. in Cina, durante il regno dello spietato Quin Shi Huang vennero bruciati numerosissimi libri antichi e assassinati 460 accademici; chiunque si opponesse all’ordine veniva sepolto vivo. Scamparono al fuoco solo i testi di pratiche magiche e i manuali tecnici. L’imperatore fece scrivere: “Io ho apportato l’ordine alla folla degli esseri e sottomesso alla prova gli atti e la realtà. Ogni cosa ha il nome che le conviene. Io ho distrutto nell’impero i libri inutili. Io ho favorito le scienze occulte, affinchè si cercasse per me, nel Paese, la droga dell’immortalità.” Nel 292, secondo testimonianze, furono dati al fuoco i libri di alchimia dell’enciclopedia di Alessandria e nel 642 venne distrutta l’intera biblioteca su ordine del califfo Omar, conquistatore d’Egitto. Nel 1497 a Firenze, Girolamo Savonarola ordinò un imponente rogo di libri e opere artistiche di grande valore, passato alla storia col nome di ‘Falò delle vanità‘, perché ritenuto materiale immorale. Durante l’Inquisizione subirono la stessa sorte i manoscritti delle popolazioni Maya e Aztechi e all’inizio del 1500, in Andalusia, venne emanato l’ordine di consegnare alle autorità castigliane i libri scritti in lingua araba e, tranne quelli riguardanti la medicina, la storia e la filosofia, furono distrutti col fuoco. Nello stesso secolo, era il 1553, Papa Giulio II fece ardere le copie del Talmud in un grande falò. Ma è la distruzione dei libri nella Germania nazista, che ci accosta più da vicino al vero significato del rogo: numerosi roghi in tutto il Reich, organizzati tra il 1930 e il 1945 per incenerire le opere di oppositori politici, scrittori considerati immorali, nemici del regime anche solo per le loro origini etniche. Tra i più significativi, quello avvenuto nella Bebelplatz a Berlino il 10 maggio 1933. Le opere di Brecht, Heinirch e Thomas Mann, Dȍblin, Joseph Roth, Simmel, Adorno, Bloch, Hannah Arendt, Edith Stein, Freud e moltissimi altri scrittori e artisti furono messe al bando e fatte scomparire tra le fiamme del fuoco appiccato ai camion cosparsi di benzina, che li trasportavano. Il sindaco di Berlino inaugurò l’evento, dando alla cerimonia carattere ufficiale, quasi religioso. Dopo il 1933 è il deserto culturale, la diaspora dell’intelligenza tedesca e il più massiccio esodo di intellettuali che la storia moderna abbia mai conosciuto. Ed è storia dei nostri giorni quella del 1961, nella nostra Italia democristiana, quando nel cortile della Procura di Varese avviene l’ultimo rogo improvvisato di libri, per disposizione legale: si trattava della condanna per oscenità dell’opera del marchese de Sade ‘Storielle, racconti e raccontini’, pubblicata nel 1957. I libri ‘proibiti’ furono sequestrati e bruciati; l’editore, l’illustratore e alcuni librai in possesso del volume furono sottoposti a processo. Negli atti venne scritto: “ E non vi è dubbio che tali racconti sia per il linguaggio usato, sia per la natura dei fatti narrati, feriscano il senso di pudore, della decenza e di più intimi sentimenti morali”. In Cile e in Argentina, i libri tra le fiamme confermarono la volontà golpista di annientare la libertà di pensiero ed espressione per rafforzare la dittatura, indicatori di una morsa che stritolava i Paesi: in Cile, nel 1973 dopo il golpe di Augusto Pinochet, e in Argentina nel 1976, per mano dell’ufficiale Menèdez, membro della giunta Vandela. Sparirono nel rogo le opere di Proust, Garcia Marquez, Neruda, Saint-Exupèry, Vargas Llosa e molti altri, con la motivazione: “Con il fine che non rimanga nessuna parte di questi libri, opuscoli, riviste, perché con questo materiale non si continui a ingannare i nostri figli.” Un rogo singolare e particolarmente doloroso fu quello della notte del 25 agosto 1992 in una Sarajevo stremata dalla guerra e dall’assedio: i cannoni nazionalisti serbi distrussero con i loro colpi l’edificio che custodiva la storia di 600 anni di convivenza: 1,5 milioni di libri, 155.000 libri rari e manoscritti. Nel violento incendio che seguì lo scoppio delle granate, molti bibliotecari e cittadini tentarono di salvare i volumi sotto il tiro dei cecchini; la bibliotecaria Aida Buturovič perse la vita.
E la triste sequenza di roghi, inarrestabile, raggiunge anche il 2015, quando, secondo le fonti, sono stati bruciati circa 2000 libri dall’Isis perché non considerati ‘islamicamente corrispondenti’. Tra essi, testi per bambini, di diritto, poesia, filosofia, salute, scienza, prelevati dalla grande biblioteca di Mosul, dall’università, dalla biblioteca musulmana sunnita, da quella della Chiesa Latina e dal convento dei Padri Domenicani che possedevano testi antichi preziosi.

Oggi l’indice puntato della censura dei governi riguarda il ‘troppo ateo’, ‘troppo transgender’, ‘troppo religioso’, ‘troppo espicito’. Qual è l’esatto confine tra eccesso di pudore e censura, tra controllo preventivo e condizionamento, tra fobie infondate e ragionevolezza? Vedremo altri roghi con le avventure di Herry Potter in testa, una delle serie di libri più ostacolati negli Usa e in Arabia Saudita, per istigazione alla stregoneria?

PHOTOFESTIVAL Riaperture riapre con 17 mostre tra caserma e luoghi abbandonati di Ferrara

Ficcare il naso oltre i muri, oltre i portoni sbarrati e chiusi da chiavistelli arrugginiti, scendere in taverna o salire in cima a scaloni e trovarci dentro delle mostre di fotografie con immagini incorniciate alle pareti, appese con funi all’aperto o con le catenelle che scendono dal soffitto. È un’esperienza di scoperta, una caccia al tesoro di spazi e contenuti quella che offre ai suoi partecipanti ‘Riaperture photofestival Ferrara’, organizzato per il terzo anno dall’associazione Riaperture con la direzione artistica di Giacomo Brini. “Sono millecinquecento i visitatori che hanno percorso la città nel primo weekend per le mostre e gli incontri”, spiega Fabio Zecchi che si occupa della comunicazione dell’evento. E ora – da venerdì 5 a domenica 7 aprile 2019 – si potranno tornare a vedere le diciassette esposizioni d’autore in sette spazi diversi di Ferrara (visitabili dalle 10 alle 19), si potrà andare ad ascoltare altri incontri con fotografi o giornalisti, partecipare a laboratori e anche agli appuntamenti mattutini di caffè-fotografici.

La Cavallerizza dentro all’area della caserma Pozzuolo del Friuli, a Ferrara, con una delle mostre di ‘Riaperture photofestival’ (foto Claudia Baldassarra)

Un’occasione per vedere, ascoltare, pensare, camminare. Ci sono cose particolarmente imperdibili, tipo il fatto di potere entrare dentro a una caserma chiusa da oltre vent’anni e sconosciuta alla gran parte degli stessi ferraresi, visto che comunque era un luogo accessibile solo da militari o ragazzi in partenza per la leva. Lo spazio è quello della Caserma Pozzuolo del Friuli, dove si entra sia dall’ingresso di rappresentanza che portava all’area di residenza degli ufficiali (via Cisterna del Follo 10, Ferrara) sia dal portellone per i mezzi militari che per questi pochi giorni resta spalancato (via Scandiana 35).

Ingresso di via Cisterna del Follo
Via Scandiana 35
La Cavallerizza in via Scandiana 18

Di fronte c’è la Cavallerizza, spettacolare edificio tutto aperto, per il ricovero di camionette e strumentazioni varie (via Scandiana 18). Dentro la caserma il percorso espositivo è ambientato attraverso stanze che alternano la visione di autori ospiti con quella della memoria di cosa c’era prima: le targhette ancora inchiodate alle pareti ricordano che un posto era biblioteca; un biliardo impolverato e i dadi segna-punti corrosi fanno immaginare partite giocate fra commilitoni, il bancone evoca la presenza di un bar di cui resta uno specchio per i selfie-souvenir di chi ci passa davanti.

Un’altra immagine di ‘Riaperture photofestival’ a Ferrara, 29 marzo-7 aprile 2019 (foto Claudia Baldassarra)

“È solo un festival di fotografia – si legge nella presentazione postata su Fb degli organizzatori –  ma si porta con sé storie di edicole di Perugia trasformate in centri di produzione culturale (Edicola 518, domenica 7 aprile, alle 10 all’Hotel Astra, ndr), lezioni sulla fotografia con giornalisti di Repubblica (Michele Smargiassi, sabato 6 aprile, alle 16.30 a Factory Grisù, ndr), riviste online dove si mastica cultura (FrizziFrizzi, domenica 7 aprile, alle 16.30 a Factory Grisù, ndr), fotografi premiati che vengono a dirci come hanno fatto, a trovare le storie, a fare pace col futuro”.

Gianni Berengo Gardin con Giacomo Brini sabato 30 marzo 2019 nello spazio di Factory Grisù di Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Il tema di questa terza edizione è infatti dedicato al ‘Futuro’. E, come sempre quando si guarda avanti, pensare al domani vuol dire anche fare il punto su quello che è il presente e il passato: la lunga palizzata in cemento che separa Israele e i territori palestinesi (Francesco Cito nell’ex Caserma di via Scandiana), gli effetti dell’elettrosmog (Claudia Gori nella Cavallerizza dell’ex Caserma), le navi grandi come interi condomini che invadono la fragile laguna di Venezia (Gianni Berengo Gardin a Factory Grisù) o i sex robots (Tania Franco Klein nella vecchia salumaia dell’Hotel Duchessa Isabella).

Tutte le info, il programma dettagliato e gli aggiornamenti sul sito di Riaperture all’indirizzo riaperture.com/festival/programma/.

Il debito pubblico è un problema? Vediamo cosa ne pensano Fmi e Bce

In un interessante ed elaborato paper pubblicato dal Nber (‘Public debt and low interest rates’ che trovate qui) l’economista capo del Fmi Olivier J. Blanchard, prova a rispondere a una domanda che mantiene costante il suo fascino: siamo proprio sicuri che il debito pubblico sia un problema?
Blanchard arriva, molto prudentemente bisogna dire, alla risposta che sostanzialmente non lo sia. In realtà ponendo delle condizioni, di cui la principale è che il tasso d’interesse pagato sul debito sia inferiore al tasso di crescita, ovvero che i sia inferiore a g (i=tasso di interesse, g=tasso di crescita).
Lo studio si sofferma in particolare sull’economia statunitense e mostra che nonostante il debito pubblico sia andato crescendo vertiginosamente, come si prevede faccia anche per il futuro, questi non è mai stato un problema dato che il tasso di interesse è sempre stato inferiore. Così come si presuppone sarà anche per il futuro.
Negli Usa il tasso nominale decennale a fine 2018 era circa il 3%, e le previsioni di crescita nominale (ossia della somma del pil reale e dell’inflazione) è intorno al 4%.
Stessa situazione si riscontra negli altri paesi, del resto sappiamo tutti che, come si dice in giro, siamo nell’era dei tassi zero. Quindi passiamo da un decennale nominale all’1,3% con una previsione decennale di crescita del 3,6 della Gran Bretagna, al Giappone dove il decennale è quotato lo 0,1% e la crescita stimata e è dell’1,4%. Nella zona euro mediamente il decennale quota 1,2% a fronte di una crescita stimata del 3%.
Se poi il fatto di avere il debito sotto controllo possa portare più facilmente benessere ai cittadini rimane controverso in quanto l’economista conclude “Il paper raggiunge conclusioni forti e, a mio avviso, sorprendenti. Dicendola (troppo) semplicemente, il messaggio inviato dai tassi bassi non è solo che il debito può non avere costi fiscali sostanziali, ma anche che potrebbe avere costi di benessere limitati”.
Un’interpretazione di questo scetticismo potrebbe essere dato dal fatto che a dar da mangiare alle persone di sicuro non sono debito e moneta, bisognerebbe qui lasciare la teoria economica e continuare con la politica economica, ma andiamo avanti perché questo report è stato ripreso anche dalla Bce (lo trovate qui).
La Bce si affretta a precisare che “I modelli teorici non arrivano a formulare conclusioni chiare riguardo al segno e alle dimensioni del differenziale tra crescita e tassi di interesse sul debito pubblico”.
Il grafico seguente mostra che laddove persista un debito molto alto, statisticamente il differenziale è più alto, ovvero si pagano più interessi e il debito in generale è meno sostenibile nel lungo periodo, il che costringe un Paese a più alti avanzi primari per coprire gli interessi

Insomma, la situazione italiana dove la crescita non è bastata a pareggiare i costi del debito. La conclusione della Bce sembra proprio essere che seppure il debito pubblico possa non essere un problema, bisogna poterselo permettere. Ovvero il costo degli interessi deve essere inferiore a quello della crescita e non bisogna lasciare che aumenti, perché in questo caso aumentano le possibilità che il differenziale diventi sfavorevole (i>g).
Ma cosa non considera Blanchard e neppure la Bce? Semplicemente che a bloccare la crescita italiana è stata proprio la rincorsa di tutti i governi, dietro costrizione della Commissione europea, ad abbassare il debito. Rincorsa fatta a suon di avanzi primari e tagli alla spesa pubblica che ha depresso sostanzialmente la crescita a differenza degli altri Paesi che invece hanno usufruito o di ampi deficit (quindi spesa) come proprio gli Usa, la Uk e il Giappone oppure confidando sul surplus artificiale e non competitivo come la Germania. La Cina invece ha usufruito di tutti e due gli elementi (deficit reali intorno al 10% e surplus di bilancia commerciale molto alti grazie a un bel po’ di dumping commerciale), raggiungendo vette impareggiabili di crescita del Pil.
Se il debito pubblico sia sostenibile o meno potrà anche dipendere in parte dai tassi di interessi ma dipende soprattutto da altri fattori. In primis, la moneta con la quale ci si indebita e se questa è controllabile dall’emettitore. Se l’Argentina e il Venezuela emettono debito in dollari difficilmente potranno ripagarlo. In questa stessa situazione si trovano i paesi dell’eurozona perchè emettono un debito che non possono gestire.
A tal proposito cito un paper sempre della stessa Bce, Working Paper Series nr. 2072 del giugno 2017 “Con una moneta nazionale, l’autorità monetaria e l’autorità fiscale possono coordinarsi per garantire che il debito pubblico denominato in quella valuta non sia inadempiente, vale a dire che i titoli di Stato in scadenza saranno convertibili in valuta alla pari, così come i depositi di riserva in scadenza presso la banca centrale sono convertibili in valuta alla pari.
Con questo accordo in vigore, la politica fiscale può concentrarsi sulla stabilizzazione del ciclo economico finché non si è ottenuta la guarigione. In particolare, se l’autorità fiscale effettua un trasferimento forfettario alle famiglie, le famiglie sono più ricche a un determinato livello di prezzo e aumentano le spese.
Tuttavia, sebbene l’euro sia una valuta fiat, le autorità fiscali degli stati membri dell’euro hanno rinunciato alla capacità di emettere debito esente dal rischio di insolvenza.”
Il che dovrebbe chiudere il discorso. Il debito pubblico è un problema finché manterremo separate l’autorità fiscale e l’autorità monetaria, situazione che abbiamo voluto, ne abbiamo fatto oggetto di un trattato e lo rispettiamo come fosse scritto sulla tavole sacre nonostante l’evidenza economica e sociale gridi vendetta. Il tutto è diventato talmente dogmatico che le stesse autorità monetarie che ci impongono sacrifici al suon di alta disoccupazione e distruzione di servizi pubblici, possono permettersi di scrivere che stanno operando al di fuori della normalità senza che ci sia una minima reazione da parte di chi legge.
Non ci resta, dunque, che continuare a giocare con i grafici di Blanchard che pur ha un merito, visto che è stato ripreso dalla Bce e quindi dalla Banca d’Italia: tenere viva la debolissima fiammella del dibattito.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Il clima delle persone

La creatività si nasconde nelle vie silenziose della Ferrara che tace. I creativi sono schivi, lavorano in silenzio, ma se hai l’occasione di incontrarli sono ricchi di parola, d’anima, di suggestioni e di energia da donarti. Quella che scopri ti sembra un’altra Ferrara, ma per te, che da anni scrivi di città della conoscenza, non certo inaspettata.
Varchi una porta davanti alla quale sei passato per anni del tutto ignaro e scopri che lì una volta c’era un forno per cuocere le coppie di pane ferrarese, con la sua rivendita accanto.
Il locale è rimasto qual era, con le sue bocche da fuoco che si aprono su una parete di maioliche bianche. Ora non ci fanno più il pane, ora lo spazio è il luogo in cui lavora un’intelligenza creativa della città, come una presenza in disparte, da non disturbare, perché possa sfornare le sue sorprese: una scultrice del legno. Sì perché a Ferrara, terra della bassa e dei filari di pioppi, si dà vita all’acero, al tiglio, al cirmolo, al rovere e al frassino, come nelle nostre dolomiti, dalla Val Gardena al Bleggio Superiore.
Pare un teatro questo atelier, dove forme e oggetti del tempo sostano solo apparentemente in silenzio come quella parte di città che li ospita, ma in realtà attendono di tornare ad essere vivi nel loro forno di una volta appena tu te ne sarai andato, non senza aver compreso il segreto della loro magia.
Noi ferraresi con la terra, intendo la malta, l’argilla, abbiamo un rapporto particolare perché ci sentiamo costituiti di quella fanghiglia che fa il fiume quando lambisce i suoi argini e poi c’è la nebbia che la bagna e le dà forma. Il racconto del Genesi, quando il dio alitò la vita nel fango, doveva essere ambientato qui da noi.
La ceramica ferrarese ha un’antica tradizione, ora da scoprire è quella reinventata nelle botteghe che ormai capita di incontrare sempre più spesso nella nostra città. Tane della creatività dove si impasta l’argilla in nuove forme e nuovi colori, come nella città si lavora il plexiglass, si fanno vetrate, si dipinge con la carta reinventando i grandi gialli e verdi dei campi di girasole di Van Gogh.
Nel silenzio Ferrara custodisce un sapere tacito che nutre i luoghi del “fare creativo”. Crediamo di essere nella società dell’informazione e della conoscenza, ma la creatività resta come in ogni epoca il fattore chiave dell’economia e della società, nel lavoro come in altre sfere della nostra vita. L’impulso creativo è quello che distingue l’umanità dalle altre specie. Di questa creatività brulica la nostra città.
L’abbiamo scoperta la scorsa settimana, il 23 e il 24 marzo, accompagnati dai bravissimi studenti del nostro Liceo Artistico, Dosso Dossi, che ci hanno guidati per gli itinerari di “Cardini” alla scoperta degli atelier di 23 artisti ferraresi, iniziativa promossa dal CNA e patrocinata dall’amministrazione comunale.
Artisti e giovani che si preparano all’arte, una cura, un’attenzione, una solidarietà tra generazioni, bella, nuova e importante. Vorremmo che non fossero occasioni, ma il fare quotidiano proprio di una città della conoscenza, di una città che apprende. Di una città che fermenta di pensieri, di idee, di creazione, di apprendimenti che passano di mano in mano, di testa in testa.
Vorremmo che fosse il clima della città, la sua linea di fondo, la sua colonna sonora, quello che Richard Florida nel suo ‘The rise of the creative class’ definisce come “people climate” contro il “business climate”, il clima delle persone anziché degli affari che invece ancora ispirano l’idea di Ferrara “città della cultura”.
Un clima capace di formare, attrarre e trattenere persone speciali, non solo creative. Perché il futuro si gioca sull’intelligenza e sul sapere, sulle competenze e sulla qualità delle persone, più che sugli affari, più sulle botteghe della creatività che sulle retrobotteghe, a partire dalle città, i nuovi hub del millennio.
Scoprire la creatività che scaturisce dal lavoro delle mani dei giovani studenti del Dosso Dossi impegnati a dare corpo e colore alle loro fantasie sui pannelli di legno che circondano il cantiere delle case dell’Acer in via Fiume, a dimostrare che la scuola può uscire dalle sue mura.
Che è possibile una scuola senza mura che liberi il potenziale di intelligenze giovani che tiene in ostaggio nelle aule tra cattedre, banchi e programmi da condurre in porto.
Che le nostre scuole brulicano di potenzialità preziose che non devono attendere il domani per esprimersi, ma che hanno il diritto già oggi di dare il loro contributo alla città che è loro come di tutti noi. Ed è compito di noi adulti fornire loro più di un’occasione.
Luci, bagliori, flash che contrastano con il grigio squallore della balbettante campagna dei candidati a governare la città, che già mostra d’essere più intelligente di loro. Più intelligente delle paure, più intelligente delle soluzioni che ciascuno presume di tenere in tasca, più intelligente delle assemblee civiche che si guardano dentro anziché apprendere a guardare fuori.
Nessuno si mostra capace di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, di accendere il futuro, di illuminare d’entusiasmo il grigiore delle nostre nebbie.
Intanto per fortuna la città, nel silenzio, continua a palpitare dentro.