Mia figlia deve fare un tema: parla della prospettiva. Spero che non sia la solita ricerca sulla prospettiva nell’arte, voglio credere che l’insegnante chieda a dei quindicenni cosa sia la prospettiva nei rapporti, li spinga a muoversi anche dall’altra parte, ad allenarsi a chiudere gli occhi e poi riaprirli per guardare meglio, un po’ più là.
Mi confronto con un’amica: dai, ti pare che sia così banale da dovere fare una ricerca sui pittori che tanto i ragazzi lo sanno già chi ha inventato la prospettiva.
Alla mia amica non interessa tanto il tema di mia figlia, ma della prospettiva sua e del marito, sì. E anche un po’ di un’opera d’arte mancata.
“Io mi sento come se stessi osservando uno di quei quadri rinascimentali che raffigurano piazze e colonne – mi dice -, mio marito è fermo al centro, seduto su una fontana a godersi, immobile, ciò che la vita gli offre. Io, invece, mi alzo, mi allontano, corro costeggiando le infinite colonne, verso un punto lontano, in divenire”.
Mi confida di interrogarsi sulle prospettive del loro rapporto e nella loro vita quotidiana, di come si siano spenti i tempi in cui “tra noi c’era una forte empatia, come quando si ammira un quadro dalla stessa angolazione”. Poi, però, le cose sono cambiate, piano piano, talmente sottovoce che non saprebbe quando e perché, sa solo che un velo di noia ha rarefatto vicinanza, complicità, sguardi.
Lei ha provato a parlargli, gliela ha posta come sensazione, delicatamente, ha provato a dirgli condividiamo quello che potrebbe diventare un problema, per favore ascoltami. Lui ha risposto nella maniera più semplice possibile: succede.
Le rispondo che è fortunata perché a stare immobili seduti su una fontana non ci si gode niente, a correre tra colonne, magari anche sbattendoci contro, si vive.
E voi la prospettiva siete capaci di viverla anche dalla parte dell’altro, e poi magari cambiarla, rovesciarla, abbandonarla?
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Riccarda Dalbuoni
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