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Volare alto: Gramsci e la politica come strumento di progresso e libertà

Il tuo pensiero era forza e volontà,
tu eri il concetto stesso di intellettuale,
il tuo intelletto era un’arma invincibile, contro il sopruso.
Chi ti critica, ora come allora,
non sa chi eri, non sa chi sei e cosa rappresenti.
La questione morale, la forza delle idee,
contro le idee della forza.
Ti hanno ucciso ma hanno reso immortali le tue idee,
chi pensa, senza pensiero, che tu sia solo un simulacro,
non capirà mai cosa significa essere partigiano.
La tua lungimiranza ti ha fatto vivere troppo poco,
in un mondo troppo antico,
rispetto alla tua lucente modernità.

**************

Un gigante dell’intelligenza, muscoli d’acciaio del pensiero,
racchiusi in un corpo all’apparenza debole,
pensiero critico, pensiero libero, intelletto nato per essere avanguardia,
forza trainante della mente, messa a disposizione del popolo.

Ti sarebbe bastato, rinnegare le tue idee, sarebbe stato sufficiente,
avresti potuto andare in esilio, avresti potuto scappare,
ma non si scappa da se stessi e dalle proprie responsabilità verso gli altri.

Le sbarre della tua prigione erano come nuvole,
la tua mente spezzava le catene e vagava libera,
le tue preoccupazioni erano gli altri,
tua mamma, tua moglie, tuo figlio,
la tua forza, era per loro e per i tuoi ideali.

Vivo, per sempre, a traino delle moltitudini,
hai cambiato la storia, fossi vissuto in un mondo meno nero,
la avresti rivoluzionata, con le armi della ragione.

Tu odiavi gli indifferenti, ed eri partigiano della libertà e della giustizia,
in un mondo che sognavi migliore, ma che adesso a tanti anni dalla tua morte,
non ti sarebbe piaciuto

**************

Le ceneri di Gramsci, scriveva il poeta (PPP), non sono state sparse nel vento per nulla, la forza della ragione contro le ragioni della forza.

Nino, così come lo chiamavano in famiglia, ebbe la capacità di superare i suoi limiti fisici, era alto appena un metro cinquanta a causa del morbo di Pot, (una specie di tubercolosi ossea) che lo colpì dall’età di due anni e ne precluse lo sviluppo.

La forza della sua mente, riuscì per tutta la sua vita a trascinare i suoi muscoli deboli e la sua schiena anchilosata, fino a farlo diventare un gigante dell’intelletto, un culturista del pensiero moderno.
Socialista come il fratello in gioventù, fondatore dell’Ordine Nuovo, fondatore del Partito Comunista d’Italia nel 1921, con lo scisma di Livorno, fondatore de L’Unità, Marxista interpretativo, Leninista, critico già dal 1926 nei confronti dell’operato di Stalin.

Un precursore, avanti nei tempi rispetto al secolo in cui nacque, (forse pure avanti rispetto al secolo successivo), la sua modernità credo andrebbe riscoperta, molto probabilmente sarà rimpianta dalle future generazioni.

Sentire parlare di Gramsci da uno come me è come sentire parlare di Pelé da un calciatore degli amatori, ma appunto per la mia inadeguatezza, vorrei provare a spiegare perché ritengo il suo pensiero un traguardo per il futuro e non un semplice esercizio della memoria.

La “dittatura del proletariato” è un ossimoro, che fu causa, dai tempi in cui Marx la pensò, di infinite critiche mosse nei confronti dei comunisti, da parte dei loro detrattori di tutti i tempi, la frase ha un significato chiaro, per Gramsci (e anche per me), significa dare l’opportunità alle masse popolari di incidere, di decidere, di essere il loro potere.
Agli antipodi del concetto di oligarchia del partito e dei funzionari, che poi si sviluppò in Unione Sovietica.

Le masse popolari come attori del proprio futuro, le moltitudini, il quarto stato (come ben rappresentate dal pittore Pellizza da Volpedo), che si prendono in mano il potere, come non fu mai nel passato e neppure nel presente, un concetto talmente rivoluzionario da non essere capito tutt’ora da molti.

Oggi che si dibatte di cambiamenti climatici, di flussi migratori biblici, di guerre, di schiavitù dell’uomo nei confronti delle merci, dell’oppressione dei mercati nei confronti delle persone, quanto avremmo bisogno del pensiero gramsciano, applicato alla nostra presunta modernità.

La schiavitù, che pareva debellata secoli orsono, si ripresenta nel nostro secolo buio, sotto forme differenti, figlia di quel neoliberismo sfrenato, capitalismo 4.0 in un mondo senza quasi più opposizione, indifferente ai mutamenti, senza ribelli né ribellioni.

La vittoria del Capitalismo, gretto e senza limiti, dal crollo del muro alla realizzazione dei mille muri di oggi, ha falsato la visione del progresso, della modernità, portandoci a pensare che il privato è sempre bello ed il pubblico è sempre brutto.

Una visione gramsciana della società, internazionalista, non permetterebbe la schiavitù del pensiero, l’omologazione, la standardizzazione della società attuale, così come avviene oggi, in Italia e nel mondo.

Odiava gli indifferenti, Nino, perché lui era partigiano, stava chiaramente da una parte, dalla parte delle masse operaie e contadine, quelle stesse masse che ora, in questa derelitta Italia pensano che i nemici arrivino con i barconi, che il prima noi e poi loro sia cosa buona e giusta.

L’avversario politico, gira con la Ferrari o l’auto blu, non vende gli accendini in spiaggia o ai semafori. Il dividi et impera di Cesare è applicato oggi come mezzo di distrazione di massa, i penultimi contro gli ultimi, è diventato sistema di governo, nel XXI° secolo, in Europa, come in Gallia duemila anni fa.

Il concetto di intellettuale Gramsciano è lontano anni luce dal distaccato filosofo da salotto televisivo di oggi. Noi vediamo nelle TV, signori brizzolati di mezza età, dibattere sul mondo con termini difficili e poco comprensivi, che si contemplano l’ombelico della propria cultura, senza preoccuparsi se i loro concetti vengono capiti o assimilati da chi li ascolta.

Gramsci, al contrario era consapevole che l’intellettuale, l’operaio della mente, il manovale della cultura, era un’avanguardia, doveva mettersi al servizio delle classi subalterne, per svilupparne la dignità, per dar modo ai braccianti, ai contadini, agli operai di autodeterminarsi.
Come diceva Di Vittorio, per insegnare ai cafoni a non togliersi il cappello di fronte al padrone.

Così, Gramsci in carcere creò una biblioteca, gestì dei corsi di studio, insegnò l’abecedario a chi non sapeva né leggere e né scrivere. Aveva ben chiaro in mente che la cultura è rivoluzionaria.

La cultura è una delle poche speranze che abbiamo per il futuro, è l’unica arma utilizzabile per una legittima difesa consapevole e mai eccessiva.

L’esatto contrario di ciò che ci dicono di questi tempi, un tal sottosegretario odierno che gioisce perché in Italia nel 2018 ci sono state 30.000 iscrizioni in meno all’università, o quell’altro che alcuni anni fa disse: “con la cultura non si mangia”.

Certo, questo è il modo di pensare di oggi, dei nostri governanti, presenti e passati un popolo ignorante si fa poche domande, non ha strumenti per controbattere l’oligarchia dominate. Per questo motivo Gramsci pensava che un popolo istruito potesse essere la prima arma contro la dittatura, la pistola fumante contro i soprusi dei pochi, nei confronti dei molti.

“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza.”

Questo pensava dei giovani.

Gramsci era l’antitesi del culto della personalità, sull’Ordine Nuovo, nel 1924 lanciò una critica feroce a Mussolini, in quanto immagine dell’uomo forte, egocentrico, nuovo imperatore di un sacro romano impero, costruito sulla menzogna e sulla cattiveria “Mussolini [… ] è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica.”

Ma, sinceramente, solo a me queste parole ricordano qualcuno? I ducetti, sono ben presenti tutt’oggi, li vediamo, li sentiamo ai telegiornali, io non credo che oggi ci sia un clima di neo-fascismo, ma di pre-fascismo, forse si.

Le parole uccidono, le parole sono pietre scagliate nei confronti delle minoranze, delle diversità, delle donne, dei deboli. Allo stesso modo fece il regime con Antonio, lo delegittimò, non lo uccise con una esecuzione sommaria, o non lo riempì di botte come da prassi, lo incarcerò e lo sacrificò, lentamente in oltre dieci anni di detenzione.
La sera del 25 aprile 1937 Antonio venne colpito da un’emorragia cerebrale. Neppure in questa estrema circostanza fu assistito adeguatamente, dal punto di vista clinico, (le suore della clinica dove fu segregato negli ultimi da due anni di detenzione, gli mandarono un sacerdote).
Gramsci si spense all’alba del 27 aprile, alle ore 4,10.
Gli ideali di Nino, i suoi pensieri, non morirono con lui.

Grazie alla cognata Tatiana, abbiamo avuto la fortuna di leggere le lettere dal carcere ed i quaderni.
Pensate, se non fosse stato incarcerato e se non ci fosse stato il fascismo, quante idee, parole e riflessioni avrebbero reso più ricca l’intera umanità.

Quanta rivoluzione del pensiero civile, illuminista, libertario e progressista, sarebbe potuta uscire da una delle menti più ricche e brillanti della storia dell’uomo.

In fondo Gramsci diceva solo che ad ogn’uno occorreva dare le stesse possibilità, sognava una mondo libero, equo, senza oppressori e senza confini, intagliato sulla pianta della giustizia sociale, dove i libri, al posto delle armi diventavano, il grimaldello per aprire le saracinesche del privilegio.

Nulla, a mio modestissimo parere di più moderno ed attuale è mai stato pronunciato, oggi, le moderne élite dominanti di politici e politicanti, vanno bene solo a contare i voti, come noi, da ragazzi contavamo le figurine dei calciatori.

Gramsci, come ricerca di un nuovo futuro, Gramsci come speranza, Gramsci che per non rinnegare i propri ideali rimase in carcere fino alla fine, pensate quanta differenza con chi ancora oggi rincorre il moderatismo, l’appiattimento verso destra del pensiero politico.

Perché è proprio in questo “mondo di mezzo”, che si generano i mostri che potrebbero distruggere il genere umano, se non la smettiamo di vergognarci della radicalità, rossa e libera come la mente di Antonio Gramsci.

Per crescere all’Italia servono meno letterine e più spesa pubblica

Calo del Pil e aumento degli interessi sul debito pubblico. Questo in sintesi il motivo per cui il debito non scende e l’Europa manda letterine.
Nel primo caso è presto detto. Per fare un bel matrimonio devi spendere, per rendere felici gli invitati e magari per ricevere bei regali in cambio. Perché ci possa essere crescita bisogna spendere in investimenti, opere pubbliche, assunzioni e magari incentivare aumenti di stipendio.
Ovviamente, quando si lanciano i semi sul terreno poi bisogna aspettare che l’albero cresca ed è inutile nel frattempo piangere sui semi versati. I frutti ci saranno ma bisognerà aspettare. Quindi l’investimento oggi, sotto qualsiasi forma si decida di farlo, produrrà frutti tra qualche anno ma nel frattempo il debito crescerà perché quegli investimenti saranno il risultato di una spesa dello Stato.
Ciò che serve è allentare la borsa, aumentare i deficit per fare investimenti e fare in modo che le persone abbiano più soldi da spendere. Poi si aspettano i risultati che non potranno arrivare prima di due o tre anni almeno.
Impossibile contabilizzare annualmente gli investimenti e stupido pretendere di fare questi conti anno per anno. Quindi quello che non funziona, come sempre in questa Europa, è il metodo e l’ossessione per il debito e la spesa dello Stato conteggiata anno su anno e nelle previsioni per gli anni a seguire. Il problema non è certo il governo di turno, soprattutto se si pretende che l’unica cosa che debba fare e accondiscendere i mercati e controllare se i bilanci siano in linea con le attese dei fantomatici investitori. L’impedimento alla crescita viene dalle regole economiche che si pretende debbano essere in posizione privilegiata rispetto alla politica.
Il secondo caso contempla gli interessi che annualmente si pagano sul debito pubblico. Anche qui si guarda al dito e non a quello che il dito mostra. Il debito cresce perché non migliora il rapporto con il Pil, cioè se è vero quanto abbiamo detto ai precedenti punti, sarà vero anche che il debito è destinato a crescere.
Si potrebbe però abbatterlo in tanti modi. Vendendo i btp attraverso aste competitive piuttosto che aste marginali (vedi precedente articolo qui I continui autogol nella partita degli interessi sul debito), oppure si potrebbe non considerare nel conteggio del debito i btp già riacquistati e in possesso della Banca Centrale. Ancora, si potrebbe incentivare l’acquisto dei btp da parte delle famiglie e aziende italiane seguendo il modello giapponese oppure si potrebbe concordare con gli altri paesi dell’eurozona un efficace e costante intervento a sostegno dei debiti pubblici da parte della Bce, sul modello giapponese, americano, coreano, svedese, ecc…
E si potrebbe soprattutto pensare seriamente alla crescita. Ma bisognerebbe rilanciare gli investimenti. E per rilanciare gli investimenti potrebbe seriamente intervenire una Banca comune europea che lo faccia “senza scopo di lucro” perché agirebbe come una banca pubblica e quindi si dovrebbe preoccupare che gli investimenti vengano effettivamente fatti sui territori, e non certo di riavere indietro gli interessi su quanto prestato.
E poi si potrebbe aumentare la liquidità in giro con l’idea dei mini bot, oppure con i certificati di credito fiscale. Ovvero strumenti che potrebbero essere paragonati ad una moneta parallela. Strumenti che permetterebbero l’aumento degli scambi all’interno della Nazione senza creare debito perché funzionerebbero come una moneta complementare e non si toccherebbe l’euro. Ma anche qui parte la litania dello spaventare i mercati e gli investitori.
Siamo all’isteria. Non è più nemmeno possibile immaginare delle soluzioni che, ancor prima che qualcuno si spaventi realmente, ci pensa Ilsole24ore a mettere in guardia, a frenare qualsiasi possibilità di scostamento dalla linea tracciata dai padri fondatori della gabbia neoliberista.

Il consiglio è sempre lo stesso. Provare a capire chi si sta difendendo quando si rifiuta di prendere in considerazione strade diverse, quando si attacca chi propone qualcosa di nuovo e si impone la strada vecchia. La stessa che sta distruggendo la nostra economia e costringe uno Stato a programmare l’esistenza dei suoi cittadini affinché siano in grado di pagare dai 50 ai 70 miliardi di interessi all’anno, quando non ce ne sarebbe alcun bisogno.
Tutti i modi per aumentare il benessere dei cittadini passano da decisioni politiche e non da regole tratte dal manuale del piccolo economista. Tante soluzioni o strade che sarebbe possibile seguire, o tantomeno discutere, affinché la crescita sia non solo possibile ma anche equa e costante e che si basi su cooperazione e condivisione piuttosto che su mercati finanziari, borse, guerre commerciali, competizione e letterine dei soliti noti.

L’uomo con la pistola

A.A.A. Avviso agli elettori
Fra pochi giorni i ferraresi sono chiamati al ballottaggio.
Gli elettori hanno sempre ragione, quindi sarebbe stupido oltreché inutile prendersela con i tanti che al primo turno hanno dato il loro voto alla Lega e ad Alan Fabbri. Ma è lecito chieder loro di aprire gli occhi. Su quanto gli aspetta, a loro e alla nostra Ferrara, se Fabbri dovesse diventare Sindaco. E su quali saranno i suoi compagni di avventura.
Credo che siano in tanti i cittadini che hanno votato Fabbri, non per un’adesione convinta al suo partito o perché affascinati dall’uomo con il codino e dalle sue pochissime idee, ma semplicemente per affermare un bisogno di cambiamento. Cambiare per cambiare… senza però chiedersi dove ci porterebbe il cambiamento della nuova Destra.
Per farsene un’idea, per aprire gli occhi prima che sia troppo tardi, se già non l’avete fatto, può bastare la visione di un video che in queste ore sta girando per tutti i social.
Regista, autore e protagonista del video è Stefano Solaroli, candidato eletto al Consiglio Comunale tra le fila della Lega con 100 preferenze. Prendetevi un minuto e mezzo – tanto dura il video – per guardare e ascoltare il videomessaggio di Solaroli. Disteso sul divano, sorridente, ammiccante, l’occhio pallato, il candidato eletto si passa da una mano all’altra la sua amata pistola, una Berretta 70 del 1969. La mostra in primo piano, la accarezza e, tutto contento, promette di diffondere il più possibile quel ‘video verità’. Ci è riuscito benissimo perché Il video con la pistola è arrivato anche sui media nazionali.
Che vuole comunicarci Solaroli? Come, quando, contro chi ha intenzione di usare il suo cannone? L’autore e co-protagonista (insieme alla pistola) dello spot elettorale non ha nessun bisogno di entrare in particolari. La messa in scena dice già tutto. E cioè: Cari ferraresi, la musica è cambiata, non abbiamo più paura di mostrare quello che siamo, perché d’ora in poi saremo noi a dettar legge, con le buone o con le cattive.
Domenica prossima torneremo a votare. Avremo davanti cinque anni di un ‘governo con la pistola’ o i ferraresi apriranno finalmente gli occhi?

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Le parole chiave

Ho dormito a fianco del Velino con il Terminillo per sfondo. Ho percorso la città sotterranea che si snoda lungo il viadotto costruito nel III secolo a. C. dai Romani per consentire alla via Salaria, l’antica via del sale, di superare il fiume Velino e di raggiungere la città. Ho visitato il teatro Tito Flavio Vespasiano, unico per la sua acustica, e la Biblioteca Paroniana con la sua preziosa collezione di atlanti antichi come l’Atlas sive Cosmographicae Meditationes di Gerardo Mercatore, l’olandese Gerhard Kremer, e l’Italia di Antonio Magini, pubblicato a Bologna nel 1620.
Sono stato invitato a Rieti dall’associazione Nuovi Percorsi per parlare di Città della Conoscenza. Quando ci si interroga sul futuro, la prima cosa che una città oggi ha necessità di apprendere è quella di sapersi porre le domande giuste per evitare di sbagliare la strada nella ricerca delle risposte.
E le domande giuste le ho trovate nelle parole chiave con cui gli amici di Rieti hanno preparato il nostro incontro. Quattro: territorio, società, cultura, identità. Ma non perché siano nuove, semplicemente perché sono “le parole chiave”.
Cosa significa territorio, cos’è territorio? Una parola, preceduta dal suo articolo determinativo “il”, “il territorio”, di cui abbiamo abusato nel secolo scorso e che la globalizzazione anziché dilatare ha ristretto, fino a farlo scomparire. Il territorio si è ammalato. Il territorio è stato soppiantato dall’ambiente. Non dagli ambienti, ma dall’ambiente e ce n’è solo uno in tutto il mondo: l’ambiente. La sua difesa, la sua tutela, pena la sopravvivenza della specie umana.
E mentre il territorio si faceva “iper” per perdersi nell’ambiente, la storia, le migrazioni si appropriavano dei luoghi della nostra stanzialità. Così dal territorio siamo regrediti al luogo, da chiudere tra paratie per impedire che l’onda del fiume in piena di una umanità in movimento ci travolga. Col mutare della geografia degli spazi è mutata anche la geografia dei pensieri.
Le pietre che limitano gli spazi, che consentono di riconoscere le aree comuni sono state divelte. Società è parola destrutturata. L’abitare insieme tutti differenti per età, culture, occupazioni, redditi, stili di vita, l’interagire di ogni individuo continuamente con un numero di altri individui per le ragioni più disparate, tutto è stato ridotto ad un unico comune denominatore: il popolo. Socio, compagno, amico, alleato, relazione, organizzazione, interagire per obiettivi comuni inaspettatamente non appartengono più al lessico della polis, come se improvvisamente avessero bruciato i loro significati.
Non viviamo più entro i limiti dei nostri confini, vale a dire entro lo spazio dei fini condivisi, ma abbiamo innalzato le frontiere. La comunità che innalza le frontiere non è più “socievole”, “abile socialmente”, ma al contrario si fa “tribù”. Troppo difficile da reggere la società aperta e i suoi nemici, meglio la società chiusa con pochi amici.
La cultura, il coltivare insieme il sapere non si fa più. Non c’è un sapere comune, del sapere si è giunti a diffidare. La cultura è il passato. Dinamicità e processualità della cultura sono i nemici del sistema di senso dominante che ha soppiantato ricerca, cultura scientifica e competenze. La cultura è l’élite che si contrappone al popolo, che ha il sapere della pancia che va celebrato a folklore e salsicce. La cultura sono le radici ancestrali di un popolo da contrapporre alle culture dei popoli che lo vogliono invadere e ridurre alla fame.
La cosa peggiore che può accadere è perdere la propria identità, annullata dall’etichetta posticcia e indefinita di popolo. Cancellare l’identità di una persona è negarne l’esistenza, privarla del diritto di essere persona, con la sua storia, le sue emozioni, le sue memorie.
La riconoscibilità, cancellare la riconoscibilità che non sia l’identificarsi con il popolo o con il “cittadino” di lontano ripescaggio.
I nuovi soggetti al governo del paese hanno cassato significato e futuro di parole che sono la chiave della convivenza, della crescita, dello sviluppo, della democrazia: territorio, società, cultura, identità.
Parole rispetto alle quali abbiamo invece l’urgente bisogno di apprendere a dare risposte nuove, a indagarne la complessità e le sfide a partire da dove stiamo insieme, da dove condividiamo le vite: le nostre città. Fare delle nostre città i sistemi complessi che apprendono, l’opera della “rinascita” come è stato nella storia e nella cultura del nostro paese. In un sistema sociale maturo gli attributi che consentono agli individui di essere cittadini attori interagenti sono l’apprendimento, l’invenzione e l’adattamento. Non ciò che conosciamo ma ciò che ancora non sappiamo.
Si tratta di uno spostamento nel nostro modo di pensare che comporta la partenza verso terre non ancora esplorate, pertanto non possiamo permetterci di perdere la bussola dei quattro punti cardinali: territorio, società, cultura e identità.

Qualche riflessione sul voto in attesa del 9 giugno

A Ferrara gli elettori sono 108.509. Domenica 26 maggio, si sono recati alle urne 77.589 elettori, che valgono il 71,50% del totale. Numeri non da poco e che testimoniano indubbiamente una volontà di partecipazione. Del resto il momento era storico e lo è ancora, visto che lo vivremo fino al 9 giugno prossimo

Guardando i numeri si nota una particolarità nel modo di votare dei ferraresi. L’osservazione è nata quando ho letto su Estense dell’ottima performance di Naomo Lodi che ha ricevuto ben 1.197 preferenze, risultando sicuramente il candidato alla poltrona di consigliere più votato tra gli oltre 500 candidati, sparsi tra le 17 liste presenti.
Ferrara era chiamata a eleggere, oltre al Sindaco, anche 32 consiglieri, ma i 77.589 elettori confluiti alle urne hanno espresso 71.416 voti di lista validi e solo 23.786 voti di preferenza. Cioè solo il 33,3% degli elettori che si è recata alle urne ha voluto esprimere una preferenza. Ma vediamo i numeri un po’ più nel dettaglio.

La Lega, risultato primo partito a Ferrara, ha ottenuto 22.093 voti di lista ma solo 3.415 voti di preferenza. Dietro Lodi arriva Zocca Benito che di voti ne ha presi 239. Un abisso, poi tutti gli altri.
L’ultimo dato in colonna rappresenta la percentuale di voti di preferenza rispetto al voto di lista. Si va da un massimo del 53,43% ad un minimo del 6,93% nel caso del M5S.

Alle comunali del 2014 abbiamo avuto più o meno le stesse proporzioni tra voto alla lista e voto di preferenza. Il M5S ottenne 11.742 voti alla lista e solamente 795 preferenza. Il Pd 34.464 alla lista e 12.262 voti di preferenza. La Lega (allora Nord) 245 voti di preferenza contro 2.471 alla lista.
L’impatto visuale dei dati relativi a questi tre partiti è il seguente

Singolare che Pd e M5S abbiano mantenuto la stessa percentuale a distanza di 5 anni.
Addentrandoci nell’interpretazione dei numeri, come prima conseguenza di questi ‘voti mancati’ siederanno in Consiglio Comunale della città estense consiglieri con una dote di 61 oppure 41 preferenze, che dovrebbero essere proprio quelli del M5S. Su una popolazione votante di 77.589 cittadini risulta quanto meno singolare.

Di seguito uno sguardo ad altri Comuni che si sono recati al voto il 26 maggio 2019: Pescara, Civitavecchia e Campobasso. Tre Comuni di Regioni diverse.

L’unica analogia con Ferrara la troviamo nel dato di Pescara relativo al M5S. Per il resto, nelle altre città prese a campione, i voti di preferenza si avvicinano a quelli di lista e in molti casi li superano, grazie al voto disgiunto.
Guardando ai numeri, potremmo dire che in queste tre città gli elettori abbiano dato maggiore importanza alla persona. Sembra siano stati più attenti ai nomi da mandare nei propri Consigli.

Il confronto tra questi dati mostra che l’elettore ferrarese confida più nel simbolo, nella lista, che nelle persone. Ma in un’elezione comunale in genere si tende a scegliere il candidato più che la lista. E questo in particolare nei Comuni piccoli o medi, dove ci si conosce un po’ tutti. La conoscenza personale diventa meno palpabile nelle grandi città come Milano, Roma o Napoli.
Poca considerazione del candidato, quindi? Eppure nelle varie liste erano presenti persone anche molto impegnate sul territorio e nel sociale che sembra proprio siano state quasi ignorate.
Resta il dato. A Ferrara solo un candidato supera quota 1.000, Naomo Lodi. Seguito dalla consigliere uscente Ilaria Baraldi, a quota 516. Più o meno si ferma a metà.

PER CERTI VERSI
Il 2 giugno

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’.

Era un giorno
Speciale
Si aprì il cielo
E una metà era ancora buia
La corsa al seggio
Portava i capelli al vento
Finito era il peggio
Dicevano il meglio arriverà
Il vento i capelli scompiglio’
Correvano al seggio
Piene di sorriso
Il loro sorriso
L’altra metà del cielo
Finalmente illuminò

PER CERTI VERSI
Tra natura e società

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

LA TUA LUCE.

La tua luce corre
sul confine
dei miei occhi
Indossa un pullover grigio
dalle sfumature arancio
È l’anima di una notte
Che sta alitando sulla Terra
Persa nella sera
Dei fischi di pioggia
Tu sei la voce
Che scivola
Sul filo
Della radio
dentro la rotta
della vita mia
Spalata
Da un quadrifoglio
Del caso
E se ne stanno
Appese al filo
delle acque
le rane
al pericolo
di un cane gracidando affannate
Nella stessa ora delle rondini
e la fame che sbatte
i loro piccoli ai nidi
Siamo fatti
di albume noi due
Lo sai
Albume coperto di zucchero
E tu sei il lume
che corre
sul confine dei miei occhi

VUOTO PNEUMATICO

No
non riesco proprio
a guardare
Nel vuoto pneumatico
Di questi tempi
Cosi brutali
di questa politica
senza polis
di queste poleis
senza politica
di uomini e donne
dilavati dal senso civico
dal dissenso
non riesco
a cozzare contro la spessa
Muratura dell’incompetenza
O fare il filo con le semplificazioni
E le facilonerie da bar
Come se tutti fossimo cuochi
e cuoche con ottime ricette
Per l’Italia
e persino il mondo intero
dentro il baluardo
delle mura ombelicali
del prima noi poi loro
prima l’io poi gli altri
i dannati della Terra…
La verità è che l’estrema ricchezza
è la fonte
Della grande disperata povertà

APPELLO PER IL VOTO A MODONESI
Cambiare in meglio, contro l’onda oscurantista: hanno firmato in 240

Pubblichiamo, qua di seguito, l’appello – sottoscritto da 240 concittadini – che motivano il loro voto al candidato sindaco Aldo Modonesi con la volontà di propiziare un cambiamento in senso progressista: “…Gli chiediamo di porre in opera politiche concrete per la riqualificazione urbana e la sicurezza, per l’ambiente e la cultura, risorse fondamentali del bene comune cittadino. E di assumere con coerenza come priorità l’impegno a favorire la permanenza sul nostro territorio dei giovani che qui sono nati o che qui sono arrivati per studiare o lavorare…”.
Fra i firmatari, moltissimi nomi noti della cultura, dell’università e della scuola, dell’associazionismo, del giornalismo, delle professioni e del sindacato

Appello per il voto ad Aldo Modonesi

Ferrara è una città unica, ricca di potenzialità straordinarie.
Siamo fieri – come lo è la grande maggioranza dei ferraresi – di vivere in una delle capitali del rinascimento italiano, in uno dei Siti Patrimonio Unesco più importante d’Italia.
E siamo indignati da quanti oggi vogliono descrivere Ferrara per quello che non è: decadente, malavitosa, disperata. Sono gli stessi esponenti di quella vecchia destra politica che cerca da decenni di appropriarsi del governo della città, strumentalizzando a questo fine ogni malcontento e ogni sofferenza, senza fornire prospettive credibili.
Si fingono protettori di una parte fragile e indifesa della società, esasperata da questi anni di crisi economica. Ma in realtà mirano solo a contrapporre persone deboli a persone ancora più deboli, ad amplificare il malcontento senza alcuna proposta per ridurre il disagio e le disuguaglianze. Se vincessero, i deboli resterebbero deboli, i privilegiati lo sarebbero ancora di più. Basta guardare cosa stanno facendo al Governo del Paese per rendersene conto.
A Ferrara si propongono come “il cambiamento” ma l’unico cambiamento che ci si può attendere da loro è un imbarbarimento delle relazioni sociali, una riduzione degli spazi culturali e associativi, la dissipazione delle risorse, un crescente isolamento che si rifletterà negativamente anche sui servizi sociali, sul turismo e sull’economia locale.
Anche i firmatari di questo appello vogliono e chiedono un cambiamento, ma in una direzione completamente diversa, meno propagandistica e più ancorata ai problemi delle persone e del territorio. Meno finalizzata, anche a sinistra, a catturare il consenso elettorale a breve e più impegnata e capace, anche a sinistra, di guardare al futuro della città e al benessere delle persone che ci vivono: una politica dotata di una visione del futuro che in questi anni di crisi si è appannata.
Vogliamo un cambiamento meno generico, meno animato da un’indistinta furia distruttrice verso tutto ciò che è stato fatto in passato e più fondato sulla competenza, sulla fatica di distinguere tra le cose, non poche, che vanno salvate e anzi valorizzate e quelle che invece vanno migliorate o radicalmente riviste.
Per questo in vista del ballottaggio del 9 giugno sosteniamo con convinzione la candidatura di Aldo Modonesi, come artefice di una unità programmatica delle liste e dell’elettorato civico e di sinistra. Per questo chiediamo a tutti i cittadini di votare per lui e aiutarci ad arginare il disfattismo e il qualunquismo.
Ma non è un mandato in bianco. A Modonesi chiediamo di farsi con più chiarezza portatore di un messaggio di cambiamento nel rapporto con la comunità, con le associazioni, con i cittadini. Gli chiediamo di assumere impegni netti e precisi di fronte alla città intera: impegni che guardino al mondo del lavoro, ai giovani che non lo trovano, agli anziani fragili, soli e insicuri e a quelli che vogliono continuare ad essere cittadini attivi, non un costo ma una risorsa della nostra comunità. Gli chiediamo di porre in opera politiche concrete per la riqualificazione urbana e la sicurezza, per l’ambiente e la cultura, risorse fondamentali del “bene comune” cittadino. Assumere con coerenza la priorità di favorire la permanenza sul nostro territorio dei giovani che qui sono nati o che qui sono arrivati per studiare o lavorare. Gli chiediamo di fare di questi temi l’asse portante di questi ultimi giorni di campagna elettorale: le priorità condivise dalle liste che sostengono la sua elezione.
A nostro avviso ciò darebbe alla candidatura di Aldo Modonesi, e alla sua giunta che dovrà essere di riconosciuta competenza, non solo la spinta necessaria a battere l’onda oscurantista della lega ma la prospettiva per offrire alla città una visione nuova e partecipata del futuro.

Elenco sottoscrittori:

Paolo Accardo
Giuseppe Adesso
Sara Aggio
Francesco Aguiari
Dario Alba
Simone Alberti
Silvia Albieri
Alfredo Alietti
Sandro Arnofi
Hugo Aisemberg
Marco Ascanelli
Monica Ascanelli
Fabio Artosi
Adam Atik
Raffaele Atti
Fiorenzo Baratelli
Guido Barbujani
Francesco Barigozzi
Ibrahim Bashar
Davide Bassi
Pier Giorgio Baroni
Francesca Battista
Marco Belli
Susi Bennati
Eugenio Benini
Giuliana Besantini
Matteo Bianchi
Andrea Bignardi
Paola Bigoni
Marco Blanzieri
Francesca Boari
Gino Boari
Alice Bolognesi
Barbara Bolognesi
Alessandra Bolognini
Dino Bonazza
Loredana Bondi
Silvia Borelli
Andrea Borgi
Giorgio Bottoni
Alessandro Bratti
Marcello Brondi
Elena Buccoliero
Ivan Bui
Nausicaa Bulgarello
Rita Busoli
Laura Calafà
Vittorio Caleffi
Fabio Campagna
Laura Campoli
Daniela Cappagli
Miriam Cariani
Ermes Carlini
Emanuele Casalino
Roberto Cassoli
Gabriella Cavalieri
Maria Cavalieri
Mirko Cavallini
Emanuela Cavicchi
Franco Cazzola
Barbara Celati
Sabrina Cerini
Massimo Chiacchiararelli
Alessandra Chiappini
Enrica Cicerone
Annamaria Cino
Andrea Cirelli
Luigi Cocchi
Paola Cocchi
Sebastiano Correggiari
Rosanna Covi
Eva Croce
Tito Cuoghi
Ennio Dal Bo
Giuseppe D’Arelli
Fabio De Luigi
Sergio Dolci
Massimiliano Diolaiti
Rosa Domanico
Gabriella Dugoni
Enrico Duo
Robert Elliot
Roberto Evstifew
Gabriella Fabbri
Irene Fantini
Manuela Fantoni
Alessandra Farnetti
Grazia Fergnani
Annalisa Ferrari
Davide Ferrari
Loredano Ferrari
Giovanni Fioravanti
Davide Fiorini
Elena Forini
Michele Frabetti
Maura Franchi
Catia Franchini
Giuliano Gallini
Rosanna Gallio
Riccardo Gallottini
Alessia Gamberini
Silvano Gambi
Elena Gamboni
Giampiero Gargini
Susanna Garuti
Sergio Gessi
Luisa Ghezzo
Davide Ghidoni
Manuel Gigante
Giulia Gioachin
Dario Giorgi
Micol Giorgi
Donata Giusti
Gianfranco Goberti
Edy Golinelli
Riccardo Grazzi
Luca Greco
Salvatore Greco
Ludovica Grillo
Cristina Gualandi
Silvia Guaraldi
Giuliano Guietti
Domenico Laganà
Mattia Lanzoni
Francesco Lavezzi
Massimo Leoni
Luca Liguori
Silvia Lodi
Fiorella Longhini
Franca Longhini
Claudio Lorenzetto
Daniele Lugli
Kalaja Lutmuri
Carl Wilhelm Macke
Massimo Maisto
Lolita Magnanini
Mara Mangolini
Ida Mantovani
Marilena Marassi
Lucia Marchetti
Ilaria Marchi
Giovanna Marchianò
Paolo Marcolini
Mario Mascellani
Annalisa Massarenti
Alessandro Massarenti
Filippo Massari
Luana Mazza
Cristiano Mazzoni
Glauco Melandri
Francesca Mellone
Corinna Mezzetti
Paola Migliori
Letizia Minotti
Dino Montanari
Patrizia Moretti
Mascia Morsucci
Rosi Murro
Italo Nenci
Carlo Occhiali
Mariangela Occhiali
Silvana Onofri
Sandra Pareschi
Michele Pastore
Renata Patrizi
Carola Peverati
Elisa Piacentini
Sonia Pico
Patrizia Pigozzi
Graziella Piola
Cristiano Pistone
Paola Poggipollini
Barbara Poltronieri
Marcello Pradarelli
Ferdinand Preka
Alessio Pulizzi
Anna Quarzi
Antonio Raimondo
Giuliana Rasi
Maurizio Ravani
Enrico Ribon
Marco Righi
Carlo Rivetti
Giorgio Romagnoni
Eileen Romano
Leone Rossatti
Gabriella Rossetti
Flavia Rossi
Guglielmo Russo
Erika Salvioli
Giovanni Sandri
Gaetano Sateriale
Erika Savaglio
Letizia Savonizzi
Laura Scagliarini
Sabrina Scanavini
Giuseppe Scandurra
Savina Scavo
Ansalda Siroli
Rodolfo Spanazza
Lidia Spano
Velleda Strozzi
Daniele Serafini
Daniela Siri
Silvia Sitta
Gianna Stabellini
Franco Stefani
Veronica Tagliati
Renata Talassi
Alessandro Talmelli
Marco Tassinari
Fabrizio Tassinati
Marisa Tassinati Cardin
Maria Antonia Trasforini
Cadia Terenzi
Enrico Testa
Ruggero Tosi
Giusi Trentini
Luciana Tufani
Alessandra Tuffanelli
Rita Turati
Leonardo Uba
Gabriella Ursino
Alessandra Vaccari
Nazzareno Valenti
Federico Varese
Gianni Venturi
Elisa Veronesi
Alessandro Vignali
Rita Vitafinzi
Natale Vitali
Vincenzo Vona
Liviana Zagagnoni
Cristiano Zagatti
Davide Zanella
Marco Zanirato
Elisabetta Zannini
Roberto Zapparoli
Giorgio Zattoni
Valentina Ziosi

La regola del mare: perché sottoscrivo l’appello per il voto a Modonesi

Quando la nave è in pericolo, anche se non si è condivisa la rotta, è saggio che tutti i passeggeri contribuiscano a ripristinare il giusto assetto. Sciocco e fatale – in quel frangente – è restare inerti a discutere con il comandate le scelte compiute. Poi, una volta ripristinate le condizioni di sicurezza della navigazione, si potrà a giusta ragione valutare come si debba orientare il timone…

Ho spesso criticato, in passato, Aldo Modonesi. Ma oggi Ferrara si trova a un bivio molto rischioso: cedere al semplificazionismo leghista, credere che i nostri problemi si possano risolvere con facili e vaghe ricette, alimentare uno scontro fra soggetti deboli e altri ancora più deboli finirà col creare una sempre maggiore disuguaglianza sociale: a trarne vantaggio sarà chi già si trova in una condizione privilegiata.

Ferrara per la prima volta è posta dinanzi alla prospettiva di una radicale svolta amministrativa. L’alternanza, in politica, è una sana prassi che spesso contribuisce a rendere dinamici i meccanismi gestionali ed evita il rischio di incrostazione clientelari e consociative. Ma chi oggi si candida al governo della città non offre sufficienti garanzie, né sul piano delle competenze, né tantomeno, su quello del rispetto dei diritti di tutti membri della comunità.
La linea politica della Lega, di cui Alan Fabbri è rappresentante, fa leva su parole d’ordine violente e su un modello di società divisivo, nel quale non si ricerca il confronto e l’intesa ma, al contrario, alla sana prassi del dialogo si sostituisce l’invettiva. Il risultato rischia di generare una città non accogliente né inclusiva, incapace di essere rispettosa dei diritti di tutti e tantomeno di tutelare i soggetti più deboli (anziani, malati, disoccupati…); propensa, semmai, a garantire proprio coloro che già godono di privilegi.

Per questo, a prescindere dai rilievi mossi all’attuale candidato del centrosinistra, volgo lo sguardo ad Aldo Modonesi e individuo in lui un politico in grado di tutelare i valori di civile e democratico confronto nei quali mi riconosco. Dunque, in vista del ballottaggio del 9 giugno per l’elezione del sindaco, ho sottoscritto l’appello in suo favore (diffuso oggi e pubblicato anche su Ferraraitalia) e invito a sostenerlo con il proprio voto tutti coloro che condividono queste mie valutazioni.
Sento il dovere di chiarire, per correttezza, che questa scelta – libera e individuale – impegna me solo e non coinvolge coloro che, a qualunque titolo, collaborano con la testata di cui sono direttore.

Nei prossimi giorni mi aspetto che il candidato dia ancor maggiore sostanza al proprio programma. Ottime idee, per esempio, sono state espresse e tradotte in concreti progetti da Coalizione civica e Azione civica, due dei soggetti che lo appoggiano al ballottaggio. L’obiettivo è definire strategie e linee d’azione in grado di favorire un forte rilancio della città. Spero anche che Modonesi decida di rendere preventivamente noti i nominativi dei componenti sulla sua eventuale futura Giunta, per rendere chiaro che accanto a lui opereranno i migliori e più qualificati esperti in ogni ambito proprio dell’amministrazione comunale, offrendo così preventiva garanzia ai cittadini di chi avrà cura della nostra città.

C’era una volta Roberto Soffritti, un bieco comunista… E Ferrara sembrava Bengodi

C’era una volta un sindaco, a Ferrara, che si chiamava Roberto Soffriitti ed era uno dei loro, cioè un bieco comunista. C’erano – e forse ci sono ancora – due schiatte sociali, i signori padroni e i lavoratori, operai e impiegati, gente da basto, da bastone e da galera, insomma il paradiso e l’inferno: dietro ogni angolo si nascondeva un assassino in camicia rossa, ora più semplicemente in scarpe da tennis, pantaloni stracciati e possibilmente telefonino incorporato. Sempre più difficile distinguere le appartenenze visto che i figli dei signori sembrano i rampolli di operai, quelli che restano, di operai dico, perché le macchine di ogni genere, piccole e grandi, semplici o complicate, manuali o informatizzate, troppo spesso pericolose e omicide, macchine che schiumano chimica e ammazzano anche chi sta più lontano, come mamme e bambini, sono diventate armi micidiali, subdoli carri armati invisibili, dissolti nell’aria e respirati a pieni polmoni.

Non è che anche allora, prima metà degli anni Novanta, quando Soffritti fu nominato sindaco in sostituzione del suo predecessore che andò a Roma, le armi micidiali e subdole non ci fossero, semplicemente non si pensava che fossero nascoste ovunque, anche nel giardinetto di casa, il veleno era diventato un sacro compagno di vita. Non era facile un terzo di secolo fa, quando ancora giravo per l’Italia su e giù, capire che oramai il problema ecologico era diventato un primario argomento politico, chi osava dirlo veniva accusato di essere un catastrofista, un disfattista, minimo minimo un pericoloso pessimista. Se gli raccontavo le macabre storie delle fabbriche in Lombardia, in Liguria, in Piemonte chiuse, falcidiate dal cancro contratto sui luoghi di lavoro, un sorriso di compatimento nasceva sui volti di datori di lavoro, di impiegati, di sindacalisti. E la gente moriva. Senza sorrisini di compatimento. “Bisogna fare la rivoluzione”, dicevo al mio sindaco, che spesso mi stava dietro le spalle, poi mi metteva una mano sulla spalla e mi diceva in dialetto: “Gian Pietro, a tiè un poeta”. E se ne andava. Inutile ricordargli ciò che scrisse Victor Hugo: “Soltanto quando governeranno i poeti ci sarà giustizia”. Ma allora tutto sembrava andare nel verso giusto a Ferrara: Farina aveva inventato le grandi mostre, celebrate e poi copiate in tutto il mondo, da Roma arrivavano i fondi per recuperare le Mura e trovare l’acqua calda nel sottosuolo, il danaro contante giungeva dalle casse gonfie della benedetta Coop Costruttori, le prebende venivano suddivise tra Pci, Psi e poi gli altri a scendere, Soffritti era molto attento alla spartizione degli incarichi, la Cassa di Risparmio s’ingrandiva fino a scoppiare, Ferrara sembrava diventata Bengodi.

Ma c’era un inghippo: i soldi finivano quasi sempre nelle tasche più note, mentre cominciavano a giungere attorno al Castello le facce straniere, gli slavi scivolavano giù dall’Est confondendosi – per il colore della pelle – con la popolazione autoctona, i ferraresi non protestavano, erano democratici i ferraresi, porca miseria se erano democratici! Tutti avevano dimenticato! Poi arrivarono le facce scure, anzi nere, e l’antico razzismo si diffuse sulle bancarelle; i negozi più popolari furono affittati a organizzazioni, sempre più forti, di venditori cinesi o bengalesi; i bar, antico crocevia di amicizie, di scambi di opinioni dimenticarono lo strascicato discorrere locale, il dialetto senza doppie, la “s” che si pronunciava “sc”: niente di male se questo disordine sociale fosse stato (e fosse) pilotato. No, i bambini appena sanno stare i piedi vengono mandati nei negozi a maneggiare frutta, di scuola nemmeno parlare, crescono così i bambini senza educazione civica e con le mani sozze. Ma la città non è un campo, non un piccolo agglomerato di case senza ordine: non erano questi i problemi ai tempi del primo Soffritti, l’errore à stato lasciare che le cose andassero avanti alla bengodi. Una nostra collaboratrice domestica un lunedì disse: “Ho portato ieri i bambini a vedere il Castello”. Meno male – ho pensato – ma era il supermercato. Bartolino da Novara, poveretto, si è rivoltato nella tomba.

Luci e ombre delle navi da crociera

Bansky, il famoso street artist inglese dal volto ignoto, ha colpito ancora. E’ sbarcato a Venezia con due recentissime opere: un murale raffigurante un piccolo naufrago che indossa un giubbotto di salvataggio e brandisce con forza una torcia segnaletica rosa e un collage di dipinti che mostrano una enorme nave da crociera che naviga sul Canal Grande, coprendo la vista della città, circondata da minuscoli gondolieri indaffarati a destreggiarsi al passaggio della pachidermica imbarcazione.
Opera, quest’ultima, rimossa in tutta fretta su intervento della polizia municipale, causa la mancanza delle adeguate autorizzazioni. ‘Venice oil’, titolo provocatorio a doppio senso – ‘oil’ in inglese significa non solo olio, ma anche petrolio – del lavoro di Bansky, è una chiara denuncia davanti ai realistici, dannosi effetti del transito continuo dei giganti del mare a contatto fin troppo ravvicinato con la città.

Due opere che sollevano interrogativi, polemiche, critiche e riflessioni su due tematiche scottanti attualissime legate indissolubilmente al mare, che infervorano e alimentano scontri ideologici: l’immigrazione e la navigazione nella città lagunare. La composizione di quadri che nella sua sequenza modulare ci fornisce un effetto d’insieme di grande impatto, raffigura una nave protagonista assoluta della scena, circondata dallo sfondo di una Venezia d’altri tempi, in cui poco rimane di Piazza San Marco e del Campanile. Per quanto riguarda la Venezia di oggi, invece, il Tar, il Comune, la Regione e il Governo stanno valutando le soluzioni più idonee per superare l’impatto ambientale della navigazione pesante a ridosso dell’abitato, le ricadute penalizzanti in termini strutturali, che essa induce in una città fragile, talmente particolare da meritare tutta l’attenzione e la risonanza del caso.

E mentre si studiano gli aspetti logistici più sicuri e percorribili che possano offrire alternative ragionevoli alla grande navigazione, l’industria turistica della crociera è in continua ascesa e il viaggio per mare è una delle scelte più ambite per una vacanza. Secondo i report Clia (Cruise Lines International Association) e Fcca (The Florida-Caribbean Cruise Association), i 9.020.000 di viaggiatori del 2000 sono diventati 23.200.000 nel 2015, destinati ad aumentare esponenzialmente in questi ultimissimi anni. Il Mediterraneo orientale rimane la prima meta scelta dai passeggeri, seguita dal Nord Europa e quindi dai Caraibi. Al primo posto in Europa, la Germania rappresenta il Paese con più richieste di imbarco, seguita dalla Gran Bretagna-Irlanda. L’Italia occupa il terzo posto. Con un giro d’affari notevole, stimato attualmente in 39,6 miliardi di dollari annui, il mercato crocieristico è diventato il tempio del lusso e del divertimento accessibile a una ormai vastissima maggioranza di fruitori, perdendo gradualmente le caratteristiche di vacanza di nicchia che lo aveva caratterizzato agli esordi, negli anni Settanta. La crociera come modalità turistica porta indotto significativo a numerosi altri settori correlati come cantieri, porti e hinterland degli scali, alloggi e ristorazione, visite e itinerari a terra, spettacolo e intrattenimento, dando lavoro a migliaia di persone con le più disparate competenze, offrendo ai giovani sbocchi professionali di non poco conto. Federica S., giovane laureata in Relazioni internazionali, lavora sulle navi da crociera come animatrice.

Qual è stato il tuo esordio in questo contesto lavorativo?
Mi sono appena laureata e volevo provare un’esperienza nuova. Non è semplice per noi giovani trovare un lavoro perché non ce n’è o comunque non c’è garanzia di continuità: niente contratti a tempo indeterminato, ma soltanto a chiamata e poche garanzie anche da parte dello Stato che non ci supporta. Ho avuto la fortuna di essere chiamata a firmare un contratto a tempo indeterminato dalla mia attuale compagnia di navigazione, una delle più grandi al mondo, dopo aver presentato il curriculum. Per un giovane che ha appena terminato gli studi è fondamentale partire da una certezza per poi realizzarsi e rafforzare conoscenze e competenze.

Quali sono gli aspetti positivi e quelli critici del lavoro sulle navi da crociera?
Tra gli aspetti positivi c’è senza ombra di dubbio la possibilità di girare il mondo, conoscere tanta gente, di approcciarti a tante culture, di praticare lingue diverse, cosa fondamentale al giorno d’oggi, soprattutto in alcune professioni, come questa. Qui siamo ben retribuiti e questo è un ulteriore incentivo per dare il meglio. Gli aspetti negativi sono tanti; è difficile stare a bordo lontani da tutto e da tutti coloro che fanno parte della nostra quotidianità a terra, della nostra vita affettiva. Sei sempre in mezzo al mare, non hai punti di riferimento, devi sempre stare all’erta 24h su 24 perché lavorare in mare comporta anche questo; se si verificano emergenze devi essere pronto a lasciare tutto e cercare di salvare la vita altrui. Ci sono anche tante responsabilità e molto spesso questo non viene capito dal passeggero. Io e i miei colleghi non facciamo soltanto animazione: alle spalle abbiamo corsi di formazione di mesi e mesi e ognuno di noi ha un compito preciso per poter salvare una vita in caso di emergenza.

Con quali criteri viene scelto il personale per i vari ruoli e mansioni?
Non è importante la nazionalità, l’appartenenza culturale, come non sono importanti altri aspetti. Importante è invece parlare almeno due lingue oltre la lingua madre, prioritario l’inglese. Il fattore età premia i giovani, verso i quali la compagnia riserva attenzione e permette la possibilità di percorrere una carriera. A bordo c’è una rappresentanza di moltissime nazionalità differenti ed è bello lavorare insieme perché impari tanto, anche quegli aspetti di culture diverse dalla nostra che altrimenti non coglieresti.

La tua attività attuale potrebbe essere il lavoro per la vita?
Sì, perché puoi crescere, non ti fossilizzi nel tuo settore, puoi diventare qualcuno all’interno della compagnia e la compagnia ti apre tutte le porte e ti offre tutti i vantaggi per formarti, approfondire, aggiornarti e migliorare: una grossa opportunità di lavoro anche per tutti quei giovani laureati che non hanno sbocchi professionali. E quello che si guadagna ti rimane perchè non è sottoposto alla legislazione tributaria in vigore nel nostro Stato dal momento che le navi battono bandiere diverse.

Enormi cittadelle naviganti illuminate nella notte, che fanno sognare gli ultimi romantici; bianchi giganti che affrontano i mari sfidando le avversità meteorologiche come un’immagine descritta da Melville; uniche rappresentanti del vero concetto di ‘viaggio’, come sostiene Erri De Luca, quando l’orizzonte è vuoto e niente intorno, per poter assaporare l’immenso. Lasciamole libere di solcare il mare, lontane da costrizioni, percorsi soffocanti, rotte e tracciati che non appartengono loro. Lontane da Venezia.

Secondo turno: mission impossible?

A guardare i numeri della grande batosta, ma anche solo ‘le facce del giorno dopo’ di tanti amici ferraresi, la partita sembra già chiusa e il ballottaggio solo una penosa quanto inutile ginnastica elettorale. Il dato più inquietante? Le 1.200 preferenze raccolte da un eroe popolare come Naomo Lodi. Il distacco tra il primo e il secondo pare davvero incolmabile: una salita più impervia di Cima Coppi. Troppo travolgente l’onda leghista; e troppi gli errori, le divisioni, le timidezze di chi da Sinistra a quell’ondata si voleva contrapporre.
Ci sarà tempo – molto tempo temo, cinque anni tondi tondi – per riflettere su quanto si doveva dire, fare, proporre ai ferraresi e non si è fatto, per ammettere di aver sottovalutato il disagio diffuso che serpeggiava in città e la profonda voglia di cambiamento dopo settant’anni di continuità nel governo cittadino, per capire fino in fondo quanto fosse assolutamente necessario mettere in campo nomi nuovi, proposte inedite e coraggiose: non una edizione riveduta e corretta del passato, ma una nuova idea di città per il prossimo futuro.

Si dirà che ben poco qui, nella piccola periferica Ferrara, si poteva fare per opporsi al vento impetuoso della nuova Destra – quasi una bufera – che ha spazzato tutto il Belpaese e in particolare il Nord d’Italia. E’ vero, ma non del tutto. Qualche cosa si poteva e doveva fare. In due parole: schierarsi non per la continuità, per la conservazione – di quanto, anche di buono, si era fatto negli anni e decenni passati – ma puntare decisamente il proprio obbiettivo sul cambiamento. Invece, un grande pezzo di città che sentiva il bisogno e la voglia di cambiare, alla fine ha trovato casa solo nello slogan assai furbo ‘Ferrara cambia’, e lì ha votato, pensando che quello sarebbe stato l’unico modo per ‘smuovere un po’ le acque’. Purtroppo dall’altra parte non c’era una proposta altrettanto chiara e radicale, ma candidati – onesti e preparati quanto si vuole – ma comunque rappresentanti della vecchia classe politica e dei governi passati. Cambiare, è ovvio, non significa di per sé cambiare in meglio. Un deciso cambio di direzione può portarci nel futuro oppure regalarci decadenza e malgoverno. Ed è precisamente questo, un pericoloso salto all’indietro, ciò che ci aspetta se, com’è probabile, Alan Fabbri uscirà vincitore al 2° turno.
Inutile però correre avanti. Oggi siamo ancora nella Terra di Mezzo. E diventa obbligatorio chiedersi se il 48,5% raccolto da Fabbri al primo turno sia davvero una quota inarrivabile e insuperabile o se Modonesi, rimasto indietro di così tanti punti, possa recuperare. Chiedersi insomma se, e come, una apparente mission impossible possa diventare possibile. Siamo nel campo dell’improbabile, del difficile, del complicato, ma è giusto ricordare che i precedenti ci sono: in qualche altra occasione, in qualche altra città, chi era in basso, chi sembrava inesorabilmente battuto, è riuscito a recuperare tutte le posizioni e a tagliare per primo il filo di lana e laurearsi Sindaco.
L’esempio più vicino a noi è quello della città di Padova, dove alle scorse elezioni comunali due liste progressiste (una a guida Pd e una grande Coalizione Civica autonoma dai partiti) erano state battute entrambe al primo turno da un Centrodestra leghista vicinissimo al 50%. Al secondo turno, e senza bisogno della Madonna o di un miracolo del locale Sant’Antonio, il Centro Sinistra uscì alla fine vincitore.

Nemmeno a Ferrara occorre un miracolo. Oppure sì, ma i miracoli bisogna meritarseli. Per risalire una china ripidissima, per rendere possibile una missione impossibile, bisognerebbe che il Centrosinistra in questi pochi giorni ‘cambiasse spartito’ – non ho scritto partito ma spartito – fosse capace cioè di parlare in modo muovo e dire cose nuove e diverse agli elettori, presentando un progetto concreto e coraggioso nel segno del cambiamento. Immagino Aldo Modonesi impegnato in queste ore a dialogare e trattare per raccogliere l’appoggio degli altri candidati sconfitti. Non credo ci riuscirà – non tutti lo sosterranno – ma anche dovesse riuscirci, non saranno operazioni del genere a consentirgli, non dico di vincere, ma nemmeno di avvicinarsi al bottino di voti raccolto da Alan Fabbri.
Cambiare registro, mettere sul piatto un disco nuovo, mi pare essere l’unica strada per farsi ascoltare da cittadini finora attratti dalla propaganda leghista e conquistare nuovi consensi. Ci si può provare in così pochi giorni? Probabilmente no, ma se non basterà per vincere, sarà comunque questo il cammino da percorrere nei prossimi cinque anni.
Non c’è ovviamente una ricetta infallibile da applicare al caso Ferrara, ma mi vengono in mente due scenari – difficili ma necessari – che potrebbero mostrare a tutti gli elettori un deciso cambio di marcia. Due fatti che potrebbero rimescolare il mazzo e magari, chissà, regalarci qualche sorpresa.

Il primo fatto, la prima mossa, deve venire dalla politica, cioè in primis dal candidato sindaco Aldo Modonesi che dovrebbe assumere alcuni obbiettivi precisi da perseguire nel prossimo quinquennio. Non semplici promesse o buone intenzioni, ma impegni concreti da realizzare nel corso del mandato e che, presi nel loro insieme, propongano un cambiamento nelle politiche fin qui attuate, un deciso cambio di passo nel governo della città. Alcuni di questi punti qualificanti sono stati già suggeriti da gruppi ed esponenti della società civile. Ne elenco alcuni: dall’impegno per la ripubblicizzazione del servizio idrico e del servizio rifiuti allo stop alla esternalizzazione dei servizi comunali, dall’allargamento e promozione di nuovi spazi della democrazia partecipata e decentrata alla costituzione di un grande osservatorio per l’occupazione giovanile e il lavoro dignitoso, dall’impegno per mettere soldi (tanti) e idee (anche) per un progetto sociale, economico e culturale per la rinascita del Gad, al rilancio della mobilità urbana pubblica, alla difesa e valorizzazione dell’ambiente, all’aumento dei servizi, specie quelli domiciliari, rivolti alle fasce deboli e alle famiglie sotto la soglia di povertà. E si potrebbe continuare: a Modonesi basterà prendere in mano e assumere come impegno di mandato almeno alcune delle idee e delle sollecitazioni elaborate dalle tre grandi assemblee civiche: Il Battito della Città, Addizione Civica e La Città Che Vogliamo.
Per marcare ancora di più questa scelta di cambiamento, lo stesso Modonesi potrebbe dichiarare già da ora che a formare la sua squadra di assessori e collaboratori non saranno funzionari, esponenti di partito membri della tradizionale classe politica dirigente, ma personalità scelte dalle fila della società civile, competenti e impegnati in prima persona in campo sociale, economico e culturale.

Intanto dovrebbe accadere qualcosa anche nel più vasto orizzonte sociale. La società civile ferrarese – tanto attiva e propositiva in questi ultimi mesi – dovrebbe ritrovare una unità di intenti che si è andata purtroppo sfilacciando e parlare con un’unica voce. Le tre grandi assemblee civiche, le decine e decine di gruppi e associazioni culturali e di volontariato sociale, i sindacati, le tante centinaia di cittadini che si sono mobilitati in queste settimane, potrebbero tutti assieme fare un appello pubblico per invitare gli elettori ferraresi a votare per cambiare la città. Ma cambiarla davvero e in meglio. Non per tornare indietro, come propone la Lega, ma per costruire insieme una Ferrara più democratica, più civile, più solidale, più moderna.
Mancano pochi giorni al ballottaggio ed è difficile pensare che possa avverarsi un cambio così radicale di prospettiva e di proposta politica. Passare dall’idea della continuità e quella del cambiamento è quasi una rivoluzione copernicana. Significa, soprattutto, attraversare il territorio dell’autocritica, un esercizio difficile, anche doloroso, che la Sinistra – a Ferrara come nel vasto mondo – ha sempre preferito evitare. Ma sarà da lì che occorrerà passare: nei prossimi 10 giorni o nei prossimi 5 anni.

I bisogni e i desideri della gente comune

da Roberto Paltrinieri

Le considerazioni sviluppate nell’articolo ‘La stella cadente’ pubblicato su FerraraItalia lo scorso 22 maggio danno l’occasione e la possibilità di sviluppare riflessioni attorno al particolare momento di vita civile e politica che stiamo vivendo, per cercare di aiutarci reciprocamente a comprendere sempre meglio a che punto siamo del cammino.
Comincio col porre una premessa, secondo il mio parere essenziale all’analisi successiva: il vero soggetto politico che muove gli attuali equilibri non è Salvini o la nuova Destra ma è la gente comune, tutte quelle persone cioè che, nell’attuale contesto sociale, non sentono di far parte di alcun movimento, partito, sindacato e che per decenni non hanno trovato un interlocutore disposto ad ascoltare il proprio disagio, paura, timore rispetto al presente e soprattutto al futuro. La desertificazione culturale e la minimizzazione dell’istanza morale portata dall’era berlusconiana unita all’allontanamento progressivo, fino all’abbandono al loro destino, di intere fasce sociali da parte della Sinistra, hanno prodotto l’incapacità delle persone di poter dar seguito ai propri desideri, ai propri progetti di vita, fino al punto in cui oggi viene sentita minacciata la soddisfazione dei bisogni fondamentali.
La precarizzazione della vita lavorativa, l’incertezza dei rapporti relazionali a ogni livello,da quelli tra Stati fino ad arrivare a quelli familiari e identitari, non può procedere così all’infinito senza provocare lo sviluppo di un malessere che vediamo oggi sorgere già nei giovanissimi in una sorta di ansia crescente nell’affrontare i problemi legati all’esistenza quotidiana.

Non siamo solamente in mezzo ad una crisi… semplicemente sta cambiando il mondo!
Si stanno modificando i linguaggi utilizzati da sempre e le forme dello stare insieme tra le persone, comprese quelle della politica. Al posto della centralità delle istituzioni tradizionali della società, scuola e famiglia in primis, c’è il centro vuoto del virtuale.
In tale sconvolgimento dove si colloca la classe dirigente dei partiti, gruppi, delle associazioni rappresentative del pensiero cosiddetto ‘progressista’ rispetto al sentire della gente comune?
Lo schema interpretativo con cui è stata letta la precarietà della situazione attuale può essere metaforicamente paragonato a una tabella a due colonne: nella prima vengono posizionati i problemi più urgenti (il lavoro, i migranti, l’Europa), nell’altra una correlativa serie di valori di ‘sinistra’ il cui costante perseguimento porterebbe specularmente alla soluzione dei problemi stessi.
Ed ecco che politiche di solidarietà sono invocate per il superamento delle emergenze legate ai flussi migratori; misure di uguaglianza per diminuire la polarizzazione sociale; il richiamo alla responsabilità per colmare il vuoto esistente tra rappresentanti e rappresentati. Che è come dire: “noi sappiamo sempre che cosa fare, dagli altri solo demagogia!”

Il problema oggi però non riguarda il che cosa, ma il come.
In altre parole si tratterebbe di analizzare come sono state attuate nel recente passato, sotto il segno di governi amici, le politiche di solidarietà, di eguaglianza di opportunità, di responsabilizzazione e di come sarebbe possibile oggi praticarle in un contesto avverso.
Cosa ha visto di tutto ciò la gente comune in questi ultimi anni?
Ha visto la solidarietà interpretata come uno stare vicino ai lontani e uno stare lontano dai vicini.
Ha visto politiche per l’uguaglianza delle condizioni socio-economiche ottenute chiedendo continuamente sacrifici al ceto medio, di coloro cioè su cui pesa la sostenibilità fiscale del nostro paese, nella più totale impunità e intangibilità dei grandi interessi di banche e potentati vari.
E tutto questo all’interno della difesa a oltranza di vecchi privilegi, di diritti acquisiti, di rendite di posizione per una classe dirigente di sinistra mai veramente rinnovata nonostante i cambiamenti di leadership.
Così, proprio all’interno dell’animo delle persone che da sempre si riconoscono unite dalla stessa appartenenza ideale, oltre che dallo stesso impegno civile, sono cominciati a nascere sentimenti contraddittori, nella misura in cui il disagio crescente ha portato ad accettare nei fatti equazioni sommarie del tipo ‘migrante uguale delinquente’, o slogan del tipo “prima gli italiani”.
E se poi da governi lontani anni luce dalla storia della sinistra arrivano paradossalmente benefici che i leader dei governi amici hanno sistematicamente sacrificato sull’altare della salute dei conti pubblici, ecco che anche dalla fila dell’elettorato progressista vediamo oggi allungare sempre più mani aperte per almeno usufruire di quei benefici ora concessi, mentre il viso si volge dall’altra parte per non vedere da che parte provengono coloro che hanno fatto questo regalo!

In politica l’ala progressista non rappresenta più il nuovo da molti anni e il miracolo lo hanno fatto gli altri: la gente comune è andata in Parlamento! In mezzo a loro non c’è nessun potente, nessun corrotto, nessun inquisito! Anzi rinunciano anche alla loro indennità di parlamentare, mentre casomai sui nostri cellulari arrivano immagini di quel politico della nostra parte che ha accumulato due o tre pensioni o che ha un reddito per la maggior parte di noi inarrivabile.
Troppo facile invocare il populismo anche se le cose ovviamente non stanno proprio in questo modo, ma è così che viene generalmente percepito e, cosa ancor più grave, sembra che nessunofaccia nulla: nessun segnale di vera rottura con il passato e di novità verso il futuro, per far diminuire tale percezione.
Penso che anche a livello locale chi si candida a governare una città, non possa fare a meno di prendere molto sul serio quello che la gente comune sente. Riprodurre un aggiornamento del solito schema a due colonne – di qua i problemi, di là le nostre soluzioni – per quanto alta sia la loro ispirazione etica, porterebbe ancora una volta a non essere capiti. Non basta più il credere di stare dalla parte giusta, continuare ad avere la stessa fede politica o religiosa che sia, nel cambiamento. La strada da percorrere, a mio modesto avviso, è suggerita da una frase del giudice ragazzino Rosario Livatino: “L’essere credenti appartiene ad un grande mistero e che sappiamo tutti essere un dono; quello che ci è chiesto oggi è di essere credibili!

E torniamo cosi ancora al come.
Una politica coraggiosa che parta dalla realtà, senza approcci ideologici, ma senza anche l’appiattirsi su di essa, dando le risposte che si riesce a costruire insieme a tutti, concrete e condivise il più possibile. Dove prima di chiedere sacrifici, li si fa in prima persona rinunciando a diarie, privilegi, immunità e benedizioni varie.
E’ questo ‘come’ che Salvini ha interpretato e tradotto in un linguaggio compreso da tutti come vicinanza.
Questo è il significato dell’oramai famoso rosario agitato a scopi elettoralistici e che ha lo stesso significato della studiata presenza del ministro sui social: “Sono uno di voi, ho i vostri stessi bisogni, datemi il vostro voto e realizzerò i vostri desideri”.
Tutto si basa sulla realizzazione concreta di quello che si è promesso, o almeno sulla sua rappresentazione e percezione visiva sui media.
Come del resto poi aveva già fatto Berlusconi, Salvini vuole agire su un piano diverso, si rappresenta come un politico diverso. A Salvini non interessa nulla della profondità dell’appello dei missionari Comboniani, degli articoli di Civiltà Cattolica; nulla dell’indignazione di alcuni rappresentanti delle organizzazioni del volontariato solidale, né di quella di autorevoli esponenti di associazioni culturali; nulla della perplessità e preoccupazione dei principali rappresentanti delle istituzioni europee.
Il prezzo che stiamo pagando per tale impostazione è altissimo perché paradossalmente, come disse Humberto Maturana, non i giovani ma gli adulti sono il futuro. Nel senso che il futuro dei giovani dipende dalla responsabilità degli adulti. E se oggi il mondo che stanno preparando gli adulti è quello rappresentato dalla narrazione salviniana quale significato avranno domani parole come solidarietà, accoglienza, responsabilità?
Quale tipo di humanitas vogliamo lasciare in eredità?
Ricordando gli affreschi del ‘Buon Governo’ di Ambrogio Lorenzetti al Palazzo Pubblico di Siena, penso che la risposta a questa domanda ognuno di noi possa e debba trovarla nella decisione di legarsi spontaneamente a tutti gli altri per procedere così quanto mai lontano dalla tentazione sempre presente del potere, e lungo la via, pur difficoltosa e a volte controversa, che porta al bene comune.

Fabbri a un passo dall’investitura, il fanatismo e l’intolleranza della Lega fanno paura

La notte si fa buia. Le elezioni sono andate come si temeva e diversamente da come invece auspicava chi a cuore ha l’interesse collettivo e la concezione di una comunità solidale, aperta al confronto, accogliente, non rinserrata in se stessa. A Ferrara, Alan Fabbri si è fermato a un passo dallo storico successo, ha raccolto circa 36mila voti e gliene sarebbero bastati altri 1.500 per diventare sindaco al primo turno. E’ velleitario pensare che in 15 giorni la situazione possa essere ribaltata. Per Ferrara dunque si profila un’inedita stagione politica in cui le tradizionali forze di governo (che tali sono nelle istituzioni di diretta emanazione municipale e in quelle in qualche modo condizionate o comunque riflesso del potere) dovranno farsi da parte per lasciare spazio a una nuova classe dirigente, che preanuncia una decisa svolta. Ciò che accade, in sé è effetto di una sana dinamica democratica che si basa sull’alternanza, garantisce il ricambio dei gruppi dirigenti e delle lobby che ruotano attorno al Palazzo, evita l’incrostarsi di insane abitudini e il sedimentarsi di improprie rendite di posizione. Ma nutriamo molte riserve sulle competenze dei nuovi governanti e sugli indirizzi politico-amministrativi che intendono perseguire. E più ancora spaventano le parole d’ordine della Lega, spesso pronunciate con virulenza e in forma di invettiva, le ostentate e ripetute esibizione muscolari, il fanatismo, l’intolleranza, la mancanza di rispetto per chi la pensa in modo diverso. Però, a voler vedere la situazione anche sotto una differente prospettiva, in una comunità di medie dimensioni come Ferrara, è plausibile (e auspicabile) che, aldilà degli eccessi propagandistici, nei fatti si possa giungere ad accettabili livelli di convivenza. E lo choc – in tal senso – potrebbe risultare salutare per chi, in parte, ora mostra di avere esaurito ‘la spinta propulsiva’ e smarrito l’ingegno che dovrebbe esser proprio del grande timoniere. Ma ciò avverrà solo se i vincitori mostreranno ragionevolezza e gli sconfitti sapranno seriamente riflettere sugli errori e sulle cause della disfatta, cominciando da subito a definire un percorso di ripartenza nutrito di grandi idee, coraggiosi e innovativi progetti, senza sprecare energie in sterili polemiche, in futili rivendicazioni o in stucchevoli faide interne.

Diverso è il ragionamento se si considera la prospettiva sul fronte del voto europeo e dei conseguenti risvolti nazionali. Sono in molti a ritenere che il governo si trascinerà fino all’autunno, quando – acclarata l’impossibilità di varare una finanziaria che non implichi lacrime e sangue – Lega e Cinquestelle scioglieranno l’unione e si sfideranno per la resa finale dei conti.
Al riguardo, personalmente, penso invece che – forte dell’esito di questo tornata – Salvini forzerà presto la mano, cercando il ‘casus belli’ per tornare presto alle urne, sfruttando un vento che si è rivelato ancora più favorevole del previsto, per anticipare la prevedibile tempesta di sabbia del caldo autunno politico. Il leader del Carroccio potrebbe, fin d’ora, puntare su un’alleanza con Fratelli d’Italia, senza Berlusconi e quel che resta di Forza Italia, confidando sul meccanismo elettorale confezionato da Renzi, che garantisce con il 40% dei consensi il controllo della maggioranza del Parlamento. Se l’operazione riuscisse, un’estrema destra di governo incardinata nell’asse Lega – Fratelli d’Italia (partito che accoglie molti reduci o epigoni dell’ex Msi) svolgerebbe i compiti istituzionali, con l’ausilio dei facinorosi di Casa Pound e Forza Nuova, un passo a lato, formalmente fuori dal perimetro dell’intesa parlamentare, ma pronti ad attivarsi nelle piazze e sul terreno della movimentazione sociale. Una prospettiva inquietante, sotto un cielo dominato dalla luna nera.

PER CERTI VERSI
Il vuoto del tempo

Ogni domenica Ferraraitalia ospita “Per certi versi”, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione “Sestante: letture e narrazioni per orientarsi”.

IL VUOTO DEL TEMPO

Solo tra noi cogliamo il vuoto del tempo
E quel senso da astronauti
Che assimila il nostro gentile andare precipitando senza gravità
Senza peso
Rimanere in un abbraccio illeso
Tra le onde
Di un disco di Newton
E tutti i colori negli occhi della luna
che atterraggio
Con la folle leggerezza di un paggio
Alla corte severa del re
Non ci sono paragoni
È un raggio arcobaleno color lavanda

OGNI ATTIMO

Ogni attimo che rubiamo
Al tempo indifferente
Diventa nostro
E ci parla
Ci cattura
Gettandoci
Nella libertà
Più pura
In un crocchio
Di limonaie
La Cabala che ci saluta
Per la partenza
Di una donna
Di un uomo
All’inizio della genesi
Della vita
Che ci scorre
Che accorre
Che ci salva
Dietro al pericolo

VERSO LE ELEZIONI: IL DIBATTITO
Firrincieli, Fusari e Modonesi su bilancio, beni comuni e servizi pubblici

A cura di Sergio Gessi e Francesco Monini

– seconda parte –  leggi qui la prima parte del dibattito

Abbiamo invitato nella redazione di Ferraraitalia i candidati a sindaco del centrosinistra per rivolgere loro alcune domande. Andrea Firrincieli, Roberta Fusari e Aldo Modonesi hanno gentilmente accolto l’invito. Solo Alberto Bova ha declinato l‘invito, ritenendosi equidistante tra i due schieramenti in campo a Ferrara.

FRANCESCO MONINI
10 anni fa, appena eletto, il sindaco Tagliani ha trovato nelle casse 160 milioni di debito, al termine del secondo mandato il debito si è praticamente dimezzato, 80 milioni se non erro. Sembra un risultato ottimo, ma intanto abbiamo perso circa 200 posti nell’Amministrazione Comunale e nel 2019 ne perderemo un altro centinaio con quota 100. Siamo quasi a limite: tutti dicono che se scendiamo sotto la soglia dei 1.000 dipendenti, la macchina comunale si inceppa.
Intanto molte famiglie sono scese sotto la soglia di povertà. Colpa naturalmente della ‘Grande Crisi’ che ha portato, anche a Ferrara, impoverimento, disagio, malessere sociale. Allora voglio farvi qualche domanda scomoda. Non si è guardato troppo alla riduzione del debito? Non si è introiettata, anche nelle scelte della politica locale, una specie di ‘ossessione del debito’? C’erano certo da rispettare i vincoli rigidi dettati dall’Europa e dai governi romani, ma la politica della riduzione del debito non ha avuto un carattere depressivo sull’economia ferrarese e, soprattutto, non è stata pagata a caro prezzo dalle fasce deboli della società?
Cosa immaginate per il prossimo futuro? Pensate a una Ferrara che ricomincia ad allargare la borsa del bilancio comunale o il debito deve essere ulteriormente ridotto? Immaginate una città risparmiosa o che dovrà investire di più sui servizi?

ANDREA FIRRINCIELI
Una Ferrara risparmiosa? La risposta è abbastanza scontata: non può esserlo, perché sappiamo bene che risparmiare è un qualcosa che non porta sviluppo, non porta a nulla. Noi dobbiamo cercare di rendere la città più attrattiva. Dobbiamo cercare di fare delle spese più oculate e strategiche, investire nei settori che possono dare un ritorno importante: l’obbiettivo deve sempre essere puntato al benessere sociale e individuale. Il Bilancio Comunale è una leva importante, ineliminabile, ma dobbiamo cogliere tutte le occasioni, utilizzare al massimo quello che ci può venire dall’Europa, partecipando di più e meglio ai bandi europei.

ALDO MODONESI
Io parto dal bilancio, perché bisogna pur sempre partire da lì. Nel senso che le regole di bilancio ci sono, valgono per questa legislatura e, a parte le modifiche normative, valgono anche per la prossima. E sono molto semplici oggi per gli enti locali, un po’ meno per lo Stato che invece si è tenuto dei margini diversi. La regola è semplice: oggi sulla parte corrente tanto incassi tanto spendi. Ci deve essere una quadratura di questo tipo. O aumenti le entrate, cioè aumenti le tasse, cosa che non abbiamo fatto fino ad ora e a me non interessa fare in futuro, o devono aumentare i trasferimenti statali, e in questi anni sono invece sempre andati a calare per le Amministrazioni Comunali.
Terza possibilità: bisogna fare un lavoro sulle uscite, che in questi anni abbiamo fatto lungo due direzioni. La prima obbligata perché il blocco del turn-over, quindi i risparmi sul personale ci sono stati imposti. Nel momento in cui c’è stata la possibilità di fare nuove assunzioni le abbiamo fatte. Penso che siano decine e decine i ragazzi e le ragazze nuovi assunti, non solo vigili o educatori, ma tanti negli uffici tecnici, sia del mio settore che nel settore di Roberta. La seconda direttrice di marcia: tenendo sotto controllo il debito siamo passati da 160 milioni a 80 milioni di deficit, ma abbiamo comunque continuato a fare investimenti: 250 milioni per l’esattezza, di cui solo 5 coperti da un mutuo. Vuol dire che gli altri 145 erano soldi o di parte corrente o oneri di urbanizzazione, o contributi che ci venivano dalla Regione per la programmazione europea o per il sisma, o contributi che ci venivano dallo Stato… Che significa aver ridotto il debito da 160 a 80 milioni? Significa che anziché pagare 16 milioni all’anno di rata più gli interessi, oggi ne paghiamo 8. Vuol dire che abbiamo liberato 8 milioni di euro freschi da spendere: un po’ in servizi e un po’, purtroppo, per colmare le minori entrate che ci venivano dallo Stato.
Ecco, bisogna continuare così. Bisogna continuare ad investire. Lavorare sulle capacità di progettazione della macchina comunale. Perché se ottieni tutta questa mole di finanziamenti esterni vuol dire che fai dei bei progetti, vuol dire che vinci dei bandi, vuol dire che quando ci sono delle occasioni di finanziamento vieni premiato, che si tratti di piste ciclabili, di piano periferie, di riqualificazione di spazi, eccetera. Spendere in servizi è il modo per me per dare risposte ai bisogni.

SERGIO GESSI
Parliamo allora di servizi. Di priorità e di precedenze. Lo slogan della Lega è “prima gli italiani”, che a Ferrara si traduce in un “prima i ferraresi”. Vi sta bene un simile criterio?

ALDO MODONESI
Parliamoci chiaro, noi non condividiamo quello slogan. Che non ci porta da nessuna parte, che è stupido oltre ad essere sbagliato. A fronte di una società che è cambiata, sono cambiati anche i bisogni: sia per quanto riguarda gli anziani, la casa, i servizi educativi… La risposta della Lega è: prima gli italiani. Bene, ma vediamo cosa succede nella pratica. Ci sono, ad esempio, 250 bambini in lista di attesa? Cambiamo i criteri: chi era ultimo va avanti, chi era penultimo diventa ultimo, ma sempre 250 rimangono in lista di attesa. Con questo slogan non risolvi un problema di tensione sociale, lo vai ad acuire, perché crei nuovi penultimi e nuovi ultimi. Io invece dico: prima chi ha bisogno. E ai bisogni si risponde non con una delibera che cambia o ribalta i criteri di accesso, ma si risolve solo in un modo: con più offerta. Con più sezioni di asili nido, con più educatrici che vai ad assumere, con un aumento delle convenzioni dei posti nido con il privato sociale.
I bisogni degli anziani, dei disabili, dei più deboli li risolvi anche in questo caso con maggiori servizi. I bisogni della casa li risolvi con un maggior numero di appartamenti. Sono 600 gli appartamenti dell’Acer oggi non utilizzati a Ferrara. Con 3.600.000 Euro si possono sistemare e le persone in lista di attesa sono 650.
Sugli anziani, per non eludere la domanda specifica che avete fatto, io penso che oggi ci sia necessità, da un lato di immaginare una diversa organizzazione dei servizi soprattutto legata alla domiciliarità, perché ha ragione Andrea Firrincieli a ricordare che a Ferrara oggi gli anziani sono tanti e sono soli e bisogna potenziare i servizi domiciliari. Altra cosa: ci vuole una rete territoriale, perché questi anziani soli, nella stragrande maggioranza dei casi, abitano nelle frazioni, nei quartieri periferici. Una rete territoriale che sia una rete territoriale di supporto. Noi abbiamo lanciato questa idea dell’‘infermiere di comunità’, che è una figura di riferimento che copre 3/4 frazioni in stretto contatto con i medici di famiglia e con le strutture sanitarie

ROBERTA FUSARI
Sono d’accordo con Aldo, perché si fa presto a parlare, ma nei fatti la capacità di essere attivi e operativi bisogna misurarla sul serio. Allora l’abbattimento del debito è servito per liberare risorse per i servizi. Il lavoro fatto è stato impegnativo e ha colmato quella misura oltre la quale non è più tanto utile proseguire. Liberare quel debito, quei milioni è stato utilissimo perché si sono liberate risorse ordinarie annuali da poter utilizzare sui servizi alle persone.

FRANCESCO MONINI
Vuoi dire che l’imperativo della riduzione del debito non sarà più così imperativo: occorrerà ridurre ancora, magari passare da 80 a 40 milioni?

ROBERTA FUSARI
No perché l’efficacia di quanto è già stato abbattuto in ritorno economico da fornire sui servizi è stato molto alto. Non avrebbe la stessa efficacia passare da 80 a 40. Quindi alla domanda precisa: si continua in quel modo? Non avrebbe più tanto senso continuare in quel modo. Sapendo però che non si deve tornare indietro e ricominciare a fare mutui.
In un contesto di scarsità di risorse gli amministratori devono saper scegliere. Allora facciamo le scelte su come investire, su che tipo di investimenti fare, quali mutui conviene fare, quali sono i servizi necessari. Partendo dal presupposto che il mutuo è l’ultima delle scelte. Perché le risorse prima vanno trovate in altri contesti.
Né si può pensare di risparmiare soldi contenendo i servizi pubblici. Sono un baluardo, un presidio. Parliamo tanto di vicinanza delle persone, presidi sociali, attenzione agli anziani, alle loro fragilità, necessità di fare rete, avere dei punti di vicinanza. I servizi pubblici, proprio perché gestiti dal pubblico, sono dei presidi. E allo stesso tempo sono quei servizi pubblici che consentono di alzare il livello anche di quelli privati. Tra l’altro fa impressione pensare che da anni sul tema degli anziani ci siano dei servizi che il pubblico non riesce ad offrire e possono diventare delle occasioni di lavoro anche per i privati. Penso ai casi che si vedono anche a Milano, a Torino, occasioni di lavoro giovanile per cui: la portineria di quartiere, che è un punto di riferimento per tutte le famiglie, per gli anziani, per fare tutta una serie di cose, gestita da giovani diventa occasione di lavoro per i giovani e presidio sociale per le persone anziane che ci vivono. Quindi non sto dicendo ‘solo pubblico”. Io dico pubblico e anche privato. Sto dicendo però che la qualità dei servizi pubblici, dalle scuole alle farmacie, quel tipo di servizi detta, come è sempre stato anche qui a Ferrara, il livello qualitativo a cui devono tendere anche i servizi gestiti dal privato.
Sul tema degli anziani c’è tutto il tema della fragilità. Si diceva anche al fatto che vivono in un territorio ampio, nelle frazioni anche difficili da raggiungere e quindi come il welfare deve avvicinarsi a loro e non pensare che siano sempre loro a dover venire, a dover avere un riferimento. Ma anche, un tema che non abbiamo mai toccato, come il numero. Le persone anziane sono molto numerose, sono fragili, ma anche un valore enorme, perché hanno una esperienza incredibile, del tempo, che non è cosa da poco, è molto prezioso e una capacità di trasmettere ai più giovani tutta l’esperienza che hanno accumulato. E quindi capire come valorizzare le persone anziane anche in un contesto in cui si trasmette l’esperienza e la capacità accumulata durante una vita di lavoro, penso a certe capacità artigiane, certe capacità di fare, diventa secondo me molto interessante proprio in un’ottica di valorizzare anche le persone anziane che non sono solo fragili e hanno bisogno di servizi, ma c’è anche molto di più.

FRANCESCO MONINI
Beni comuni. Novembre 2017 scaduta la concessione a Hera per la gestione dei rifiuti; nel 2024 scadrà quella per il servizio idrico. Come affrontare a Ferrara il tema dei beni comuni e della costruzione di una gestione in-house direttamente pubblica?

ROBERTA FUSARI
Io credo che l’amministrazione pubblica debba garantire la salute. Il tema della qualità dell’acqua, del miglioramento delle infrastrutture esiste, quando parliamo di acqua dobbiamo fare i conti con le nostre reti e le perdite che ci sono. Il tema dei rifiuti, di come riuscire a ridurne la produzione, di come gestirli al meglio, di come riuscire a creare economia circolare sulla raccolta differenziata e di come far sì che vengano gestiti nel modo più opportuno e attento. Allora premesso che l’amministrazione debba garantire ai cittadini una informazione e una trasparenza completa: resta molto da fare su questo punto, per far sì che tutti noi cittadini sappiamo esattamente che fine fanno i materiali che differenziamo e l’impatto che la raccolta differenziata produce. Detto questo poi capiamo cosa vuol dire rinnovare quei servizi e capire chi è il gestore migliore: se è una società esterna o una struttura pubblica. Da un lato i beni pubblici debbano essere considerati tali, dall’altro ci deve essere una capacità di fare investimenti, per esempio sulle reti, che il pubblico non sempre ha.

ALDO MODONESI
Penso che questo tema vada affrontato senza filtri ideologici, né dal punto di vista che il privato è meglio, né dal punto di vista che è meglio il pubblico. Va affrontato dal punto di vista della gestione di un servizio ai cittadini, valutando in maniera puntuale i pro e i contro di qualsiasi tipo di modello. Quello che si è provato a fare pur alla fine della legislatura con il tema della gestione dei rifiuti senza un grande successo, proprio perché probabilmente era la fine della legislatura, con un controllo partecipato. Se in giro per l’Italia ci sono altre esperienze queste esperienze vanno verificate. Vanno valutati i pro e i contro sia dal punto di vista della gestione dei servizi che della gestione di un controllo patrimoniale. Alla fine stiamo parlando di beni comuni che sono un patrimonio di tutti noi, sia da un punto di vista della gestione economica e di un quadro di efficienza. Alla fin fine devo comunque dire – perché è così – che alla gestione attuale riconosco più meriti che difetti. Il che non vuol dire che ci siano solo meriti, ma che questi sono comunque superiori ai difetti.

ANDREA FIRRINCIELI
Riguardo al bene comune mi riallaccio a quanto detto da Aldo, in quanto al di là dell’aspetto patrimoniale e ovviamente all’aspetto etico morale legato a quel concetto, credo che sia fondamentale in questi casi essere molto umili e cercare di capire. Dalle realtà che ci circondano, dalle altre città, dalle altre esperienze quale sia la scelta più idonea per arrivare a un risultato positivo per la gente, considerando il bene comune. La ricaduta positiva deve essere sul cittadino.

FRANCESCO MONINI
In un ipotetico secondo turno, chi di voi tre avrà più voti, avrà da parte degli altri due appoggio o no?

ALDO MODONESI
Questo dibattito rende evidente che ci sono due diverse idee della città. Una che, con tutte le sfumature del caso, è rappresentata da me, da Andrea e da Roberta e io non ho dubbi che sulle questioni fondamentali la pensiamo assolutamente nello stesso modo. E poi c’è una visione diversa che è quella rappresentata dalle posizioni populiste del centrodestra. Io penso che si debba lavorare per tenere unito un territorio, tenere unita una comunità, dare risposte ai bisogni e non invece lavorare per separare, far leva su quelle che sono le paure, per far leva su ciò che divide e non su ciò che unisce. Se a questa cosa ci si aggiunge una evidente inesperienza e non conoscenza dei problemi della classe politica che mira a governare questa città, qualche elemento di preoccupazione, anche forte, ce l’ho. Non ho dubbi che in un secondo turno ci sia lo spazio per mettere insieme le persone, le idee e le forze che si sentono alternative a questa pericolosa idea di città.

ANDREA FIRRINCIELI
Devo dirlo in tutta onestà: mentre il percorso di Aldo e di Roberta ha un’impronta politica, parlo degli ultimi dieci anni e più in generale di un’esperienza vissuta nelle giunte e nei partiti, la mia è una figura nuova che si è stagliata all’orizzonte quasi per caso. Io ero stato chiamato inizialmente dal Pd come candidato esterno. Ma di fronte a uno dei paletti che ho posto per accettare e poter operare nel segno del cambiamento – indisponibilità ad accettare figure in continuità con il passato – è stata fatta una scelta diversa io, per coerenza se non dovessi arrivare al ballottagio lascerò libera la mia lista e i miei elettori di votare secondo coscienza.

ROBERTA FUSARI
L’avversario è la destra e io conto di vincere al primo turno, quindi non mi pongo il problema di cosa succede dopo.

VERSO LE ELEZIONI: IL DIBATTITO
“Così governerei Ferrara”: Modonesi, Fusari e Firrincieli a confronto

A cura di Sergio Gessi e Francesco Monini

– prima parte –

Abbiamo invitato nella redazione di Ferraraitalia i candidati a sindaco del centrosinistra per rivolgere loro alcune domande. Andrea Firrincieli, Roberta Fusari e Aldo Modonesi hanno gentilmente accolto l’invito. Solo Alberto Bova ha declinato l‘invito, ritenendosi equidistante tra i due schieramenti in campo a Ferrara.

SERGIO GESSI
Vi ringraziamo per la disponibilità a questo confronto. Il dibattito elettorale è vivo e siamo ormai alle ultime battute, ci è parso opportuno e necessario sollecitare alcune riflessioni mirate su punti che consideriamo rilevanti, in modo da fornire agli elettori alcune risposte più precise e concrete, al di là dei valori e delle idee che stanno alla base dei programmi che ciascuno di voi ha elaborato.

FRANCESCO MONINI
La prima domanda che vi farei è questa. Il dibattito impostato dalla destra e da Alan Fabbri si è concentrato sul tema della sicurezza. Quali sono le tre priorità per Ferrara che vi sentite di indicare? Convenite che la sicurezza sia il problema fondamentale, il più sentito dai cittadini, oppure se ci sono temi più importanti, più decisivi su cui puntare, su cui porre l’attenzione?
Infine: tutti dicono che, per la prima volta, il governo di Ferrara è ‘contendibile’, e potrebbe toccare alla destra? Che ne pensate?

ROBERTA FUSARI
Le mie priorità: 1) Ambiente che vuol dire anche Salute; 2) Economia che vuol dire Lavoro; 3) Partecipazione che vuol dire un modo diverso di rapportarsi dei cittadini tra loro e con l’Amministrazione, e viceversa naturalmente.
La sicurezza non è sicuramente tra le mie priorità. Anzi, affrontare le tre priorità che dicevo e dando risposta al tema dell’ambiente, del lavoro e della partecipazione per me significa rispondere anche al tema della sicurezza. Agitare il tema della sicurezza come fa la destra significa solo fare vuota propaganda.
Certo, anche nella nostra città, nella nostra comunità, i cittadini vogliono sicurezza, ma occorre affrontare il problema in modo serio e articolato e andando nel merito dei problemi, delle situazioni, proporre soluzioni concrete, caso per caso. Non basta scandire slogan come fa la destra di Alan Fabbri.

ALDO MODONESI
Vorrei fare alcune considerazioni sulla contendibilità di Ferrara. Io penso che non ci sia un comune in Italia che oggi non sia contendibile. E questo accade da almeno una decina di anni a questa parte, a causa di tanti fenomeni, compresa una estrema volatilità dell’elettorato. Quindi penso che il tema della contendibilità ci sia anche in queste elezioni amministrative, c’è a Ferrara come nel resto dei comuni che vanno al voto anche in questi mesi. Non bisogna essere preoccupati di questa sfida, anzi bisogna essere consci della situazione e trovare ancora più stimoli rispetto a quelli ai quali eravamo abituati nelle tornate elettorali precedenti.
Se devo descrivere la mia città in estrema sintesi, penso che Ferrara abbia due problemi:
Il calo demografico. Una città in cui nascono 750 bambini e muoiono 1.900 persone è una città che se non immagina per se stessa delle politiche di medio e lungo periodo è destinata ad implodere nel giro di qualche decennio.
Il secondo problema è un problema di natura ambientale. Guardiamo al cambiamento climatico che riguarda il nostro territorio: erano 3 forse 4 mesi che non pioveva: il livello del Po fino a 15 giorni fa era più basso di quello medio dei mesi estivi. Ci si aggiunga anche la situazione particolare geografica della nostra città e del nostro territorio: siamo in fondo alla valle padana e quindi serve non solo curare quello che produci ma guardare anche a tutto quello che viene prodotto a monte, che ti arriva via terra, via aria, via acqua, via sotterranea.

MONINI
Dunque, calo demografico e questione ambientale. Quali risposte mettere in campo?

MODONESI
Ci sono due sole risposte a questo tipo problemi.
La prima si chiama lavoro: aumentare la capacità attrattiva del nostro territorio. Vuol dire invogliare gli studenti universitari a fermarsi, vuol dire attivare politiche serie ed efficaci di integrazione per i nuovi cittadini, quali essi siano, migranti extracomunitari, cittadini europei, o anche solo persone che decidono di spostarsi da una parte della nostra provincia per venire in città. Vuol dire dare le sicurezze giuste e necessarie per mettere su famiglia.
L’altra risposta è la riorganizzazione dei servizi. La riorganizzazione dei servizi socio-sanitari, politiche educative e per la famiglia, politiche di accesso alla casa, una modifica della politica dei trasporti in modo da ridurre le distanze tra il centro e le periferie, tra le generazioni, tra le professioni. Questo, preso tutto insieme, vuol dire immaginarsi un welfare di comunità diverso, che dia opportunità a chi cresce e certezze a chi invecchia.

ANDREA FIRRINCIELI
Per me la prima priorità è il benessere della persona. Per benessere della persona si intende tutto quello che include la sanità, la salute, l’ambiente. Basta sfogliare i giornali e si capisce come la situazione stia lentamente, ma neppure tanto lentamente degradando. Sull’obbiettivo persona e il suo benessere occorrono iniziative efficaci e urgenti
Poi c’è il tema dell’economia, del lavoro. Occorre rendere più attrattiva la nostra città e legare in maniera più forte il momento dell’istruzione al momento del lavoro. L’integrazione scuola-lavoro spesso viene vissuta come un momento di passaggio, senza darle il peso e il significato che deve avere se vogliamo migliorare la situazione attuale.
Il benessere sociale, la possibilità per tutti di vivere insieme in modo armonico e positivo, dipende soprattutto dai presupposti che ricordavo: la cura del benessere della persona e lo sviluppo dell’integrazione scuola-lavoro. Per mettere mano a tutto questo dobbiamo partire prima di tutto dalle famiglie, dar loro un sostegno maggiore. Anche i protocolli sul bullismo e il cyberbullismo, i protocolli contro la violenza sulle donne e gli abusi ai minori, alla fine sono troppo spesso scollati da quella che è la ricaduta sulle famiglie. Io ho percepito, avendoci lavorato per tanti anni, che tra quello che si vorrebbe fare e quello che in realtà viene fatto c’è una distanza abissale. C’è un problema enorme che è quello della violenza familiare che non si riesce a gestire, come pure il dramma delle truffe agli anziani. In una città sempre più vecchia come Ferrara, chi si occupa degli anziani? Lo facciamo troppo poco. Dobbiamo farlo molto di più e meglio.

MONINI
Vorrei sentire il tuo parere sul tema sicurezza

FIRRINCIELI
Sulla sicurezza, che nemmeno io considero la priorità, dobbiamo però ascoltare attentamente i cittadini. Non possiamo raccontarcela: se uno va a parlare con le persone sente che esiste ed è diffuso un allarme sicurezza. Allora c’è da chiedersi come mai improvvisamente la gente percepisca così questa situazione anche in assenza di episodi di criminalità diffusa. Perché siamo arrivati a questo punto? Se non partiamo da questa domanda, se non ci mettiamo in ascolto, non potremo risolvere il problema.
Tornando al benessere sociale, lasciando da parte l’integrazione, intendo anche la cura di qualcosa di fondamentale. Perché è vero che i nostri indici demografici sono in calo, ma è vero che ci dobbiamo curare di quello che abbiamo. Nelle famiglie dobbiamo mettere mano, dare loro un contributo importante. Non dobbiamo fare in modo tale che tutte queste iniziative di enti e di organizzazioni rimangano sulla carta: i protocolli sul bullismo e il cyberbullismo, i protocolli contro la violenza sulle donne e gli abusi ai minori, alla fine sono troppo spesso scollati da quella che è la ricaduta sulle famiglie. Io ho percepito, avendoci lavorato per tanti anni, che tra quello che si vorrebbe fare e quello che in realtà viene fatto ci sia una distanza abissale. E quindi c’è un problema enorme che è quello della violenza familiare che non si riesce a gestire, le truffe agli anziani. Visto che abbiamo un calo demografico e il numero degli anziani aumenta, perché non ci preoccupiamo di loro? Chi è che si occupa di loro? Noi continuiamo a leggere di questi anziani che hanno 3.000 euro da parte, i soldi del funerale e improvvisamente spariscono.

MONINI
Aggiungo una considerazione. L’ultima ‘grande idea’ per Ferrara è quella di “Ferrara città d’arte e di cultura”, lanciata quasi 30 anni fa da Roberto Soffritti , sindaco di Ferrara per 16 anni e che qualcuno ricorda come ‘il Duca’. Grazie anche al ‘maestro’ Franco Farina, a Paolo Ravenna, a Carlo Bassi e tanti altri, è stata una grande intuizione, una idea che ha avuto successo e che ancora oggi da i suoi frutti. Certamente Ferrara ha fatto dei passi in avanti: sul turismo e l’indotto del turismo, il recupero del centro storico, Abbado al Comunale, le grandi mostre, eccetera. Oggi però molte città hanno seguito la stessa strada, Ferrara ha tante concorrenti: non sto parlando di Venezia o Firenze, ma della stessa Rovigo…

GESSI
Siamo nel terzo millennio. Forse occorre una nuova idea forza. Quale considerate essere la precipua vocazione di Ferrara e come immaginate la città nel 2030?

FUSARI
C’è la necessità di avere una visione d’insieme. Io sono venuta a Ferrara nel ’91 quando non c’erano neppure le Mura. Credo che occorra partire proprio dalla specificità del territorio ferrarese, dal nostro non essere – e io dico per fortuna – sulla via Emilia, una posizione che da un certo punto di vista ha consentito di preservare questo territorio e che da sempre è stato letto invece come un punto di debolezza. Ora è venuto il momento di trasformare questo punto di debolezza in quello che veramente è: un valore. Noi abbiamo una caratteristica territoriale, un valore riconosciuto addirittura dall’Unesco, città e Delta del Po, e un territorio straordinario. Allora la vocazione del futuro, questa città nel 2030, è accettare un’altra sfida come fu allora quella di 30 anni fa. Fare di Ferrara la capitale del verde europea. Capitale europea del verde quest’anno è Oslo, il prossimo sarà Lisbona. Lavorare su quello significa darsi una strategia per poter arrivare a questo obiettivo. Dobbiamo darci una strategia sulla sostenibilità, quindi intendo il termine ‘verde’ nel senso più ampio, una sostenibilità intesa non solo come ambientale ma anche economica e sociale. Una strategia comune da perseguire tutti assieme, ognuno nelle sue peculiarità: istituzioni pubbliche, privati, associazioni di categoria, università. Una strategia per far sì che il nostro territorio non sia più il fanalino di coda dell’Emilia Romagna. E la prima ricaduta pratica per noi cittadini, se lavoriamo sull’ambiente è avere più salute per tutti.

GESSI
Stai sostenendo come priorità la scelta della green economy? E come si finanzia un passaggio epocale del genere?

FUSARI
Se seguiamo questa strada, d’ora in poi, sempre di più la green economy e l’economia circolare saranno settori che porteranno lavoro. Nuovi settori, nuovi mestieri, nuova occupazione. Per affrontare il cambiamento climatico e la promozione della green economy sicuramente servono risorse extra bilancio comunale, ma l’Europa da tempo finanzia questo tipo di interventi. Dobbiamo lavorare su questo tema e con questo obbiettivo. Poi: diventiamo capitale europea del verde? Sì, no, non importa. Lavoriamo in questa direzione che ci porterà comunque lavoro e intanto miglioriamo la qualità del nostro ambiente.

MODONESI
Io penso che si debba fare un percorso assolutamente condiviso con tutte le forze in campo per lavorare sulle peculiarità del nostro territorio. Farlo in un’ottica profetica come un po’ è stata la visione di quella proposta ormai trent’anni: dal grande progetto Mura , al potenziamento dei percorsi museali, al parco urbano che oggi stiamo fruendo nel loro pieno sviluppo. Si tratta di proseguire su questa strada, rafforzando quello che è un percorso che in questi mesi abbiamo definito all’interno del Patto del lavoro, ovvero ottenere l’insediamento di nuove imprese, anche all’interno dell’area del petrolchimico. Vuol dire fare percorsi sostenibili dal punto di vista ambientale, sia per quanto riguarda le produzioni che per quanto riguarda le tipologie di impianti. Significa ottenere la creazione di nuovi e buoni posti di lavoro, significa una maggior integrazione tra formazione e avvio al lavoro.

MONINI
Il problema è sempre quello del come avviare questa nuova stagione. Con quale strategia, con quali alleati? Con quali fondi?

MODONESI
Rendere attrattivo il nostro territorio per le imprese vuol dire sfruttare a pieno quelle che sono le nostre caratteristiche. Vuol dire avere il coraggio di dire che c’è la necessità di una marcia diversa da parte in modo particolare dello Stato su quelle che sono le politiche di infrastrutturazione. Il tema delle infrastrutture è un tema che c’è. Oggi chi va a Bologna in treno capisce quanto sia necessario avere un potenziamento su quella linea e non solo per quanto riguarda le Frecce o Italo. Per chi va a Bologna oggi in auto sembra di essere su una camionabile: è necessario mettersi in corsia di sorpasso e una volta su due si creano incidenti. Sono interventi non più rimandabili, perché da sempre interventi di questo tipo si collegano con quelli che sono i punti nevralgici dello sviluppo di un territorio.
Vuol dire certamente un maggior coinvolgimento dell’Università, nel rispetto delle sue autonomie. Le Università sono gelose delle proprie autonomie e forse la nostra lo è ancora di altre. E’ giusto che faccia i propri percorsi di sviluppo e di crescita, però c’è la necessità non solo di immaginare un rapporto con l’ente pubblico, un rapporto non semplicemente legato ad una messa a disposizione di servizi. Ci vuole anche qui una programmazione per aiutare gli studenti ad insediarsi in città, dove sicuramente si deve studiare e si deve studiare anche bene, ma si deve offrire a questi studenti di rimanere, una volta che diventano laureati. Quindi se c’è un limite è quello dell’accompagnamento al lavoro. Quindi: più impegno su questo versante dell’Università come del mondo produttivo ,
Facendo campagna elettorale, sto girando il territorio e sto parlando con tanti imprenditori. Mi sono accorto che ci sono, ci sarebbe, necessità di nuove assunzioni. Tante imprese della zona della piccola e media industria hanno bisogno di ingegneri o di personale con alte qualifiche, ma scontano un percorso di inserimento lavorativo molto faticoso, che potrebbe invece essere molto più semplice se strutturato con un dialogo intermedio tra sistema delle imprese e l’Università.

GESSI
Anche l’economia della cultura, cioè tutto l’indotto che vive attorno a ‘Ferrara Città d’Arte e di Cultura’ andrebbe qualificato e potenziato. Ho l’impressione che abbiamo ancora tanta strada da fare.

MODONESI
Hai ragione, c’è ancora un grosso lavoro da fare attorno alla vocazione culturale della nostra città. Noi abbiamo strutturato un progetto organico in questi anni che mirava ad ampliare la presenza turistica a Ferrara. Lo sviluppo del polo museale: il primo è quello dell’arte moderna e contemporanea Diamanti e Massari, il secondo legato al polo di Schifanoia sulle arti antiche, il terzo con il Meis e il quarto legato al Castello. Abbiamo messo in campo idee e progettualità, ed è un’esperienza positiva e che ci viene riconosciuta a livello non solo nazionale ma internazionale. Da Roma abbiamo avuto recentemente alcuni ‘no’, ingiustificati, ma continueremo a insistere, perché bloccare i fondi di questo o quel progetto significa un colpo non solo allo sviluppo della rete museale cittadina, ma allo sviluppo economico complessivo di Ferrara.
Alla fine se vuoi avere più visitatori devi metterli nelle condizioni di avere musei con spazi adeguati con book-shop ecc. E non c’è un museo con questo tipo di ambizione che non abbia accettato la sfida di innestare un pezzo di contemporaneo in quella che è una scrittura storica. Il primo selfie che ci facciamo al Louvre è con la Piramide, il secondo con la Gioconda.

FIRRINCIELI
Vorrei parlare di un’altra vocazione di Ferrara. Di come l’ho vissuta io in tanti anni di attività. Attraverso il mio ruolo ma anche vivendo in prima persona il mondo del volontariato.
La vocazione di Ferrara secondo me, in questo momento, si manifesta molto nel volontariato e nella solidarietà. Io vedo che Ferrara è piena di associazioni, di volontariato, di gente che si dà da fare nel campo sociale, nel settore delle persone con difficoltà, nel settore dell’aiuto agli emarginati. Sul cuore di Ferrara bisognerebbe puntare molto di più. La vocazione di Ferrara è avere un cuore importante, un cuore grande. E questo tipo di vocazione è trasversale a tutto: al mondo della cultura e a qualsiasi altra situazione. Ferrara nel 2030? Mi viene in mente La città volante di Roberto Pazzi: se noi non cerchiamo di radicare un po’ di più la città e la sua Amministrazione alla realtà che le persone vivono ogni giorno, rischiamo di arrivare a quella città volante.

1.continua – leggi qui la seconda parte del dibattito

Dalle clausole di salvaguardia al Fiscal Compact l’Europa ci chiede ancora soldi

Il 2019 sarà fondamentale dal punto di vista della tenuta dei conti pubblici futuri principalmente in ordine a due questioni: le clausole di salvaguardia e il Fiscal Compact.
Nel primo caso sarà necessario trovare 20 miliardi al fine di bloccare l’aumento dell’iva mentre nel secondo un po’ più di 1.200 miliardi distribuiti sui prossimi 20 anni se il Fiscal Compact dovesse essere incorporato, come previsto, nell’ordinamento giuridico dell’Ue entro il primo semestre del 2019.
Tutto questo non per colpa di questo Governo ma semplicemente perché “ce lo chiede l’Europa”.

Le storie
Di clausole di salvaguardia si comincia a parlare molto tempo fa, addirittura durante l’estate del 2011 cioè nel periodo della manovra finanziaria dell’allora Governo Berlusconi.
In quel periodo, come qualcuno ricorderà, andava molto di moda la parola default, si parlava cioè del pericolo che lo Stato italiano potesse dichiarare l’impossibilità di rimborsare i Titoli del debito pubblico causa aumento eccezionale dello spread che, ad Agosto 2011, era arrivato quasi a toccare i 400 punti dai circa 100 registrati a inizio anno. Al 10 novembre sarebbe poi arrivato a 572, data del memorabile “Fate presto” del sole 24 ore.
Il sen. Mario Monti, in un’intervista televisiva a inizio 2013, dichiarò che 100 punti di spread costavano allo Stato, e quindi ai cittadini italiani, 20 miliardi di risparmi. In realtà l’affermazione era frutto di un calcolo abbastanza grossolano (sicuramente “voluto” e per semplificare) in quanto non teneva conto che l’aumento del tasso di rendimento conseguente all’aumento dello spread non andava applicato su tutto il debito pubblico ma solo sulla parte in btp, titoli a lunga scadenza, e quindi su circa (allora) 1.500 miliardi. Inoltre, non veniva detto che ovviamente si parlava di nuovo debito in scadenza e da rinnovare e che sarebbe stato spalmato sugli anni a venire e quindi che i costi maggiori si sarebbero palesati almeno dopo 4-5 anni.
In conclusione una cifra plausibile di quanto sia potuto costare la democrazia potrebbe essere circa 40 miliardi spalmati su un decennio. E questo per un Paese che conta un pil di circa 1.700 miliardi ed è tra le prime 9 potenze economiche mondiali.
In ogni caso il momento era grave, e Berlusconi non poté fare altro che stringere un patto con l’Unione Europea al fine di poter approvare le misure previste nella sua manovra. Pena la crisi dei conti pubblici, un po’ quello che è successo con l’ultimo Governo quando è andato a chiedere un deficit del 2,4% ma stavolta risoltosi in maniera meno drammatico e con un accordo tra le parti.
All’epoca Berlusconi dovette invece capitolare all’attacco orchestrato dai mercati, anche perché Il “wathever it takes” di Mario Draghi era ancora lontano da venire. L’intervento della Bce arrivò solo un paio di anni dopo (a differenza degli interventi più tempestivi della Fed, della Boj e della Banca Centrale inglese), a suggello della constatazione dell’ovvio: non serviva l’austerity ma un intervento di politica monetaria per riequilibrare i conti.
Con le clausole di salvaguardia il Governo si impegnava a reperire entro il 30 settembre 2012 ben 20 miliardi di euro, pena l’obbligo di tagli alla spesa pubblica, aumento delle aliquote Iva e delle accise e un taglio lineare alle agevolazioni fiscali.
Il Governo Berlusconi resse fino a novembre quando il picco dello spread e la minaccia del default sul debito pubblico (che senza una Banca centrale di proprietà non era gestibile, come abbiamo visto) presero il sopravvento, poi lasciò il governo del Paese a Mario Monti e alla sua schiera di “tecnici”, ad anni di tagli e di riforme lacrime e sangue, tra cui la riforma delle pensioni del Ministro Fornero, che potrebbe essere arrivata al capolinea nel caso l’attuale governo giallo-verde sopravvivesse a se stesso, cosa non scontata.
Ed è dunque dall’insediamento di Monti che i governi cercano, annualmente, di reperire i fondi necessari per disinnescare e sterilizzare parzialmente e temporaneamente le clausole di salvaguardia Iva. Un regalo indigesto che si rinnova di anno in anno e che ogni Governo fatica sempre più a passare a quello successivo.
Ma se 20 miliardi possono sembrare tanti pensate a quelli che bisognerà sborsare per il Fiscal Compact. Il Trattato, denominato appunto Fiscal Compact, è entrato in vigore il 1° gennaio 2013, quando cioè fu ratificato da dodici Paesi dell’Eurozona (Austria, Cipro, Germania, Estonia, Spagna, Francia, Grecia, Italia, Irlanda, Finlandia, Portogallo, Slovenia). L’Italia lo ha ratificato con la legge n. 114 del 23 luglio 2012. In seguito fu ratificato da tutti gli altri.
L’art. 16 del Fiscal Compact prevede che, al più tardi entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del Trattato stesso (e dunque, entro il 1° gennaio 2018), sulla base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione, siano adottate le misure necessarie per incorporarne il contenuto nella cornice giuridica dell’Ue.
Quest’anno, come si legge sul sito della Camera dei Deputati, il Parlamento europeo e il Consiglio sono invitati ad adottare la proposta di incorporazione del Fiscal Compact nell’ordinamento giuridico dell’Ue entro il primo semestre del 2019. Insomma bisogna sbrigarsi, darsi da fare per… aumentare i nostri problemi dicendo però che li stiamo risolvendo.
Il Fiscal Compact prevede che i debiti pubblici non debbano eccedere il 60% del rapporto con il pil e per l’Italia, che è al di là del doppio consentito e registra un debito pubblico di oltre 2.300 miliardi, significa dover restituire qualcosa come 50-60 miliardi di euro all’anno (in misura decrescente) per 20 anni che ovviamente ogni Documento di Economia e Finanza dovrà prevedere e ogni legge di bilancio dovrà sostenere.
Sommati Clausole di Salvaguardia + Fiscal Compact fanno dunque circa 70-80 miliardi all’anno da aggiungere ai nostri saldi primari, ovvero al bilancio dello Stato prima degli interessi. Attività reali che dovranno essere oggetto di tagli ad uso di attività finanziarie.

Riflessioni
Il punto non è ovviamente, e spero che non vi sia sfuggito, dove trovare tali risorse. A tutti è chiaro che saranno i cittadini a pagare il prezzo delle decisioni prese ai tavoli di Bruxelless e Francoforte e dovremo farlo accettando aumenti di tasse e contenimento delle spese da parte della Pubblica Amministrazione, cioè meno ospedali, scuole, strade, investimenti, pensioni e salari. E anche meno democrazia, visto che il Movimento 5 Stelle si sta affrettando a promuovere la sua ricetta del risparmio anche nei confronti del numero dei parlamentari che porterà ad un astronomico risparmio di 500 milioni. Come tentare di svuotare il mare con un cucchiaio.
Nel 2011 l’Italia era sotto attacco della speculazione e per un possibile aumento del debito futuro di (forse) 40 miliardi ci siamo addossati l’onere di trovarne 20 subito. Nel 2013 si accettò il Fiscal Compact perché gli interessi sui debiti sovrani non cessavano di crescere e questo portò a pensare che l’euro come valuta stesse arrivando al capolinea.
Ma risolto il perché e chiarito che tutto quello che ci viene tramandato come un dogma è solo il frutto avvelenato di trattati di cui molti firmatari si stanno in larga parte pentendo (Il fiscal compact l’ha definito sbagliato Berlusconi, Fassina, Renzi, Grillo, Meloni e Salvini ma stranamente non si registrano azioni concrete sulla strada della sua cancellazione), perché non cominciare a discutere dell’opportunità di queste regole piuttosto del come trovare i soldi?
Sia le clausole di salvaguardia che il Fiscal Compact sono accordi che derivano in larga parte dalla paura dei debiti pubblici instillata in Europa dalla Germania. Una paura che serve sostanzialmente per imporre a paesi come l’Italia riforme strutturali che servono a far funzionare in maniera autonoma mercati e finanza, non certo a ricercare il benessere per i cittadini europei.
Un’Europa politica non esiste come non esiste una condivisione di valori sui quali costruire un nuovo Stato che sostituisca quelli esistenti. Questa Europa che si fonda sulla competizione tra gli Stati è tenuta insieme esclusivamente da una politica monetaria completamente disgiunta dagli interessi dei popoli, ma accomunati dal terrore del debito pubblico che permette la ratifica di richieste inutili ed assurde.
Fuori da questo schema tutto nostro non esiste un Paese normale che sia stato chiamato a ripagare il debito pubblico. Ciò che l’anomalia dei principi su cui si basano i Trattati Europei ci sta’ regalando è solo un futuro peggiore del presente, per la prima volta nella storia dal secondo dopoguerra. Un futuro di disoccupazione e di diritti negati.
In altri stati il debito pubblico si affronta come si conviene e per quello che è. Ci si preoccupa sostanzialmente di rinnovare i Titoli di Stato in scadenza e si riesce ancora a fare un minimo di distinzione tra contabilità e vita reale. Rinnovare il debito è una cosa sempre possibile anche se hai un debito che sfiora il 260% come in Giappone, perché il debito pubblico è un fatto contabile e così viene affrontato nel mondo. Quando lo Stato spende costruisce ospedali e scuole o paga pensioni e stipendi e quindi la sua spesa diventa un credito per i cittadini che lo ricevono. Senza un debito contabile di qualcuno non ci potrebbe essere il credito contabile di qualcun altro. Una Nazione per sopravvivere in dignità ha bisogno di una costante spesa da parte dello Stato.
Nei Paesi dell’eurozona si sono firmati accordi che prevedono il governo dei mercati finanziari, accordi che certo conoscono bene anche gli altri paesi nel mondo. Ma da noi abbiamo anche reso indipendente la Banca Centrale Europea dopo avere declassato le nostre banche centrali nazionali, rendendo di fatto incontrollabile spread e interessi sul debito, fenomeni che solo a casa nostra, indubbiamente, sono diventati per questo un problema.
Un problema creato ad arte e non fisiologico o naturale, un problema dovuto alla natura distorta della normativa europea intenta a tutelare interessi diversi da quelli dei cittadini. E se l’Europa è indubbiamente la nostra casa non vuol dire che debba esserlo anche l’Unione Europea.

In copertina: illustrazione di Carlo Tassi

La stella cadente

E’ sempre complicato intravedere il momento esatto – perché c’è quel momento, esiste, ma di solito ce ne accorgiamo sempre in ritardo – quando un astro ascendente inverte la rotta. Quando un cavallo vincente si trasforma in un probabile perdente.
Notte di San Lorenzo o meno, non è facile beccare in flagrante la caduta di una stella. Eppure…
A me sembra – e mi prendo tutta la responsabilità di azzardare questo pronostico – che la storia di Matteo Salvini, l’uomo nuovo e grande regista della nuova Lega, sia oggi arrivata a un punto di svolta. Drammatico e inaspettato. Dopo aver raggiunto lo zenit dei consensi, il leader maximo sta forse per imboccare la parabola discendente. Non è ancora il viale del tramonto – il suo partito incasserà dalle urne un cospicuo dividendo elettorale – ma in questi ultimi giorni qualcosa si è spezzato. Il suo bel giocattolo si è rotto. Basta guardare la sua faccia, sempre meno tranquilla, i suoi occhi inquieti, le sue parole sempre più secche, per capire come la sua capacità animale di parlare e interpretare il ventre molle del popolo italiano sia venuta meno. Le contestazioni di piazza, gli striscioni pieni di ironia, l’onda negativa che monta sui suoi amati social sono una plastica conferma di un incipiente declino.

Che è successo? Per non perdermi in ragionamenti tra il politico e il sociologico, ho girato la domanda a un vecchio amico, contadino di professione da più di cinquant’anni, ricevendone una risposta disarmante, tanto semplice quanto saggia: “Prima io lo ascoltavo, ma adesso ha proprio esagerato”.
Matteo Salvini, prima di andare al governo, e anche dopo, ha scelto di puntare tutto su un ambo secco, su due soli numeri della roulette mediatica. Sull’Europa ladrona e sulla sicurezza. L’Europa, la sua moneta e i suoi burocrati, affamavano l’Italia. I profughi, gli immigrati, gli zingari, rubavano il pane agli italiani. “Prima gli italiani” è stato uno slogan che ha fatto breccia in un Paese impoverito dalla crisi e dove l’opposizione politica e sindacale si era liquefatta. Gli italiani avevano mal di pancia, e quella pancia vuota, quel diffuso disagio sociale ed economico vedeva nella ricetta Salvini una sorta di riscatto.
La battaglia contro i ‘poteri forti’ sembrava funzionare: anche quando la Lega, andando al governo, era diventata essa stessa un potere forte. E funzionava anche ‘la linea del Piave’, l’esibizione della fermezza e dei suoi simboli: i porti chiusi e la ruspa sui campi nomadi. Si moltiplicavano i capri espiatori e i traditori della patria: le ong diventavano, prima complici degli scafisti, poi scafisti esse stesse. Così il sindaco Lucano andava perseguito. Così anche la magistratura diventava complice del complotto contro Matteo Salvini: lui, unico paladino della autarchica sicurezza.

Da qui l’escalation. Quando anche anche l’Onu si è permessa di criticare il suo Decreto in-Sicurezza, Matteo Salvini ha sbeffeggiato l’Onu. E quando Papa Francesco ha ripetuto i suoi appelli all’accoglienza, anche per lui ha usato parole sprezzanti.
Ma Salvini vuole, deve alzare il tiro. Quando qualche giorno fa, nel grande comizio-flop di Milano cui aveva invitato i leader populisti e xenofobi di tutta Europa, ha baciato la statuetta della Madonna in una sorta di casareccio Gott mit uns, la stella di Salvini ha fatto un vero e proprio capitombolo. Tutto il mondo cattolico, nelle sue mille voci, lo ha attaccato duramente per aver usato per bassi scopi elettoralistici un simbolo sacro. E sono piovute le critiche: dal Segretario di Stato del Vaticano Parolin, a ‘Famiglia Cristiana’, a ‘Civiltà Cattolica’. E naturalmente il quotidiano ‘Avvenire’, insieme a tutti gli altri organi di stampa.

Ha proprio ragione il mio amico contadino: Salvini ha esagerato.
Non so se l’abbia fatto senza accorgersene, preso dalla foga del suo credo propagandistico. O, al contrario, perché si sia accorto lui stesso che il vento stava cambiando – che le pance incominciavano a collegarsi ai cervelli – e abbia deciso quello che fanno tutti i giocatori incalliti che, dopo una lunga striscia vincente, incominciano inesorabilmente a perdere, puntata su puntata: e allora non riescono a far altro che alzare la posta, all’infinito. O la va o la spacca.
Il 26 maggio Matteo Salvini uscirà probabilmente vittorioso. Ma non abbastanza. Non come pensava e sperava. Perché per lui l’ombra del declino sarà già arrivata. Non per questo sarà meno pericoloso. Chi ha paura di perdere tutto, di solito non si ritira. Anzi, può scegliere di battere una via diversa, una strada che non ha più nulla a che fare con la democrazia.

In copertina: illustrazione di Carlo Tassi

VERSO LE ELEZIONI
Rom a Ferrara: il destino degli ultimi degli ultimi appeso alla ruspa di Salvini

Piccolo consiglio non richiesto: Matteo Salvini tornerà a Ferrara il 22 maggio (ma quando mai lavora nel suo ufficio ministeriale?) per concludere la campagna per le Amministrative. Dopo aver scelto Piazzale Giordano Bruno, questa volta mi permetto di proporgli una visita al campo nomadi di via delle Bonifiche: Scelga lui: con o senza ruspa, fa lo stesso; l’importante è ribadire il concetto.
Sull’affollato e poco limpido (apprezzate l’eufemismo) passato giudiziario di Nicola Lodi detto Naomo, Estense.com ha di recente pubblicato una accurata e coraggiosa indagine. La notizia è stata poi ripresa da tutta la stampa cittadina. Questo giornale, a firma del direttore, ha stigmatizzato il comportamento reticente di Lodi e segnalato l’inopportunità di quella candidatura in ragione di tali ambiguità. Ma Naomo resta il capolista della lista elettorale del candidato sindaco della Lega, Alan Fabbri.
Aggiungo al riguardo un altro episodio, non citato nello scoop giornalistico perché privo di esiti giudiziari, ma che credo importante riportare alla memoria dei ferraresi. Anche perché si lega a doppio filo con altri e ben più gravi fatti accaduti in tante altre parti d’Italia, e perché si sposa perfettamente con la campagna anti rom, anti zingari, anti nomadi che la Lega e Matteo Salvini stanno cavalcando da molti mesi.
Partiamo allora da Naomo e dalla sua famosa marcia contro il campo nomadi di via delle Bonifiche. Giugno dell’anno scorso: il manipolo leghista capeggiato da Naomo Lodi e Alan Fabbri  voleva entrare a tutti i costi dentro il campo: obbiettivo fallito per la “difesa disarmata” di tanti cittadini accoglienti e per la presenza delle forze dell’ordine. L’episodio, finito per fortuna nel nulla, può indurci a ridurlo a un fatterello di cronaca locale, da mettere in coda alla lunga lista di ‘bravate’ dell’intemperante segretario comunale leghista.
Oggi, dopo l’inchiesta giornalistica citata, Alan Fabbri non si è nemmeno sognato di scaricare Naomo. Si è limitato a glissare, impegnato com’è a dare ai ferraresi un’immagine di sé e della Lega come una ‘forza tranquilla’, un partito di governo operoso e responsabile, l’unico argine contro l’illegalità, la via maestra da imboccare per raggiungere anche a Ferrara la famigerata sicurezza. Insomma, Naomo sarebbe solo un outsider, una avanguardia pronta allo scontro, magari solo un po’ troppo ‘vivace’… ma dietro di lui – questo è quello che vogliono farci credere – la Destra è tutta un’altra cosa. Una Destra che governa l’Italia, quindi prontissima a governare anche la città di Ferrara.
Le cose non stanno così. Naomo Lodi, i suoi calci in culo agli immigrati, le sue marce contro i centri di accoglienza e il campo nomadi, sono perfettamente in linea con la predica mediatica del Ministro dell’Interno: l’altra faccia della stessa medaglia.

Si è molto parlato di simpatie o di legami, più o meno sotterranei, tra esponenti leghisti e i gruppi violenti, razzisti e malavitosi della estrema destra. Ricordate? Tra le centinaia di felpe indossate da Salvini, ce n’era una nerissima, di chiara marca estremista e razzista, confezionata da un imprenditore legato a Casa Pound. Ma su questa ampia zona oscura spetterà alla magistratura fare luce.
Occorre invece raccontare quello che già oggi sta accadendo. Alla luce del sole e delle cronache. Mentre in tutta Italia si moltiplicano gli episodi di violenza contro il popolo rom, mentre – è notizia di oggi – 65 militanti di Casa Pound e Forza Nuova vengono indagati per ‘odio razziale’ per i fatti di Torre Maura nella periferia di Roma, Matteo Salvini continua a ribadire il suo solenne impegno come Ministro dell’Interno: “Chiuderemo tutti i campi nomadi italiani entro la fine della legislatura”.
Il punto di saldatura – altro che coincidenza – tra il proclama di Salvini e le aggressioni e le violenze criminali dei gruppi neofascisti organizzati, ma anche le marce, le intimidazioni e gli schiamazzi anti rom ad opera dei vari Naomo sparsi per l’Italia è un fatto del tutto evidente.
Un ministro della Repubblica che si mette alla guida di una ruspa e promette di eliminare tutti i campi nomadi è una citazione e un invito esplicito ad una ‘pulizia etnica’ prossima e ventura, un chiaro ‘endorsement’, anzi, una affettuosa pacca sulla spalla ai facinorosi paladini della lotta senza quartiere contro i diversi. Certo, Il ministro non tira fuori l’accendino per appiccare il fuoco: si limita a fornire il carburante ideologico per una ennesima battaglia tra poveri.
Uno guerra dove i perdenti, come sempre, saranno i più poveri tra i poveri – i rom, i sinti, gli zingari, gli immigrati – e senza nessun vantaggio tangibile per i poveri autoctoni, quelli con regolare cittadinanza italiana.
Quella del popolo zingaro, si sa, è una lunga storia, di diffidenza, esclusione, persecuzioni. E una storia piena di orrore. Non conosciamo il numero totale dei rom e degli zingari in genere sterminati nei campi nazisti dal 1941 al 1945. Gli storici azzardano la cifra di 300.000. Ma chissà, confessano, forse erano molti di più, perché i nomadi si spostano e sono difficili da censire… Quello che è certo è che anche quello contro di loro è stato un genocidio, anche se meno ricordato dell’Olocausto del popolo ebraico.
Non sappiamo – o fingiamo di non sapere – come si possa essere giunti a tanto; per quali strade, attraverso quali tappe, agitando quali parole, si sia arrivati fino all’orrore, allo sterminio di un popolo, di una lingua, di una cultura, di un modo di vivere colpevolmente diverso da quello adottato dalla buona e santa maggioranza.
Nemmeno io lo so. E non sto dicendo che, senza accorgercene, stiamo per imboccare quella stessa via. Ma stiamo sottovalutando il problema. Minimizziamo. Anche Naomo preferiamo prenderlo sottogamba: non una minaccia ma una macchietta. Invece, marciare contro un campo nomadi, organizzare spedizioni punitive, ma anche salire su una ruspa e promettere di ‘eliminare il problema’ facendo piazza pulita, chiudendo i campi, togliendo di mezzo i diversi, sono tutti segnali che appartengono ad una stessa sequenza. Se li mettiamo tutti in fila, come se stessimo giocando con le lettere dello Scarabeo, rischiamo di arrivare a una parola paurosa, una parola che siamo abituati ad usare solo al passato, ma che potrebbe tornare di moda. Deportazione.

Facce da ‘Interno Verde 2019’: itinerario tra quelli che i giardini li aprono

Facce da ‘Interno Verde 2019‘: sono quelle che si potevano incontrare nei giardini, in gran parte privati, aperti a Ferrara grazie all’iniziativa organizzata dai ragazzi dell’associazione Ilturco. Un tour dentro luoghi nascosti nel centro storico di Ferrara, che in questa quarta edizione 2019 si è spinto fuori dalle mura cittadine e nella campagna per un raggio di tredici chilometri dalla città. Nel weekend appena trascorso (11 e 12 maggio 2019) sono state tante le facce incontrate tra chi — i giardini — li vive, li visita, li agghinda, li preserva o li apre al mondo. Una manifestazione che, nonostante il maltempo delle due giornate e anche delle settimane precedenti, ha visto la partecipazione di 4mila persone. A ciascuno di questi visitatori l’ingresso nei giardini ha regalato scorci di pace, verde e fiori, ma anche tante storie, parole, doni. Perché chi decide di aprire le porte di spazi intimi dà qualcosa di se stesso e aggiunge un pezzetto di storia alla storia della città.

Elena Paolazzi davati all’albero di sofora pendula a Villa Indelli di Quartesana (foto Luca Pasqualini)

Villa Indelli (giardino n. 89) – Accoglienza colorata e persino conviviale a Quartesana, dove incurante della pioggia c’è Elena Paolazzi ad andare incontro ai visitatori sotto un ombrello allegramente arcobaleno. La pioggia scroscia e lei, giovane ingegnera impegnata nel volontariato internazionale, accoglie con gli stivaloni di gomma gli ospiti arrivati per ammirare la distesa verde intorno a Villa Indelli, nella campagna in fondo a via Ducentola. Dove un tempo erano frutteti di mele e pere, ora spicca isolata la monumentale quercia ultracentenaria, la grande aiuola rotonda di prato verde davanti alla casa padronale e poi, sul retro, l’albero di sophora con i rami cadenti accanto a un’altra aiuola rotondeggiante più piccola. Finito il giro tra boschetto di bambù, acacie e magnolie, la padrona di casa invita ad entrare nella cucina antica e colorata, dove si festeggia un compleanno e si può gustare ottimo hummus e cous cous fatti in casa da accompagnare allo sciroppo di sambuco [nella foto di copertina di Luca Pasqualini].

Mara e Roberto nel loro giardino ai lati della basilica di San Giorgio fuori le mura (foto GioM)

Antico borgo di San Giorgio (giardino n. 74) – Un cancello fatto di stecche colorate delimita il giardino al civico 54/c nello stradello che si estende sulla destra della basilica di San Giorgio fuori le mura, la chiesa di origini più antiche di tutta la città. Tra tante casette che sembrano fuori dal tempo con spirito pioniere e accogliente Roberto e Mara aprono il loro giardino pieno zeppo di piante, statuette e manufatti colorati che raccontano di viaggi in India, di legami di amicizia e voglia di stare insieme, confrontarsi e dialogare.

Giardino di casa Testa-Testi con i libri del giornalista Gian Pietro Testa in omaggio ai partecipanti a ‘Interno Verde 2019’ (foto GioM)

Giardino letterario Testa-Testi (giardino n.45) – Una piacevole noncuranza quasi selvaggia caratterizza il giardino che si estende sorprendentemente dietro un portone carrabile della piccola e centralissima via Pescherie Vecchie. Camminando sotto un ippocastano tra cespugli di ortensie e iris, due pile di libri offerti agli ospiti rivelano che ci si trova sul retro di casa del giornalista e scrittore Gian Pietro Testa e della moglie insegnante e scrittrice Elettra Testi. Anche se non riescono ad essere presenti fisicamente, i padroni di casa lasciano un omaggio di volumi: la raccolta poetica su ‘L’ultima notte di Savonarola’ (edizioni Liberty House, 1990) e il romanzo ‘Il linciaggio’ (edizioni Liberty House, 1988) di Gian Pietro Testa. Grazie!

Patrizia Ascanelli davanti al Villino ex Quilici di viale Cavour con una volontaria di ‘Interno Verde 2019’ e la figlia (foto Luca Pasqualini)

Villino ex Quilici (giardino n. 32) – Un’area verde di forte presenza femminile quella della palazzina in stile liberty su viale Cavour 112. È una signora, Teresa Masieri, che nel primo Decennio del ‘900 commissiona il progetto dell’edificio a Ciro Contini. Dopo la morte di lei, nel 1929, la proprietà passa alla pittrice e illustratrice Mimì Quilici Buzzacchi, che ci andò a vivere con il marito Nello Quilici (giornalista e direttore del ‘Corriere Padano’) e i loro figli Folco e Vieri.

Nello Quilici col figlio Folco nel 1933 davanti a casa (dal catalogo ‘Mimì Quilici Buzzacchi. Tra segno e colore’)

Mimì dipingeva e riceveva visitatori illustri, tra cui Filippo De Pisis, Arrigo Minerbi e Achille Funi. Una donna è l’attuale proprietaria Patrizia Ascanelli, che racconta: “È stato mio nonno paterno ad acquistare l’edificio nel 1945 da Mimì, che era rimasta vedova”. E spiega che è nella soffitta di questa casa che l’artista Achille Funi realizzò i cartoni preparatori degli affreschi dedicati al ‘Mito di Ferrara’, che ancora decorano la Sala dell’Arengo e si possono ammirare all’interno della residenza comunale di piazza Municipio.

I volontari di questa edizione di ‘Interno Verde’, Dafne e Niccolò, accolgono i visitatori nella villetta del Quartiere Giardino (foto GioM)

Casa Ludergnani (giardino n. 41) – Tra via Cavour e gli ex giardini della mutua c’è la villetta, progettata nel 1926 in mezzo a un giardino borghese, ordinato e funzionale. Ad accogliere i visitatori sono i volontari Niccolò Ferrara e Dafne. I due ragazzi raccontano di aver aderito all’appello di volontariato culturale, perché questi due giorni  permettono loro di guardarsi intorno e conoscere tante cose e persone nuove.

La famiglia Lombardi. In piedi Tomaso, Giannino, Alfredo (inventore del dado), Elisa, Ada, Clarice, Tudina, Resvilde. Seduti Albertino, Aldo e Maria Figna

Erbe per l’inventore del dado Lombardi (giardino n. 64) – In via Formignana 32 c’è un giardino che potrebbe avere ispirato gli aromi del brodo diventato famoso con la pubblicità di Carosello [clicca qui per vedere lo spot su YouTube]. La proprietà fu comprata nel 1925 da Maria Figna in Lombardi, bisnonna dell’attuale proprietaria, che ebbe nove figli. Tra questi il terzogenito Alfredo Lombardi (nato nel 1901), che è appunto l’inventore del Dado Lombardi. Un vero e proprio classico nella cucina italiana del dopoguerra, che usciva dagli stabilimenti della ditta Lombardi, operativa in città e poi a Tresigallo di Ferrara dal 1958 al 1968.

Limonata per gli ospiti del giardino di via Beatrice d’Este 16 di Ferrara, che funziona anche come B&B Il Ciliegio (foto GioM)

Gli orti monacali (giardini 68, 69, 70) – È la padrona di casa Eliana, che gestisce il b&b Il Ciliegio in una delle case con giardino visitabili nella centralissima via Beatrice d’Este, che spiega: “Queste aree verdi sono spicchi di quello che era un unico grande orto delle monache di Sant’Antonio in Polesine”, piccola oasi di pace che si trova infatti sulla stessa via. Un’iscrizione incisa in cubetti di marmo incastonati tra i mattoni testimoniano, di casa in casa, l’antica appartenenza all’antico monastero benedettino fondato sulla regola di “ora et labora”, dove la preghiera si alternava alla cura dei campi e delle piante, la meditazione intervallava la produzione di ricette, manufatti, cura di ortaggi e di animali. Col passare dei secoli quel mondo è stato pian piano ristretto e la terra, un tempo pregata e coltivata, è stata trasformata in terreno edificabile. In quell’area ora abitano famiglie che mantengono il ricordo di quegli spazi sul retro delle loro abitazioni. Fazzoletti di terra di dimensioni uguali con in fondo un pezzettino di casetta che fronteggia la casa e che, in origine – spiega Eliana – era un’unica, lunga scuderia del monastero.

L’ingresso di Villa Pignare a Quartesana di Ferrara (foto GioM)

Villa Pignare (giardino n. 88) – La Villa delle ville quella in via Comacchio 1179 a Quartesana: oltre alla bellezza dei suoi saloni e del suo parco, lo spazio ha offerto infatti una panoramica di fotografie che documentano tutto il patrimonio di dimore di questo paese a una decina di chilometri da Ferrara.

La mostra di fotografie sulle ville di Quartesana allestita a Villa Pignare con le foto di Stefania Ricci Frabattista e Mario Bettiato

A realizzare il lavoro di documentazione fotografica, ideato insieme con la parrocchia del paese, sono stati Stefania Ricci Frabattista e Mario Bettiato, che hanno immortalato una per le facciate e gli interni di quelle ville, che poi l’itinerario della manifestazione ha consentito almeno in parte di rivedere dal vero. Sempre in esposizione in questi spazi, c’erano i paesaggi del Po interpretati da Marco Cavazzini con sintetiche pennellate in bianco e nero che rievocavano le atmosfere rarefatte della pittura cinese.

Il candidato

Non aveva tregua quell’incessante ricerca di consenso che lo obbligava a non staccare mai, neanche quando qualcuna delle persone più vicine chiedeva di smettere. E neppure i figli avevano questo potere, nemmeno nei casi e nelle situazioni più estreme. Il consenso andava mantenuto, accresciuto, esaltato, coltivato minuziosamente, attentamente, dosando energie e interventi. Era un fuoco che lo rodeva dentro e alimentava la smania di potere che da qualche anno lo invasava, nata dal nulla, senza nessuna ragione o forse era in lui da sempre e solo da poco era emersa in tutta la sua forza. La moglie diceva che era un demone che lo guidava e lo anticipava in tutte le sue azioni, lo spingeva là dove raramente qualcuno arriva così facilmente: successo, considerazione, onori, vantaggi, soldi, tanti soldi, notorietà e riconoscimenti di ogni tipo. Un piccolo Faust di provincia che patteggiava col diavolo Mefistofele, consumandosi nei suoi deliri di onnipotenza.

La cosa avrebbe potuto sembrare perfino “miracolosa”, se si pensa a come era nata questa situazione e come si era evoluta. Lodovico era sempre stato un buon impiegato asserragliato nel suo ufficetto, di quelli meticolosi, simpatici con il pubblico, sempre la risposta giusta ad ogni quesito. Un tipo come tanti, abbastanza grigio da essere il contabile perfetto, l’esecutore di fiducia. Era iniziato tutto quando qualcuno gli aveva suggerito all’orecchio di candidare nel suo paese di 2.500 anime e lui, prima ridendo di se stesso e poi prendendo molto seriamente l’idea, lo aveva fatto. La valanga di voti che lo aveva travolto inaspettatamente ne aveva fatto un piccolo eroe da portare in trionfo nel bar della piazza, dopo lo spoglio definitivo nei seggi. E pensare che non aveva mosso un dito, un solo dito nemmeno per una spartana campagna elettorale! Si era ritrovato sorridente come sempre in sala giunta, alla destra del sindaco, a misurarsi con contenuti e procedure fino allora estranee, programmi sociali, piani urbanistici, gestione del patrimonio culturale, viabilità, affari istituzionali così complessi che, per un paese così modesto, sembravano davvero sproporzionati. Insomma, la sua vita di diligente e fedele dipendente, la moglie, i due figli e qualche uscita in bicicletta il fine settimana, aveva subìto un drastico cambiamento a cui lui, peraltro, si era abituato quasi subito.

“Vico, Vico!” scrollava la testa la vecchia zia Carlotta, “non dimenticare mai chi sei e da dove vieni! La vita dà con una mano e con l’altra prende…! Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino!” La zia Carlotta parlava per proverbi, modi di dire, metafore popolari ed espressioni idiomatiche, mai che i suoi discorsi avessero una struttura ed un lessico comuni. I nipoti la prendevano in giro ma ammettevano che aveva sempre ragione. Saggezza popolare!

La nuova vita, fatta di riunioni, sessioni di lavoro, incontri, appuntamenti, pranzi e cene ufficiali, inaugurazioni e partecipazioni anche nei paesi vicini, lo esaltava e lo convinceva che aveva fatto la scelta giusta. Lodovico qua, Lodovico là, ragioniere carissimo, egregio assessore… Quel piccolo mondo di periferia gravitava intorno a lui e lui rispondeva rendendo favori, piccoli piacerini, accomodamenti, soluzioni non sempre esattamente regolamentari ma nemmeno illegittime. Aveva imparato in fretta l’arte del muoversi nella maniera più abile fra le strade, gli affari, i mestieri, le beghe e le rivalità di quel paese. E il paese lo ricompensava riconoscendogli meriti e importanza a ben vedere superiori rispetto la realtà. Ma le cose vanno così.
E lui ammiccava, sorrideva, annuiva sempre, stringeva mani, elargiva promesse, faceva perfino l’occhiolino nei momenti di maggior esaltazione.
E poi gli anni e i mandati si susseguono in fretta e l’assessore diventa sindaco ed il sindaco capisce che può diventare qualcos’altro…

Era come se si trovasse davanti ad una scala, step by step fino alla sommità dove ad ogni ascesa di gradino corrispondeva una pari ascesa di ruolo.
Nel capoluogo gli avevano già puntato gli occhi addosso: l’odore dell’ambizione e della vittoria fa presto a girare… Ed ecco i primi contatti stretti, l’approfondimento di quelle relazioni che prima erano solo superficiali, gli incontri in trasferta, gli accordi ufficiali e top secret, le telefonate concitate ad ogni ora del giorno e della notte. I viaggi dalla città al paese e viceversa erano diventati ormai frequenti, il giro di persone e conoscenze di partito si sprecavano ed ogni occasione era buona per intessere, tramare, ritagliare e cucire contatti e rapporti. Il suo mondo era il chiacchiericcio dei corridoi dove anche le chiacchiere hanno un peso e un prezzo, i colloqui privati senza anticamera, le telefonate immediate e confidenziali con chi di solito si nega, il doppiopetto e la ventiquattrore sempre pronta, la nuova Mercedes, la moglie che gira come una first lady seppure in versione casereccia, seno e naso rifatti di recente, camuffata da buona samaritana o dea sterminatrice Kali a seconda dei casi, dividendo il mondo in due: i buoni e i cattivi. Solerte anche lei nel coltivare ‘amicizie’ o procedere con epurazioni sociali.

Era una vita in pasto all’adrenalina pura, al compiacimento di se stesso, un’ammirazione narcisistica sconfinata in quello che faceva o riusciva a dire nei discorsi pubblici, discorsi stereotipati che non avevano mai in fondo qualcosa di originale e diverso.
E venne il giorno in cui sedette in una poltrona più alta e il suo nome circolava nei TG regionali, occupando anche le maggiori testate giornalistiche locali.

“E’ la moglie!”, insinuava qualcuno, alludendo alla grande, grandissima ambizione della donna, ormai palese sotto gli occhi di tutti. Tristi pagine di quelle presenze femminili che amano agire nell’ombra, manovrando e operando nel backstage della politica come le cortigiane di un tempo nei letti degli imperatori e dei primi ministri, nei salotti buoni delle capitali d’Europa. Ambizione o no, la donna trovava il modo di catalizzare attenzione, mietere vittime tra i “nemici”, collezionare incarichi e apparire come lupa sotto il vello d’agnello.

Quel giorno che il marito venne eletto deputato a Roma divenne incontenibile e dichiarò spudoratamente che il marito era “un predestinato da sempre, perché l’unico in grado di ricoprire tale carica”. Il delirio di onnipotenza giunse a concepire ipotesi di più ampio respiro che arrivavano a disegnare scenari di glorie ed onori al Parlamento di Bruxelles piuttosto che come ministro dello Stato italiano.

Lecchini, carrieristi, avvoltoi e pidocchi si affollavano attorno al neoeletto, ma anche i piccoli amministratori dei paesini confinanti, i colleghi politici del capoluogo e soprattutto molta brava gente che, in modo del tutto onesto, si sentiva parte responsabile del grande salto. L’osanna durò intere settimane ed occupò eccezionalmente la cronaca politica di una regione di solito discreta, introversa, taciturna e poco avezza alle esternazioni, che notoriamente non brillava per mondanità e fatti esilaranti.

L’onorevole si vedeva orami poco al paese, tant’è che molti non lo nominavano neanche più, altri si chiedevano che fine avesse fatto e alcuni non si ricordavano proprio di quel fenomeno vivente dalla carriera fulminante. I figli studiavano in città e la moglie, con tutta probabilità aveva adeguato la sua vita a quella del marito, facendo la spola tra casa e la capitale e tra un amante e l’altro. Ogni tanto giungeva l’eco di questo e quello, decreti da approvare, commissioni al lavoro, provvedimenti urgenti, interventi discussi…ma ormai era un altro mondo, un corpo estraneo nel tessuto sociale del paesino, qualcosa di alieno rispetto la vita e le abitudini delle 2500 anime che si rivolgevano con rinnovati entusiasmi ai nuovi eletti locali di turno.

Cinque anni passano in fretta e il nome di Lodovico, che ormai non mette più piede in paese, viene riconfermato per l’appuntamento elettorale successivo. Un bravo servitore come lui ha giovato al sistema e merita ricompensa: non avrà fatto grandi cose ma nemmeno danni, ha seguito il partito nelle mille avventure e sventure senza mai rinnegare niente e nessuno, ha sorriso come sempre davanti alle telecamere, ha moltiplicato i favori e piaceri, questa volta più grossi, come era già abituato a fare, con l’unica differenza che ora si naviga in acque alte e la posta in gioco è immensa. E perché mai non ricandidarlo? La moglie incalza stravolta, incattivita, perdendo anche quel barlume di riservatezza e dignità che aveva conservato seppure a brandelli. Occorre lavorare, lavorare, lavorare per conquistare elettorato. La macchina non può fermarsi, non deve fermarsi… Ricominciano gli incontri con le lobbies, i comizi col popolino, la kermesse va avanti come in un grande circo. Ci sono tutti: saltimbanchi, trapezisti, acrobati, contorsionisti, domatori, cavallerizze e nani, pagliacci, ballerine e musicanti. Ognuno fa la propria parte.

Quel giorno, il giorno del voto, Lodovico si alzò dal letto senza aver chiuso occhio come era prevedibile. Lasciò l’hotel dove ormai era di casa e per le 24 ore successive non riuscì a pensare ad altro se non alla vittoria.

Lo stesso fu il giorno successivo: le notizie in real time, le telefonate incessanti, lo sguardo fisso sullo schermo del pc, la segreteria di partito che dava informazioni man mano che la situazione modificava.

E fu il tonfo, una di quelle cadute rovinose che lacerano i tessuti, spezzano i nervi, rompono le ossa e scompensano completamente gli organi interni.

Ogni fibra del suo organismo gridava “Fuori!”

Non ce l’aveva fatta.
Era finito tutto.
Come in una moviola, nella sua testa scorrevano fotogrammi rapidissimi di tutto ciò che era stata la sua vita, l’ufficio in paese, la sua gente, la moglie e la famiglia, tutti quegli anni da allora fino adesso. E poi la tensione sparì di colpo e lo lasciò afflosciato come un sacco di juta alleggerito del contenuto.
A nulla valsero ad attutire l’avvilimento le manate sulle spalle di falsa solidarietà di circostanza.
Si ritrovò a vagare per le strade della capitale come una trottola in movimento perenne, senza vedere né sentire la gente e il traffico. Un automobilista lo insultò dal finestrino semiaperto e gli indicò irosamente le strisce pedonali. Nemmeno l’impatto con la donna stracarica di borse della spesa riuscì a scuoterlo.
Il mondo continuava a girare come sempre, anche senza di lui.
Un senzatetto seduto sui cartoni in un angolo, col suo cane e una fila di bottiglie vuote davanti a sè, lo fissava con un’espressione indecifrabile e a Lodovico sembrò che lo stesse deridendo.

Si accasciò sulla prima panchina che incontrò, rimase là con la testa fra le mani e, serrando i pugni pe non piangere, si sentì nessuno.

da Liliana Cerqueni, ‘Istantanee di fuga’, Sensibili alle foglie, 2015

26 maggio: l’occasione per scegliere l’Europa che vogliamo

C’è qualcosa che non quadra nel ragionamento secondo cui, per esempio, sul tema migranti l’Europa non funziona e quindi occorre fare da soli.
Che l’Ue non stia funzionando non ci sono dubbi, ma il problema è che questa è competenza degli Stati nazionali, non dell’unione. In termini istituzionali, significa che è materia del Consiglio europeo, dove si riuniscono i ministri dei vari paesi (nel quale, a quanto pare, la sedia italiana è spesso vuota), non della Commissione.

Se questo è vero, vuol dire che i risultati sulla questione migratoria sono deludenti non perché c’è l’Europa, ma perché non c’è. Perché da troppo tempo la sua architettura continua a rimanere un’incompiuta, fra un assetto intergovernativo e uno federale (dal latino foedus che significa patto, accordo, legame).
Di conseguenza, sarebbe logico aspettarsi che ministri e governi facessero il possibile perché l’Unione europea riuscisse a governare un tema che è già fra quelli dirimenti di un’epoca. E invece, assistiamo alla politica dei confini, dei porti chiusi e del filo spinato, nel nome della difesa degli interessi nazionali.
La stessa dei partiti che per le elezioni del 26 maggio promettono, in caso di vittoria, di cambiare quest’Europa, smantellando le rigide regole dei burocrati di Bruxelles imposte contro la volontà delle nazioni.

È lo schema populista su scala internazionale, che indica nell’establishment economico, finanziario e bancario, il grumo di potere da abbattere per disintermediare l’Europa dei popoli, finalmente liberi da vincoli e parametri assurdi, che ne inibiscono sviluppo e prosperità.
Un verbo martellato da anni nelle sinapsi delle opinioni pubbliche, come sta tramando, per esempio, l’ex capo della strategia della Casa Bianca, Steve Bannon, che non è chiaro quanto sia stato licenziato da Trump, oppure inviato sull’altra sponda dell’Atlantico perché, al netto dell’effettiva influenza, a Washington farebbe comodo un’Europa divisa, cioè un concorrente in meno nella guerra della competizione globale. Interesse peraltro non lontano dai disegni russi e cinesi.

E così il fiume dell’interesse nazionale è ingrossato dagli affluenti del pensiero sovranista, suprematista, illiberale, xenofobo e da un tradizionalismo rinvigorito su base culturale, nostalgica e persino religiosa. Lo slogan “Prima i nostri” miete consensi elettorali ed è declinato fino a distillare le purezze etniche più locali e perciò escludenti.
In piena campagna elettorale il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha chiuso fra gli applausi il recente comizio ferrarese ricordando di non voler vivere in un’Europa ridotta a un califfato islamico, come se fosse davvero un pericolo imminente.
Un’italianità da difendere persino sulle tavole, ha ammonito, dimenticando che persino l’agricoltura tricolore da sola esclude l’autosufficienza alimentare.

Ma davvero è così che si difende l’interesse nazionale?
Sul fatto che sia una menzogna è stato chiaro Massimo Cacciari, intervenuto lo scorso 25 aprile a Monte Sole (lo si può ascoltare per intero su youtube).
Nel 1929 l’Europa delle rivalità nazionali non fu in grado di gestire le conseguenze della grande crisi. Tre anni dopo Hitler era al potere in Germania.
Antonio Gramsci fu di una lucidità purtroppo inascoltata: senza un governo razionale delle gravi conseguenze economiche e sociali prodotte dalla crisi – disse in sostanza – esploderanno movimenti di masse ingovernabili, nebulose passioni, odi e risentimenti, che finiranno per travolgere le istituzioni democratiche.
È vero che la storia non si ripete identica, ma se non si affrontano le cause delle crisi che purtroppo si ripetono, effetti simili possono ancora succedere.

Non sarà un’ennesima insensata guerra a ripresentarsi, ma se non si capiscono le cause anche della tremenda crisi che dal 2008 produce disuguaglianze economiche e distanze sociali spaventose, facili prede delle astute macchine della paura, le istituzioni democratiche possono essere ugualmente in pericolo.

Dalle macerie della Seconda guerra mondiale gli europei, consapevoli della responsabilità di avere per due volte incendiato il mondo nel Novecento, condivisero che il modo migliore per difendere i propri interessi non era continuare a cavalcare spirito competitivo, rivalità e inimicizie fra gli stati, in una lotta senza fine per la supremazia, ma stringere un patto di amicizia. Un’intuizione tuttora attuale e accresciuta in un mondo nel frattempo in preda al disordine, nel quale è semplicemente insensato il solo pensare che i singoli stati nazionali possano da soli reggere il confronto con i nuovi perimetri imperiali.

Per questo la carta dell’unità europea è la sola giocabile in un tale scenario globale, nella consapevolezza che l’identità non può fondarsi su base etnica, ma sulla legge comune. “È la convergenza giuridica che genera il senso di comunità”, scrive Ulrike Guérot (Il Mulino 1/2019), che per non restare sul piano astratto fa gli esempi del diritto di voto, delle leggi tributarie e dei diritti sociali.
O le istituzioni democratiche si difendono perché l’Europa riscopre la propria vocazione-missione, pagata storicamente a caro prezzo, di essere spazio comune di uno stato di diritto basato sulla giustizia, oppure bisogna prepararsi a nuove possibili catastrofi i cui germi sono già in circolo.
Se solo si prestasse ascolto, lo stanno dicendo con sorprendente lucidità gli adolescenti a un mondo adulto che ha perso credibilità e affidabilità.
Lo sta facendo la svedese Greta Thunberg che con il grido d’allarme per le sorti del pianeta avverte i grandi: “Dite di amare i vostri figli più di ogni altra cosa, invece state rubando loro il futuro”. Lo ha fatto Rahmi, il ragazzo 14enne di origini egiziane della scuola Margherita Hack di San Donato, che lo scorso marzo ha salvato compagni e docenti chiamando il 112 perché l’autista stava dando alle fiamme il pullman sul quale stavano viaggiando: “L’ho fatto per salvare i miei compagni”, ha detto nella sua disarmante semplicità, mentre la politica litiga su chi abbia diritto di cittadinanza in Italia.
Lo ha fatto Simone, il ragazzo di Torre Maura che dice “Non me sta bene che no”, in mezzo alle proteste di Casa Pound contro l’ospitalità dei Rom, nel quartiere della periferia romana.

E lo fa Zain Al Rafeea, il ragazzino protagonista di ‘Cafarnao – caos e miracoli’, lo stupefacente film di Nadine Labaki, giustamente premiato a Cannes nel 2018. È il commovente miracolo dell’infanzia che non si stanca di gridare il proprio diritto di essere uomo in un mondo (la citazione evangelica di Cafarnao, il villaggio che Gesù ha maledetto perché non ascolta i suoi insegnamenti), in cui gli adulti hanno brutalmente ceduto al mercimonio e al più brutale, disperato e degradato smottamento della vita umana.
Zain, nella vita reale spinto dalla guerra in Siria a trasferirsi con la famiglia in Libano e vittima di violenze e soprusi inimmaginabili ai margini della periferia di Beirut, ora vive e frequenta la scuola in Norvegia.
Un piccolo segno di riscatto di cui la vecchia Europa, nonostante tutto, è ancora capace, come spazio comune di diritti e di giustizia.

Il 26 maggio è ancora l’occasione per farlo, nel nostro stesso interesse nazionale.

Banche: qualche chiarimento sul rapporto tra spread e tassi di interesse sui mutui

L’aumento dello spread sui titoli di stato che si è registrato negli ultimi nove mesi, in particolare fino a febbraio del 2019, ha avuto un impatto sulle famiglie in quanto chiedere un mutuo è diventato più costoso. A confermarlo è l’annuale rapporto Bankitalia sulla stabilità finanziaria che riporta: “ll rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato si sta trasmettendo gradualmente al costo dei nuovi finanziamenti. Rispetto allo scorso settembre i margini applicati dalle banche sui mutui a tasso fisso sono cresciuti di quasi 50 punti base, mentre quelli sui mutui a tasso variabile si sono mantenuti stabili” e visivamente lo si apprezza con il grafico di seguito (linea rossa a destra che tende a rialzarsi nell’ultimo tratto)

Almeno fino a febbraio, come si diceva all’inizio, perché secondo gli ultimi dati Abi il tasso medio sulle nuove erogazioni per l’acquisto di abitazioni a marzo è sceso all’1,87%, allineandosi più o meno ai livelli di marzo 2018.

Secondo quanto riportato dal rapporto, l’aumento interessa solo i nuovi mutui e, tra questi, solo quelli a tasso fisso perché, come evidenziato da Ilsole24ore ma anche da Altroconsumo in più occasioni, non c’è correlazione tra Euribor, il tasso interbancario a cui sono agganciati molti mutui a tasso variabile, e l’andamento dello spread.

Fonte grafico: Ilsole24ore

Il punto, dunque, su cui ragionare è: perché aumentano i tassi dei mutui nuovi e a tasso fisso?
I tassi d’interesse sui mutui crescono perché le banche, come sottolinea Bankitalia, incontrano maggiori difficoltà nel loro indebitamento obbligazionario e quindi: “il maggior costo dei nuovi mutui riflette verosimilmente l’esigenza degli intermediari di compensare l’incremento del costo della raccolta obbligazionari”. Cioè i maggiori costi che le banche affrontano per indebitarsi, grazie anche alle tensioni sui titoli di Stato, le costringono ad offrire a loro volta denaro in prestito (credito) ad un costo maggiore.
Tale aumento sui fissi, tra l’altro, potrebbe portare le famiglie a preferire i tassi variabili per conseguire un risparmio immediato, invertendo la scelta storica del “certo per l’incerto”. Normalmente infatti la famiglia tipo preferisce pagare qualcosina in più all’inizio per mantenere la certezza di una rata costante nel tempo e proporzionata alla propria dichiarazione dei redditi. Eventuali tensioni sui mercati dei tassi potrebbe alla lunga essere pericolosa per l’aggregato famiglie e questo pone in allarme sia Bankitalia che il Corriere della Sera e Ilsole24ore, da sempre notoriamente schierati a difesa degli interessi dei cittadini.
L’incertezza sui tassi d’interesse è legata all’incertezza dell’economia del libero mercato che impedisce ai titoli di stato di essere asset sicuri e di cui lo spread è un termometro. Rimandare le colpe di tutto questo al governo in carica, in qualsiasi momento storico e di qualsiasi colore sia, è un voler parlare degli effetti senza arrivare alle cause.
Questo piace soprattutto a chi non ha necessità di avere un mutuo per comprarsi una casa e preferisce che a decidere se debba fallire o meno Carige sia Black Rock piuttosto che una banca centrale o uno Stato, istituzioni che interverrebbero nell’interesse dei risparmiatori e della comunità.
Il costo dello spread si sta trasferendo dunque sul segmento dei mutui a tasso fisso, aumento limitato ma percepibile, il che potrebbe portare ad un aumento di rischio finanziario futuro in capo alle famiglie ma questo solo perché sia gli stati che le banche centrali non stanno facendo il loro lavoro di tenere sotto controllo l’economia lasciando che il mercato finanziario stabilisca il tasso di interesse dei titoli di stato e togliendo le garanzie statali alle banche commerciali. E mentre politici ed esperti del settore continuano ad occuparsi del colore delle tende, l’edifico continua a sprofondare nelle sabbie mobili.

DIARIO IN PUBBLICO
A Firenze un incontro con Claudio Magris

Rovesci di pioggia mi accolgono all’arrivo a Firenze: grigio, nuvolo, umido, ma ‘l’odiosamata’, città del cuore, è lì a sbranarmi di ricordi. Rivedo quelle strade tante volte percorse e immediatamente scatta la trappola e mi soccorre Montale: “Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio./Il mio dura tuttora, né più mi occorrono/le coincidenze, le prenotazioni,/le trappole, gli scorni di chi crede/che la realtà sia quella che si vede”.
Prefiguro che l’incontro pomeridiano con Claudio Magris, in occasione del convegno a lui dedicato ‘Firenze per Claudio Magris‘ – promosso dal dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia dell’Università di Firenze – verterà sul dato fondamentale della sua poetica cioè sulla constatazione che la realtà non sia quella che si vede, ma sia quella che le parole costruiscono.

E sotto la pioggia varco il portone del Rettorato all’angolo di piazza San Marco. Non mi volto a sinistra dove, da lontano, s’intravvede la nostra casa, ma mi lascio prendere dal tappeto di rose bianche che ora ricopre la piazza. E salgo lo scalone in attesa che aprano le porte dell’Aula magna tra i festosi ritrovamenti dei colleghi e l’arrivo di Lino Pertile dal suo buen retiro a Fiesole, che doverosamente viene omaggiato dal grande libro fotografico su Bassani. Giunge Dora Liscia, la nipote del grande scrittore ferrarese e collega per anni. Poi Enza Biagini, dolcissima amica, che presiederà la seduta del pomeriggio, e infine Ernestina Pellegrini, la massima studiosa di Magris responsabile del convegno. Sono naturalmente ansioso. Veloci scambi di vedute sull’aspetto fisico dei colleghi di un tempo e degli allievi ‘antiqui’ quindi entriamo nell’aula maestosa che mi ricorda altri tempi, altre situazioni tutto nella contemporaneità del ricordo.

All’arrivo di Magris sono chiamato a esporre succintamente ciò che poi potrò ampliare negli Atti del Convegno. Dichiarandomi totalmente d’accordo con l’interpretazione della Pellegrini ad assumere come elemento tematico da cui partire questa dichiarazione, che ritorna ossessivamente nell’opera di Magris e in tutta la produzione-saggistica, narrativa, teatrale, come “un’ininterrotta meditazione sulla vita e sulla storia”. In tal modo la sua si conforma come “arte di testimonianza”.

Commenta la Pellegrini nell’introduzione al primo volume del Meridiano da lei curato e dedicato all’opera di Magris: “A cosa rimanere fedeli? Ai propri demoni con tutte le laceranti contraddizioni che ciò implica o ai propri doveri verso la causa pubblica, in un ineludibile confronto col mondo e la necessità di mutarlo?”. Risuonano scanditi dalla enumerazione dei temi le domande che rivolgo al grande scrittore e che si confrontano con le mie versioni del fatto critico in esame. Così alla ‘triestinità’, uno dei capisaldi dell’indagine critica e letteraria di Magris, accosto ‘fiorentinità’ e ‘ferraresità’, due momenti della costruzione culturale che hanno determinato il mio iter di studioso quando ho cominciato a insegnare. E m’imbatto in questo lemma, ‘fiorentinità’, in cui il mito di una città – come Trieste per Magris – diventa la base complessa di un riferimento ormai classico a ciò che ha creato i fondamenti della novità novecentesca di un pensiero che si esprimeva anche nei luoghi frequentati dagli intellettuali che, come i Caffè di Trieste, il ‘Caffè degli Specchi’, o il ‘Garibaldi’, o il ‘Tergesteo’ , il ‘San Marco’ frequentato dallo stesso Magris, a Firenze si connotano come ‘Le giubbe rosse’, ‘Paszkowski’, ‘Gilli’, ‘Giacosa’, ‘Rivoire’, dove al seguito dei Maestri negli anni Settanta ci recavamo in devota peregrinazione, affollando, prima, la Libreria Seeber allora in via Tornabuoni. Ai giovanetti studiosi dava in visione i libri avidamente letti in due giorni; quelli poi che tenevamo, li potevamo pagare a rate mensili. Ma erano gli anni in cui Ferrara andava alla conquista della città del Giglio. Sulle cattedre di Letteratura italiana sedevano Lanfranco Caretti e il sardo ormai ferrarese Claudio Varese, poi, negli anni, Guido Fink, Carla Molinari, chi scrive queste note e altri giovani destinati a ricoprire importanti incarichi nell’accademia come Monica Farnetti.

Ferraresità a differenza di triestinità, significa poi nella storia del secolo breve la nascita della metafisica, la partecipazione degli agrari ferraresi alla marcia su Roma, i federali potentissimi tra cui il Maresciallo dell’aria Italo Balbo, il podestà ebreo Ravenna, protetto dallo stesso Balbo fino alla sua morte e la conseguente fuga in Svizzera, l’ eccidio del Castello e la testimonianza di Giorgio Bassani, affidata alle sue storie ferraresi e al romanzo di Ferrara, il ritorno alla ‘normalità’ ovvero a una tranquilla convivenza per settant’anni di una amministrazione sempre di sinistra che non infierisce sulla classe politica antecedente, ma la ingloba in una apparentemente pacifica convivenza. Ora, la famiglia Balbo ha donato gran parte del suo archivio all’Istituto di storia contemporanea di Ferrara; ma a seguito di questa iniziativa si è parlato dell’eventualità di intitolare una via o una piazza a Italo Balbo. E questo ha suscitato la mia reazione. Un conto è che la storia rimanga tale, un conto che un’eventuale reminiscenza di un’adesione a un tempo proibito diventi la suggestione per rimuovere umori che le cronache di questi giorni confermano. I giovani presenti applaudono convinti. Magris mi ringrazia.

Il problema, per me forse il più affascinante, riguarda Magris germanista che viene a coincidere con l’amico sconosciuto, ovvero una tra le persone che più di ogni altre hanno inciso nella mia formazione umana e culturale: Furio Jesi. Ho narrato molte volte il mio rapporto con questo straordinario personaggio, autodidatta, che a 16 anni s’imbarca su un peschereccio e sbarca ad Alessandria d’Egitto, dove traduce il libro dei morti e diventa l’allievo prediletto di Kerényi, il grande studioso delle religioni e amico di Thomas Mann. Le lettere che ci siamo scambiati per una vita raccontano il difficile rapporto tra Cesare Pavese e Thomas Mann e nello stesso tempo il concretizzarsi di un concetto, espresso da Jesi nel suo ‘Germania segreta’, tra mito, inconoscibile, e mitologema: cioè la raccontabilità del mito e quindi la conoscenza di ciò che in sé è impossibile conoscere. Qui rientra un altro ‘mito’ di cui ho fatto parte. Quello dei tre ‘pavesini’ Lino Pertile, Anco Marzio Mutterle, Gianni Venturi, a cui si aggiungerà Marziano Guglielminetti: coloro cioè che negli anni Settanta del secolo scorso scoprirono in Pavese un grande autore europeo che principalmente andava studiato nel suo rapporto con Thomas Mann. Due di questi erano presenti al convegno per Magris: Lino Pertile ed io.

C’è una lettera che Furio Jesi mi scrive nel 1968 che definisce quello che per lui è il prototipo dell’autentico germanista:

“[…]Le sono grato per l’interesse verso il mio lavoro. L’estate scorsa ho pubblicato dall’editore Silva un saggio intitolato ‘Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ‘900’ (è il primo volume di una collezione che ora dirigo: ‘Miti e simboli della Germania moderna’. E qualche giorno fa è uscita da Einaudi una mia raccolta di saggi – compresi quelli pavesiani – : si intitola ‘Letteratura e mito’ […] Lei si occupa anche di germanistica? (dato l’interesse per Jung…) Mi permetto di chiederglielo perché sto cercando autori per la mia collezione presso Silva (e non vorrei dei germanisti troppo “filologi” o soltanto “filologi). Con molti cordiali saluti, suo Furio Jesi”.

Evidentemente il germanista Jesi che otterrà una cattedra in questa materia senza avere mai frequentato corsi di studio regolari propone un’idea dei germanisti – curiosamente implicando anche le mie conoscenze – “non troppo filologici”. Una esigenza che in qualche modo, a mio parere Magris ha compartecipato.

Un altro tema è posto all’attenzione dello scrittore: il mito asburgico. Ne racconto la mia esperienza personale. Nel 1962 vengo invitato ad Alpbach, sede estiva dell’Università austriaca a partecipare un convegno organizzato da Rosario Assunto e Paolo Volponi su ‘Industria e letteratura’. Il minuscolo paese aveva un solo luogo di ritrovo serale dove si poteva bere un bicchier di vino, ma i proprietari eredi della tradizione asburgica si rifiutavano di servire i discendenti degli antichi nemici italiani. E già avevo potuto vedere al di fuori delle toilettes della stazione di Monaco un cartello che recitava: “Locali proibiti ai lavoratori turchi e italiani”. Di fronte alla testarda protesta dei vinattieri austriaci intervenne un signore che fermamente li convinse a servire l’antico nemico! Divenimmo amici per la pelle. Il suo nome András Szöllösy. Scoprii che era un famoso musicista allievo di Béla Bartók e di Luigi Dallapiccola. Da allora almeno una o due volte all’anno mi recavo a Budapest dove eravamo ricevuti come fratelli da lui e da sua moglie Eva, famosa storica dell’arte nell’Accademia cinematografica ungherese. I luoghi erano ancora quelli lussuosi del mito asburgico, il Gellert, l’isola Margherita, il ristorante Hungaria: sotto le colonne dorate e berniniane di quel celeberrimo ritrovo mangiarono il pesce fogash Thomas Mann, Franz Kafka e i grandi scrittori ungheresi. Era l’immagine classica del mito asburgico rivisitata nel tempo del comunismo. Eppure il potente Szöllösy non poteva venire in Italia assieme alla moglie e alla fine, per potersi curare gli inviavo di nascosto le medicine. Un mito asburgico declassato, che sempre più dimostrava la sua falsa apparenza anche presso le sedi universitarie dove s’insegnava lingua e letteratura italiana: a Budapest o a Pesch.

Mi accorgo che la chiaccherata con Magris mi ha portato a rivisitare i miei miti. Ma questo è forse il privilegio di chi svolge questo prezioso e amatissimo (almeno da me) mestiere.

Boldini e le sue donne
Ultimi giorni per la mostra a Palazzo Diamanti

di Luca Quaiotti

Si chiuderà fra poche settimane il percorso espositivo dedicato esclusivamente a Boldini che ha catalizzato la città e un numero importante di visitatori della mostra di Palazzo dei Diamanti; ma le curatrici hanno voluto dare un messaggio in itinere per quanti ancora non avessero avuto occasione di percorrere le sale espositive dedicate al ritrattista ferrarese, che visse Parigi e la Belle Epoque, creando quei capolavori che possiamo ammirare in tutto il loro splendore.

L’abbinamento espositivo, nato dalla volontà di creare una nuova dimensione e prospettiva di visione del celebre artista, vede in scena anche gli abiti che furono ritratti insieme alle muse e modelle ispiratrici delle opere di Boldini.
Nella sala all’ultimo piano della libreria Ibs+Libraccio, giovedì scorso erano presenti la curatrice Barbara Guidi, conservatrice del Museo Boldini, esperta e studiosa dell’artista; Maria Luisa Pacelli, direttrice di Palazzo Diamanti; Virginia Hill, storica del costume e collaboratrice alla mostra; infine Antonio Mancinelli, caporedattore di Marie Claire. Anche se non in sala, era presente con un messaggio vocale Claudio Strinati, storico dell’arte, che ha proposto una disamina molto positiva sia della mostra sia del catalogo che ne è scaturito, definendolo di fatto più un libro su Boldini, che ne definisce nuovi contorni e ne irradia una rinnovata concezione artistica, forse mai vista prima d’ora.

Boldini come esponente di una sorta di “superficialità” di fine Ottocento, dove la nuova era industriale era appena alle porte, ma nella Parigi che ospitava l’artista ferrarese, procurava non poche occasioni artistiche.
Una città che ospitava il nuovo che si affacciava, era la fine di un secolo e la voglia di sperimentazione era tangibile in ogni angolo artistico, dalla letteratura all’arte drammatica fino alla trasposizione dell’arte pittorica in quello che sarà poi la nuova illustrazione.
Cercare il legame tra Boldini e la moda ha permesso di trovare le motivazioni delle sue scelte stilistiche. Sotto la “superficie” c’è molto e si vede dalla ricostruzione delle fasi della sua carriera fino alla sua forma ritrattistica più amata e virtuosa.
Leggendo la critica stupefatta dai suoi quadri si capisce che il legame con la moda, faceva discutere della pittura di Boldini: troppo chic, troppo modaiolo.

Cocente modernità nella sua pittura. Elementi di bellezza che permangono e un elemento di grande autorialità molto innestato nel suo tempo, imprescindibile dal suo tempo, anche in senso commerciale. La donna acquista un nuovo ruolo nella società al tempo di Boldini; un ruolo al quale non avrebbe mai pensato fino a quel momento. Frivolezze e giochi di ruolo in una società versata al lusso sfrenato; quale modo migliore di riprodurla su tela, se non utilizzando le sue vere protagoniste? Le donne di Boldini sono nobili, aristocratiche, nuove borghesi, che spesso diventano anche sue amanti in senso lato.
Spregiudicato nel suo essere quasi perfetto rappresentante della moderna fotografia ritrattistica, Boldini diventa una specie di icona: farsi fare un ritratto da lui significava poter anelare a nuovi strati sociali, mai pensati prima. E allora, ecco, elenchi di attesa, così come i nuovi stilisti emergenti nelle loro prime maison.

Così dal 1900 al 1914 la società femminile esplode in una fase nuova, mai vista, con la donna protagonista e non più soggiogata. La donna ora sceglie, anche come proporsi in società. Boldini diventa un trampolino di lancio, quasi un passaggio obbligato per mettersi in evidenza nella nuova Belle Epoque che avrebbe presto lasciato spazio alla società industriale e alla nuova illustrazione fotografica. Il futuro imprigiona la tradizione, ma rende più grandi coloro che sono stati così folli e spregiudicati da sfidarne i limiti fino all’ultimo momento. Boldini è ancora oggi un ispiratore di molti dei grandi nomi della moda italiana, francese e internazionale; le sue opere devono ancora offrire molto al mondo della moda che ultimamente si sta diluendo troppo in una sorta di maniacale onnipresenza priva di stile, proprio quello stile che Boldini, invece, vuole esaltare e far amare alle sue donne, al suo pubblico, a tutti noi posteri.

Stimavo Fabbri, ma la vicenda-Naomo mi ha disgustato

Da: Mario Bergamini

Caro direttore,
la “vicenda Naomo” mi ha profondamente disgustato, al punto che non so neppure se andrò a votare.
Sono allibito dinanzi all’insipienza dimostrata da un politico esperto e che stimavo come Alan Fabbri, il quale ha lasciato briglia sciolta a un soggetto che fa del male alla Lega e,a mio avviso, non ha meriti, visto che nei sondaggi la Lega ha (o aveva) le stesse percentuali delle vicine province.
Non ce l’ho con Naomo per i precedenti penali, ma per la sua condotta successiva. Intendo dire che un cittadino può anche aver subito condanne, ma quando si affaccia alla vita politica deve essere trasparente e dichiarare pubblicamente i suoi trascorsi anziché sventolare un certificato penale dal quale risulta “NULLA”, ben sapendo che quel “NULLA” è originato dal beneficio della “non menzione”, che consente a un condannato per lievi reati di poter trovare lavoro, presso i privati, senza dover mostrare le proprie macchie. Com’è noto, infatti, Naomo Lodi, se partecipasse a un pubblico concorso, dovrebbe dichiarare i suoi precedenti, sempre che il bando non richieda, come requisito, di non aver riportato condanne penali.
Lodi ha dichiarato che avrebbe potuto richiedere la riabilitazione. Premesso che tale beneficio non cancella i reati, ma fa semplicemente venir meno le conseguenze delle condanne (che restano), perché Naomo non ha chiesto alla Corte d’Appello di Bologna di essere riabilitato?
Invece di insultare i giornalisti (cui prodest?) e prendersi i rimproveri del Senatore Balboni, dovrebbe imparare che la politica seria si fa in un altro modo.
Peraltro non ho apprezzato neppure l’intervento di Alberto Balboni, che invece di fare il maestrino a fini elettorali e pensare alla carica di vice-sindaco per uno dei suoi, dovrebbe insegnare al figlio Alessandro che prima di parlare (vedi tomba del dottor Torquato Tasso) farebbe bene a documentarsi. E meno male che nei manifesti si parla di competenza!
Ciò detto, non ho apprezzato neppure il comportamento del sindaco. Se Tagliani sapeva che Lodi era un “pregiudicato” doveva dirlo fin dall’inizio a chiare lettere, spiegando anche come era venuto in possesso di tale notizia, relativa a dati sensibili protetti dalla legge sulla privacy.
Quando, anni or sono, poco prima delle elezioni amministrative di Milano, Letizia Moratti (evidentemente mal consigliata da qualche improvvisato guru) “tirò fuori” l’arresto subito da Pisapia, io non apprezzai quel gesto, che fra l’altro le portò male.
Per lo stesso motivo non merita apprezzamento il comportamento di chi, da sinistra, con fare da avvoltoio, specula sulla “vicenda Lodi” unicamente a scopo elettorale.
Insomma, fra una destra che non è all’altezza della situazione, una sinistra che sa solo speculare sulle disgrazie altrui e una pletora di pseudo-civici (in realtà schierati con il centro-destra o il centro-sinistra), penso proprio che non andrò a votare. O meglio, mi recherò al seggio ma, come mio diritto lascerò la mia scheda immacolata e vuota. Vuota come le proposte e le condotte di una classe politica locale segnata dall’inadeguatezza e dalla mediocrità.
Lo confesso: non avrei mai pensato di dover rimpiangere Roberto Soffritti e Nino Cristofori, che almeno di politica seria se ne intendevano…