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In un tempo lontano ho avuto a che fare con quelle bestioline chiamate criceti che era molto comune allevare in molte case ferraresi. Quello che mi affascinava era la presenza di una ruota all’interno della gabbia che come spiega Wikipedia ha una sua funzione precisa:
“La gabbia per un criceto nano (russo) (siberiano) deve essere di almeno 75×47 cm mentre per i roborosky, i dorati e i cinesi almeno 120×60. È essenziale la presenza di una ruota (20 cm per i siberiani e i russi, 28 cm per i dorati, roborosky e cinesi), perché si mantengano fisicamente in salute e di una tana per dormire.”
M’incantavo a vederli muovere con impegno la ruota, anche se la loro fisicità mi procurava un leggero imbarazzo, ma ancor più mi sorprendevo a pensare che quella ruota, che essi giravano con tanto impegno, creava uno spazio/tempo circolare e che, quando improvvisamente la abbandonavano, la dimensione spazio-temporale si fermava e quel che restava a loro era un presente assoluto.

Mentre compio il mio consueto giretto per casa in questi momenti della fase 2, ‘il pianoro’, come si dice usando una metafora paesaggistica, in cui è necessario non trasgredire ai severi provvedimenti per abbattere l’orribile virus (quello che la raffinata amica e grande linguista Portia Prebys mi suggerisce debba essere chiamato come in Inghilterra walk about) mi si presenta la condizione del criceto. A nulla serve per uscirne di pregustare gli impegni più interessanti che mi aspettano: scrivere questo Diario, affrontare il saggio su Magris, telefonare all’universo mondo, chiamare in video conferenza gli amici del cuore e i pronipotini, aprire il cd Steinway Legends rimasto inspiegabilmente inascoltato della mia Martha Argerich.
Mi fermo e rendo così il tempo un eterno presente senza passato e tantomeno senza futuro. Come un criceto che smette di girare la sua ruota. Sarà la mia reale condizione di vecchio che si prepara a sospendere il tempo? Per sempre?

Non è che ogni giorno rifletta sulla mia somiglianza con i criceti. Fossero almeno i miei adoratissimi pelosi cani, o in seconda scelta i gatti, lo tollererei. Ma i criceti….! Eppure questo è ‘ciò che passa il convento’, come sentenziava nonna Adalgisa, mettendomi davanti, io bambino, l’orrenda zuppa di cavolo tra le non amate verdure la più odiata.
E’ dunque meglio pensare ai segreti, una delle mie fissazioni da sempre. I segreti amatissimi che ho sempre adorato divulgare e che ovviamente non sono i ‘veri’ segreti, che non si confessano nemmeno a se stessi, oppure son tali da diventare materia di scrittura per il solito inesorabile principio di credersi helas! scrittore.

Il mio romanziere preferito in questi mesi si chiama Eshkol Nevo, che in L’ultima intervista (Neri Pozza, 2019) tra verità e fantasia spiega cos’è un segreto tremendo di cui il protagonista viene a conoscenza. Narra di uno scrittore famoso di polizieschi, lo svedese Axel Wolf, che viene trovato quasi morto nella sua camera d’albergo e da lui viene soccorso. All’ospedale incontra la moglie di Wolf, Camilla, alla quale chiede cosa significhi una frase che Axel pronunciava in continuazione. La moglie glielo rivela, ma gli dice che sarà costretta ad ucciderlo, perché a sua volta non lo sveli. E’ un segreto, terribile, ma ovviamente non lo spiattello qui per rispetto alla trama del libro. Ma invece è importante commentare, sentendo la rivelazione di Camilla, la sua interpretazione sul significato del segreto. Rivela la donna a p.369:
“Questo mi sembra veramente importante. Affrontare cosa debba essere la consapevolezza del segreto. E tutto il Novecento si nutre di segreti: da Proust a Joyce e soprattutto D’Annunzio, che non esita orgogliosamente di intitolare parte de Le faville del maglio:Secretum’, ponendosi in rapporto diretto con il primo e forse più straordinario custode e diffusore al tempo stesso del segreto, Francesco Petrarca“.

Ma i miei lettori l’avranno già intuito: io propendo per ‘i segretucci’, quelli cioè che sono di necessità svelabili. Sono l’essenza stessa di ciò che chiamiamo ‘cicaleccio’, ‘chiacchiericcio’, il ‘parlar improprio’, quello che è così straordinariamente diffuso tra i politici che ha dato luogo a ciò che la Treccani definisce ‘cicalecciocrazia’, cioè l’improvvisazione sul dilungarsi a parlare seriosamente di ciò che non si sa. E naturalmente gli esempi recenti sono così evidenti, che sarebbe un altro ‘cicaleccio’ esibire i nomi.
Tra costoro che sono poi i più attenti a parlare, usando quei neologismi di cui già riferimmo nel Diario precedente, quelli che fanno più male sono quelli usati dai politici, che s’intromettono nelle decisioni dei provvedimenti assunti dagli specialisti. Nascono così le storie più incredibili: dal virus prodotto in laboratorio, che sfugge al controllo degli scienziati all’uso della mascherina, dei guanti, del tampone. E in questo campo le storie, le rivelazioni, diventano oggetto di possibili e straordinarie novelle o racconti.
Allora rimando ad un delizioso spot dove la dottoressa di turno insegna, con fare suadente e convincente, come si sanificano le mascherine per riusarle, visto la quasi introvabilità delle stesse.
Ma in fondo, in fondo meglio rivelare i ‘segretucci innocenti’ come, ad esempio, che non avevo comprato le paste perché me ne ero dimenticato, mentre ne avevo fatto una scorpacciata terrificante e non lo volevo dire. Poi si sa amor vincit omnia alla fine ho confessato.

 

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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