Sono possibili due interpretazioni della parola ‘crisi’. L’una segna la sequenza negativa: crisi-emergenza-catastrofe. Questa è la definizione che si è imposta negli ultimi anni e che è stata scientemente trasformata in una vera e propria ideologia dell’aut-aut: o si fa così, o salta tutto! In questa breve riflessione vorrei invece concentrarmi sull’altra interpretazione: la crisi come caratteristica positiva della modernità. E richiamo un classico del novecento, Paul Hazard Crisi della coscienza europea (Einaudi), pubblicato nel 1935.
L’opera tratta di un periodo preciso e pregnante della storia d’Europa: 1680-1715. E’ in questi pochi decenni, infatti, che si gettano le basi culturali per il passaggio alla modernità nel continente. “Quale contrasto! E quale brusco passaggio! La gerarchia, la disciplina, l’ordine che l’autorità s’incarica di assicurare, i dogmi che regolano fermamente la vita: ecco quel che amavano gli uomini del ‘600. La costrizione, l’autorità, i dogmi: ecco quel che detestano gli uomini del ‘700, loro successori immediati.”
In quel tempo nasce la nuova sequenza che caratterizza la modernità: critica-crisi-cambiamento. Ricordiamo che la parola ‘critica’ ha un’origine in comune con la parola ‘crisi’, dal greco xrinò: dividere, scegliere, giudicare, decidere, lottare, combattere. Critica e crisi come condizioni del cambiamento continuo: ecco la fenomenologia permanente e normale della modernità. Perché oggi dunque queste due parole fanno paura? Il potere è insofferente alla critica: all’intellettuale autonomo preferisce il cortigiano adulatore. Il cittadino normale vive la crisi come eccezione e catastrofe. Atteggiamenti premoderni entrambi, che permangono come un radicato residuo del passato nel tempo globale dello sviluppo massimo della modernità su tutti piani e in tutti i paesi.
Con questo si vuole forse negare la congiuntura mondiale di grande crisi e di grandi rischi che stiamo vivendo? No. Voglio sottolineare che la diffusa cultura premoderna non aiuta. Essa combina due atteggiamenti negativi. Quello del potere che chiede una delega totale e in bianco. E quello del cittadino che vive con angoscia e paura ogni novità e cambiamento. In entrambi i casi il risultato è un individuo pubblico impaurito, passivo, ripiegato su se stesso. In questo modo si crea soltanto separazione tra settori della società. Ma mentre in alcuni di questi si vive all’insegna della creatività e della sperimentazione continue -tecnica, scienza, arte e cultura in generale- in altri, come per esempio la politica, la nuova ideologia dell’emergenza sta bloccando le menti, impedendo ogni confronto serio sulle possibili alternative in campo.
Nel 1670 esce un’opera fondamentale della modernità: il Trattato teologico e politico di Benedetto Spinoza. Ecco come ne sintetizza il significato Paul Hazard: “Spinoza diceva pacatamente che bisognava fare ‘tabula rasa’ delle credenze tradizionali per ricominciare a pensare su piani nuovi […]. La religione aveva perduto la sua efficacia sulla morale, l’anima si era corrotta; e il male proveniva dal fatto che si era fatta consistere la religione non più in un atto interiore, meditato e persuaso, ma nel culto esterno, in pratiche macchinali, nell’obbedienza passiva alle prescrizioni dei preti. Degli ambiziosi si erano impossessati del sacerdozio e avevano convertito in avidità personale lo zelo del servizio: donde dispute, odi, gelosie. Così gli uomini venivano ridotti in bruti, avendo tolto loro il libero uso del loro giudizio, e soffocato la fiamma della ragione critica umana.” Si provi a sostituire alla parola religione la parola politica, alla figura del prete quella dell’odierno politico, e il ragionamento spinoziano conserva intatto il suo valore di diagnosi attuale. Oggi, infatti, la politica si presenta così: svuotata di ogni progettualità, ridotta spesso ad un affare per curare i propri interessi di casta, usata come un trampolino per realizzare ‘smisurate ambizioni’ personali.
Non a caso le parole chiave sono sondaggio e propaganda… non certo cultura e critica.
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
Dico subito che questa riflessione è debitrice di Michele Salvati che sull’ultimo numero del “Mulino” (1/2014) scrive sulla crisi italiana, e non solo.
Il direttore del bimestrale bolognese di cultura e politica parte da lontano, ma è sufficiente incrociarne il pensiero sulla situazione europea. Sotto esame è l’attuale architettura economica che la sorregge e che ne rappresenterebbe, paradossalmente, il principale ostacolo per uno sbocco in senso compiutamente federale, cioè politico.
L’Eurozona, così pensata ed attuata, anziché essere spazio comune, diventa sempre più area di squilibri e inequità, come ha scritto papa Francesco nella recente esortazione apostolica Evangelii Gaudium.
Dentro il perimetro segnato dalla moneta unica, mancano gli strumenti che prima compensavano le aree a diversa velocità economica e di sviluppo nei vari contesti nazionali.
In parole povere, non è più possibile per gli Stati membri finanziare col debito politiche espansive per uscire dalle secche di cicli economici depressivi; usare la leva monetaria della svalutazione per spingere le esportazioni; favorire interventi per le imprese in zone a bassa crescita perché generano effetti distorsivi nelle condizioni uniformi di competitività dell’area comune. Gli stessi aiuti europei per le aree depresse nei singoli paesi sono insufficienti al bisogno. Così è accaduto che in un contesto di velocità economica difforme, la speculazione finanziaria scoppiata nel 2008 ha messo nel mirino i debiti sovrani dei paesi più deboli e da allora abbiamo capito tutti a caro prezzo cos’è il famigerato spread.
Finché si arriva alla situazione attuale definita “difficilmente sostenibile”, ossia pericolosamente in bilico tra “asfissia” e “catastrofe”. La prima parola indica il perdurare della sottomissione alle regole dell’euro con la conseguenza di ristagno, o crescita dello zero virgola, perché un paese sovrano non ha più in mano gli strumenti per dare la tanto invocata scossa. La seconda è lo scenario cui si andrebbe incontro nel caso di uscita dall’euro perché, alla faccia di quelli che la vedrebbero come un semplice sbattere la porta, sarebbe uno stop traumatico allo stesso progetto europeo.
Ora, però, la domanda è se esista una via d’uscita da questo circolo vizioso. Anche in questo caso le risposte sono assai poco rassicuranti. Molto, infatti, dipende dalle decisioni di Bruxelles e innanzitutto dal paese che ha maggiore influenza sull’Eurozona: la Germania.
Da Berlino le notizie dalla grosse Koalition, al governo dopo le ultime elezioni, sono ben poco confortanti: niente attenuazione del rigore, zero fiducia che i Paesi deboli possano usare l’allentamento dei vincoli per fare le riforme necessarie e nessun impegno degli Stati forti nel modificare in senso espansivo le proprie politiche macroeconomiche. Per non parlare dei passi avanti nel conferire all’Unione più poteri politici.
Il problema del “circolo vizioso” è che se perdura l’asfissia, mancano i soldi per fare le riforme e questo, da una parte, arma il fucile di lobbies e corporazioni che non le vogliono per prolungare privilegi e rendite di posizione, e dall’altro, si alimenta la sfiducia, non solo italiana, verso l’Europa. Da qui il sogno europeo rischia seriamente di trasformarsi in un incubo e la storia insegna che con la paura non si tiene unito un bel niente e non si va da nessuna parte.
Se poi si infila il termometro europeo, già febbricitante, sotto l’ascella italica, il problema si complica ancora. Perché qui la temperatura sociale, politica ed istituzionale è tale da chiamare il dottore. Scrive, infatti, il direttore del “Mulino”, che in Italia ci sono circa 4mila imprese che sanno reggere la competizione. Troppo poche per dare una busta paga soddisfacente a tutti. E siccome il reddito, cioè la ricchezza nazionale e quindi la capacità di spendere, dipende da questo, il problema è che se si deve vivere secondo il modello dell’asfissia c’è poco da correre.
Molto ci sarebbe da fare su lavoro e imprese, si dice anche a Bruxelles, su burocrazia, giustizia, infrastrutture, scuola, ricerca e innovazione. Ma con quali soldi? Ragionevolezza vorrebbe che a fronte di un allentamento, per quanto contrattato, dei vincoli di austerità, si possa procedere per i paesi più in difficoltà come l’Italia, a mettere mano ai cambiamenti per rendere il paese più moderno e competitivo.
E qui la palla passerebbe alla politica la quale però, negli anni, ha dilapidato un capitale di credibilità e oggi dovrebbe metterci per prima la faccia e dire ai cittadini e all’Ue che adesso, e per un bel pezzo, bisogna fare sul serio. Senza contare che chi dice basta con sacrifici, lacrime e sangue, sa che può trovare conforto nelle urne.
Un rapporto di fiducia spezzato, dentro e fuori i confini nazionali, che trova alimento ulteriore da un quadro istituzionale in pieno marasma, anch’esso da riformare e già bersaglio al limite dello scherno, sull’onda di un voto di protesta che potrebbe esondare da un momento all’altro.
Il paragone, in questo senso, Salvati lo fa con la vicina Spagna, paese con una struttura economica più fragile, ma che presenta “un sistema politico – scrive – più assestato e più efficace del nostro”.
Per questo, partire dalle riforme elettorale e costituzionale non parrebbe insensato, nonostante qualcuno dica che “non si mangiano”, perché una cornice istituzionale più stabile e funzionante può facilitare quel rapporto ora interrotto, che è elemento basilare di una democrazia rappresentativa, a sua volta argine rispetto a derive plebiscitarie.
C’è solo da sperare che le discussioni in corso sull’Italicum, per esempio se dev’essere o no un tutt’uno con la riforma della Costituzione nella prospettiva più o meno ravvicinata della prossima scadenza elettorale, non siano l’anticamera dell’ennesimo pantano tutto italiano, perché se non si è ancora capito il tempo della tattica e degli interessi di bottega è inesorabilmente scaduto.
Come spezzare il simbolico diaframma costituito dalle mura ferraresi per approdare a una visione internazionale della cultura, pur preservandone i valori “provinciali”? Questa è la sfida che almeno dagli anni Settanta del secolo breve, e dunque da quasi un cinquantennio, Ferrara e la sua provincia si sono dati, che è stata condivisa dalle istituzioni politiche e (poco) da quelle economiche, e riassunta con uno slogan che sembrava appagare ogni esigenza: città d’arte e di cultura.
Non sta a me ripercorrere quella probabilmente utopistica speranza, né indagare le cause di fallimenti e realizzazioni, ma forse mi è lecito, anche se ormai da un osservatorio appartato, suggerire alcune proposte che immagino non saranno del tutto condivise.
Si è detto e ripetuto che ormai era ora di finirla con lo sdoppiamento tra cultura “alta” e cultura “popolare”, in quanto -come ormai è divenuto luogo comune- tutto è cultura. Ma se quest’ultima non “produce”, il modello sarà fatalmente considerato errato e quindi non più proponibile. Invano si è protestato contro questo atteggiamento che è prevalso a furor di popolo e a cui hanno aderito anche le istituzioni. Casi eclatanti l’ “espatrio” di Ermitage Italia, il ridimensionamento dell’Istituto di studi rinascimentali, le note polemiche sulla costosità delle produzioni teatrali e sulla presenza in città di indiscussi geni del teatro: da Ronconi ad Abbado.
Non è qui il caso di difendere le scelte e le contingenze economiche di cui soffriamo e soffriremo a lungo, quanto di rimarcare, nell’impotenza delle strettoie imposte dal nuovo corso economico, l’abbandono (o ciò che così appare) della progettualità e la mancanza di un organigramma che possa coinvolgere le tante realtà culturali che tanto hanno operato e operano per la città e il territorio. Abbandonare il progetto mi sembra un grave errore. E poco mi convincono le speranze suscitate dall’elezione di Dario Franceschini a ministro del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, quasi presenza salvifica e a cui sembra essere demandato il futuro della cultura in città. Non perché il ministro non debba avere un occhio di riguardo verso la sua città, che sono sicuro avrà, quanto per la folla di pretese che l’aggrediranno al momento in cui rivolgerà la sua attenzione a Ferrara. E cosa sono, scusate la brutalità, queste speranze o meglio esigenze, di fronte a tragedie in corso come Pompei, come L’Aquila, come i danni al patrimonio artistico del terremoto dell’Emilia-Romagna? A cui giustamente si è rivolta l’attenzione del neo ministro.
Certo anche Ferrara attende si ponga fine alle sue “incompiute”: Meis e teatro Verdi in primis. Ma ci vorrebbe che fosse già pronta una piattaforma strutturale dell’indotto culturale, per sottolineare quali ne possano essere i possibili risultati. Un piano, come dire, che possa e debba proporre con lungimiranza e scientificità il destino culturale di una città che ne ha fatto la bandiera del proprio sviluppo.
L’Associazione Amici dei Musei che ho il grande onore di presiedere da oltre trent’anni (non sempre l’esperienza e la dedizione per questo tipo di lavoro vengono interpretate come segno di una nascosta ansia di “comando” che va immediatamente rottamata secondo una prassi infelicemente attuata in altre sedi) si mette a disposizione, assieme ad altre benemerite associazioni culturali, per proporre idee, soluzioni, prospettive da proporre a chi dirige musei e beni culturali. Ma dopo il primo confortante risultato, rappresentato dai giorni di convegno che si è tenuto presso il Museo nazionale di Spina nel 2011 e dalla pubblicazione degli atti: “Musei a Ferrara. Problemi e prospettive” dell’anno successivo, sembra che questa iniziativa riscuota poco plauso.
Eppure sono assolutamente convinto che una ripresa di quel modello di proposta che coinvolga tutte le associazioni culturali, i musei e i luoghi d’arte di Ferrara e provincia, sarebbe un primo e validissimo aiuto da presentare al ministro Franceschini che potrebbe così avere un’idea generale dei problemi in campo. Certo gli ostacoli sono moltissimi, a cominciare dalla naturale e gelosa attenzione che tutti i soggetti coinvolti pretenderebbero, dalle istituzioni pubbliche alle forze economiche, dai musei alle singole associazioni. Ma emergerebbe in primo luogo la progettualità, come spinta a un futuro che non dovrebbe smarrirci nelle beghe individuali ma che potrebbe, finalmente, dimostrare la capacità della città di ridisegnarsi secondo lo schema, mi sembra mai abiurato anche dalle istituzioni politiche, di città d’arte e di cultura.
Questa settimana ho deciso di mettermi in castigo, avendo parlato a sproposito della mia città, almeno così è apparso al mio sindaco. Ho deciso di prendere la strada dell’esilio per riflettere, spero di non dover chiedere l’asilo politico.
Insomma, me ne vado nel Buthan. Dov’è il Buthan? Il Buthan è un piccolo stato dell’Asia, verde e montuoso, che confina a nord con la Cina e a sud con l’India. È nella catena himalayana, a circa duemila metri e forse più di altitudine, ma l’altezza credo che mi farà bene: aiuta a guardare le cose con la necessaria distanza.
Il Bhutan è un modello di politica intelligente, di efficaci politiche di sostenibilità, di adesione ai concetti di giustizia e di bene comune intergenerazionale, di investimento sui saperi, l’apprendimento continuo, la cultura.
Qui la prosperità e lo standard di vita non vengono misurati con il PIL (il prodotto interno lordo) ma secondo il FIL, l’indice di felicità interna lorda, in inglese GNH, Gross National Happiness , un sistema rivoluzionario che ha attirato l’attenzione delle Nazioni Unite.
Secondo alcuni dati questo paese è uno dei più poveri dell’Asia, con un PIL pro capite di 2088 dollari (2010). Tuttavia, secondo un sondaggio, è anche la nazione più felice del continente e l’ottava del mondo.
Il concetto di “felicità interna lorda” realizzato in Buthan costituisce il principio guida di tutte le decisioni politiche del paese, dei processi di sviluppo socio-economico equo e sostenibile, della conservazione e difesa dell’ambiente, della promozione della cultura dei suoi cittadini, delle pratiche di buon governo. Come tale non ha eguali nel mondo in termini di rilevanza delle politiche per il benessere quotidiano delle persone. Molti paesi e nazioni industrializzate avanzate hanno formulato strategie globali di sostenibilità, eppure l’impatto di tali strategie sui processi legislativi e sui programmi politici di questi paesi è rimasto molto limitato. In questo senso il Buthan è davvero unico.
Le politiche sono oggetto di confronto sistematico e di revisione con il contributo dei cittadini per quanto riguarda il loro impatto su tutte le questioni della sostenibilità e sul benessere umano. In questo modo in Buthan amministratori e politici assicurano la priorità, oggi e domani, del benessere dei loro cittadini sugli interessi particolari o su altre preoccupazioni.
Nel Buthan la felicità si insegna a scuola, accanto alla matematica e alle scienze ai bambini vengono insegnate anche le tecniche agricole di base e la tutela dell’ambiente.
La Felicità Nazionale Lorda è la grande idea di un piccolo stato che può essere in grado di cambiare il mondo. Non è quindi una sorpresa che i paesi di tutto il mondo vedano nel Buthan un modello che ha tradotto i principi dello sviluppo sostenibile in politiche strategiche ed efficaci.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha invitato nel 2011 i rappresentanti di questo paese a parlare del loro approccio per contribuire alla definizione dell’agenda dello sviluppo globale post 2015, nel 2012 il Buthan è stato ospite a New York del più importante incontro “Happiness and Well-Being: Defining a New Economic Paradigm”.
Thimphu, la capitale del Buthan, è divenuta la sede dell’International Expert Working Group for the New Development Paradigm con il compito di raccogliere conoscenze e di generare idee lungimiranti capaci di plasmare le economie a livello globale per un mondo nuovo e sostenibile. Le conclusioni dei suoi gruppi di lavoro sono state presentate all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre 2013.
Di fronte alla crisi economica mondiale, di fronte alla rapina del capitalismo finanziario, l’idea di sostenibilità appare come la grande opportunità per ricollocare al centro dello sviluppo le motivazioni delle persone, la qualità delle loro relazioni, la priorità accordata a rivedere la natura del benessere. Concetti completamente nuovi di progresso appaiono ora razionali e possibili e questo grazie a un modo di pensare che avrebbe soddisfatto Einstein, quello cioè di ricercare la soluzione ai problemi dell’umanità allontanandoci sempre più dalle forme mentis che li hanno generati.
Perché pensare diverso è sempre un buon esercizio che consente di accogliere le idee per confrontarsi e progredire, non per rinchiudersi offesi nella difesa dell’esistente.
Mi scuso con chi mi legge, se intendo continuare a parlare di acqua in termini generali e forse troppo didattici, ma la mia opinione è che chi deve occuparsi di questi problemi spesso dimentica, e allora i cittadini lo devono sollecitare, sempre.
Forse non fa più notizia (in Italia le riflessioni europee interessano raramente), ma conviene ripetere che la Commissione Europea, nell’ambito di una serie di decisioni sulle infrazioni da parte degli Stati Europei, emanate il 23 gennaio 2014, ha chiesto all’Italia di adeguare la propria normativa sulle acque a quella europea. Le modifiche dovranno riguardare, in particolare, le fonti diffuse che possono provocare un inquinamento delle acque e le misure di prevenzione o controllo dell’immissione di inquinanti.
Proviamo a capire ed elencare cosa serve, ecco alcune questioni importanti:
è di quest’ultimo periodo il frequente richiamo istituzionale e dell’opinione pubblica sull’emergenza idrica: è necessario avviare iniziative per ridurre i prelievi di acqua e incentivarne il riutilizzo;
la situazione delle infrastrutture idriche e della gestione dell’acqua è fortemente critica: per tentare un superamento della cronica debolezza strutturale, sono necessari ingenti investimenti, ed è opportuno valutare dove e come reperire queste risorse;
un approccio moderno e sostenibile al problema della qualità deve fare riferimento alla qualità dei corpi recettori, sia in senso generale, sia in funzione della specificità degli usi: bisogna incentivare la riduzione degli sprechi, migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione, ridurre le perdite, favorire il riciclo dell’acqua ed il riutilizzo delle acque reflue depurate;
occorre sensibilizzare gli utenti al risparmio nell’utilizzo dell’acqua per uso domestico, ma anche contenere e ridurre lo spreco di acqua – anche potabile – negli usi produttivi e irrigui, in particolare incoraggiare e sostenere “anche con incentivi economici” specifiche ricerche e studi per migliorare l’utilizzo dell’acqua nei processi produttivi;
sviluppare una cultura economica dei servizi pubblici ambientali, una maggiore attenzione sia a livello di costi che soprattutto di prezzi e dunque di tariffe; percorso di civiltà dunque, ma anche sviluppo di una cultura economica dei servizi pubblici locali;
il sistema tariffario è uno degli aspetti fondamentali e forse più critici nel sistema di gestione dei servizi ambientali: il valore, il costo ed il prezzo del servizio devono essere tra loro collegati e interdipendenti;
il “giusto prezzo” dell’acqua è un importante incentivo per incoraggiare un utilizzo sostenibile dell’acqua stessa (un’accurata politica tariffaria regola i consumi e dà il giusto valore al bene); nello stesso tempo, bisogna trovare forme di incentivazione anche per il gestore in modo che favorisca la riduzione dei consumi (che altrimenti trova nel solo consumo dell’acqua il suo interesse);
incentivare e remunerare la qualità esplicita ed implicita – con idonei strumenti tariffari – e nel contempo penalizzare ritardi e disservizi (le carte dei servizi devono diventare uno strumento contrattuale di regolazione e non servire come documento d’immagine). Gli incrementi tariffari non devono essere solo collegati alla copertura dei costi del servizio, ma anche a parametri di qualità.
Per diversi anni, si è tenuta a Ferrara la più grande Fiera internazionale dell’acqua H2O –la prossima si terrà a Bologna dal 22 al 24 ottobre prossimi – e io, in qualità di referente scientifico, ripropongo spesso questi temi fondamentali che da noi, talvolta, sono trascurati. Ricordo, come ammonimento, un bel pensiero: “trova l’ovvio e fallo!” .
Sembra essere passata forse un po’ troppo in sordina la pubblicazione dei dati Istat sul mercato del lavoro nel 2013. O meglio, si è colto genericamente l’ennesimo grido d’allarme sulla gravità del fenomeno disoccupazione, ma è mancata un’analisi un po’ più approfondita dei dati, che invece sono assolutamente clamorosi, a livello nazionale, ma in particolare a livello locale.Nel 2013 l’Istat ha registrato, infatti, la più grave caduta occupazionale della storia repubblicana: quasi 500 mila posti di lavoro persi in un solo anno (- 2,1%).
A livello ferrarese il dato è ancora più scioccante: 13.000 posti di lavoro in meno dal 2012 al 2013, pari ad una caduta del 8,5%. E’ il dato peggiore non solo dell’Emilia-Romagna, la quale si attesta ad un comunque preoccupante -2,1%, ma di tutta l’Italia del Nord.
Questi dati si riflettono di conseguenza sul tasso di disoccupazione, che si attesta su un “iperbolico” 14,2%, contro una media regionale di 8,5%. Per comprendere meglio la rilevanza di questo dato, basta dire che si tratta della seconda provincia del Nord per tasso di disoccupazione, Novara è la prima e differisce di quasi due punti (12,4%).
Prendendo in considerazione i principali settori, si nota poi che tutto il calo occupazionale è concentrato non nei settori produttivi (industria, agricoltura e costruzioni, che sostanzialmente reggono), ma nei servizi, altro dato che meriterebbe di essere meglio compreso ed interpretato.
Andamento dei tassi di disoccupazione regionale e provinciale, dal 2004 al 2013
Ferrara, quindi, si ripropone con forza come un’anomalia nel contesto emiliano, e più in generale nel nord del Paese. Gli enormi sforzi fatti nei decenni scorsi per superare la storica arretratezza della nostra provincia, sembrava fossero riusciti ad un certo punto a ridurre enormemente le distanze con i territori circostanti, ma purtroppo sembra che la crisi stia vanificando ogni tentativo.
Confrontando le curve dei tassi di disoccupazione regionale e provinciale, emerge in modo evidente come le fasi di crescita economica siano contrassegnate da un avvicinamento dei valori ferraresi alle medie emiliano-romagnole, mentre durante i periodi di recessione avvenga esattamente il contrario e ci sia una caduta vertiginosa verso il basso.
La stampa cittadina riporta, in maniera concorde, il giudizio del Sindaco di Ferrara sulla proposta di istituire anche a Ferrara il ‘Museo della Città’ e l’indicazione della possibile sede nella ex Caserma Pozzuolo del Friuli. “Una provocazione proporre alla città una spesa di 60 milioni di euro abbandonando quanto iniziato, come ad esempio Casa Minerbi.”
I due temi, la fondazione del Museo (e del sistema museale) e l’utilizzo della ex Caserma sono troppo importanti per essere liquidati con una battuta, a mio parere impropria.
Vanno mantenuti distinti; sono stato io che li ho riuniti proponendo la coincidenza, ma niente vieta altre soluzioni. La occasione mi è stata fornita dall’Assessore Fusari che ha spiegato in una pubblica riunione le ipotesi di uso dell’area da parte della Amministrazione Comunale e ha presentato i primi elaborati approntati dagli uffici, evidentemente su indicazione. Ricordo: edilizia residenziale, studentato, parcheggio, centro commerciale.
La ‘provocazione’ è sulla destinazione d’uso, quando la si propone pubblica?
Una area di quasi tre ettari, da anni abbandonata, all’interno della cinta muraria è un problema che coinvolge, o dovrebbe, le istituzioni, le forze politiche, tutti i cittadini. Mi chiedo se è una ‘provocazione’ avanzare delle ipotesi in funzione di un dibattito e di un confronto che comunque non potranno essere evitati.
Ho scritto, il 27 gennaio scorso, all’Assessore Fusari chiedendogli di aggiungere questa ipotesi alle altre illustrate. Non ho avuto risposta. L’Assessore non aveva l’obbligo di farlo; esiste tuttavia un ‘dovere di cortesia’ che, in questa occasione, è mancato.
La lettera di un cittadino che, in termini civili e argomentati su un tema non pretestuoso, chiede un riscontro non va ignorata. Se avviene non è un bel segnale.
Il tema ‘Casa Minerbi’, naturalmente, non c’entra in nulla con quanto avevo indicato.
Non mi sento un ‘provocatore’.
E’ un pezzo di storia del vecchio Pci, Giorgio Bottoni. Con Ansalda Sironi, moglie e compagna di una vita fatta di dedizione e passione politica, in città rappresenta un rispettato emblema di quel mondo. Il suo ruolo attivo nel partito è cessato nel 2007, a seguito del dissenso maturato riguardo la decisione dei Ds di non conferire al nascente Pd (frutto della fusione con la Margherita) il patrimonio finanziario e soprattutto immobiliare di cui erano titolari. Quella vicenda ha amareggiato questi anni recenti, nei quali più volte è intervenuto per ribadire le sue ragioni. Con interesse ha seguito la nostra inchiesta sull’Oro del Pci. Era utile e doveroso, ora che ci avviamo alla conclusione del viaggio, ascoltare anche il suo punto di vista.
Bottoni lei è stato amministratore del Pci di Ferrara dal 1985 al 1990 e responsabile dei patrimoni immobiliari fino ad aprile del 2007. Sulla questione fondazioni è intervenuto varie volte pubblicamente per esprimere il suo dissenso su come sono state condotte le cose…
Alla politica ho dedicato la mia intera esistenza, vissuta con tanto impegno e molta passione e adesso, all’età di 80 anni, con una pensione di mille euro, con tutta franchezza ci tengo a riproporre il mio punto di vista in merito alla vicenda non proprio limpida del passaggio al Pd.
Il Pci è stata la mia vita, la mia storia. Ma il Pd rappresenta il presente e il futuro. Ho seguito con attenzione la vostra inchiesta sulle fondazioni. Dai pronunciamenti di Calvano e Cusinatti emergere con chiarezza un rapporto conflittuale tra partito e fondazione. Un conflitto così profondo da portarli al punto di separare le sedi. Sono rimasto colpito dai termini usati, “noi e loro”, dalla definizione di “partiti mangiasoldi” data dai responsabili della fondazione, che pure sono un’emanazione volta a gestirne i patrimoni accumulati in passato. Con questi atteggiamenti si determina una separazione, non auspicabile per chi, come me, pensa che il patrimonio accumulato da Pci, Pds e Ds debba essere ricondotto al Pd. Sposetti però a noi ha dichiarato cose diverse…
Quel che Ugo Sposetti ha dichiarato a Ferraraitalia sconvolge il mio orgoglio di appartenenza, rischia di indurmi all’uso dei forconi! Come fa un parlamentare del Pd a trattare così il proprio partito? Ho il dovere di ricordare, finché posso, che gli impegni a suo tempo presi con i militanti delle nostre articolazioni territoriali, vanno mantenuti a salvaguardia di un etica che non può essere mai smarrita, pena lo snaturamento di principi imprescindibili. Quel che era stato garantito è che l’intestazione degli immobili alla fondazione era puramente funzionale alla loro gestione, ma che la proprietà di fatto sarebbe sempre rimasta appannaggio del partito, dunque del Pd.
Ora, smentire come ha fatto Sposetti quella promessa e farlo oltretutto in nome della salvaguardia dei “valori” politici della tradizione è un autentico imbroglio, che forse cela l’obiettivo vero: rendere le fondazioni totalmente autonome, ‘legittimamente’ titolari del patrimonio e svincolate da ogni legame con il partito. Già in questi anni sugli impieghi non c’è mai stata pubblicità, i responsabili delle fondazioni assicurano la trasparenza gestionale, ma ciò che fanno non è discusso al di fuori delle sedi…
Trovo abbastanza stravagante che chi ha racimolato il danaro dalle organizzazioni territoriali riferisca di una collegialità ‘a cadenza annuale’ per un organismo istituito col titolo pomposo di “consiglio di tesoreria” e candidamente ammetta di non avere per il futuro alcuna idea sulla destinazione delle eventuali rimanenze. E’ auspicabile che siano rese pubbliche entrate e uscite, inerenti al non breve operato delle fondazioni. Questa necessità è ancora più evidente nel caso di una sorta di gestione in ‘conto terzi’, svolta in fase di chiusura di un partito che da oltre sei anni ha cessato la propria attività. Adesso gli immobili sono definiti ‘donazioni’ e la fondazione si dichiara proprietaria: ma l’intento non era semplicemente proteggerli quegli immobili, “metterli al sicuro”? Quanto poi al compito statutario di “diffondere la conoscenza della storia e della cultura della sinistra”, il presidente del consiglio di indirizzo pare non avere in proposito neppure uno straccio di idea e di programma. Un altro aspetto contestato è la nomina a vita degli amministratori della fondazione…
Certo. Nel caso malaugurato di un decesso improvviso potrebbero scattare la norme dei diritti degli eredi e qualora vi fossero dei minori, anche l’intervento del giudice tutelare. Non è problema da poco e rimane totalmente insoluto. E poi c’è il nodo della futura indicazione dei titoli di proprietà, dopo la loro inaudita e prolungata privatizzazione: si renderanno pur conto che una simile situazione non si può considerare definitiva? Hanno dichiarato che la decisione a suo tempo sia stata assunta attraverso una grande consultazione, che ha visto una massiccia partecipazione democratica. Che la scelta fosse facoltativa, a quanto riferito dal presidente del Cda Lodi, lo dimostrerebbe la soluzione autonoma praticata a Filo. Una prova in verità del tutto fuori luogo. Quella facoltà, praticata dalla nostra organizzazione di Filo, è stata attuata non al momento della costituzione della fondazione, che è del 2007, ma nel momento dello scioglimento delle due immobiliari che gestivano il patrimonio e col passaggio della titolarità giuridica delle proprietà alla federazione provinciale dei Ds, che è del 1999. Già allora Filo scelse di dare vita ad una soluzione autonoma. Li abbiamo anche aiutati, quando abbiamo avvertito la loro propensione a fare diversamente rispetto alla gestione provinciale. Andammo alla riunione indetta localmente, io e Aldino Cavallina, tesoriere della federazione pro tempore, assieme al notaio.
Quindi lei nega che la consultazione sia stata realmente tale?
Giorgio Bottoni
Intanto quella consultazione non avveniva per iniziativa di chi l’ha organizzata poiché era resa obbligatoria dal regolamento interno redatto nel momento in cui si era deciso lo scioglimento delle due immobiliari e il passaggio della titolarità alla federazione provinciale del partito. E’ stato anche sintomatica la procedura praticata nell’impostazione di quella importante decisione, neppure iscritta nell’ordine del giorno delle due riunioni della direzione provinciale del 4 gennaio e del 4 febbraio. Non ne era a conoscenza neppure il suo presidente. Si è proceduto con una riservatezza molto sospetta, suggerita da “ordini superiori”.
Inoltre, la scelta di passare la titolarità all’Approdo non era facoltativa, perché veniva prospettata alle istanze interessate da parte della federazione e del suo rappresentante legale come la sola e obbligata possibilità. Non esistevano altre soluzioni, quella discussione poteva concludersi solamente con l’accettazione: appunto l’adesione alla fondazione. D’altronde quale altra facoltà poteva essere attuata, dal momento che la federazione (che l’aveva assunta dalle immobiliari otto anni prima) aveva già deciso di trasferire la titolarità degli immobili alla costituenda fondazione? Sposetti è stato l’inventore della formula, con una simile mossa le articolazioni di base sono state indotte a versare ogni bene ai tesorieri provinciali. E quella istituita da Sposetti diviene una rete di tesorieri delle federazione rimasti in essere, che si affianca alle 62 fondazioni. Una vera e propria assurdità. Sposetti però non è l’unico a vederla a quel modo: l’operazione è stata in seguito condivisa anche da Antonio Misiani, il tesoriere del Pd nominato da Bersani e confermato da Epifani…
E’ vero. Dice Misiani: “Il Pd doveva essere un partito nuovo anche dal punto di vista economico. Ereditare la contabilità dei Ds e della Margherita ci avrebbe azzoppato perché ci saremmo dovuti accollare lo spaventoso fardello di 180 milioni di debito. E’ stata una scelta di discontinuità saggia”. L’inquietante questione della prospettiva neppure viene sfiorata. Potremmo trovarci in una situazione veramente paradossale. I patrimoni immobiliari che il partito si è creato attraverso le sue articolazioni di base usati dai vertici delle fondazioni per “vendette” volte a combattere l’affermarsi del nuovo. Questo suo disaccordo lei lo aveva con chiarezza già manifestato nella fase che ha preceduto la fusione fra Ds e Margherita. Perché contrastava quella scelta?
Nel momento in cui decidevamo di dare vita al Partito democratico per diventare quella che attualmente è la più grande forza politica d’Italia, la scelta giusta sarebbe stata unificare anche la parte economica e patrimoniale coerentemente con la scelta politica compiuta da Ds e Margherita. Invece creammo un partito nuovo tenendo separate le risorse economiche: un incredibile paradosso! Se ciò fosse accaduto non vi sarebbe stato lo scandalo Lusi che ha infangato, gettato discredito, anche sfigurato il Pd. Venne attuata invece una insensata separazione che si sarebbe potuta comprendere solo se realizzata nell’ottica di una temporanea cautela, in attesa di consolidare l’intesa e tradurre l’alleanza in qualcosa di organico. Ma quando si è deciso di procedere alla nomina a vita degli amministratori delle fondazioni si è palesata una sostanziale e pericolosa privatizzazione di un patrimonio – come ricorda Mauro Agostini nel suo libro ‘Il tesoriere’ – che era frutto del sacrificio di molte generazioni di militanti, e in quanto tale proprietà delle diverse comunità locali’. E invece perché le cose sono andate diversamente?
Sposetti, a commento di una precisa sollecitazione di Dario Franceschini, sostenne che i 2.399 immobili erano stati blindati da un lato per pagare le banche verso le quali sussisteva un debito di 160 milioni di euro per mutui stipulati in passato e che al netto non restava sostanzialmente nulla. Ma al contempo riconosceva pure l’esigenza di ‘non disperdere un patrimonio anche storico’ come a dire che il Pd non fosse degno di ereditarlo.
In seguito, nell’intervista che Sposetti ha recentemente rilasciato a “FerraraItalia”, fa affermazioni clamorose. Quando arriva alla tesoreria dei Ds dice di essersi messo le mani nei capelli per il debito che ha trovato, e per questo avrebbe preso a ragionare su un modello di gestione della politica che tenesse finanza e patrimonio fuori dal partito. Di conseguenza avrebbe messo in atto, senza inizialmente dichiararlo, quella che di fatto è stata una sottrazione dei patrimoni immobiliari alle articolazioni di base. Insomma: un’operazione veramente geniale, meglio non palesarla prima, prepariamo una sorpresa, da proprietari diventate affittuari, a condizioni di favore veramente di privilegio… Quindi secondo lei questa scelta non è stata compiuta in maniera trasparente?
Ho partecipato a tutte le riunioni preparatorie a Roma, a Bologna e anche a Andalo nel gennaio 2007. Un simile disegno è sempre stato tenuto nascosto. E ora, a posteriori, Sposetti cambia la scena. Il proprietario, i Ds, dice nella vostra intervista, “scompaiono senza lasciare eredi” e quindi la proprietà è automaticamente della fondazione. A questo proposito vorrei invitarlo a fare un giro tra le sedi di Via Bologna, Portomaggiore, Anita, Codifiume, Campotto, Poggiorenatico eccetera, per accertarsi con i militanti se sono scomparsi, o se ritengono sia morto il fondatore, o se hanno inteso compiere un atto di donazione…
E poi emergono altre contraddizioni: nella trasmissione televisiva “Report” del 19 maggio 2013, l’estinzione del debito dei Ds viene indicato non più in 160, ma in 200 milioni; e la scadenza, che era sempre stata individuata nel 2011, diventa invece il 2016. Mi domando: questo modo di agire risponde alla volontà di “valorizzare la nostra storia” o è piuttosto l’aggrapparsi al passato e farsene paravento per non rispondere al presente? Ma quale storia e quali valori… E la fondazione l’Approdo che ruolo gioca in questa vicenda?
Il problema non è la gestione della fondazione L’Approdo. Pur con rilievi puntuali su alcune attività, resto convinto che questa sia condotta da persone serie, onesta, disinteressate. Rimane tuttavia aperta la questione della prospettiva e di chi la determinerà. E’ giusto e urgente decidere il da farsi… Senza affidare alla sola Roma una decisione che potrebbe prendere strade non consone alla volontà e agli intenti coi quali si è operato nel ferrarese. E’ del tutto da escludere la sussistenza di qualsiasi “tesoretto”, o “oro” del Pci o dei Ds, a meno che per esso non si intenda la grande risorsa del volontariato, purtroppo calante e provata anche da simili umiliazioni.
Chi spera di poterlo usare per sanare propri guai, deve essere dissuaso, né è praticabile “l’uso a sostegno del disagio sociale in Italia”, come ha scritto su ferraraitalia Enzo Barboni, poiché sarebbe come farlo con le nostre abitazioni. Sono infatti beni strumentali quelli in questione, costruiti o acquistati e adattati con lo sforzo di associati in precise località e tuttora usati per svolgervi la propria attività sociale e politica. Sono frutto cioè dell’impegno di persone in carne e ossa con un proprio cervello, un loro credo politico, che le considerano giustamente una loro realizzazione, ed è un loro merito, che non va mortificato. Per queste ragioni, dobbiamo evitare amare sorprese. E intanto far lievitare la volontà politica per trovare un’adeguata e coerente soluzione. Quale potrebbe essere la via d’uscita?
Per scongiurare i forconi, si potrebbe compiere un atto formale da parte della federazione Pd di Ferrara con il quale accettare a titolo gratuito il trasferimento delle proprietà tuttora intestate alla fondazione l’Approdo invocando per esempio, se tuttora vigente, la legge n° 460 del 4 dicembre del 1997. Diventerebbe una misura di buon senso. Sarebbe un semplice e dovuto ritorno. Su come gestire gli immobili la scelta compete a chi dirige adesso il partito. Per quanto posso dire sulla base della mia esperienza compiuta nei tanti anni dedicati ai patrimoni, la gestione diretta del partito è risultata la più limpida, la meno costosa e anche la più semplice. Questo però presupporrebbe la volontà della fondazione di restituire gli immobili…
E’ quello che auspico. Bisogna essere totalmente responsabili degli atti che si compiono. E decidere nella chiarezza. Un simile comportamento servirebbe anche a dimostrare a tutti di essere forza affidabile. Daremmo prova di essere all’altezza e capaci di governare le istituzioni del Paese. Guardare avanti è sicuramente giusto e doveroso, dovremmo poterlo fare a testa alta.
Da tempo i quotidiani denunciano la contrazione dei consumi e segnalano difficoltà e preoccupazioni di una parte ampia di popolazione, in questa prolungata fase di crisi economica. Ciò che appare meno evidente è che in tempi di crisi non si assiste solo ad una contrazione, ma ad una ridefinizione delle gerarchie di spesa. I tagli non colpiscono tutti gli strati della popolazione (questo è ovvio) e neppure tutte le tipologie di consumi, anzi le risorse più scarse si ridistribuiscono tra beni diversi da quelli che avevano la priorità solo pochi anni prima. Questo processo è incessante e accompagna l’evoluzione della società e del mercato, ma la crisi contribuisce a metterlo in evidenza. Così, anche quando la fase acuta della crisi sarà superata, la composizione dei consumi sarà comunque diversa.
L’adeguamento annuo del paniere Istat, presentato alla stampa nei giorni scorsi, segnala fenomeni apparentemente paradossali che sollecitano qualche riflessione. Come è noto, il Paniere Istat fotografa il cambiamento nelle scelte di consumo, mentre si propone di misurare l’indice di inflazione. Aumenta, negli anni (il Paniere opera dal 1928) il numero di prodotti considerati, segno della continua diversificazione dei bisogni e delle tipologie di beni. Per restare agli anni recenti, nel 2012 il numero di beni considerati era pari a 1.323 ed è pari a 1.447 nel 2014.
Quali nuovi consumi sono entrati quest’anno a comporre il Paniere? Entrano formaggio grattugiato in busta e formaggio spalmabile, caffè in cialde (e relative macchine), sacchetti per la raccolta differenziata, sigarette elettroniche. Tra le new entry anche il quotidiano on-line, la fotocamera digitale, il notebook ibrido, ovvero il portatile che può diventare tablet. Entrano poi lo spazzolino elettrico, la vaccinazione di animali domestici, gli pneumatici termici, il latte fresco di alta qualità e quello ad alta digeribilità, gli yogurt probiotici (mentre escono quelli biologici), indumenti per bambini come scarpe da ginnastica, pantaloni e costumi sportivi per la piscina.
Che tipo di consumatore fotografano questi dati? Intanto un consumatore impegnato nella fatica quotidiana e nella conciliazione dei tempi della vita: avanza la tendenza in atto da anni verso prodotti in grado di fare risparmiare tempo. Un consumatore che cerca una compensazione alle frustrazione nei piccoli piacere quotidiani, che si concede piccole spese non potendo accedere a quelle rilevanti: è il lipstick effect, termine da tempo coniato dagli economisti per spiegare il fenomeno per cui nei momenti di recessione economica, aumentano le vendite di beni non essenziali, di lusso a basso costo. Lo stesso fenomeno spiega perché i ristoranti continuano ad essere frequentati.
Un consumatore determinato ad utilizzare i vantaggi delle tecnologie, che vive l’accesso ai nuovi strumenti di comunicazione come via di inclusione sociale e diritto di cittadinanza. Un consumatore che vuole sentirsi in pace, che cerca di ricomporre le contraddizioni, usa i sacchetti per la raccolta differenziata (anche perché molte amministrazioni lo hanno obbligato a farlo) e fuma le sigarette elettroniche, per limitare i danni sulla salute. Un consumatore assetato di credenze e di rassicurazioni, come indica l’ingresso nel Paniere Istat dei probiotici, vale a dire di prodotti alimentari che promettono vantaggi per la salute.
L’ingresso di nuovi beni testimonia anche strategie di mercato, campagne di marketing particolarmente efficaci e mutamenti nella riorganizzazione della distribuzione, l’ampliamento dell’offerta low cost e dell’e-commerce, utilizzato per un numero crescente di beni e di servizi.
In sintesi, il cambiamento nei consumi esprime segnali di adattamento che non sono mossi solo da fattori economici ma dalla ridefinizione di valori e di priorità. Così si spiega la ricerca di beni di compensazione, di piccoli lussi domestici e la rilevanza assunta dai beni relazionali mediati ormai, in larga parte, dalle tecnologie.
Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it
Il primo marzo del 2012 è stato un giorno doloroso per il mondo musicale italiano e per Bologna che ne una delle capitali. Molti chilometri a nord, ben oltre la Milano “gambe aperte che ride e si diverte”, a Montreaux si spegneva Lucio Dalla. Un infarto e Bologna è diventata più “dark”, come la canzone-ode che Lucio aveva dedicato alla sua amata città, “Dark Bologna”. Piazza Grande, il bar Margherita, via d’Azeglio e persino il cielo e i piccioni di Bologna si sono fermate per un attimo insieme a 50mila persone a piangere il compagno di giochi, l’amico di una vita, il cantante e l’uomo. Un anno dopo in Piazza Maggiore sono arrivati gli amici di Dalla, Ron, Samuele Bersani, Fiorella Mannoia, tutti insieme sul palco a dare voce al ricordo dell’amico scomparso. A due anni dalla sua morte Bologna si riaccenderà sotto una luce diversa con la notte bianca di Via d’Azeglio. Una festa per quello che sarebbe stato il settantunesimo di Lucio.
Organizzata dalla neonata associazione “Da quando sei partito” in collaborazione con Ascom, Comune e Teatro del Navile. Stessa data, nuovo luogo, come afferma Mauro Felicori, direttore comunale del settore promozione della città di Bologna: «Abbiamo ancora nella memoria lo straordinario concerto di piazza Maggiore, ma qui siamo ad un registro diverso, un registro familiare. Lo stesso Lucio giocava su questi due registri: un giorno era l’amico, il vicino di casa e il giorno dopo era in televisione». E’ forse per questo motivo che Bologna ha avvertito un dolore e un vuoto incolmabile. Dalla era talmente immerso nella vita quotidiana della sua città che quando è morto il dolore ha letteralmente paralizzato la città. «Bologna ha sempre amato Lucio e Lucio ha sempre amato la città ma come in ogni storia d’amore il valore dell’altro si apprezza di più nella sua assenza» afferma Paolo Piermattei, compositore e autore di Dalla e oggi direttore artistico di “4 marzo sotto casa di Lucio”. «La mia sensazione è che non sia morto davvero, la sua arte da un senso di continuità, io lavoro nel suo studio e lo respiro ancora».
Un amore senza fine. Che si rigenera nel tempo, grazie ai giovani della fucina “Pressing”, etichetta discografica voluta fortemente da Lucio nata nel 2011, oggi seguita dagli eredi di Lucio, e molti altri cantanti che hanno conosciuto il cantante, che martedì suoneranno in Via d’Azeglio.
Quindici cantanti, che hanno avuto modo di conoscere Lucio, e la strada. Stefano Fucili, Paco Ciabatta, Andrea Lorenzoni, Leo Borelli, Roberta Giallo, Riccardo Majorana e Iskra Menarini sono solo alcuni degli amici di Dalla che canteranno al cielo, in versione rigorosamente acustica, le canzoni di Dalla, quattro brani a testa, distribuiti su tre pedane disposte lungo via d’Azeglio. Cinque ore di musica, dalle 18 alle 23, si va dai successi più noti come “Il cielo” e “Attenti al lupo”, a quelli meno noti come “Anche se il tempo passa”, brano inedito, che fa parte dell’ultimo disco di Dalla “Questo è amore” uscito nel novembre del 2011, che sarà interpretato da Roberta Giallo e Leo Borrelli autore della canzone. A chiudere la serata Iskra Menarini, storica accompagnatrice di Lucio, e un coro di venti elementi che si misureranno con il testo di “Caruso” e le sue profetiche parole “Ma sì, è la vita che finisce / ma lui non ci pensò poi tanto, / anzi si sentiva felice / e ricominciò il suo canto”. Alle 20 si accenderanno anche le luci di scena del Teatro del Navile, con lo spettacolo “La strada e la stella”, ingresso su prenotazione e una mostra fotografica dedicata al cantante. La notte bianca di Lucio sarà anche “social”, in Corte Galluzzi infatti, verrà allestito un palco sul quale lasciare un messaggio o farsi una foto col cartellone dell’evento, da postare alla pagina facebook “4 marzo sotto casa di Lucio”.
Il 4 marzo in via d’Azeglio ci sarà una festa di strada con la musica del futuro, i giovani cantanti. «Fin da piccolo ascoltavo le sue canzoni e la cosa che mi colpiva di più era che la sua musica parlava sempre di futuro senza mai ripiegarsi sul passato e la sua grande identificazione con la gente» afferma Piermattei commosso. La notte bianca del 4 marzo proverà a mettere in comunicazione questi due elementi, la gente comune e il futuro della musica, le canzoni di Dalla il collante che li farà stringere in un vortice di note, emozioni e gorgheggi.
Potenza degli anniversari: e non si allude tanto a quelli resi per così dire obbligatori dal rituale dell’attesa, la quale ogni volta si scatena in reminiscenze che durano tutt’al più un dì, quasi fosse obbediente alla regola pseudo-aristotelica dell’unità di tempo.
Copertina de La “Musa nascosta”: mito e letteratura greca nell’opera di Cesare Pavese, a cura di Eleonora Cavallini, dupress, Bologna, 2014
Si pensi viceversa all’anno 1964, il quale vede uscire alla luce un volume ed un contributo critico riguardanti entrambi la figura di Pavese. Il primo è rappresentato dal fascicolo doppio 3/4 della rivista «Sigma» (Cesare Pavese, Il mito e la scienza del mito), contenente lavori che costituiranno poi a buon diritto l’ossatura bibliografica della critica, in quanto destinati ad inaugurare una fertile aratura della produzione del Nostro per gli anni a venire; per il secondo, trattasi dell’estratto della tesi di laurea elaborata da Gianni Venturi (La prima poetica pavesiana: “Lavorare stanca”), apparso sulla «Rassegna della Letteratura Italiana» nel medesimo anno. A mezzo secolo esatto, per superiore volontà del Fato – ecco un esempio di anniversario genuino – esce in questo 2014 l’opera che raccoglie gli “Atti” del Convegno svoltosi a Ravenna nei giorni 19 e 20 marzo 2013 dedicato a La “Musa nascosta”: mito e letteratura greca nell’opera di Cesare Pavese.
I quindici saggi, afferenti ad altrettanti studiosi appartenenti ad esperienze culturali felicemente diverse, sono in maggioranza dedicati, et pour cause, ai Dialoghi con Leucò. Pubblicati nel 1947, ritenuti a buon diritto la summa del lavoro di ricerca pavesiano sul mito greco classico, essi vengono scandagliati da diverse angolature critiche in grado di rinnovare la curiosità intellettuale di chi legge, invitandolo alla rilettura di quello che Pavese medesimo, nell’Avvertenza, chiama «un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere».
Se ogni rappresentazione della realtà si trasfigura in simbolo (Giusto Traina), allora è rintracciabile pure nell’apparente normalità delle vicende naturali il personaggio dell’eroe (Maria Cristina Di Cioccio), specialmente se macchiato di tracotanza, in greco “hybris”. Alla verifica semantica di codesto termine lessicale è dedicato pure l’intervento di Monica Lanzillotta, mentre lo specifico rappresentato dal “mostro”, con riferimenti al Polifemo omerico e non solo, è analizzato da Lucilla Lijoi; quanto al vivaio di simboli appena sopra richiamato, esso è al centro delle pagine offerte da Bart Van den Bossche, in particolare la nozione di “selvaggio”, collegata con l’esperienza vissuta da Pavese a Brancaleone Calabro, argomento del cortometraggio Il confino di Cesare Pavese, rintracciato presso la Cineteca di Bologna e studiato da Alessandro Bozzato. Dal repertorio omerico al teatro ateniese del quinto secolo a. C., in particolare le figure femminili euripidee: ecco una delle fondamentali fonti ispiratrici secondo l’analisi condotta da Angela Francesca Gerace; e, come terzo corredo dopo questi, il ruolo del magistero platonico in rapporto al modo di raccontare i miti studiato da Elena Liverani. E ancora: una “grecità sommersa” degna di essere portata alla luce secondo Enrica Salvaneschi, che attraverso esempi omerici perviene ad un frammento di Saffo opportunamente glossato; e i simboli primari di vita, morte e rinascita su cui si concentra l’attenzione di Beatrice Mencarini, alla ricerca dell’Eden perduto.
Pavese però non è soltanto un lettore, un assimilatore ed un ripropositore di testi classici, bensì si produce pure in una attività di traduzione non del tutto ancora nota al grande pubblico. Quanto al greco, chiarisce ogni cosa Alberto Comparini, cui si deve un profilo esauriente del “curriculum” scolastico pavesiano, in particolare la frequenza di quella opzione moderna (priva della lingua greca) frequentata presso il Regio Liceo torinese D’Azeglio. Ecco quindi, nello specifico, i tentativi di resa in lingua italiana degli epiteti fissi appartenenti all’oralità omerica, studiati da Sara De Balsi; quelli di due frammenti di lirica greca, rispettivamente di Ibico e di Saffo, analizzati da Eleonora Cavallini, organizzatrice del convegno e curatrice del volume medesimo, la quale propone, fra altre suggestioni, un raffinato confronto della versione del frammento saffico con la lirica Paternità; ecco infine Giovanni Barberi Squarotti, che compie una ricognizione dei libri posseduti e postillati da Pavese stesso – e proprio lo scorso anno sono uscite con sua cura, per i tipi fiorentini di Olschki, le Odi di Quinto Orazio Flacco tradotte da Cesare Pavese.
Con il proprio saggio, collocato ad apertura di volume, Gianni Venturi offre infine al lettore la possibilità, ed il privilegio, di ripercorrere la storia culturale del Novecento attraverso la riproposizione di figure fondamentali, quali Mann, Nietzsche, Jung, Heidegger, Kerényi, nonché dei Maestri (Binni e Varese), amici e sodali compresi (Pertile e Mutterle fra altri). Ma è soprattutto nel nome di Jesi che si stringe saldamente l’anello dell’itinerario da cui siamo partiti, quel Furio Jesi mai conosciuto di persona e rimasto sempre una voce al telefono e un indirizzo postale, ma che tanta fecondità di spunti e di stimoli riuscì a fornirla, come testimonia Venturi stesso: «Nel momento più complesso della ricerca di Jesi sul mito in Pavese l’allusione al famoso volume di “Sigma” che ancor oggi rimane un momento fondamentale della critica pavesiana, Jesi in polemica con la mia risentita protesta all’uso del termine decadente poneva le premesse per permettere a uno storicista per vocazione e insegnamento di capire come questo termine in realtà poneva Pavese al centro del discorso più complesso e europeo sul mito» (pp. 21 s.).
Orizzonte dunque che varca i confini angusti del nostro cortile, a farci respirare in libertà benefica aria di mito classico.
Indicazione bibliografica del volume: La “Musa nascosta”: mito e letteratura greca nell’opera di Cesare Pavese, a cura di Eleonora Cavallini, Du.press, Bologna, 2014
L’esigenza di approfondire, ed eventualmente ridefinire, il rapporto di Pavese con il mito e con i classici greci, ha dato origine al convegno “La Musa nascosta: mito e letteratura greca nell’opera di Cesare Pavese”, tenutosi a Ravenna, presso il Dipartimento di Beni Culturali, il 19 e 20 marzo 2013, e ora al presente volume, che raccoglie, in forma rimeditata e talora ampliata, i contributi dei partecipanti al convegno stesso. Studiosi di varia provenienza ed estrazione, di Università italiane e straniere, si sono riuniti per indagare quella che Pavese stesso definiva la sua “Musa nascosta” e per tracciare insieme il profilo di Pavese “filologo”.
Eleonora Cavallini è Professore ordinario di Storia e letteratura greca all’Università degli studi di Bologna, di Storia della tradizione classica nella cultura moderna e contemporanea e di Antropologia storica del mondo greco presso la Facoltà di Conservazione dei beni culturali dell’Università di Bologna, sede di Ravenna. Dirige la collana « Nemo. Confrontarsi con l’ antico», pubblicata dall’editore Du.press di Bologna con il patrocinio del Dipartimento di Storie e metodi per la conservazione dei beni culturali.
Claudio Cazzola, ex docente stimatissimo del Liceo-ginnasio statale «L. Ariosto» di Ferrara, è autore di numerosi volumi e studi su autori classici e contemporanei. Attualmente è docente di Letterature e lingue moderne e classiche presso l’Università degli studi di Ferrara.
Corrado Govoni (1884-1965) nacque a Tamara, centro poco lontano da Copparo, da una famiglia di agricoltori benestanti. Egli pure si dedicò, in certi periodi della sua vita, alla conduzione del fondo di famiglia ma la malasorte lo costrinse, dopo uno sfortunato tentativo di installarsi a Milano, allora capitale del movimento futurista, a vendere tutte le proprie terre e ad intraprendere i più svariati mestieri. Trasferitosi definitivamente a Roma nel 1926, vi lavorò dapprima come dirigente della Siae, poi come segretario dello Snas e quindi come impiegato in un ministero. Visse i suoi ultimi anni in dignitoso isolamento, si spense a lido dei Pini, nei pressi di Anzio ed è sepolto alla certosa di Ferrara.
Autore anche di romanzi e opere teatrali, Govoni è oggi ricordato soprattutto per le numerose e rilevanti sillogi poetiche, fra le quali spiccano: Le fiale (1903), Armonia in grigio et in silenzio (1903), Fuochi d’artifizio (1905), Gli aborti. Le poesie d’Arlecchino. I cenci dell’anima (1907), Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915), Rarefazioni (1915), Il quaderno dei sogni e delle stelle (1924), Canzoni a bocca chiusa (1938), Govonigiotto (1943), Aladino (struggente elegia in memoria del figlio trucidato alle Fosse Ardeatine, 1946).
Corrado Govoni collaborò ad alcune tra le fondamentali riviste letterarie della sua epoca, quali ad esempio “Poesia”, “La Voce”, “Lacerba”.
«Due antologie della lirica govoniana curate da G. Spagnoletti, Firenze, Sansoni 1953 e da G. Ravegnani, Milano, Mondadori 1961 (assai più vasta) – scrive il filologo Pier Vincenzo Mengaldo – non rendono sufficiente giustizia all’importanza della sua produzione crepuscolare e futurista, comunque sacrificata a lungo dall’egemonia della “lirica nuova” e dell’ermetismo. […] Govoni è soprattutto attratto dalla superficie colorata del mondo, dalla varietà infinita dei suoi fenomeni, che registra con golosità inappagabile e fanciullesca, quasi in una volontà di continua identificazione col mondo esterno […]. Ciò non significa affatto che la sua poesia sia stata inefficace sui lirici successivi; è vero il contrario: il suo sterminato repertorio di immagini è stato una riserva a cui quei poeti (a cominciare da Ungaretti e Montale) hanno attinto a piene mani, seconda per importanza solo a quella pascoliana e dannunziana».
Sebbene sia stato costretto ad emigrare dalla città natale (come peraltro quasi tutti gli artisti estensi del Novecento) per lavorare e affermare il proprio talento, Govoni dedicò a Ferrara dei versi bellissimi, di certo meno ridondanti di quelli di Carducci e più suggestivi di quelli di D’Annunzio.
Si legge in un passo de La casa paterna:
“[…] con i suoi conventi dai muraglioni lunghissimi
sopravanzati da rami di fichi centenari;
col castello rosso nell’acqua
in cui si specchiava
la luna di calcina dell’orologio
e si vedevano dai cancelli guizzare i pesci.”
Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013
SEGUE – ‘L’unica cosa che vorremmo sarebbe un ritorno al passato’, dice Ariberto Felletti, presidente della cooperativa Piccola e Grande Pesca di Porto Garibaldi, che gestisce il mercato ittico. Nella primavera del 2013 Felletti aveva segnalato con una lettera alle associazioni ambientaliste e a quelle di categoria, alla Procura di Ferrara, a Ispra, alle istituzioni (dai ministeri fino agli assessorati regionali e al Comune di Comacchio), la difficile situazione: un calo vertiginoso del pescato, a suo avviso connesso all’attività del rigassificatore.
La colpa? ‘Acqua troppo fredda ributtata in mare, inconciliabile con le abitudini dei pesci’. Conclusioni smentite da Adriatic, forte dei dati certificati e dal fatto che in un centinaio di metri la temperatura ritorna come prima della lavorazione. Felletti si trincera dietro i numeri: nel 2005 le catture ammontavano a 822 tonnellate per passare alle 431 del 2012. Risultato: fatturato in discesa e guadagno netto passato da 3 a 2 milioni di euro. ‘Senza contare – dice – la cassa integrazione per una parte del personale’. Da allora le cose sono immutate.
Felletti: “Silenzio dalle istituzioni su quanto sta accadendo”
La segnalazione dei rischi connessi alle attività del rigassificatore è partita dalla coop Piccola e grande pesca di Porto Garibaldi
‘Il pesce continua a non esserci, l’unica eccezione sono le canocchie, non è cambiato nulla – spiega – Ma soprattutto non abbiamo avuto risposte istituzionali sulle ragioni di quanto sta accadendo’. D’altra parte sui guai del mare galleggiano un bel po’ di interrogativi, sostiene, non ultimo quello legato alla moria di pesci e granchi e al conseguente divieto di balneazione dei primi di agosto. Ci sono stati prelievi immediati di Arpa e Ausl. Si è parlato di anossia, di fughe dal depuratore, di scarichi a cielo aperto. Ma la causa di quanto è accaduto resta un mistero. Che preoccupa anche gli imprenditori del turismo.
Anche Goletta Verde invoca chiarezza
Il 26 giugno del 2013 Goletta Verde, storica imbarcazione di Legambiente ha fatto tappa a Porto Garibaldi. Si è parlato della crisi della marineria comacchiese e delle preoccupazioni dei pescatori sul rigassificatore tanto che il 19 luglio Legambiente ha scritto alla Regione Emilia-Romagna e a Ispra per saperne di più. ‘E’ evidente che il problema del forte declino del pescato ha molte cause, a cominciare dall’eccessiva pressione ittica del passato – precisava Lorenzo Frattini, presidente di Legambiente Emilia Romagna – La questione richiede prima di tutto una riforma del settore e una maggiore consapevolezza dei consumatori. Tuttavia è bene verificare i possibili effetti negativi derivanti dall’entrata in funzione dell’impianto di Porto Viro, non solo sul comparto ittico ma sugli ecosistemi marini in generale. Attendiamo quindi i risultati di queste indagini’. I dati, difficili da interpretare per i non addetti ai lavori, sono pubblicati sul portale della Provincia di Rovigo…
Un progetto accompagnato da investimenti sul territorio
Sul caso del rigassificatore Vanni Destro del Movimento 5 Stelle del Polesine, ambientalista convinto, ricorda. ‘Poco dopo la metà degli anni ’90, quando si è cominciato a parlarne si faceva riferimento a una produttività di 4 miliardi di metri cubi l’anno, solo in un secondo momento è stata raddoppiata la posta’. L’accoglienza al progetto non era stata delle migliori. ‘In quel periodo ci fu una protesta civile ma più avanti, quando sono andate abbozzandosi le compensazioni finanziarie, il fronte del no di cui facevano parte alcune pubbliche amministrazioni, si è sciolto insieme a dubbi e paure dei rischi ambientali’. L’idea di ospitare il terminal risale al 1995 e si rispecchia nel Patto Territoriale ‘Progetto impresa Rovigo – Europa’, approvato e coofinanziato con decreto ministeriale a gennaio 1999, si legge nel sito del Consorzio di Sviluppo del Polesine il trait d’unione tra Adriatic, i Comuni, gli enti e le associazioni di categoria. Ci fu la volontà di favorire l’insediamento dell’impianto per l’importanza dell’investimento e per collegarsi alla riconversione della centrale termoelettrica di Polesine Camerini.
Nel 2005 il titolare del progetto del terminal, dapprima Edison poi Adriatic Lng, dopo aver ottenuto altri contributi dal Ministero delle Attività Produttive nell’ambito di un contratto di programma, intraprese la fase delle autorizzazioni.
Un consorzio distribuisce il denaro
Dalla fase delle autorizzazioni all’accordo con cui sono previste anche le compensazione per chi è stato interessato dalle necessità del terminal sono passati tre anni. Nel 2008 ConSviPo, Provincia di Rovigo e Edison – Adriatic Lng firmano il documento davanti al notaio. Ne scaturisce un fondo del valore di 12milioni e 100 mila euro gestito dal Consorzio cui spetta il compito di gestire il denaro per coprire le compensazioni, le esigenze di riequilibrio ambientale, favorire lo sviluppo socio economico e la promozione dell’area di Adria, dei Comuni di Papozze, Porto Viro, Rosolina, Porto Tolle e Taglio di Po. L’accordo prevede inoltre l’impegno di Adriatic di presentare sul monitoraggio ambientale nei cinque anni successi all’apertura dell’impianto.
Tra gli altri 174mila e 410mila euro, sono andati a Loreo e Porto Viro, dentro i cui confini passa il gasdotto di collegamento tra il terminal e Cavarzere, da dove il gas riparte per l’impianto di stoccaggio di Minerbio in provincia di Bologna, il più capiente del nord Italia. A distribuire il denaro ci pensa il consorzio al quale vanno 1 milione e 500 mila euro per cofinanziare iniziative sostenute dalle istituzioni, dal peso sociale significativo per le comunità. Un milione di euro, tanto per fare un esempio, è riservato al Parco del Delta del Po per contribuire alla sua valorizzazione con progetti sposati soprattutto dall’Europa. Adriatic in questi anni ha stretto un rapporto con le comunità sponsorizzando manifestazioni culturali, sportive, scientifiche per 700 mila euro, lavora con 59 imprese locali e ha investito in Veneto 250 milioni di euro grazie ai contratti sottoscritti con le aziende del posto. Per il terminal lavorano 125 persone il 60 per cento delle quali è veneta.
“Il ‘terminal’ ha dato impulso all’economia locale”
Angelo Zanellato, presidente del consorzio ConSviPo
‘Il terminal ha rimesso in moto l’economia’, dice Angelo Zanellato presidente del ConSviPo. ‘Noi siamo la garanzia tra l’impresa e il territorio – spiega – Siamo stati i primi a segnalare le schiume, non abbiamo alcun interesse a che l’ambiente si deteriori, bensì il contrario’. Il terminal ha portato dei miglioramenti anche per i pescatori. ‘Faccio un esempio, si è potuti intervenire sul costo del gasolio facendoli risparmiare qualche euro, il che non guasta, almeno li mettono in tasca – continua – siamo intervenuti per sostenere il ristoro dei danni da mareggiate e far fronte a quelli da asfissia in laguna e finanziamo tanti altri progetti utili al mondo della pesca a cui sono riservati 250mila euro’. Fare di più e di meglio si potrebbe, ne è convinto, se solo si disponesse di una struttura locale per le analisi marine, più vicina alle esigenze del mondo della pesca. ‘Si sarebbero risparmiati soldi, lungaggini e in caso di problemi si interverrebbe con una maggior celerità. Anche nelle risposte’.
Milioni di euro per il piano di monitoraggio
Il piano di monitoraggio di Ispra autorizzato dal ministero dell’Ambiente, in acqua quanto in aria, richiede alla multinazionale un impegno economico milionario. ‘Sono due milioni l’anno – dice Zanellato – Sarebbe forse meno dispendioso e più vantaggioso creare una squadra di ricercatori delle Università di Padova, Venezia e Ferrara’. L’obiettivo è fare chiarezza sui problemi di mare, lagune e ‘magari maturare qualche idea migliorativa per affrontare il futuro. Invece siamo un ente che rischia di sparire’. Apre il computer e sulla carta marittima appaiono due puntini cerchiati a una distanza a metà tra il terminal e la costa. ‘Sono una stazione merci e una centrale off shore di Enel – dice – potrebbero rosicchiare altre miglia di mare alla pesca, senza contare che il traffico di navi sarebbe inconciliabile con l’attività delle imbarcazioni da pesca. Abbiamo suggerito di allineare la stazione al terminal, così da liberare spazio’. Come dire, ConSviPo conosce i problemi del Polesine e media con i gruppi imprenditoriali autorizzati dallo Stato perché il territorio benefici della loro presenza. Cosa succederà se dovesse decadere?
Un polo industriale marino di fronte al Delta del Po
Il sindaco di Comacchio, Marco Fabbri
Il mare sui cui affacciano i comuni del Delta sembra sul punto di trasformarsi in un polo industriale off shore. E’ questione di programmazione. Ma cosa ne pensa il Parco del Delta del Po Veneto per il quale si sta chiedendo da più parti l’unificazione all’altro versante? ‘Non è nostro compito dare alcuna valutazione, per tanto neppure ci esprimiamo – taglia corto Marco Gottardi direttore dell’ente regionale – Quanto al rigassificatore la legge non ci dà alcuna competenza sul mare’.
E’ cauto ma convinto dell’importanza di un supplemento d’indagine sulla relazione tra ecosistema e rigassificatore, Marco Fabbri sindaco Cinque stelle di Comacchio. Da tempo la città lagunare attende risposte ufficiali sull’impatto ambientale del rigassificatore, le aspetta dall’assessore regionale dell’Emilia-Romagna all’Agricoltura e alla pesca, Tiberio Rabboni, che a sua volta le attende dal Ministero dell’Ambiente. Mentre non le avrà più l’ex parlamentare radicale Elisabetta Zamparutti, promotrice durante la precedente legislatura di un’interrogazione sul rigassificatore a tre ministeri, Agricoltura e pesca, Sviluppo economico e Ambiente allora retto da Clini. Le domande, sempre quelle, opportunità di approfondire lo spettro delle analisi e di valutare la lavorazione a ciclo chiuso nell’interesse del mare e, di conseguenza, dei pescatori che ne traggono il proprio sostentamento. ‘Ho presentato cinque solleciti, ma non ho avuto alcuna risposta’, ricorda.
“Il problema è l’ammanco di uova di pesce. Bisogna capire da cosa dipende”
Comacchio le risposte istituzionali le ha cercate in ogni direzione. Anche a Roma. Nel frattempo i dati settembrini dell’ultimo monitoraggio di Ispra sono comparsi sul sito della Provincia e, per un po’, sono rimasti confinati nel Veneto. ‘Oggi abbiamo degli indizi, degli elementi e degli eventi correlati che rimarcano la necessità di un chiarimento scientifico. Per la nostra salute e l’economia del Comune centrata su pesca e turismo, ma anche per il Parco del Delta del Po della cui interregionalità si sta ragionando – dice il sindaco Fabbri – L’impianto di Porto Viro è fuori dai confini della biosfera protetta, ma non è lontano. Non si può dimenticare la delicatezza di un’area unica d’importanza Unesco’. Carla Ferrari, direttrice di Daphne la struttura oceanografica di Arpa Emilia-Romagna è a sua volta in attesa di risposte ufficiali. ‘Ancora oggi continuo a non avere conoscenza degli effetti del rigassificatore sull’habitat marino. Non ho visto alcun numero – dice – Sono convinta dell’importanza di conoscere le cose, perché l’impianto opera in un’area dai livelli trofici elevati, è quindi indispensabile verificare eventuali impatti che potrebbero avere riflessi negativi sulla produttività’. Dice qualcosa di più il biologo Carlo Franzosini del Wwf di Trieste: ‘La questione non è quanto si spende per i monitoraggi, ma cosa si cerca e in che modo – dice – tra i tanti dati messi a disposizione finora c’è l’indicazione di un ammanco di uova di pesce, è li che vanno approfondite le indagini per sapere quante ne ne vengono ingoiate e distrutte durate la rigassificazione. Ad approfondire la ricerca è bene sia un ente super partes, pagato da Adriatic e scelto di comune accordo con i pescatori. A quel punto Ispra potrà, in un secondo momento, convalidare i dati’. E ancora: ‘Nelle valutazioni di Ispra, confrontando le concentrazioni delle uova di pesce con la posizione delle stazioni si rileva che nei campioni delle stazioni TE138 e TE140, poste a 100 metri rispettivamente a nord ed est della struttura, si rilevano 119,36 e 298,80 uova/100 m3, mentre si rilevano i valori di 40,66 e 81,02 uova/100 m3 nelle analoghe stazioni TE131 e TE136 situate a 100 metri rispettivamente a sud sotto corrente dello scarico e ad ovest sul lato dell’aspirazione dell’acqua. E’ assurdo continuare a chiedere all’oste se il suo vino è buono’. A questo punto, solo il Ministero dell’Ambiente, può prendere nuove decisioni e avere l’ultima parola.
Corsa al petrolio nell’Adriatico
Oggi è il rigassificatore, o sarebbe meglio dire i rigassificatori a ciclo aperto, ma domani lo scenario potrebbe peggiorare. Né è convinto l’eurodeputato Zanoni, intimorito dalla corsa al petrolio nell’Adriatico orientale, dove a settembre la società norvegese Spectrum su richiesta della Croazia ha esplorato i fondali con la nave da ricerca Northern Explorer, una cannoniera che, racconta Francesco Battistini sul Corriere della sera del 2 febbraio, spara onde sonore da 300 decibil sul fondo. Il motivo sarebbe la scoperta di un giacimento di 12 mila chilometri quadrati: una miniera di barili. Un sollievo per il Pil croato. E un business per una ventina di compagnie petrolifere tra cui Exxon Mobile ed Eni ‘Dovessero fiorire delle piattaforme esporremmo un mare chiuso come il nostro a dei pericoli irreparabili, allora altro che rigassificatori. I pericoli aumenterebbero in modo esponenziale’.
A leggere la bibliografia posta nell’ultima pagina, si capisce subito che questo libro farà volare alto. L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore (edizioni Utet 2013) di Michela Marzano non è un romanzo, ma sta tra il saggio, il commentario e il diario attraverso cui l’autrice narra di sé, ma parla di noi, di tutti. Nessun intento pedagogico, ogni cosa è in discussione, anche i pensieri presi a prestito da Stendhal, Lacan, Bauman, Pascal, Fromm per citarne solo alcuni di quelli che la Marzano affronta. E poi ci sono i tweet per dialogare in rete, spazio non meno importante di confronto e cognizione.
L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore è un libro che parla di bisogni intimi, personali e già adulti, ma che rimbalzano indietro a radici lontane, alle perdite, all’infanzia, alla famiglia e al legame con i genitori. Ma se l’amore è tutto, a chi lo possiamo chiedere? E quando manca qualcosa? Perchè qualcosa manca sempre. Chi può colmare e soddisfare? La Marzano si chiede se il principe azzurro sia l’idealizzazione a cui ricorrere oppure se si debba pensare che quel tutto, forse, non sarà mai pieno del tutto.
L’amore, allora, è altro rispetto al vuoto che ciascuno si porta dentro e, pertanto, non potrà colmarlo “anche l’amore più perfetto porta in sè il germe dell’incompiutezza”. Se c’è un abisso, rimarrà.
E poi il problema delle aspettative: un automatismo che si innesca molto facilmente nel rapporto a due, dimenticandoci che l’altro è diverso da noi, come se ci dovesse essere una compensazione, una precisione millimetrica in ciò che io vorrei da te e in ciò che tu riesci a darmi e che non è mai come io vorrei. Illuminante la definizione che la Marzano dà: l’amore è “anticapitalista”, non calcola debiti e crediti, è fuori dalla logica di un mercato dei sentimenti, dà e riceve senza la bilancia e senza bilanciare le parti. L’amore non sazia, ma alimenta altre domande che seguono delle risposte in un dinamismo che non concepisce logica nè calcolo. Ma nemmeno quantità e allora alla domanda #matantoquanto, lanciata su twitter, nessun peso nè misura sono stati trovati.
L’amore, olisticamente inteso, è un tutto poco alla volta, che sfugge in continuazione, che non si possiede mai, muta e non si esaurisce. La tentazione di fagocitare l’oggetto dell’amore è forte, verrebbe da trovargli un posto laddove ci sembra che manchi qualcosa o forse tutto. Un posto dove l’altro non vorrà stare perchè non può essere un rimedio alle offese della nostra esistenza.
L’amore, sostiene la Marzano, è libertà dell’essere, cioè di essere, negli errori, nelle paure, nei propri schemi e reiterazioni, di essere felici oppure tristi, ma soprattutto “liberi di niente. Tranne che di sapersi non-liberi”.
L’amore è accadimento, incertezza che si sottrae all’immobilità di una stabilità così rassicurante e se si smette di cercare il lieto fine e di chiedere ciò che l’altro non può dare, si potrebbe anche scoprire, conclude la Marzano, che “quando di amore ce n’è tanto, il resto non importa”.
Da SENDAI – Tre settimane fa è iniziato a nevicare e, dopo il primo giorno, la nevicata aveva già guadagnato la medaglia di bronzo fra le più intense nevicate degli ultimi 45 anni avvenute a Sendai, Giappone settentrionale. Poi ha continuato a nevicare, e giovedì 13 febbraio la nevicata ha finalmente guadagnato la medaglia d’oro come la più importante di sempre, raggiungendo “quota” 40!!! Andando sul particolare: i primi eventi hanno registrato neve ghiacciata e secca, poi neve umida e pesante, ultima nevicata con neve “saccarina”… non sto scherzando, è proprio il termine tecnico, anni fa feci un corso di nivologia, ossia scienza che studia le caratteristiche fisico-chimiche della neve.
Comunque, dopo l’evento i cittadini di Sendai ne andavano orgogliosi, tanto che associavano al giornaliero “SSSamui ne!!!” (“fa freddo eh!”) un sorriso ed uno sguardo orgoglioso, ma la città era andata in tilt. Alcuni giorni fa Yasu, il mio amico e collega universitario, aveva prenotato in un ristorantino tradizionale, gestito da una signora gentilissima che non può servire più di dieci coperti a serata. Yasu era tutto contento perché dalla signora si gustano piatti rari e ricercati, ma in particolare perché andare lì significa bere birra e sakè a volontà! Purtroppo però la copiosa nevicata ha di fatto paralizzato il traffico di Sendai, bloccato ogni attività e cancellato ogni appuntamento, tra cui la nostra “alcolica” cenetta.
Sendai, la grande nevicata del 13 febbraio
La città si trova al livello del mare, esiste anche il porto commerciale, mentre il campus universitario è su una collina alta un po’ più di 100 metri. I tre tornanti che portano dal campus universitario alla città rappresentano la via per l’inferno per i poveri giapponesi. Sono sufficienti infatti pochi centimetri di neve per creare tamponamenti o auto fuori strada. Infatti, quella sera il traffico sulla collina era completamente bloccato perché ci sono stati “molti incidenti”… forse tre o quattro, ma sufficienti per passare la notte al gelo, viste le lunghe procedure di valutazione dell’incidente (i giapponesi sono precisi).
La mattina dopo Sendai si è svegliata sotto un sole stupendo che illuminava il bianco candore della nevicata della sera precedente. Ma i giapponesi erano nel panico totale! Ho visto gente con catene montate che guidava ai 10 chilometri all’ora sui viali del centro, automobilisti con la testa fuori dal finestrino per meglio riconoscere le insidie della strade (ma c’è la neve non la nebbia!!!). Anche se la neve è lungo i bordi delle strade, i giapponesi montano le catene.
Sendai, la grande nevicata del 13 febbraio
I pedoni invece, abituati a sfrecciare camminando sui larghi marciapiedi, devono assumere il famigerato “passo da ghiaccio”: chinati su se stessi, concentrati a riconoscere qualsiasi piccola asperità del marciapiede innevato, si muovono con piccoli passi ad alta frequenza, ancheggiando con le braccia penzolanti lontane dal corpo per aumentare l’equilibrio! Se incroci il loro sguardo capisci che: “Lascia stare! Sono impegnatissimo! Non vedi che si può scivolare?”.
Ovviamente le ragazze portano tacchi a spillo e gli uomini (specialmente i business-men, quelli eternamente in giacca nera, cravatta e valigetta porta documenti) non possono fare a meno delle loro scarpe di pelle nera con suola rigorosamente liscia e rigida di cuoio. Le espressioni dei volti intenti in questi atti di generoso equilibrismo circense sono davvero strane. Mi sa che il teatro Kabuki sia stato proprio suggerito al suo fondatore dai gesti dei suoi concittadini durante una copiosa nevicata!
Morale: noi ferraresi non lamentiamoci troppo delle buche attorno ai marciapiedi del Castello, potrebbe sempre andar peggio… trovarsi sotto una copiosa nevicata su un largo marciapiede a Sendai! Ed incrociando lo sguardo con un giapponese intento nel suo passo da ghiaccio, esclamare: “Ehi! Fat’in là! Chi ass’ slissa c’am par d’essar in cusina ad mié muier quand la friz i grustal!”.
Davide Bassi è ricercatore e professore aggregato in Paleontologia e Paleoecologia del Dipartimento di Fisica e scienze della terra dell’Università degli studi di Ferrara. A Sendai è visiting professor presso la Tohoku University Museum (Institute of Geology and Paleontology, Graduate School of Science)
SEGUE – In regola. Da ogni punto di vista. Con buona pace di chi è convinto del contrario. ‘La sicurezza fa parte della nostra filosofia aziendale. Prima tra tutti quella dell’habitat nel quale operiamo’, dice Alessandro Carlesimo responsabile delle relazioni esterne di Adriatic Lng, la multinazionale che gestisce il terminale gasiero 15 chilometri al largo di Porto Viro inaugurato nel 2009. L’idea di essere identificati come l’impianto che potrebbe aver originato l’inasprirsi della crisi dell’ecosistema marino, non solo non piace alla società, ma contrasta con le risultanze del piano di monitoraggio approvato dal Ministero dell’Ambiente, condotto da Ispra, l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, in collaborazione con Arpa Veneto. Premiata come migliore infrastruttura mondiale nell’ambito della XII° edizione dei Platts Global Energy Award, l’isola d’acciaio e cemento armato adagiata sul fondale, trasforma il gas liquido naturale in metano sfruttando il calore dell’acqua di mare. Un’operazione che garantisce il 10 per cento del consumo nazionale di metano, la fonte di energia più usata dagli italiani. A casa e sul lavoro.
Alessandro Carlesimo responsabile relazioni esterne di Adriatic Lng
‘Abbiamo adottato le tecnologie migliori per l’efficienza energetica e la salvaguardia ambientale – continua – L’energia termica necessaria agli impianti di rigassificazione è fornita dall’acqua di mare, il suo calore e i fumi delle turbine a gas, innescano un ciclo di recupero termico in linea con le normative italiane. Il risultato è un minor consumo di energia rispetto ad altri rigassificatori e minori emissioni di anidride carbonica. Lo sforzo c’è. E il prezzo pagato dall’habitat per l’energia è contenuto al minimo. ‘Nessun danno all’ecosistema, nessuna modifica. E’ tutto certificato – spiega – Nelle barriere sottomarine create a circa 700 metri dall’impianto si sono sviluppati i pesci. Ci sembra un ottimo segnale. Un segnale in netto contrasto con le conclusioni del comitato scientifico de Wwf di Trieste, secondo il quale i rigassificatori a ciclo aperto come quello di Porto Viro, sterilizzano l’acqua e la rendono priva di nutrimento per le creature del marine. ‘I dati elaborati da Ispra non dicono le stesse cose’, insiste Carlesimo.
L’Adriatico è malato da anni
Da anni la salute dell’Adriatico è precaria, lo è da prima dell’inaugurazione del rigassificatore incluso a pieno titolo nelle scelte di approvvigionamento energetico decise dal 2006 con l’obiettivo di divenire il Paese d’ingresso del gas proveniente da sud e destinato al resto dell’Europa. Caratterizzata da alti bassi, inquinamento di vario tipo, cambiamenti climatici, pesca selvaggia, innalzamento della temperatura. Gli equilibri sono fragili ‘ma non per questo la colpa deve ricadere sull’impianto’, precisa Carlesimo. Altrimenti non ci sarebbero tanti rigassificatori nelle acque del Mediterraneo e altri in arrivo, il più grande in Francia. Da noi, dove la scelta è diversificare i Paesi d’importazione del gas per allentare legami troppo vincolanti, ne funzionano già tre e se ne prevedono 11, di cui cinque approvati. E questione di scelte energetiche’.
Il problema è la lavorazione a ciclo aperto
A creare ansia però non è tanto la presenza di un rigassificatore, tutti hanno bisogno di energia per scaldarsi, cucinare o illuminarsi, quanto la lavorazione a ‘ciclo aperto’, ‘combinato’ nel caso di Porto Viro. Una preoccupazione a cui nel 2006 il governatore dell’Alabama Rilly spaventato dall’impatto sull’ambiente marino, ha messo fine negando il permesso di costruire l’impianto fino a quando la compagnia ConocoPhillips nel 2008 ha cambiato il metodo di lavorazione escludendo l’uso di acqua di mare. Cosa che peraltro non succede nemmeno a La Spezia, dove la struttura di Panigaglia nata nel ’71, rigassifica bruciando gas con un vaporizzatore a fiamma sommersa. Quesito: l’isola d’acciaio può nell’eventualità convertire la propria lavorazione tagliando fuori il mare dal processo produttivo? ‘Sì, ma non sarebbe conveniente – spiega Carlesimo – si perderebbe una grande percentuale della capacità di rigassificazione’. Per un’azienda, come economia insegna, la diminuzione di produzione non è l’obiettivo più ambito. E non c’è nulla di strano.
“Comprendiamo le preoccupazioni, ma assicuriamo che non ci sono pericoli”
Secondo l’Lng Journal del luglio 2006, il piano ‘b’, la rigassificazione a ciclo chiuso compensabile con la riforestazione per mitigare le emissione di anidride carbonica, comporta l’impiego dell’ 1, 5 – 2 per cento del gas stoccato dall’impianto. Perché rinunciarvi quando si hanno le carte in regola? Non c’è motivo, tanto più che non ci sono ragioni d’allarme. Quanto alla richiesta di un supplemento di indagine da inserire nel piano di monitoraggio, che già comporta un esborso a sei zeri da parte di Adriatic, risulta piuttosto improbabile. ‘Pur comprendendo le preoccupazioni di chi le ha manifestate – continua – non possiamo trasformarci nell’osservatorio dell’Alto Adriatico, come azienda è logico intervenire con il monitoraggio nelle immediate vicinanze del terminal. Per noi l’obiettivo è solo quello di capire come interagisce l’ambiente con il nostro lavoro’. E ancora. ‘Posso dire che non c’è pericolo d’inquinamento né di modifica dell’ecosistema – continua – Le schiume che tanto spaventano non sono pericolose, si tratta di un fenomeno naturale, di una turbolenza meccanica che non contiene nulla di inquinante’. Sul processo per danneggiamento aggravato ambientale di cui devono rispondere due suoi dirigenti, Adriatic non interviene se non per ribadire l’estraneità agli episodi contestati, relativi alla comparsa di schiume che ha hanno lambito la costa. ‘Anche il cloro usato durante il processo di rigassificazione rientra nei parametri di legge. Non rappresenta un pericolo – dice – La percentuale contenuta in ciascun litro d’acqua è inferiore ai 2 milligrammi per litro.’
Le tre fasi di campionamento di Ispra, effettuate prima dei lavori, durante e dopo l’inaugurazione dell’impianto, hanno tenuto conto di differenti criteri di monitoraggio tra cui l’analisi dei sedimenti sul fondale, della dimensione dei pesci, del giro di correnti. La massa d’acqua restituita al mare al termine della lavorazione ha una temperatura inferiore a quella di partenza di 4.7 gradi. ‘Non si può parlare di shock termico, tanto più che torna normale in meno di centro metri di distanza’. Nulla di cui preoccuparsi, stando a queste affermazioni: l’impatto è sotto controllo.
Una sera, un regista turco, un aereo, una madre, una famiglia, due città, Roma e Istanbul. L’amore. Ci sono tutti gli ingredienti, insieme a colori, sapori, odori, profumi, ricordi, per una lettura intensa e indimenticabile. A dire il vero anche un po’ “sconvolgente” perché in una certa misura incita a strapparsi di dosso la vita come un vecchio vestito smesso e malconcio, per ricominciare daccapo.
Questo libro è una vera dichiarazione d’amore all’amore, ad una città, Istanbul, rossa come i suoi vecchi tram, i melograni, i tramonti sul Bosforo, i carretti dei venditori di simit (il pane croccante a forma circolare), le ciliegie di Neruda. C’è poi il rosso vermiglio di una bandiera, del sorgere del sole (che è solo per i sognatori), dell’abito della ragazza che va incontro ai poliziotti con gli idranti per difendere gli alberi di Gezi Park, dei garofani dei suoi compagni manifestanti, del colletto della splendida donna in copertina, della tuta da ginnastica che, quella stessa donna, la madre di Ferzan Ozpetek, chiedeva per la fisioterapia dopo un pesante intervento, del suo smalto e del suo rossetto.
L’amore (il rosso) è il tema che percorre tutto il libro del regista di Cuore sacro, di Saturno contro, di Mine vaganti, Magnifica presenza e del più recente Allacciate le cinture. L’amore di quando si parte per rivedere la propria casa dell’infanzia, che non ci abbandona mai; di quando ci si affaccia ad una finestra e si sente il profumo dei tigli che quasi stordiscono, insieme alla brezza marina; di quando si torna indietro con la memoria ai giardini delle ville dove si giocava da bambini; di quando si trovano, in una scatola, le gondole veneziane o i souvenir della nonna un tempo allineati sulle credenze; di quando, ancora, si vedono vecchie cartoline in bianco e nero della propria città o della propria famiglia; di quando si ritrova la scrittura elegante, la curata calligrafia dal sapore antico, dietro fotografie che facevano da segnalibro a qualche antico lettore; di quando, infine, la tua città ti aspetta.
Ozpetek ripercorre tutte queste fasi, mentre il suo destino si incrocia con quello di una sconosciuta, Anna, che si trova sullo stesso aereo che li porta alla Istanbul di ieri e di oggi. Le vite di Anna, del marito Michele e degli amici Andrea ed Elena, che viaggiano con loro, si intrecceranno in un amaro epilogo, all’ombra di gelatinosi, appiccicaticci e zuccherati lokum.
C’è molta hüzün, malinconia, sentimento misto di tristezza e nostalgia. Alcune immagini sono antiche, in bianco e nero. Vi sono ricordi, oggetti, contenitori di cristallo ottomano per l’acqua di rose, dai petali dipinti e iridescenti, ritratti a olio di sultani, cornici scurite, fotografie sbiadite.
Ma ci sono anche tanti colori, il blu della Moschea di Rüsyem Pasha e delle sue maioliche, l’azzurro del cielo, il bianco del marmo, il rosso-arancio dei piattini del tè, le più svariate tonalità dei tulipani, l’argento delle cornici delle vecchie foto, il nero del pianoforte che nessuno suonava, il biondo venere dei capelli della madre, pettinanti ad onde, il giorno del suo matrimonio, il marrone intenso del caffè, l’oro del buio di Santa Sofia, il caleidoscopio del Gran Bazar, il blu dei jeans e il nero dei veli, il bianco dei teli di cotone, l’ocra della spiaggia, il bianco delle calli nel vaso cristallino illuminato dai raggi della luna, il giallo-verde dell’Orient Express, che ho scoperto dare anche il nome a una varietà di rose, meravigliosi fiori gialli con sfumature rosa che formano uno splendido contrasto con le foglie verdi dalle tonalità bronzee, il viola del glicine della villa dei vicini. E’ proprio qui il passaggio, a mio avviso, più bello del libro. “Ricordo i proprietari della villa, due signori anziani. Anziani… forse non avevano neppure sessant’anni, ma ai miei occhi di bambino erano, certo, anziani. Lui tornava a casa ogni sera, poco prima del tramonto, e la chiamava, spingendo il cancello di ferro: «Serap, Serap!». Era il suo nome. Ma pronunciato con voce così carezzevole, così dolce, così piena di aspettative che era come se, ogni sera, le mormorasse: amore, amore… E lei, una bella signora, una pittrice, apriva il portone, usciva, lo aspettava sulla scalinata. E lo abbracciava, forte, come se fosse sempre il primo giorno, come se non lo vedesse da mesi, da anni, e invece era solo uscito quel mattino. Le donne del vicinato? Be’, erano invidiose. A noi bambini, invece, faceva ridere quella scena troppo romantica. Serap, Serap… ripetevamo, canzonandolo. Ma adesso so che è questo il punto dell’amore: avere qualcuno che ti aspetta davanti alla porta, la sera. Qualcuno che ti abbraccia. Qualcuno tra le cui braccia, anche se solo per un giorno e non per sempre, ti senti a casa. A me è successo: oggi, a Roma, mi aspetta un uomo senza il quale so che non potrei più vivere. Il mio unico eterno amore”. In questo passaggio meraviglioso, che ho voluto riportarvi nella sua integralità, si sintetizza tutto l’amore che affolla le pagine, l’abbraccio caldo che ti accoglie e ti fa sentire a casa. Lo spazio non esiste più.
Oltre all’amore e ai colori, ci sono, poi, tanti profumi, quelli del pane tostato, dei dolci zuccherosissimi e mielosi, della cucina dove si preparava colazione e pranzo, delle spezie, del tè in salotto, dei biscotti appena sfornati, dello sciroppo di cui erano intrisi i dolci finissimi capelli d’angelo, i kadayif, del pesmelba ricoperto di panna, gelato e miele della pasticceria Baylan, del vento, delle ombre, del silenzio. Fra i sapori dell’infanzia risuonano i versi di Nazim Hikmet.
Ozpetek affonda ancora nell’amore, quando parla della sua prima e unica passione, Yusuf, quando ricorda il padre che non c’era mai, quando scopre che la propria madre anziana è innamorata, quando ci fa capire che la sua educazione sentimentale è stata tutta al femminile, maturata in una sorta di originale harem personale. Quello della Zia Betul e della zia Güzin, bellissime, moderne, emancipate e sempre elegantissime, single, che bevevano Cinzano e amavano giocare a imitare le femmes fatales. Zia Betul – come il regista la chiama nel libro, ma non è il suo vero nome – è stata la sua maestra di aquiloni. Un giorno gli aveva detto: “vieni, perché ho comprato la carta per fare l’aquilone. Un uomo che non riesce a far volare un aquilone, non riesce a far felice una donna”. A lui, bambino, ciò sembrava follia e, invece, la zia voleva dirgli che il modo di far felice una donna ha a che fare con la creatività, con il costruire qualcosa insieme. Lo avrebbe capito dopo.
E poi c’è l’affascinante nonna, una vera principessa ottomana, che lo portò per la prima volta al cinema, lo storico e oggi scomparso Emek Sinemasi, a vedere Cleopatra, che Ozpetek definisce il primo amore che lo porterà a Roma, città del cinema. E c’è l’amore per i ribelli, per coloro che, con un sorriso, provano a camminare a testa alta. Perché riluci d’oro dove la vita ti ha scheggiato.
In una recente intervista, il regista ha ricordato che “L’amore è in tutte le cose che facciamo. Non c’è amicizia senza amore, non c’è la solidarietà. Tempo fa, una mattina prestissimo, saranno state circa le sette e un quarto, mi chiama la badante di mia madre. Come al solito mette giù la cornetta perché richiami io. Stavo andando a girare “Magnifica presenza”, a Cinecittà. Ho telefonato e mi ha passato mia madre. “Ricordati – mi ha detto – che niente è più importante dell’amore””.
E questo libro ci insegna, con le parole dello stesso Ozpetek, che è meglio un incendio che un cuore d’inverno, che l’amore cancella la solitudine, che egli sceglie tra la folla, che tutto quello che abbiamo imparato sull’amore è solo che l’amore esiste, “che l’amore non sa né leggere né scrivere. Che nei sentimenti siamo guidati da leggi misteriose perché non esiste mai un motivo per cui ti innamori. Succede e basta. E’ un entrare nel mistero: bisogna superare il confine, varcare la soglia. E cercare di rimanerci, in questo mistero, il più a lungo possibile”. Semplice.
Ferzan Ozpetek, Rosso Istanbul, Mondadori, 2013, 111 pp.
I sogni sono fantasmi non sempre coscienti, anzi quasi mai coscienti, sono irresponsabili, fanno quello che vogliono, appaiono, scompaiono, vanno, vengono come piace a loro e non alla mente che scelgono per il loro teatrino. Così avviene che di notte s’inseriscano, non chiamati, nei tuoi più reconditi pensieri e li sconvolgano. Stanotte per esempio, mi è arrivata dentro, nella testa dormiente, la signora Filomena, detta anche Filo, è una conoscente che abita dalle mie parti, ex maestra, donna acculturata, ama ancora la poesia di Leopardi e quella di Pascoli, spesso cita le odi più famose, quando incontra la Silvia, comune amica, non c’è volta che le reciti “Silvia rimembri ancora quel tempo di tua vita…”, citazione che termina immancabilmente con una risata di entrambe le donne, e un saluto cordiale.
Bene: tra me e la maestra Filomena non c’è alcuna ragione per cui lei si prenda l’ardire di occupare i miei pensieri notturni, eppure, questa notte eccola lì la Filomena. Eravamo in una valle tra montagne alte e ancora bianche di neve e lei, la Filomena, stava seduta ansante su un masso. Mi guardava smarrita. “Non ce la faccio”, disse. A far che cosa?, le chiesi. “A salire sul Monte Blog, mi sono arrampicata fino a escoriami le mani, ma niente da fare, sono arrivata vicina alla vetta, ma lì è comparso un signore con barba e capelli bianchi scompigliati che mi ha intimato di non fare altri passi, altrimenti mi avrebbe dato un calcio e ributtato a valle. Lei non può entrare nella nostra casa, mi ha detto quel signore maleducato, lei è troppo vecchia, mi ha detto, e non fa parte del nostro popolo. Io gli ho risposto che ognuno ha i suoi pensieri, le sue idee, le sue convinzioni, se non si è d’accordo basta confrontarsi e lui: ci sono io a pensare per voi valligiani, e noi soltanto, io e quelli che sono d’accordo con me, possiamo salire sul Monte Blog, da dove osserviamo, benediciamo, polemizziamo, giudichiamo e lei, cara signora non è in grado di capire, di parlare con noi che il dio della politica ha scelto come suoi rappresentanti in terra.
Così ha detto quel signore biancobarbuto, che poi ha urlato vada, vada dai suoi simili ignoranti. Ho cercato di ribattere “e la democrazia?”, gli ho chiesto e poi: se uno non ha i mezzi per salire al Blog, che deve fare? Quello che vuole, basta che stia lontano dai giovani che mi stanno attorno, quelli sono la democrazia, voi vecchi ignoranti, siete finiti, la democrazia, signora mia, è per pochi eletti… Proprio così mi ha detto quell’omaccio corpulento, non lo voglio più vedere, che debbo fare? Signora Filomena, le ho risposto, dia retta a me, non venga più nei miei sogni.
Porta la firma del regista ferrarese Paolo Cirelli, il documentario che andrà in onda questa sera alle 21 su Deejay Tv. Si chiama The Hardest, e racconta la storia degli unici due partecipanti, due italiani, alla Lapland Extreme Challenge, la più difficile gara a piedi attraverso la Lapponia, disputata lo scorso gennaio.
Prodotto dalla società ferrarese Pubbliteam, specializzata in format sportivi, il documentario sarà proposto all’interno del programma Fino alla fine del mondo, dedicato all’endurance e fortemente voluto dal direttore artistico Linus, grande maratoneta.
Cirelli, che si è formato alla London Film School di Londra, lavora da anni per Sky, Rai ed Mtv.
E’ autore dei cortometraggi La gran funa [vedi] e Gaynster, La gran funa 2 [vedi], oltre che dei videoclip musicali Bellezza dei Marlene Kunz, [vedi], e il più recente My girlfriend dei ferraresi Thee Mutandas [vedi].
Ha curato la regia della diretta web per lo Stupido Hotel Tour di Vasco Rossi e di vari documentari tra cui uno monografico per lo stilista Romeo Gigli ed un altro sempre per Deejay Tv dal titolo Running to the sky, su una gara di corsa in montagna [vedi].
“Non ho voluto raccontare solo una sfida estrema a meno quaranta gradi – dice Cirelli – ma anche un’incredibile storia di amicizia, quella di due romagnoli, Fabio Pasini 48 anni, titolare di una palestra, e Pietro Donati, 33 anni, ingegnere, che si sono allenati fianco a fianco per cimentarsi in quest’impresa ai limiti della sopravvivenza, in uno dei luoghi più freddi del mondo.
Entrambi di Cattolica, cresciuti in una terra calda, vicino al mare, sono stati gli unici due pazzi che hanno avuto il coraggio di iscriversi a questa gara di 900 chilometri a piedi tra i ghiacci, senza percorso e senza punti di ristoro. The Hardest era nato come un semplice documentario sportivo, una sorta di diario per immagini, ma un brutto incidente che è capitato a Fabio, ha stravolto i loro piani ed anche i miei.
Non c’era più solo la gara di mezzo, ma anche la vita, e l’incredibile solidarietà tra due persone che va al di là di tutto. Io li ho seguiti a distanza ogni giorno, grazie ad un operatore specializzato che era con loro, Laurent Colombo, ex atleta di triathlon, perché per girare in quelle condizioni bisogna essere, oltre che folli, anche preparati.
Ho riscritto la sceneggiatura in tempo reale, adattandola agli imprevisti che si sono susseguiti, e il risultato finale è molto di più di quel che avevo immaginato”.
Gentile Prof. Fioravanti oltre la metà delle cose da Lei suggerite sono già patrimonio di una azione concreta e programmata da anni, mi riferisco alla centralità dell’investimento educativo, alla scelta di fare cerniera fra cultura e scuola testimoniata dalla rinnovata collaborazione fra questi due mondi (casa delle Arti e Ferrara Arte) separate fino a ieri, alla riconosciuta autonomia della Istituzione Scuola voluta fortemente da tutti gli operatori del sistema infanzia e dallo scrivente tutelata.
Progetti come quello della educazione all’arte attraverso pubblicazioni e laboratori testimoniano concretamente e non con immaginifiche ricostruzione come in questi anni penosi e vuoti, ci sia chi ha continuato ad investire e non solo sulle strutture edili, ma anche sul sistema città educante. La scuola è oggetto di politiche sulla sicurezza urbana, di urbanistica partecipata, di educazione ambientale, di sperimentazione teatrale, di educazione civica ed alla Costituzione… Sembra leggendo il Suo intervento che a Ferrara si spazzino solo le aule!
Forse sfugge a qualcuno che il Presidente della Istituzione Scuola a Ferrara è il Sindaco che partecipa personalmente alle riunioni con i comitati dei genitori, con le insegnanti, che stamattina ha dato il via (in assenza di assessori e sindaci d’altri comuni) alla commissione tecnica distrettuale, che pubblica perfino veda un po’, dal basso della propria incompetenza, su riviste specializzate articoli sulla esperienza ferrarese ricercata anche ai convegni regionali (ad es. CGIL scuola).
Questa presidenza “miope” è quella che ha consentito dopo la chiusura del cda per le dimissioni dei partecipanti, di ovviare al blocco delle assunzioni nella scuola, di avviare confronti di merito con il sindacato e con le famiglie, di ampliare il servizio educativo aprendo nuovi posti nido e di occuparsi dei guai, non pochi, che l’autonomia scolastica e la concorrenza fra le direzioni tese all’accaparramento degli studenti ha creato alla corretta gestione delle strutture, scatenando reazioni che solo con le nuove scuole inaugurate si è potuta affrontare, scuole nuove ovviamente frutto di improvvisazione in tempi di risorse certe ed abbondanti.
Mi meraviglio non poco che si snobbino i “servizi”, quasi che il quotidiano coprire gli spazi statali sul sostegno e sul pre scuola sia cosa “altra” dal “collocare al centro dell’interesse della comunità lo sviluppo delle scuole”.
Belle parole, vorrei davvero un incontro pubblico per discutere con Lei e gli autorevoli amici, commentatori del suo pur pregevole pezzo, cosa voglia dire fare scuola in un comune italiano e non in una scuola di Newcastel.
A nome di chi fatica invoco rispetto, non ragione!
Il Presidente della Istituzione Scuola Comune di Ferrara
Caro sindaco, la ringraziamo innanzitutto per l’attenzione che ci riserva e per avere offerto ai lettori un’articolata argomentazione del suo punto di vista. Il professor Giovanni Fioravanti, da noi interpellato, raccoglie con piacere il suo invito a sviluppare un dialogo in sede pubblica sui temi proposti. E Ferraraitalia si rende disponibile a organizzare l’incontro, avendo cura di coinvolgere anche gli “autorevoli amici commentatori” a cui lei, pure, fa riferimento.
(sg)
Ferrara è una città viva che si offre alla lettura: le sue strade e i suoi vicoli sono come «il filo conduttore di un racconto», come scrisse della Berlino degli anni Venti lo scrittore Franz Hessel. In Italia, e in Europa, è sempre più difficile visitare una città in cui è possibile riscoprire quella «capacità di narrare» così intrinseca a Ferrara, la città degli Estensi. «Il modo in cui Bassani ha raccontato Ferrara ha attirato l’attenzione dei turisti sulla città», scrisse Alfred Andersch, uno dei più famosi scrittori tedeschi del dopoguerra, nel saggio Sulle tracce dei Finzi-Contini. Molti visitatori stranieri associano quindi Ferrara a Il romanzo di Ferrara di Bassani, cercano il giardino dei Finzi-Contini e, non trovandolo, rimangono delusi.
Ma il visitatore straniero che ha modo di fermarsi più a lungo, scopre, al di là delle vie narrate da Giorgio Bassani, anche nuove tracce che portano ad altri racconti, romanzi, saggi e, perché no, anche a poesie non ancora scritte. Nelle città che si affacciano sul Po, viene ancora attribuito un significato particolare alla lentezza che trova forse la sua migliore espressione nella “cultura della bicicletta”. A Ferrara si contano così tante biciclette come in nessun’altra città italiana: non si tratta mai di biciclette di lusso o mountain-bike raffinate; due ruote e un telaio non troppo arrugginito sono sufficienti per la maggior parte dei ciclisti; anche luci e dinamo non sempre funzionano a dovere. Su questi veicoli – che in Germania verrebbero considerati un’infrazione a tutte le regole della circolazione – si spostano con grande disinvoltura distinti impiegati di banca ed eleganti commesse di boutique alla moda, che si recano al lavoro. Gli anziani sono maestri nell’arte del passeggio in bici: si muovono sfidando il limite dell’immobilità, per potersi intrattenere in tutta tranquillità con il ciclista a fianco. Nell’era dell’alta velocità, per i ciclisti della Bassa padana il concetto del tempo è legato a una cultura ormai tramontata: muoversi, mantenendo ancora una parvenza di immobilità, senza sacrificare la comunicazione allo sviluppo.
Che, in passato, la bicicletta sia stata qualcosa di diverso da un attrezzo ecologicamente corretto e utile per mantenersi in forma, lo si può apprendere osservando il gusto e la flemma con cui montano in bici gli abitanti dei villaggi lungo le sponde del Po. Ma, appena giunti sulle principali arterie di collegamento, questa flemma ammirevole si trasforma in una ridicola nostalgia, in un anacronismo, nella dittatura del tempo del Ventesimo secolo.
Un cardellino è tenuto legato con una catenella sopra alla scatola di becchime; l’altro è libero, posato sull’asta in uno spazio verde dove può trovare cibo, acqua e altri volatili. Il primo è Il Cardellino dipinto nel ‘600 dal pittore olandese Carel Fabritius e in mostra in questi mesi a Bologna, accanto alla Ragazza con l’orecchino di perla. L’altro è un cardellino che vive vicino a noi: nove gli esemplari che il Giardino delle Capinere, gestito dalla Lipu di Ferrara, ha preso in carico nell’ultimo anno, perché trovati feriti e salvati dal Centro di recupero che ha sede in città.
Pochi parlano della bella, piccola tavola dipinta, che sta vicino alla tela della Ragazza tanto famosa. E pochi immaginano che accanto alle mura di Ferrara ci sia un’oasi verde, grande quasi un ettaro, dove incontrare gufi, rapaci o ghiri curati e accuditi nelle voliere del Centro di recupero di animali selvatici e anche creature libere, che arrivano, bevono nel laghetto e mangiano tra le piante o nei contenitori riempiti dai volontari. A prendersi cura di uno spazio che è un tuffo inaspettato in mezzo alla natura sono una cinquantina di attivisti coordinati da Lorenzo Borghi, responsabile della Lipu ferrarese. E proprio il bilancio annuale della Lipu ci ricorda la presenza di questo uccellino nello spazio verde tanto speciale in piena città, nonché all’interno della rassegna sul secolo d’oro dell’arte olandese.
La piccola oasi di verde ferrarese è frutto di sforzi e impegno, descritti nel report presentato nel palazzo municipale con l’assessore comunale all’Ambiente Rossella Zadro e l’assessore provinciale a Flora e fauna Stefano Calderoni. L’attività messa in campo oltre ai cardellini ha fatto arrivare qui oltre 1.300 animali nel corso del 2013; 633 rimessi in libertà, perché tornati in grado di farcela da soli, con uno sforzo di 52 attivisti e oltre 9mila ore di lavoro.
Il Giardino delle Capinere, gestito dalla Lipu a Ferrara in via Porta Catena
“Il cardellino – spiega Lorenzo Borghi – appartiene alla famiglia dei fringuelli e vive nell’area europea che va dal sud di Spagna e Marocco fino al nord di Inghilterra, Francia e, appunto, Olanda”. Non è quindi un caso che il cardellino sia stato rappresentato nel secolo d’oro dell’arte olandese e che nel Ferrarese sia arrivato nei mesi scorsi: è il suo habitat. Non è uno degli uccelli più diffusi. Viene, però, notato per la particolare colorazione. Le ali sono screziate di giallo, nero e bianco e la testa può essere rossa.
A Bologna la tavola dipinta si trova nella penultima stanza di Palazzo Fava, fino al 25 maggio. La sala dopo è quella dedicata alla fanciulla col turbante. Il cardellino è vicino al punto più atteso dell’esposizione com’è giusto che sia, ad anticipare il cammino intrapreso dall’allievo di Carel Fabritius: Vermeer che, appena 15enne, va alla bottega del pittore già affermato. E’ tra le ultime cose che Fabritius dipinge nel 1654, anno della morte prematura, causata dall’esplosione di un magazzino della cittadina olandese di Deft. L’opera è un trompe-l’oeil, ovvero uno di quei quadri che creano l’illusione di trovarti davanti a qualcosa di reale, come se da un momento all’altro la creatura potesse volare. In un volo che lo porta fino a noi.
Il Giardino delle Capinere, via Porta Catena 118 a Ferrara, è aperto per visite guidate ogni mercoledì (ore 15-16,30) e sabato (10-11,30) ma anche in altri giorni su prenotazione allo 0532 772077.
E ora un po’ di pensieri in libertà dopo le sfiancanti performances della due giorni Senato-Camera.
I giornalisti: invasivi. Specie i direttori di giornali o reti. Primo fra tutti “mitraglia” Mentana che strapazza la vera eroina delle 48 ore: quella Sardoni a cui andrebbe dato il premio Oscar di pazienza mentre intervista politici e colleghi che fanno a gara per spararle più grosse (il sorriso sottile di Cazzullo con l’occhietto che chiede approvazione e ammirazione!). Poi mentre la paziente Sardoni sta per infilare una sensata domanda o un ancor più sensato commento, zac! interviene la mitraglietta direttoriale che le toglie non il pane ma il pensiero di bocca.
Poi LUI. La star. Ho apprezzato moltissimo il pezzo di Sebastiano Messina di “La Repubblica” che elenca con paziente filologia l’estrazione dalla borsa di pelle renziana dell’occorrente per sostenere il martiriologio delle dichiarazioni di voto: Iphone, Ipad, rassegna stampa, penna biro, pennarelli colorati (verde e fucsia) e udite! perfino un romanzo, L’arte di correre di Haruki Murakami (poi le carogne dicono che i politici non amano la cultura umanistica…). A conclusione, come nota europeista, Le Monde.
Perizia straordinaria del nostro Primo Ministro nel digitare, scrivere (ah sì: i “pizzini”, con il rappresentante dei 5 stelle che, come un bambinetto capriccioso, si lamenta con la signora maestra delle malefatte del compagnuccio, rivela ai giornalisti la grave malefatta del Renzi scrivano fiorentino che gli manda le missive); e ancora, rispondere al telefono, e perfino, usare quel gesto di porsi la mano davanti alla bocca per parlare quasi labbra a labbra col collaboratore/trice o con i/le membri/e del suo governo. Ricordo una memorabile avvertenza di B. a quel tempo primo ministro e con l’interim degli Esteri che raccomandava ai suoi collaboratori prima dei sussurri scambiati con ambasciatori, capi di Stato, e perfino funzionari, di munirsi di una caramella di menta rinfresca alito. E’ tutto vero! Teste Andrea Camilleri a Firenze mentre gli presentavo un libro a Palazzo Strozzi. In questa parata di gestualità simboliche o metaforiche ecco due momenti di vera commozione e rispetto della e per la politica. Le nobili parole di Emma Bonino che dal palchetto di Largo Argentina rinuncia a ogni risentimento per la mancata riconferma del suo ruolo; poi, visivamente, l’abbraccio tra Letta e Bersani. Il primo che sembra sostenere il secondo che s’accascia tra le sue braccia. Commovente e terribilmente reale.
E questa sera 26 febbraio a “Otto e mezzo” l’intervista con D’Alema: l’occhio ancor più spiritato del solito, il baffo tremulo che sembra voglia ingraziarsi il commentatore del “Il Foglio” Mario Sechi e una tremenda Gruber che vorrebbe portarlo sul discorso dei suoi rapporti con Renzi, ma invano. L’uomo più intelligente che la sinistra abbia avuto negli ultimi decenni che per un profondo senso di sadomasochia è stato il diretto responsabile di tanti fallimenti della sua parte politica e del suo partito. S’impara molto a osservare lo spaventoso potere dei media e come ci si può immolare al suo fascino (o necessità?). Stretto nel suo paltoncino dernier cri ma sicuramente di una taglia inferiore corre il primo ministro all’abbraccio dei ragazzini della scuola veneta da lui visitata – ed è stato un momento apprezzabile come sempre quando pone al centro del suo programma la scuola – poi la fuga inseguito dal branco dei lupi-giornalisti che gli lasciano come preda braccata e spartita sul tavolo dell’intervista un enorme mucchio di microfoni. Alla rinfusa.
E ancora istruttivi i commenti facebook. Lo sdegno per le dichiarazioni di Gotor o di Civati da parte dei renziani di ferro che parlano di queste proteste come provocate da nemici piuttosto che da membri dello stesso partito. Le cautissime esortazioni allo stare uniti o le sboccate e assolutamente non condivisibili proteste di chi pensa, come i pentastellati, che basta postare qualche “malaparola” preferibilmente riguardante la sfera sessuale per esprimere la propria “indignazione”, una parola che per legge vorrei non fosse mai usata dai politici, ma non solo da loro. E nel cocktail di voci, foto, scritte e selfie, mail e dichiarazioni, come evocata dal pensiero profondo, il bisogno del conforto di una musica quale la straordinaria ultima incisione di due concerti di Mozart eseguiti da Abbado con la divina Argerich: un vero testamento spirituale. Oppure ancora l’UNICO Dante che ti solleva, pur immerso com’era nella contingenza della politica, alla realtà della trasfigurazione poetica fino a riveder le stelle del nostro spirito.
E allora puoi anche sorridere di tutto questo agitarsi. Tanto domani nessuno se ne ricorderà.
Da anni Francia e Italia si contendono il primato della classifica dei maggiori produttori mondiali di vino, in un’alternanza che ha dato vita a una sfida ormai da tempo apparentemente senza grosse sorprese.
Il colpo di scena invece non è mancato alla pubblicazione degli ultimi dati, relativi al 2011, che riguardano questa volta la classifica dei maggiori bevitori di vino, stilata dal California Wine Institute e riportata da Winenews, autorevole agenzia quotidiana di comunicazione sul mondo del wine & food. Al di là di ogni aspettativa, i maggiori bevitori di vino al mondo sono risultati gli abitanti della Città del Vaticano, 836 anime (inclusi i circa 250 residenti non cittadini) che occupano un territorio di 0,44 chilometri quadrati all’interno della città di Roma. Con 62,2 litri a persona, gli abitanti del più piccolo paese del mondo superano Andorra, microstato dei Pirenei, al secondo posto con 50,4 litri per 85.000 abitanti. La Francia, colosso del mercato, si trova al quinto posto con 45,6 litri, che equivalgono a 7 miliardi di bottiglie. L’Italia, altro “big” del settore, si aggiudica il nono posto, con 37,6 litri, di pochissimo sotto la Svizzera.
Questa situazione non rispecchia però la graduatoria dei maggiori produttori di vino, che vede nel 2011 in testa la Francia, seguita da Italia, Spagna e Stati Uniti (e dalla Cina, che si fa sempre più vicina).
Ma i grandi produttori sono anche forti bevitori? Se la risposta è affermativa per francesi e italiani, troviamo gli spagnoli solo al 31° posto con 21,6 litri a testa, e gli americani addirittura al 62° con 10,5 litri. La Cina, quinto produttore mondiale di vino, nell’ordine del consumo individuale si piazza 139esima su 224 paesi riportati nella classifica del California Wine Institute, con un consumo pro capite di soli 0,6 litri. Ma i numeri della Cina, si sa, sono enormi, e crescono continuamente. Rispetto al consumo totale di vino, i cinesi battono tutti, con 1865 miliardi di bottiglie di vino vendute (soprattutto rosso). Un dato che non sconvolge, vista la superiorità numerica del paese asiatico, ma che testimonia il crescente interesse della Cina per questo prodotto.
Di fronte ai grandi primati della Repubblica Popolare, che coinvolgono oggi anche il mercato vinicolo, il primato della piccola monarchia cattolica appare ancora più stupefacente, ma è forse destinato, anche se nel lungo periodo, a cedere il passo.
Assistenza alle vittime di mafia e controllo delle aziende sequestrate. Sono gli obiettivi principali dell’intesa firmata nei giorni scorsi da Camere di commercio regionali e associazione antimafia Libera. La collaborazione permetterà a entrambe le realtà di promuovere la cultura delle legalità nelle piccole e medie imprese dell’Emilia-Romagna.
Tra i progetti più rilevanti c’è ‘Sos giustizia’, uno sportello che assiste chi è vittima di mafia. Il servizio è gestito dall’associazione di don Luigi Ciotti, ed entrerà nel menu dei servizi offerti dalle Camere di commercio ai propri iscritti. Unioncamere invece darà una mano a Libera nel mappare e tenere aggionate le informazioni economiche delle aziende e dei beni sequestrati alla criminalità organizzata. Sarà insomma più semplice, da parte dei piccoli e medi imprenditori, ottenere i dati di gestione delle realtà produttive strappate al circuito mafioso. Per conto suo, Unioncamere ha anche elaborato un progetto per mettere a rete il lavoro degli sportelli legalità delle Camere provinciali. «Il rispetto della legalità costituisce un fattore fondamentale per lo sviluppo economico” commenta Alberto Roncarati presidente Unioncamere. «Il sistema camerale -prosegue- crede nella legalità come strumento per contrastare la concorrenza sleale, l’abusivismo, l’irregolarità, i fenomeni mafiosi».
Sebbene non sia considerata ‘terra di mafia’ l’Emilia-Romagna conosce il fenomeno dell’infiltrazione, che passa dal riciclaggio agli stupefacenti, all’estorsione. Secondo gli ultimi rapporti antimafia redatti dalle istituzioni regionali, sono stati oltre cento i beni confiscati in regione.
Mi capita sempre più di frequente di ricevere coppie di genitori che faticano a gestire la relazione con i figli e la loro crescita. Gli adulti, oggi, sembrano essersi smarriti nello stesso mare dove si perdono i figli, senza più alcuna distinzione generazionale.
Prevale il mito della giovinezza perenne, il culto dell’immaturità, che propone una felicità spensierata e priva di responsabilità. La solitudine delle nuove generazioni deriva dalla difficoltà degli adulti nel sostenere il loro ruolo educativo.
Ciò che constato, raccogliendo le storie dei genitori, è che nelle famiglie non c’è più conflitto tra legge e trasgressione, spesso tutto è concesso, senza limite. In casa, le porte delle stanze sono tutte aperte ad indicare, anche simbolicamente, l’assenza di confine, di separazione tra sé e l’altro. In questa mancanza di limite, le nuove generazioni si sentono lasciate cadere, abbandonate.
I genitori dovrebbero essere in grado di sopportare il conflitto e di rappresentare la differenza generazionale. L’omogeneità della famiglia moderna introduce un’omogeneità solo apparentemente priva di conflitti. I bambini sembrano essere equivalenti ai genitori, le madri alle figlie, i padri ai figli. Si assiste ad una confusione di ruoli, e quando uno dei componenti parla non è chiaro da che posizione lo faccia. L’autorità viene meno, si sgretola, portando come risultato quello di crescere giovani fragili, con personalità poco solide e che non sanno a quali punti di riferimento appigliarsi.
Un tempo il figlio faceva parte della famiglia sottomettendosi alla sua organizzazione gerarchica e alle sue leggi. Nel nostro tempo è esattamente il contrario: la famiglia subordina ogni scelta alle esigenze del dio bambino e alla sua volontà resa assoluta. Genitori che fanno decidere ai figli dove andare in vacanza, fine settimana tutti in funzione di ciò che è più piacevole e meglio per i bambini.
In questo modo i bambini e gli adolescenti non sperimentano le frustrazioni e quando poi, per cause di forza maggiore, la vita gliele pone davanti, non hanno gli strumenti giusti per farci i conti. Da qui anche i casi di suicidio, ad esempio in seguito ad una bocciatura scolastica o ad una delusione amorosa.
All’interno delle famiglie tutto si appiattisce in una parola vuota, che è una parola su tutto senza però che vi sia un’implicazione responsabile rispetto a ciò che si dice.
Una mia paziente parla così della madre: “Mi teneva in grembo sognando quali vestiti mettermi, e di che colore, e quali dei suoi sogni darmi in mano da realizzare. Nel suo bisogno di darmi in consegna ciò che le era mancato”. Ciò indica come la figlia possa essere vissuta come prolungamento narcisistico del genitore.
Un’altra paziente ben descrive il ruolo distorto assunto all’interno della propria famiglia e ciò che esso ha comportato per lei: “Io ero al posto di mia madre, per mio padre. Ed ero al posto di mio padre, per mia madre. Io ero quel giocattolo con cui si poteva finalmente raggiungere la soddisfazione. Quei buchi tra loro riempiti da me. Così mi sono trovata là, nel posto sbagliato, in un luogo sconosciuto, inospitale. Una mela a metà: una metà fatta del sogno di mia madre… quello di diventare il suo riscatto… e una metà fatta di lui, del sogno di restare la sua bambina… che lo avrebbe servito, amato, ascoltato, capito… Lo avrebbe soddisfatto, divenendo la donna che non aveva mai avuto. E’ in questo punto doloroso che l’amore ferisce. E’ la potenza devastante del troppo. Il troppo amore di una madre affamata. Il troppo amore di un padre e il suo desiderio. Una figlia in mezzo. Un amore che chiede in cambio una vita. Sono stata al loro gioco, non sono stata capace di liberarmi”.
Se i genitori sono confusivi, se trasmettono messaggi ambigui e contraddittori, i figli risulteranno spaesati e avranno difficoltà a distinguere tra sé e l’altro e ad avere confini definiti.
La famiglia che funziona meglio non è la famiglia che nutre con la pappa giusta, seguendo un manuale del giusto genitore. E’ la famiglia che sa nutrire e sostenere il desiderio dei figli.
Come si nutre il desiderio? Non con le prediche, la pedagogia, i discorsi, ma con la testimonianza, dando il buon esempio. Coltivando le proprie passioni. Mostrando che si può vivere in questo tempo anche senza impazzire, senza volersi suicidare, ma vivendo la propria vita e facendola fruttare.
Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com
Lo guardano da lontano. Con sospetto e timore. Soprattutto dalle marinerie della costa emiliano romagnola, quelle a sud di Porto Viro, dove 15 chilometri al largo opera il rigassificatore di Adriatic Lng, società formata da Qatar Petroleum, ExxonMobil e Edison, tre colossi dell’energia rispettivamente detentori del 22, 71 e 7 per cento delle azioni.
Un fatturato di oltre 200 milioni annui L’impianto, operativo dal 2009, impiega 125 persone, il 60 per cento delle quali venete, e copre il 10 per cento del fabbisogno di metano in Italia con una produzione annua di 8 miliardi di metri cubi. E un fatturato superiore ai 200 milioni di euro l’anno. L’attività del terminal rappresenta una fonte di approvvigionamento energetico di importanza strategica per tutto il nord. E il suo insediamento è stato salutato da un fondo di 12 milioni di euro per riscattare le differenti fasi di stress ambientali e contribuire allo sviluppo del Polesine, dove l’azienda ha investito ulteriori 250 milioni di euro attraverso la stipula di contratti con imprese e fornitori locali. L’ammontare della somma del fondo è stata stabilita con un accordo del 2008 tra Adriatic Lng, Provincia di Rovigo e Consorzio di Sviluppo del Polesine (ConSviPo) formato da Comuni, associazioni di categoria e enti.
Un’isola di cemento alta 10 piani in mezzo al mare, al largo del Parco del Delta Da quattro anni l’isola di cemento armato e acciaio, alta come un palazzo di 10 piani, adagiata sui bassi fondali di un mare semichiuso e particolarmente atrofizzato come quello che incrocia il delta del Po, lavora a pieno ritmo. A pochi chilometri dal parco disteso tra due regioni, in un gioco di lagune, lingue di sabbia e spiagge. L’impianto, forte di un mix di tecnologie di ultima generazione, utilizza un procedimento industriale a ciclo aperto: significa che usa il calore dell’acqua di mare per riscaldare il gas, trasformandolo da liquido in aereo, e poi restituisce l’acqua al mare.
Da quando si pesca meno pesce, cosa comune a gran parte dell’Adriatico stando al rapporto 2012 del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, la domanda che si rincorre lungo le banchine è sempre la stessa. ‘E’ colpa del rigassificatore?’. Ad escluderlo è il piano di monitoraggio dell’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale approvato dal Ministero dell’Ambiente per testare le reazioni dell’habitat all’attività dell’impianto.
“Un’alterazione dell’ecosistema”
I pescatori dell’Emilia Romagna però vorrebbero un supplemento di indagine. Più a sud e con maggiori elementi di ricerca. Nella speranza di scongiurare quanto sostiene lo studio del comitato scientifico del Wwf di Trieste da qualche tempo al vaglio dell’Europa. ‘L’acqua di mare impiegata nel processo di rigassificazione negli impianti a circuito aperto viene restituita praticamente sterile, inutilizzabile per i servizi ecosistemici che rende all’ambiente’, si legge nello studio curato da Livio Poldini, Marco Costantini, Maurizio Fermeglia, Carlo Franzosini, Fabio Gemiti. Michele Giani e Dario Predonzan. ‘Si ha la perdita quasi totale delle forme di vita veicolate dall’acqua, uova, larve e avannotti, organismi planctonici e si induce artificialmente la selezione di quelle forme batteriche resistenti al processo di clorazione, che formano biofilm sulla superficie dell’acqua’, sostengono nella ricerca.
I pescatori sono in allarme
E’ un campanello d’allarme difficile da ignorare a fronte del trend decrescente di catture e ricavi dei pescatori per i quali le giornate di attività dal 2004 a oggi sono calate del 20 per cento. In Veneto e Emilia-Romagna, che vantano entrambe un giro d’affari annuale attestato sui 53 milioni di euro, la flotta è composta complessivamente da 1.442 imbarcazioni di vario tipo e ognuna ha perso mediamente una tonnellata di pescato passando da una media di 16 a 15. Sul versante Veneto è stata verificata una variazione nella composizione del pescato di cui si è parlato a fine agosto in un incontro tra pescatori organizzato a Chioggia al termine del fermo pesca. I tecnici dell’Ispra, Otello Giovanardi e Sasa Raichevich, hanno illustrato lo stato di salute delle risorse ittiche basandosi sui risultati di due campagne di pesca sperimentale a strascico promosse dal ministero delle Politiche agricole per tracciare la futura gestione della pesca.
Quattro gradi in più sul fondo marino, schiume giallastre e la magistratura indaga
Dalla ricerca è emerso come le catture del 2012 non si discostino di molto da quelle del 2011, almeno per quanto riguarda le specie più frequentemente imprigionate nelle reti. Se la presenza di barbone, seppie e canocchie è più o meno stabile, quella del molo è certamente calata. I due tecnici hanno descritto uno scenario ambientale diverso, con temperature più alte di 4 gradi sul fondo marino e una variazione verso l’alto della salinità. Mutamenti sotto osservazione, che disorientano il mondo della pesca. E mentre aumenta la preoccupazione nelle marinerie, il tribunale di Rovigo si prepara all’udienza filtro del 12 marzo, che vede due dirigenti di Adriatic Lng imputati di danneggiamento ambientale aggravato. Il sostituto procuratore Sabrina Duò contesta più episodi legati alla comparsa di abbondanti schiume giallognole, che nel 2010 hanno galleggiato sull’acqua in periodi differenti.
La schiuma è una spina nel fianco di Adriatic, che nel 2009 ne aveva segnalato a Ispra la formazione in seguito allo scarico delle acque di scambio termico del rigassificatore. Nel 2012 è poi arrivato un esposto di Eddy Boschetti presidente del Wwf di Rovigo relativo alla comparsa di una coltre bianca viscida e ghiacciata sulla spiaggia di Boccasette, nel comune di Porto Tolle, che ha gettato un sospetto sull’impianto. Nell’occasione, la società escluse ogni tipo di responsabilità, posizione tuttora sostenuta.
Il caso finisce in Parlamento
Tutto sta nei giochi per Boschetti, che ha le idee chiare: ‘In casi come questi non esiste un interlocutore diverso dal ministero, dobbiamo poterci appoggiare alla legge – dice – E’ ovvio che se ci sono maglie normative larghe, il privato interessato soprattutto al profitto cerca di sfruttarle nel proprio interesse. Sono le istituzioni a dover mantenere l’equilibrio in tutta la vicenda’. All’indomani dei galleggiamenti di schiuma Maurizio Conte, assessore regionale all’Ambiente del Veneto, scrisse all’ex ministro Corrado Clini per chiedere un tavolo di confronto sul fenomeno e, negli stessi giorni, a Roma, la deputata radicale Elisabetta Zamparuti presentò un’interrogazione a ben tre ministeri: Ambiente, Sviluppo economico e Agricoltura. La richiesta: chiarire la natura del fenomeno, conoscere le analisi di Ispra, valutare la possibilità di approfondirle indagando su cloro derivati organici e aloderivati. E di considerare l’opportunità di cambiare la lavorazione dell’impianto gasiero trasformandola da ciclo aperto in chiuso. Tutte cose importanti, aveva sostenuto la radicale, per scongiurare il rischio di danneggiare l’ecosistema marino creando danni all’economia costiera.
Anche la Commissione europea è allertata
Il tema del rigassificatore è approdato di recente anche in Europa per via delle interrogazioni dell’eurodeputato di Alde (Alliance for liberals and democrats for Europe) Andrea Zannoni membro della commissione Envi Ambiente, Sanità Pubblica e Sicurezza Alimentare al parlamento europeo. ‘Il timore è che rappresenti una minaccia per l’ecosistema marino e che sia la causa della recente strana moria di delfini e tartarughe trovati sulle spiagge romagnole – dice – In mancanza di studi comunitari sugli effetti dei rigassificatori, ho fornito alla Commissione europea lo studio del Wwf di Trieste perché possa far luce sull’impatto della lavorazione del ciclo aperto sull’ecosisistema marino. Può essere un modo per evitare eventuali disastri naturali e pericoli per le comunità costiere’. Intanto la Croazia, ricorda il parlamentare, nonostante avesse approvato un impianto con utilizzo di acqua di mare a Velia (Krk) ha fatto marcia indietro autorizzando la lavorazione a ciclo chiuso.
“Danni al turismo”: deciderà il tribunale di Rovigo
L’avvocato ambientalista Matteo Ceruti
La vicenda è ‘glocal’, tanto locale quanto globale come testimonia il procedimento penale in corso, nel quale le associazioni ambientaliste, ma non sono le uniche, potrebbero chiedere di costituirsi parte civile nel processo Adriatic. ‘Abbiamo tempi molto stretti – dice l’avvocato Matteo Ceruti, conosciuto per l’impegno in difesa dell’ambiente – ma stiamo vagliando la possibilità di intervenire’. Per parte sua il giudice Duò ritiene il processo un’esperienza in divenire. ‘Ho contestato un danneggiamento aggravato anche pensando alla vocazione turistica del territorio’, spiega il magistrato, che si avvale della consulenza del dottor Giuseppe Perin dell’Università di Venezia. ‘Non dimentichiamo che gli episodi sono avvenuti al largo di spiagge frequentate dai bagnanti’. Le schiume, quando arrivano a lambire la costa possono compromettere la balneazione. Ma c’è di più. L’azione meccanica del rigassificatore oltre a scatenare la spuma nella quale, specifica la Duò, ‘non sono presenti inquinanti chimici’ agirebbe sul processo di fotosintesi e modificherebbe le cellule presenti nei microrganismi dell’acqua.
“Un impianto concepito per spazi oceanici”
‘Non credo che Adriatic si aspettasse una tale quantità di schiuma – dice il biologo marino Carlo Franzosini del comitato scientifico del Wwf di Trieste – L’impianto è stato concepito in America, è pensato per spazi oceanici, dove il contenuto organico è maggiormente diluito rispetto alle concentrazioni presenti nel mare Adriatico, che nel subire l’azione meccanica provocano una reazione eccessiva rispetto alle aspettative della società’.
Il terminal ha caratteristiche uniche al mondo
Il terminal, unico in tutto il mondo, lungo 180 metri largo 88 e alto 47, immerso in 29 metri di profondità, è collegato da 40 chilometri di metanodotto alla stazione di misura di Cavarzere da dove il gas, correndo per 84 chilometri lungo una condotta realizzata da Snam Progetti, raggiunge l’impianto di stoccaggio di metano più grande del nord Italia. La gigantesca struttura ha avuto la prima Autorizzazione Integrata Ambientale nel 2009, una certificazione triennale in scadenza nel 2015 per la quale Adriatic ha già avviato la richiesta di rinnovo per continuare un’attività che ha portato ad immettere nella rete nazionale dei gasdotti 26 miliardi di metri cubi di metano. Finora hanno attraccato al terminal 310 navi gasiere provenienti principalmente dal Qatar ma anche da altri Paesi. Ogni singolo carico trasformato dallo stato liquido a gassoso con l’ausilio del calore dell’acqua di mare contribuisce a diversificare le fonti energetiche. Va da sé l’assottigliarsi della dipendenza energetica del nostro Paese da altre nazioni.
Struttura strategica per l’Italia e l’Europa
‘La struttura è considerata strategica nell’approvvigionamento energetico italiano e comunitario’, spiega il responsabile delle relazioni esterne della società Alessandro Carlesimo. L’impianto, visitato in dicembre dall’ex ministro delle Sviluppo economico Flavio Zanonato, è stato però oggetto di un sollecito al ministero dell’Ambiente da parte dell’assessore regionale all’Agricoltura dell’Emilia Romagna, Tiberio Rabboni, a cui i pescatori si sono rivolti per avere maggiori ragguagli sugli effetti dell’attività di Adriatic Lng sul mare. E, soprattutto, sugli stock ittici.
Com’è finita? Nessuna risposta per il momento. Né ai pescatori né alle nostre ripetute telefonate. L’unica cosa certa è l’incontro a porte chiuse tra l’assessore e Adriatic Lng di cui nulla si sa di ufficiale. Eppure i tanto attesi dati del monitoraggio Ispra, sui quali si sarebbe dovuto ragionare con l’assessorato, sono pubblicati sul sito della Provincia di Rovigo. ‘Da quelle risultanze si riscontra un ammanco di uova di pesce – dice Franzosini – Manca poi uno studio specifico del comparto dei pelagi comunemente conosciuti come pesce azzurro’.
“La pesca è in calo da quattro anni”
‘Sono quattro anni che le catture dei pesci sono calate – racconta Mario Drudi della cooperativa Casa del Pescatore di Cesenatico – Il dilatarsi del fermo pesca, la diminuzione delle giornate di lavoro, la proibizione di praticare lo strascico sotto le tre miglia non hanno portato alcun miglioramento. La causa non può essere attribuita all’eccessivo sforzo di pesca come si cerca di far credere. Bisogna indagare a 360 gradi, sarebbe opportuno ampliare il monitoraggio’. Il terminal, al pari di molti impianti industriali off shore, ricorda Sergio Caselli, responsabile di Lega Pesca Emilia-Romagna ha tolto miglia di mare ai pescatori di qua e di là dal Po e alle colture di mitili del rodigino. Il restringersi del campo d’azione ha colpito anche le marinerie emiliano-romagnole autorizzate a gettare le reti nei comparti confinanti, ma escluse dal piano di compensazioni del Polesine.
“Vogliamo capire se ci sono fenomeni inquinanti, ma l’osservatorio promesso non c’è”
Dei 12 milioni gestiti da ConSvipo, solo 2 milioni e 450 mila euro sono riservati al cofinanziamento di progetti di pesca professionale. ‘Non ho mai apprezzato l’accordo, avrei preferito negoziazioni più trasparenti che non fossero frutto di trattative private. Le nostre marinerie spendono milioni per il marchio di qualità, se succede qualcosa all’habitat chi le ripaga?’, dice Luigino Pelà di Lega Pesca Veneto. ‘Mi dispiace non sia stata rispettata quella parte del protocollo nella quale era prevista la creazione di un osservatorio della pesca, che ci permettesse una condivisione maggiore dei dati sui quali oggi non abbiamo un controllo diretto – continua – Il monitoraggio Ispra è difficilmente traducibile noi vogliamo capire se ci sono inquinanti, se l’ecosistema è cambiato. Se ci sono specie che oggi prevalgono su altre, sapere se ci sono problemi e quali in modo da pianificare in anticipo le nostre attività e trovare eventuali alternative per diversificarle’. E ancora: ‘A cosa servono le analisi fatte così? Ci costringono a navigare a vista. Avevamo chiesto in sede nazionale un’interazione con i nostri istituti di ricerca, ma non c’è stato seguito. Purtroppo paghiamo scelte politiche e strategiche, che non tengono conto dell’area dove ci troviamo’.
“Le responsabilità del rigassificatore sono tutte da verificare”
‘Negli ultimi 10 anni lo sforzo di pesca è diminuito del 30 per cento, interrogarsi sul motivo del calo quantitativo e qualitativo degli stock ittici è più che lecito e la risposta – dice Sergio Caselli – può venire solo da un maggior approfondimento scientifico con parametri più ampi, che riguardino anche un’estensione a sud dell’area campionata’. Dello stesso parere Vadis Paesanti, presidente emiliano romagnolo di Federcoopesca, che aggiunge altri elementi di riflessione sul diradarsi del pesce: ‘La questione trascende i confini regionali, siamo coinvolti in modo diretto insieme ai nostri 2mila addetti ai lavori. Tutti in difficoltà – spiega -. L’approfondimento è importante, come lo sono anche le valutazioni su esperimenti di salvaguardia messi in atto senza tener conto dell’esperienza dei pescatori. Si è pensato di difendere l’ecosistema vietando lo strascico sotto le tre miglia, in realtà nel delta del Po, l’utilizzo di quel metodo bonificava i fondali da un eccesso di limo. Era utile per la tenuta a regime dell’habitat’.
Giuliano Zanellato presidente cooperativa Pilamare, specializzata nella pesca del pesce azzurro
Giuliano Zanellato, presidente della cooperativa di Pilamare fondata nel 2009, una flotta di 13 pescherecci specializzata nella pesca del pesce azzurro, non fa mistero della necessità di ottenere un’operazione di maggior chiarezza nell’illustrazione dei dati dei campionamenti. ‘Che ci sia meno pesce è una realtà, ma non abbiamo dati scientifici per imputarne il calo al rigassificatore – dice – Certo mi sentirei più tranquillo se la Regione mi garantisse, attraverso l’impegno della multinazionale, una somma adeguata per formare una squadra di tecnici di fiducia delle cooperative a cui affidarci’. La Regione, a sua detta, ha guadagnato ben poco dell’insediamento del terminal la cui presenza è stata ripagata con il fondo gestito dal ConSviPo. ‘Dodici milioni complessivi sono briciole – conclude – Alla pesca hanno interdetto miglia di mare. Mi chiedo cosa accadrà quando la Provincia, così come la conosciamo, non ci sarà più e decadrà anche il Consorzio di Sviluppo, che si occupa dei rapporti con Adriatic. E’ bene che sia la Regione a gestire l’intera situazione’.
La fragilità del delta del Po, del mare nel quale i suoi rami si tuffano e l’accelerazione dei cambiamenti climatici sui quali si concentra l’attenzione dell’Europa, sono difficili da mantenere in equilibrio. Possono convivere gli interessi energetici con quelli economici di un comparto costiero tradizionale come la pesca e le esigenze ambientali del vicinissimo patrimonio Unesco, il Parco del Delta del Po, separato dal fiume che ne detta i confini amministrativi? In Emilia Romagna l’articolo 3 della legge regionale 24 del 23 dicembre 2011 parla chiaro. ‘L’ente deve inoltrarsi per 10 chilometri in mare nell’interesse della tutela dell’ambiente’, dice Lucilla Previati direttore del versante a sud del Parco. ‘E’ il motivo per il quale sono favorevole a un monitoraggio approfondito’.
Gentile Assessore Fusari,
in primo luogo le chiedo scusa per la mia uscita anticipata dalla sala ove lei ha avuto la cortesia di illustrare ai soci della sezione ferrarese di Italia Nostra alcune delle valutazioni che l’Amministrazione Comunale ha compiuto circa la possibilità di utilizzo delle Caserme Pozzuolo del Friuli e Bevilacqua. Un familiare veniva quella mattina dimesso da una clinica, ove era ricoverato, e dovevo andarlo a prendere.
Ho ascoltato con grande attenzione la sua relazione e le sono grato per la chiarezza con la quale ha illustrato alcune opzioni.
Nel mio intervento, da privato cittadino quale sono, e ora con questa lettera, le chiedo ne vengano valutate anche altre, possibili e, mi pare, non minori né indegne.
Certo per ristrettezza di tempi lei ha parlato della vicinanza di Schifanoia alla Caserma Pozzuolo del Friuli solo come un dato topografico. Ma, forse, il senso della presenza andava comunque indicato.
Lei sa bene che non esiste a Ferrara un ‘sistema musei’, auspicato dalla legislazione regionale, richiesto dalle associazioni cittadine, presente e funzionante in altre città della regione. Ferrara, la cui eccezionalità è stata riconosciuta dall’Unesco, ha, paradossalmente, poco investito sul proprio patrimonio ed ha preferito scelte diverse.
Credo che valorizzare la città, sia sotto l’aspetto urbanistico che per le testimonianze che sopravvivono dal XIV al XX secolo, sia un impegno che deve essere assunto. Lo penso come atto politico, non per un generico e, se fosse così, futile credere in una funzione salvifica della cultura, con un uso deviante e sterilmente autoconsolatorio del termine.
Trasportato in termini concreti e in tempi credibili sono convinto che la capacità attraente della città sarebbe sicuramente accresciuta se di fianco alle iniziative espositive e musicali e alle altre occasioni vi fosse una rete museale integrata in percorsi cittadini, funzionante ed efficiente.
Oggi così non è, come lei da amministratore sa. Manca collaborazione fra le istituzioni, sono quasi del tutto assenti i servizi, manca, a completare il quadro, il Museo della città.
Faccio alcuni esempi: mancano quasi del tutto le guide ai musei, manca una editoria specifica, non esiste una biblioteca, la fototeca è congelata, il rapporto con l’università è quasi assente, le associazioni stentano a presentare progetti comuni, l’amministrazione fatica a fare discorsi di lungo periodo o, almeno, a renderli noti.
L’area della Caserma Pozzuolo del Friuli potrebbe, a mio parere dovrebbe, essere destinata al Museo della Città: il Museo del vivere quotidiano, nella città attraverso i secoli, che raccolga le testimonianze del lavoro, della religiosità, della organizzazione del governo pubblico, della vita e della morte.
Un concorso di idee, per la sistemazione dell’area, metterebbe Ferrara al centro di un dibattito che coinvolgerebbe non solo i ferraresi.
Un ultimo esempio concreto è l’utilizzo della ‘cavallerizza’. Se vogliamo, come dovremmo, che i visitatori ritornino ai musei bisogna creare occasioni e strutture. Schifanoia come gli altri in città ha nei depositi ricche testimonianze ed opere che non vengono esposte per mancanza di spazi. La cavallerizza potrebbe, dovrebbe a mio parere, essere la sede per mostre temporanee organizzate dal museo, in prevalenza con propri materiali, la sala, polivalente, potrebbe, dovrebbe, essere utilizzata anche per convegni, conferenze.
Mi scusi di nuovo per l’assenza e per il poco di tempo che le ho portato via. Mi aspetto che questi temi vengano, da lei, dal Sindaco, dagli amministratori, considerati e valutati come possibili. Mi aspetto, da cittadino, una risposta e una indicazione.
Posso auspicare che questo possa avvenire ? Non senta come una provocazione il dono degli atti del convegno sui musei, mi creda.
Ranieri Varese
Ferrara 27 gennaio 2014