Illustrazioni dentro le quali ti affacci e trovi un mondo. Ed è più che mai ferrarese questo universo di gente affaccendata a mangiare, bere, lavorare, amoreggiare, dipingere, lavarsi, stendere panni e – persino – a tentare di volare. Perché sono ambientati quasi sempre dentro e fuori dagli edifici più importanti e riconoscibili di Ferrara i disegni, i poster e le invenzioni grafiche di Claudio Gualandi come pure di Linda Mazzoni, sua compagna di lavoro e di vita.
Claudio Gualandi mostra un’illustrazioni ai visitatori, tra i quali il sindaco Tagliani (foto Luca Pasqualini)
Alla Galleria del Carbone, nel cuore medievale della città, è un’occasione – come spiega il curatore Paolo Volta – per ritrovare immagini che si sono viste tante volte, ma delle quali non sempre si conosce la paternità. Ecco, allora, le locandine del Buskers festival, con il personaggio ispirato alla volumetrica e coloratissima ballerina di Fortunato Depero, che anno dopo anno è comparso con uno strumento musicale diverso sullo sfondo di monumenti ferraresi: Il duomo ricondotto alla sua essenzialità geometrica, il castello che sembra uscito da un quadro di Giorgio De Chirico, il palazzo dei Diamanti, la piazza municipale.
Poster del Buskers festival di Ferrara di Claudio Gualandi e Linda Mazzoni
Oppure la mappa con il territorio ferrarese e delle Delizie che hanno ottenuto il riconoscimento Unesco, che diventa una cartina geografica piena di colori e di vita, di campagna e di mare. O anche la scatola con il Gioca-e-gira, edizione tutta nostrana del gioco dell’oca, dove ogni concorrente può cercare di raggiungere il traguardo attraversando la città e i suoi luoghi più significativi in sella a una più che mai significativa bicicletta.
Le opere più recenti sono le illustrazioni in bianco e nero che vanno a popolare di vita e personaggi i luoghi-simbolo della città. Già si era visto il teatro comunale affollato di spettatori in ogni ordine di posti. Ora ci si può addentrare nel castello estense, visto in sezione per catturare le attività di una folla di nobili rinascimentali che dormono, mangiano e si sollazzano, ma anche di popolani, artisti, boia, prigionieri, inventori, fantasmi, guardoni e navigatori d’acqua dolce. Come osserva un visitatore, il tratto e il gusto per la ridondanza di particolari ricorda il genio di Jacovitti, il fumettista che sul Corriere dei Piccoli ha dato vita a Cocco Bill. Il Rinascimento tratteggiato da Gualandi rimanda un po’ al buffo e flemmatico entourage di quel Far West immaginario, dove potevi stare lì ore a osservare una tavola scoprendo sempre nuovi particolari, gente che era rimasta tramortita dietro all’apertura improvvisa della porta del saloon o cappelli sezionati in quattro pezzi da un’improvvisa raffica di pistola.
Invito della Galleria del Carbone con Claudio Gualandi
Sabato 22 marzo alle 12.30 in biblioteca Ariostea Claudio Gualandi racconterà la sua ultima illustrazione, che è quella dedicata proprio al Palazzo Paradiso, dentro il quale ha sede la biblioteca. L’occasione è quella della Giornata mondiale della poesia durante la quale è in programma una maratona incessante di letture, conferenze, laboratori, interviste, proiezione di filmati. Per continuare a leggere il mondo con curiosità, passione, talento.
“Disegnoinsegno” è il titolo della mostra di disegni, manifesti e illustrazioni di Linda e Claudio Gualandi fino al 30 marzo alla Galleria del Carbone, via del Carbone 18/a a Ferrara. Sempre aperta dalle 17 alle 20, sabato e festivi anche dalle 11 alle 12.30, chiusa il martedì.
La recente crisi ucraina, iniziata con le proteste di Maidan Nezhaleznosti (piazza Indipendenza) del novembre 2013, ha riproposto scenari da “guerra fredda” ormai lontani dalle nostre memorie. L’intervento della Russia in Crimea ha violato la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina e ha portato prepotentemente in primo piano tensioni forse mai sopite tra i cosiddetti paesi occidentali e l’ex potenza sovietica.
Se da una parte la situazione di conflittualità tra Russia, Ucraina e Unione Europea (che è al lavoro per varare un pacchetto di sanzioni contro la Russia) aumenta, in un contesto la cui soluzione è difficile da prevedere, dall’altra c’è chi, senza tanto clamore, continua a fare buoni affari. Si tratta della Cina, grande potenza emergente, ricca di valuta ma povera di terreni coltivabili.
Nella Repubblica popolare vivono oltre 1 miliardo e 300.000 persone, quasi un quinto della popolazione mondiale, che occupano il 7% delle terre coltivabili del pianeta. Già da diversi anni la Cina ha iniziato ad acquisire terreni in Ucraina: nel 2013, 100.000 ettari sono diventati proprietà di una corporation cinese, che avrebbe inoltre firmato un accordo, della durata di circa mezzo secolo, per la coltivazione di 3 milioni di ettari, il 5% del territorio dell’intero Paese, il 9% se si considerano i terreni agricoli. Inoltre, a quanto sembra, i prodotti derivanti dai terreni interessati saranno venduti con tariffe preferenziali a due aziende agricole statali cinesi.
L’Ucraina, che ospita oltre 32 milioni di ettari di terre arabili, l’equivalente di circa un terzo delle terre arabili di tutta l’Unione Europea, era considerata un tempo il “granaio d’Europa”, ed è tuttora ottavo produttore e settimo esportatore di cereali al mondo, anche se la fragilità del suo sistema economico e soprattutto la crisi in atto hanno fatto aumentare il rischio di default, ovvero l’incapacità di ripagare i debiti verso paesi terzi.
La Cina (e altri Paesi privi di terreni ma molto ricchi, come per esempio alcuni Stati arabi) investono in acquisizioni territoriali, per allontanare lo spettro di eventuali crisi agroalimentari ed esportare manodopera in eccedenza. Si tratta del fenomeno del land grabbing, letteralmente “accaparramento della terra”, sui cui molti paesi emergenti hanno cominciato da tempo a speculare. Il fenomeno è cresciuto in maniera evidente a partire dal 2000: a oggi sono stati messi in atto oltre 1.200 contratti per lo sfruttamento dei terreni agricoli, che riguardano circa 83 milioni di ettari di territorio (poco più del 2% dell’estensione mondiale delle terre coltivabili), la maggior parte dei quali si trova in Africa. Ma di recente anche l’Europa è divenuta teatro di queste speculazioni, specie l’Europa dell’Est, dove la concentrazione della terra nelle mani di pochi è stata particolarmente marcata a partire del 1989, data simbolica del crollo del muro di Berlino e inizio della dissoluzione dell’Urss. Accanto agli oligarchi, nelle cui mani si concentra la proprietà terriera, nuovi attori internazionali si sono fatti avanti: compagnie cinesi in Bulgaria e in Ucraina, mediorientali in Romania, persino compagnie europee che acquisiscono terre per scopi agricoli ma non solo.
L’ex presidente Yanukovich nel dicembre scorso si era recato a Pechino per definire i dettagli di una partnership strategica che prevedeva otto miliardi di dollari di aiuti all’Ucraina, oltre ai dieci già investiti in cambio di armi e terre (l’Ucraina nel 2012 è stata il quarto esportatore di armi al mondo). La sua destituzione lascia nelle mani del nuovo governo un interrogativo sul futuro degli accordi con la Cina, anche se sin dall’inizio della crisi il governo cinese ha dimostrato di saper difendere i propri interessi adottando una politica di non ingerenza negli affari interni ucraini e allo stesso tempo strizzando un occhio alla Russia. Il Comitato centrale del Partito Comunista cinese ha dichiarato che “è tempo per le potenze occidentali di abbandonare la loro mentalità da guerra fredda e di smettere di cercare di escludere la Russia da una crisi politica che non sono state in grado di mediare”.
Cultura e grado di civiltà di un Paese non si esprimono unicamente attraverso il suo patrimonio d’arte e di monumenti, ma anche attraverso la qualità dei luoghi dove il sapere si perpetua di generazione in generazione, attraverso un processo di trasmissione dall’adulto al giovane. Scrivo questo, anche se nutro personalmente consistenti dubbi che il sapere sia a proprio agio accanto a termini come perpetuare e trasmettere, ma certamente questi denotano al meglio il profilo dell’edilizia scolastica di cui ognuno di noi ha certo avuto esperienza.
Un Paese che per decenni ha riciclato conventi, orfanotrofi, caserme, seminari in edifici scolastici testimonia la considerazione, l’attenzione e la cura che ha per le sue bambine e i suoi bambini, le sue ragazze e i suoi ragazzi, nella sostanza la sua perenne miopia nei confronti del futuro.
Eppure già nel 1899, in apertura di “Scuola e società” John Dewey scriveva: «Quel che i genitori migliori e più saggi desiderano per il proprio figlio, la comunità lo deve desiderare per tutti i suoi ragazzi. Qualsiasi altro ideale per la nostra scuola è ristretto e privo di attrattiva; a lungo andare distrugge la nostra democrazia». Che la nostra comunità sia stata e forse continui ad essere matrigna con i ragazzi è conclusione che lascio alle riflessioni di ciascuno.
Mario Lodi, nella Lettera a Katia, con cui apre “Il Paese Sbagliato”, scrive il 2 ottobre del 1964: «[…] Pensavo a quante aule simili a questa ci sono ancora nel mondo per farci vivere i bambini nell’età che più di ogni altra ha bisogno di spazio, di verde, di sole e di moto. Scatole di mattone. C’è una terribile somiglianza fra le celle di una vecchia prigione e le aule delle scuole: c’è la stessa ossessiva fissità delle strutture percettive (colori, forme, superfici), la stessa monotonia psicologica.» Mario Lodi continua osservando, che mentre il detenuto in cella è libero di pensare ai fatti suoi, le nostre aule, le nostre classi sono la negazione di ogni libertà. L’insegnante comanda, abitua gli alunni a ripetere ciò che egli dice, premiando quelli che meglio si adeguano. Non c’è nulla come le istituzioni per comprendere quanto è tenuto in considerazione l’uomo. Il maestro di Vho conclude che chi ha inventato le nostre scuole non pensava certo alla libertà del suo prossimo.
Esagerava Mario Lodi? Temo di no. Ancora oggi chi visita una delle nostre classi è come se le avesse vedute tutte.
Non sono in grado di misurare i margini di un possibile cambiamento dell’edilizia scolastica al servizio di una concezione radicalmente nuova dell’apprendimento e della sua relazione con l’uso dello spazio da parte di alunni e insegnanti. Perché il ritardo del nostro Paese, ancor prima che sulla riflessione pedagogica, è sulla grave negligenza nella cura della sicurezza degli edifici che ospitano i nostri studenti grandi e piccoli.
A dirlo sono gli esperti che nelle loro audizioni in Parlamento hanno evidenziato come nel nostro Paese vi sia una gravissima situazione di scarsa sicurezza delle scuole. La crisi ha reso tutto più difficile e le scuole, unitamente agli ospedali, sono gli edifici pubblici che devono garantire il massimo di sicurezza perché contengono quanto abbiamo di più prezioso: i nostri figli.
Perciò i miliardi stanziati in questi giorni dal governo Renzi consentiranno solo la messa in sicurezza, la manutenzione, consentiranno di fare rammendi che restano tali anche se il sarto è Renzo Piano.
Ci hanno ridotti come dei poveri che non si possono permettere l’abito nuovo di cui avrebbero necessità, ma devono continuare a rammendare sempre quello vecchio. E in tanto chi continua a pagare sono i nostri giovani, costretti a studiare in ambienti poco adatti alla loro crescita e all’apprendimento, umiliati a subire anche questo svantaggio rispetto ai loro coetanei europei di Danimarca, Olanda, Svezia e Finlandia.
È qui la questione democratica che pone Dewey. Per cui dovremo attendere ancora molto per il Profumo (sì, il ministro, ricordate?) del convegno organizzato a Roma nel 2012 “Quando lo spazio insegna”, nuove architetture per la scuola del nuovo millennio. La scuola open space, senza aule, né corridoi. Dove studenti e insegnanti lavorano in modo collaborativo, sfruttando le possibilità offerte da internet e dalle tecnologie della comunicazione. Una scuola aperta tutto il giorno, disponibile alle contaminazioni con il territorio: scuola vera e propria al mattino, centro sportivo e di aggregazione al pomeriggio, centro di formazione per gli adulti alla sera. Queste, nelle parole del ministro di allora, le conclusioni del convegno, perché la scuola della società della conoscenza richiede spazi modulari e polifunzionali, facilmente configurabili ed in grado di rispondere a contesti educativi sempre in evoluzione.
Ora, se non c’è innovazione pedagogica, e in giro se ne vede davvero poca, difficilmente ci può essere innovazione nell’edilizia scolastica. Il modello industriale di scuola con gli alunni nei banchi, costretti ad apprendere tutti la stessa cosa nello stesso modo e nello stesso tempo non regge più. Ogni bambina e ogni bambino, ogni ragazza e ogni ragazzo ha il suo modo e il suo tempo per imparare, le intelligenze dei singoli sono diverse e ognuna ha il diritto di trovare lo spazio adeguato per esprimersi. Noi anziché innovare ci inventiamo l’acqua calda: i Bes (i bisogni educativi speciali), mentre nel nord Europa è già una realtà il tramonto delle aule, dei banchi e delle campanelle.
Se la scuola è strategica per l’uscita dalla crisi e per il futuro del Paese, ciò di cui questo governo si deve urgentemente fare carico è un piano di rinascita che consenta alle nostre scuole di divenire il luogo dove le giovani generazioni, ciò che il Paese ha di più prezioso, non solo abbiano il diritto di sognare il loro futuro, ma possano acquisire strumenti di qualità per pensare di poterlo realizzare. Didattica, ambienti di apprendimento, preparazione e diversificazione professionale di insegnanti e operatori della scuola sono gli ingredienti su cui da subito occorre intervenire. Si può, restituendo centralità, protagonismo e fiducia alla scuola attraverso lo strumento dell’autonomia didattica, organizzativa, di ricerca e di sperimentazione sancita dalla legge n. 59 del 1997 (la legge Bassanini) e che i governi successivi hanno in tutti i modi osteggiato, svuotato di ogni forza di cambiamento, fino a privare scientemente le nostre scuole delle risorse umane e finanziarie a loro indispensabili.
Ormai le candidature a sindaco nei 16 Comuni della provincia ferrarese sono definite: alcuni hanno già elaborato i loro programmi, altri hanno steso solo qualche bozza, altri ancora lo faranno a breve.
Notiamo, per ora, alcune tensioni e durezze in città, candidatura che generalmente tira il carro e che, con la nuova provincia ridotta al minimo, con solo un piccolo ente di secondo grado, rappresenterà sempre più lo snodo delle politiche e il centro dove le scelte determineranno il futuro dei territori e del nostro localismo.
Questa nuova visione è già stata tracciata interloquendo, proprio su questo quotidiano online, con Tiziano Tagliani, sindaco di Ferrara e candidato per una seconda legislatura; se si volge lo sguardo alla provincia, però, non si può evitare di rimarcare alcuni punti chiave, si pensi ad Argenta, Bondeno, Copparo, Ostellato e i loro hub che fanno rete di sub-area.
Pensiamo, inoltre, che se le linee progettuali dei citati futuri governi locali, compresi altri non chiamati alle elezioni, non si faranno coerenti sulle azioni di politiche dei territori e continueranno a guardarsi solo dentro, chiudendosi a riccio, le nostre comunità locali non andranno da nessuna parte e diventeremo un lembo lontano dalla via Emilia, dalla dorsale centrale veneta, dagli assi strategici sud-nord e dal futuro della crescita.
Ci permettiamo di avanzare, anche per le sollecitazioni di esperti e non solo, alcune delle politiche territoriali individuate e da attivare con atti coordinati dai governi locali, per rimanere dentro lo spazio richiesto di area vasta e cioè:
1. riordino istituzionale ed organizzativo (fusioni, passando da 24 a 10 Comuni);
2. dismissioni parziali, come prima fase, delle aziende di pubblica utilità (Cadf, Area, Delta Web, Soelia, Cmv) con nuovi riassetti aziendali e d’ambito;
3. nuova urbanistica per un rilancio dei centri storici;
4. servizi sanitari e sociali riorientati verso un diverso sistema di prossimità demografica;
5. linee guida per la costruzione di un distretto rurale ad attrazione agroalimentare, ambientale e turistico;
6. un patto di territori e contratti d’area, a più attori, con fondi strutturali europei pubblico/privati/terzo settore;
7. una spending review, ovunque e trasversale, in particolare sugli apparati organizzativi istituzionali locali, compresi gli strumenti societari, per snellire burocrazie, togliere inefficienze e schiodare le solite resistenze di struttura.
Scegliere, infine, se stare nel cosiddetto trattino tra Emilia e Romagna o optare subito, come pare evidente e strategico, per la Romagna, per fare una grande Romagna, oltre ad una diversa Regione, non più debordante e onnipresente (sperando nella rapida modifica del titolo V della nostra Costituzione ).
Siamo consapevoli della proposta, che non vuole essere provocatoria, ma che cerca di interpretare le modalità e di scegliere un percorso per uscire dalle difficoltà e da alcune strutturali criticità ferraresi.
Oggi, ormai, siamo nell’alveo del cambiamento verso, del cambio di passo, sperando, però, che non diventi il ‘cambia niente’; il rischio c’è, è percepibile, la debolezza della politica si vede nei comportamenti, le candidature e le volontà sembrano abbastanza spente… ma lasciateci almeno sperare.
Forse siamo dei sognatori, rimarremo forse inascoltati, ma si sappia che voi signori candidati a sindaco siete, tutti, sia chi vince sia chi perde, chiamati ad una grande responsabilità, che non è solo una parola ma molto di più; è in gioco il senso della vita, ci sono le persone, le famiglie, un’intera comunità, un futuro.
Forse qualcuno pensa alla crescita e allo sviluppo denatale, è una strada, certamente legittima e che va anche ben definita, che però non condividiamo, perché sterile e di corto respiro.
Noi non siamo candidati, ma questo scritto vuole essere un segno che intendiamo, modestamente e insieme ad altri, offrire un contributo doveroso alla buona gestione del nostro territorio.
Sotto le volte all’angolo tra via del Fossato e piazza Ariostea, all’uscita da scuola.
Arrivano persone alla guida di sontuosi fuoristrada a prendere i loro bambini.
E’ una scuola religiosa paritaria, ma ci sono anche persone semplici in attesa.
Un nonno porge la mano alla sua nipotina di nome Martina. Lui è sulla settantina e indossa un parrucchino color rame.
In auto due fidanzati si tengono la mano. Dall’altra parte della strada un vecchio cammina curvo sulla schiena, si appoggia al bastone e porta gli occhiali da sole.
Piazza Ariostea
La città ha un’aria primaverile e vivo l’inverno più caldo che ricordi da quando sono lontano da casa. Lunghe giornate di pioggia hanno ingrossato le vene di questo palmo di pianura alluvionale e il Reno, il Panaro, arterie meridionali vicine al Grande Fiume, minacciano di scuotere la vita cittadina. Si ribellano contro il dominio dell’uomo sulla natura.
Vago verso via Montebello senza meta e non posso fare a meno di notare le numerose case in vendita, l’onda lunga della crisi imperante che attanaglia, non cessa di scoraggiare. Ricordo anni fa un capo di governo e un ministro dell’economia negare risolutamente la circostanza, dicevano che non si era ottimisti, e ad oggi poco o nulla è stato fatto a riguardo. Come al solito a distanza la Storia, implacabile, dirà quel che è stato.
Sono nell’addizione erculea, quella parte della città che alla fine del ’400 venne costruita con princìpi razionali da Biagio Rossetti e che fece parlare di Ferrara come della prima città moderna d’Europa.
Il cimitero ebraico di Ferrara
Scorgo via delle Vigne e so dove andare. L’ingresso del cimitero ebraico è inconfondibile e mi porta dritto all’incipit de Il Giardino dei Finzi-Contini. Nel libro di Bassani l’io narrante si trova alla necropoli etrusca di Cerveteri e pensa di rimando a questo luogo sacro e dolente. Un flash-back e una profonda analogia. Fino all’incrocio con corso Porta Mare non sapevo che ci sarei arrivato. Ancora incredulo rispetto alla catastrofe che rammenta, scatto una foto per non pensare.
Il mondo è anche una storia di cimiteri, la necropoli etrusca di Cerveteri, il cimitero ebraico di Ferrara, quello composto e sobrio dei caduti americani nello sbarco di Salerno, il cimitero dei soldati tedeschi a Costermano.
Penso al mite cimitero di provincia del mio paese, sull’appennino campano, dove all’ingresso è scritto in latino “Ti sia lieve la terra”:
“È una frase esemplare che i vivi possono dire ai morti. E forse c’è una frase che i morti possono dire ai vivi. Forse è per ascoltarla che entro nel cimitero, è una frase che non può avere parole, è un qualcosa che ti entra dentro senza la furia che hanno i vivi”, scrive a riguardo il poeta della mia terra Franco Arminio.
Le leggi razziali rappresentano l’inchiostro indelebile per una delle pagine più vili dell’umanità: la perdita della dignità umana che Gesù aveva esteso a tutti gli uomini. E’ stato un nuovo peccato originale.
La porta che ho davanti scava dentro, continuamente rammenta, monumento di cemento a perenne ricordo del nostro fallimento: monito sordo e angoscioso, di fronte a Via Montebello, in Via delle Vigne. Meglio cambiare strada.
Torrione San Giovanni
Davanti al Torrione di San Giovanni, sulle mura molte persone corrono senza una meta.
” Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna (…) come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada“, scrive il sociologo Franco Cassano.
Osservo e non smette di sorprendermi la realtà ansiogena che abbiamo edificato intorno a noi. I bambini e gli anziani accuditi dagli sconosciuti. Il sabato all’iper a fare la spesa. Il debito pubblico e l’inquinamento ambientale. L’esportazione della libertà e il prodotto interno lordo. Non ultimo lo spread e le agenzie di rating.
Nel Torrione invece si diffonde sempre una bella luce. Rivedo la sua suggestiva sala circolare, le travi di legno reggono il cielo del tempio cittadino della musica jazz. L’unica vera libertà esportata dagli States forse è proprio il jazz, con le sue sterminate varianti, le improvvisazioni, la mescolanza.
Le mura di Ferrara
Qualcosa finalmente suona delle note positive sul pentagramma della mia giornata, lo spartito della tromba di Miles Davis domina in maggiore, e non resta che ripartire, imitare i passanti sulle mura cittadine, iniziando di nuovo a camminare, lentamente, con in mente questi versi dell’autore de “Il pensiero meridiano”:
– Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada (…), un accordo tra mente e mondo -.
Anche una mela può diventare un business. Oppure un festival, un blog, un caffè. A Ferrara il progetto “Atmosfera creativa” proposto da Sipro fa dialogare i soggetti che usano la creatività come ingrediente di lavoro: moda, gusto, design, comunicazione, spettacolo, cultura e turismo. Alla ricerca di una strategia comune, ecco la mappatura di aziende innovative e talenti del territorio: al Salone del restauro giovedì 27 marzo alle 16, Padiglione 5 sala Ermitage della Fiera.
È possibile che il benessere economico e sociale di un territorio si fondi su creatività e cultura? Da un’indagine svolta in Piemonte, intitolata “Atmosfera creativa” e documentata in un volume edito dal Mulino risulta di sì: un territorio può avere un modello di sviluppo sostenibile basato proprio sulla creatività e sulla cultura, intese in senso ampio. Possono, infatti, fare business la moda e lo stile, il cibo e il gusto, l’artigianato e il design, i mezzi di comunicazione e i nuovi media, lo spettacolo, il patrimonio culturale, il turismo e i festival.
Ferrara – sede del festival Internazionale e di Busker festival, ma anche di birrifici artigianali, aziende di software e stilisti – punta a ripartire da un’analisi del genere per cercare di usare la creatività in chiave di sviluppo. Il progetto di mappatura e chiave di rilancio è di Sipro, l’Agenzia per lo sviluppo di Ferrara, che fa suo il modello “Atmosfera creativa” e chiama a raccolta architetti e produttori di eccellenze, blogger e organizzatori di eventi, editori e operatori turistici per soppesarne quantità e qualità. L’obiettivo: individuare a Ferrara criticità e opportunità di crescita per i settori culturali e creativi, mettendo a fuoco le peculiarità del territorio in modo da trovare un percorso di sviluppo possibile per un comparto variegato.
Il progetto di analisi arriva dall’esperienza fatta in una regione, dove la “Atmosfera creativa” è riuscita davvero a ingranare la marcia, a mettere in movimento il mercato, l’economia di un territorio e la sua immagine. Lì (ad Alba di Cuneo), tanto per fare un esempio, c’è un colosso del settore alimentare come Ferrero e la sua macchina produttiva della Nutella; a Bra di Cuneo nasce e resta il cuore pulsante di Slow food, l’associazione che trasforma il concetto di cibo e di cura del prodotto in un marchio che rimanda a uno stile di vita; a Torino vengono organizzati il Salone del gusto e le mostre del Lingotto. Anche Ferrara ha risorse, talenti, eccellenze. Manca però la riconoscibilità territoriale, la visibilità di un marchio distintivo, un progetto strutturato, coordinato e di ampio respiro. Come le mele – ha fatto notare a un incontro operativo Michele Travagli, project manager dell’agenzia di comunicazione Kuva. Le mele vengono prodotte da sempre nel Ferrarese, che per anni è stata la capitale riconosciuta della produzione agricola, con i maggiori quantitativi raccolti e commercializzati. Ma poi a creare un brand di qualità ci ha pensato il Trentino Alto-Adige: dal 2003 la Mela della Val di Non trentina ottiene la Denominazione di origine protetta (Dop) che ne contraddistingue 5 varietà; e dal 2005 ben 11 varietà altoatesine hanno il marchio europeo di Indicazione geografica protetta. Due bollini rilanciati e sostenuti (con marchi come Melinda, Marlene) che il consumatore riconosce e sceglie, che contraddistinguono forme, colori e garanzia di sapore. In terra emiliana le mele si continuano a far crescere e maturare, ma l’operazione di marketing è tardiva, ancora lontana dal riconoscimento di origine o di tutela della denominazione conferito dall’Unione europea.
Insomma, la voglia è quella di capire e valorizzare quello che si fa, di ripensare e comunicare il significato di un prodotto. Non importa che si tratti di un frutto o di una mostra d’arte, di una rassegna teatrale o di un oggetto di design. E per promuovere un prodotto o un’idea del territorio i soggetti che se ne occupano devono mettersi insieme, pensare in modo nuovo, non basarsi sul fatto che si è sempre lavorato in un certo modo e che così si continuerà a fare. Non basta raggiungere profitti isolati, insomma, serve una strategia proiettata nel tempo.
Il 3 febbraio scorso in Fiera l’appuntamento tra gli operatori che hanno aderito a una prima fase di indagine per stimolare anche a Ferrara il decollo di una strutturata “Atmosfera creativa”. Giovedì 27 marzo – annnuncia il direttore di Sipro, Elisabetta Scavo – le conclusioni della ricerca finiranno in un report che verrà presentato al Salone del restauro, a Ferrara.
Lo studio ferrarese è promosso da Sipro nel quadro del progetto europeo Macc, finanziato dal programma Italia Slovenia. Coordina la raccolta ed elaborazione dei dati il centro di ricerche Css-Ebla, che ora prepara la mappatura delle imprese culturali sul territorio, ma anche la messa a fuoco di criticità e punti di forza.
Mentre ero alla ricerca di dati aggiornati e chiari sull’uso del web (info grafiche nel gergo corrente), una mia giovane amica esperta di new media, mi ha suggerito di cercare in Pinterest, assistendomi nell’esplorazione.
E’ stato come entrare in una specie di paese dei balocchi, un mondo colorato e magico come quello dei cartoni animati. Ho provato un senso di entusiastico disorientamento simile, credo, a quello che prova un bambino in un negozio pieno zeppo di giocattoli. Quasi paralizzato dall’eccesso di stimoli e di sollecitazioni, corre avanti e indietro senza risolversi per nulla; tanto intenso e diffuso è il desiderio, tanto più la scelta diventa impossibile.
Ho trovato montagne di fantastiche info grafiche, dati aggiornati e sintetizzati in figure, spezzoni di notizie dal mondo, fotografie e informazioni. Sommersa da una quantità di immagini attraenti, ho continuato a passare dall’una all’altra, quasi con il timore che tutto ciò che toccavo con il mouse potesse svanire improvvisamente, senza poter essere posseduto.
Pinterest è un social network fondato nel 2010 e dedicato alla condivisione di fotografie, video ed immagini. Come dice il nome, Pinterest permette agli utenti di creare bacheche in cui “appendere” immagini raccolte o generate da loro sulla base dei propri interessi. E’ possibile caricare, salvare, ordinare e gestire contenuti multimediali (come i video) collezionandoli in bacheche che fungono da contenitori. I contenuti possono essere sfogliati nella pagina principale; gli utenti possono salvare singoli pin, appendendoli ad una delle loro tavole che sono classificate e facilmente individuate da altri utenti. Il sito ha un layout grafico esteticamente attraente ed è di semplice utilizzo, un piccolo apprendimento all’ingresso e poi un nuovo oceano da esplorare pieno di pesci colorati e veloci.
Pinterest è il social network delle immagini: un luogo dove trovare ispirazioni e idee per animare le proprie pagine in rete, dove raccogliere immagini collegate a link d’interesse o, semplicemente, trascorrere del tempo. Il sito è preferito dalle donne, che rappresentano circa l’80% degli utenti totali. Il 60% degli utenti proviene dagli Stati Uniti, dove 25,6 milioni di persone visitano il sito quotidianamente.
Pinterest si sta rapidamente espandendo in tutto il mondo. Si diffonde una nuova estetica di massa, fatta di fotografie degli utenti e materiali importati da siti internazionali o proposti dai brand di abbigliamento, arredamento, design e oggettistica.
Tutto questo è noto alle generazioni più giovani. A me questa esperienza ha sollecitato due considerazioni. La prima si riallaccia alle analisi proposte dal cosiddetto pensiero postmoderno fin dagli anni trenta e poi riprese da Jean-Francois Lyotard nel 1979 (La Condition postmoderne: rapport sur le savoir) circa il nuovo intreccio che si determina tra estetica (arte, letteratura) e cultura di massa e la conseguenze inevitabile ibridazione tra alto e basso, intellettuale e popolare di ogni dimensione della comunicazione. Il postmodernismo ha segnalato, ben prima dell’avvento del web, la scomparsa della aprioristica distinzione di generi e forme della conoscenza.
La seconda considerazione riguarda, soprattutto, coloro che producono o diffondono sapere e che hanno compiti didattici. Questa nuova realtà offre stimoli all’apprendimento, al di là della oziosa discussione circa l’antinomia tra la straordinaria ampiezza proposta da questo nuovo “oceano” e la sua scarsa profondità.
La scuola continua, invece, ad ignorare le enormi opportunità di informazione che questo mondo apre e l’esigenza di competenze operative per poterne fruire in pieno. Il dibattito continua a riproporre un’inutile discussione circa il fatto che questa informazione produca o meno conoscenza. E’ come chiedersi se sia sufficiente conoscere la grammatica per diventare giornalisti o scrittori. Certo che non è sufficiente, ma è indispensabile. Siamo chiamati ora a maneggiare concetti fatti di parole e immagini, ciò richiede un adattamento forse simile a quello che, in un lontano passato, ha accompagnato la nascita della scrittura e la traduzione dei segni in lettere.
Non tutto sarà cultura “solida” in questo nuovo mondo, ma la cultura oggi non può prescindere dalle competenze richieste per navigare in questo smisurato oceano di informazioni e di immagini.
Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it
Il giorno prima che si svolgesse la Giornata di Ascolto nel Mondo della Scuola, organizzata lo scorso lunedì 10 marzo dal Partito Democratico, il segretario dello stesso partito Matteo Renzi in un’intervista alla trasmissione televisiva “Che Tempo Che Fa”, ha dichiarato: “Ascolto tutti, decidiamo noi”.
Provando a seguire la logica di tale affermazione, hic et nunc, ne deduco due possibilità interpretative: la prima è che l’ascolto sia funzionale alle decisioni da prendere (in sintesi: “Ho bisogno di ascoltare per poter decidere al meglio”); la seconda è che l’ascolto sia ininfluente rispetto alle scelte da compiere (in sintesi: “Ho già deciso ma ascolto perché ho bisogno di apparire democratico”).
Se dovessi giudicare da come è stata organizzata la Giornata di Ascolto nel Mondo della Scuola, propenderei per la seconda ipotesi.
Si legge infatti sul sito del Partito Democratico: “Un primo appuntamento per raccogliere idee e proposte da chi la scuola la vive ogni giorno. L’appuntamento, aperto ad associazioni, sindacati, docenti, esperti, studenti, insomma tutto il variegato e plurale mondo della scuola italiana, è stato organizzato sul modello della Leopolda renziana: uno speaker corner dove ciascuno ha avuto cinque minuti di tempo per intervenire e dire la sua”.
Di seguito elenco tre piccole osservazioni che qualcuno potrà considerare sfumature:
1) se l’appuntamento è stato destinato a chi la scuola la vive ogni giorno, è curioso che l’appuntamento sia stato programmato di giorno feriale quando “chi vive la scuola ogni giorno” è a scuola;
2) se l’appuntamento si chiama “Giornata di Ascolto nel Mondo della Scuola” io mi aspetto che la Giornata si debba svolgere dentro una scuola e non nella Sala delle Colonne che si trova all’interno di Palazzo Marini;
3) se il Presidente del Consiglio Renzi non partecipa alla Giornata di Ascolto nel Mondo della Scuola però sceglie di andare nelle scuole per il suo “Easy Listening Tour” del mercoledì, sconfessa di fatto non solo la stessa Giornata di Ascolto ma anche le sue dichiarazioni roboanti di riportare l’attenzione dovuta sul mondo della scuola.
Piccole cose, particolari secondari, dettagli minimi, lievi sfumature?
Ma non è forse dai particolari, dai dettagli e dalle sfumature che si riesce a cogliere la sincerità di una persona, la validità di una iniziativa, la coerenza di una politica, la capacità di ascoltare veramente?
La sociologa Marianella Sclavi nel suo libro “Arte di ascoltare e mondi possibili” scrive che: “Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze”.
Se chi ha organizzato la Giornata di Ascolto nel Mondo della Scuola avesse tenuto presente questa regola, avrebbe almeno potuto accogliere, fra i documenti presentati, il testo della legge di iniziativa popolare “Per una buona scuola per la Repubblica” redatta da centinaia di insegnanti e genitori al termine un lungo percorso di confronto, svoltosi qualche anno fa, che ha coinvolto centinaia di scuole italiane e che è stata poi sottoscritta da 100.000 cittadini prima di essere depositata in Parlamento [vedi qui].
Invece tale testo è stato rifiutato con rottamabile maleducazione [vedi qui].
Viviamo purtroppo in una società in cui l’apparire è più vitale dell’essere, i beni di consumo più importanti dei beni di cittadinanza, la rottamazione più attraente della costruzione.
In questa società, purtroppo, la scuola rappresenta un mondo a parte, quasi separato, un’isola alla rovescia dove si tenta di far vivere quei valori che sono l’esatto contrario rispetto a quelli dominanti: dove si insegna, ad esempio, che per ascoltare in maniera attiva serve tempo, impegno, fatica ed empatia.
Sono solo parole, evidentemente vecchie, anch’esse da rottamare quindi ormai assenti dal vocabolario di certi politici.
Un tema complicato quello del gioco d’azzardo, dalle molteplici ramificazioni economiche, sociali, culturali. Non è perciò un caso che sabato pomeriggio a palazzo Bonacossi all’incontro “Azzardo, un business che gioca con la vita delle persone” gli ospiti fossero un giornalista, un deputato, una psichiatra esperta di dipendenze e uno psicologo. A organizzare il confronto, “Tilt”, “La fabbrica di Nichi-Ferrara” e il coordinamento provinciale di Ferrara di “Libera – associazioni, nomi e numeri contro le mafie”.
Dagli interventi di Daniele Poto, giornalista autore del volume “Le mafie nel pallone” e del dossier di Libera “Azzardopoli 2.0”, e Franco Bordo, dal 2013 deputato di Sinistra Ecologia e Libertà, emerge un quadro istituzionale abbastanza sconfortante: si passa dallo “Stato schizofrenico” di Poto allo “Stato apprendista stregone” di Bordo. Per il giornalista in questo campo “le mafie e lo Stato sono egualmente predatori”, con l’aggravante che si accaniscono sui più poveri, perché spesso a giocare con macchinette e videopoker sono i disoccupati o altri soggetti in difficoltà. Secondo Poto lo Stato italiano è schizofrenico perché si comporta in maniera completamente diversa “a seconda delle varie dipendenze”: alcol, fumo, droghe e azzardo. Forse questa ambivalenza ha a che fare con il potere delle lobbies di questo settore, tanto che si arriva ad una vera e propria “impotenza dello Stato”, come afferma ancora Poto portando l’esempio della maximulta ai concessionari di videopoker: proprio nel periodo in cui il governo Letta cercava in ogni dove le risorse per togliere l’Imu ai contribuenti, la somma passò da 98 a 2,5 miliardi di euro.
Eppure, sembra voler rassicurare Bordo, qualche risultato c’è, anche se ci si deve scontrare con il fatto che “in Parlamento questa problematica non è ancora sentita come importante da parte di tutte le componenti politiche”. Il punto di partenza per l’onorevole Bordo sono le comunità locali, a cui deve essere restituito un ruolo di primo piano nel governo del fenomeno. Per questo considera come un grande successo il fatto che nuova legge sulla delega fiscale “siamo riusciti ad ottenere che i Comuni siano parte attiva del procedimento autorizzativo” riguardo le concessioni. Un segnale importante se si considera che è solo di dicembre il caso dell’emendamento al decreto “Salva Roma”, che in pratica stoppava l’intervento degli enti locali nella lotta alla prevenzione del gioco d’azzardo e che per questo aveva provocato la reazione indignata di diversi sindaci: in pratica i Comuni o le Regioni che avessero emanato norme restrittive contro il gioco d’azzardo, diminuendo così le entrate dell’erario, l’anno successivo avrebbero subito tagli ai trasferimenti.
Luisa Garofani, direttrice del programma Dipendenze patologiche dell’Ausl di Ferrara, e Simone Feder, psicologo e coordinatore dell’associazione Movimento NoSlot di Pavia, hanno invece chiarito cosa sia il gioco d’azzardo in termini di persone e relazioni sociali. La dottoressa Garofani ha confessato di non amare molto il termine ludopatie, perché di gioco non si ammala nessuno: il problema è che siamo di fronte ad “una dipendenza patologica senza sostanza, ma che presenta tutti i meccanismi dell’uso di sostanze”. Spesso, continua Garofani, “sono uomini che vogliono un riscatto e c’è tutto un mondo intorno” che spinge a credere che questo riscatto sia a portata di mano. Simone Feder, invece, data anche la sua esperienza nelle strutture della comunità Casa del Giovane di Pavia dove è coordinatore dell’Area Giovani e dipendenze, si è detto preoccupato per le nuove generazioni, “non tanto perché siano giocatori”, anche se c’è un aumento preoccupante del fenomeno tra gli adolescenti, “ma perché li stiamo abituando a diventare tali”. Slot e videopocker ormai “hanno occupato il nostro quotidiano e non c’è più differenza fra l’azzardo e il non azzardo”, “ci hanno tolto gli spazi aggregativi”.
Entrambi quindi sottolineano la necessità che alle iniziative legislative si affianchi una battaglia culturale che deve passare per l’educazione e l’informazione di tutti i cittadini: ognuno deve fare la sua parte e tutti dobbiamo “accorgerci di ciò che ci sta intorno”, conclude Luisa Garofani.
Donne in fuga o, forse, donne alla ricerca. La raccolta “In fuga” (Einaudi) del premio Nobel per la letteratura 2013 Alice Munro parla di allontanamenti e ritorni, slanci di fuga e ricomposizioni, normalità della vita e pensieri di evasione. Tre degli otto racconti hanno la stessa protagonista, Juliet, e formano un romanzo breve all’interno di una carrellata che è panorama unico e composito.
Alice Munro costruisce le donne dei suoi racconti per piccoli pezzi, lasciati qua e là, per dettagli che parlano di loro e chi legge deve mettere insieme. Una caccia al tesoro di indizi e collegamenti, un lungo cammino dove la morte è un passaggio verso altre opportunità che verranno, altre persone, altra vita.
I racconti di Juliet sono la sua storia per grandi tappe, sono gli avvenimenti che accompagnano e cambiano la maggior parte delle donne che concludono gli studi, incontrano l’uomo con cui fare una famiglia e diventano madri. Capita anche a Juliet, giovane, una laurea in lettere classiche e un incontro casuale, durante un viaggio, con Eric l’uomo che sarà il suo compagno. Lui, a suo agio nel guardare le stelle, la invita a individuare il Grande Carro e da lì a cercare la Stella Polare, ne è certo che la troverà. E allora un giorno Juliet cercherà Eric e lo troverà. Nell’attimo dell’incontro, quello preceduto dall’incognita del non sapere come andranno le cose, Juliet si sente scrutata e capisce che così doveva essere, è “traboccante di sollievo, aggredita dalla felicità. Che cosa sbalorditiva. E quanto somiglia allo sgomento”.
Nasce una figlia, Penelope, Eric la tradisce una volta, o forse di più, non se lo ricorda nemmeno, e poi era stato tanto tempo prima, che importanza aveva ormai anche se l’aveva fatto quando Juliet si era allontanata per accudire la madre morente, quando Penelope aveva solo un anno, quando Juliet era molto innamorata e si struggeva di nostalgia per lui. Eric è così, gli basta una parvenza d’amore, una convivenza civile e bonaria, ma Juliet no, vuole risolvere, non vuole fare finta solo per il bene della figlia. La loro unione andrà avanti fino alla morte di Eric, ma il dolore non arriva subito, si fa attendere come le cose importanti, la aggredisce alla fermata dell’autobus, al calare del sole in un momento qualunque di una giornata come tante. Il dolore è come “un sacco di cemento armato a presa rapida” rovesciato dentro di lei, la paralizza, ma poi la apre del tutto. È il momento di raccontare a Penelope, di sdoganare quel peso che riguardava lei ed Eric, il tradimento, la loro unione.
Dopo la morte di Eric, Juliet ricomincia con altri lavori, riprende gli amati studi classici, ma se un tempo si appassionava a Briseide, Criseide e alla mitologia, finisce per dedicarsi al romanzo greco, a quella produzione tarda, più sentimentale e artificiosa. Penelope se n’è andata, per un po’ le scrive, poi più nulla, Juliet la cerca, ma non la trova. Saprà di lei per caso, da un’amica: Penelope ha cinque figli ed è probabilmente felice. Ma non è la Penelope che stava cercando, quella Penelope non c’era più, non esisteva.
Juliet ora lavora qualche ora al caffè, spera di ricevere una parola da sua figlia, ci spera “come la gente di buon senso può sperare in una felicità immeritata, un perdono spontaneo, roba così”.
TITO VESPASIANO STROZZI
(a 590 anni dalla nascita)
Tito Vespasiano Strozzi (1424-1505) è considerato insieme al Boiardo il più notevole poeta ferrarese del periodo umanistico, compose in latino egloghe, sermoni (che anticiparono le Satire dell’Ariosto), epigrammi e il poema epico Borsiade, dedicato alle imprese di Borso d’Este. Ma è anche e soprattutto ricordato per l’Eroticon, una raccolta di elegie del 1443, più tardi ampliata con l’aggiunta di quattro libri di Aelosticha (poesie varie). Molto interessante, nella sua produzione lirica, è il tentativo di risolvere nelle formule della poesia latina, in specie quella di Tibullo, le tematiche creative petrarchesche.
Nei testi dello Strozzi si rispecchiano non solo le proprie vicende personali, come ad esempio il suo amore per Anzia, una fanciulla che poi lo tradì alla stregua delle epiche donne cantate dai diletti poeti elegiaci latini, bensì anche le vicende e i protagonisti della splendida corte ferrarese. I suoi versi sono insomma un crogiolo di avvenimenti familiari e cittadini, tuttavia «il sentimento che in lui ha calore – scrive lo storico Antonio Piromalli – è quello della borghesia che costruisce torri, case, palazzi e si accresce nel dominio insieme alla nobiltà recente sotto la protezione della dinastia estense della cui vita esso vive. Può anche tale immagine essere nella sua poesia non priva di retorica ma si tratta, in ogni modo, di una retorica non priva di senso e motivata perché lo Strozzi ha radici ben piantate nel terreno borghese-cortigiano».
In effetti, Tito Strozzi ebbe dalla casa d’Este, della quale scrisse pure un trattato sulle origini, Origo estensium principum, larga messe di benefici. Venne incaricato quale accompagnatore di Eleonora da Napoli a Ferrara, fu nominato governatore del Polesine da Ercole I, combatté per difendere Argenta dai veneziani, governò la cittadina di Lugo. Nel 1497 divenne giudice dei XII Savi, distinguendosi in tale veste, secondo la concorde testimonianza degli storici, per gli spietati metodi applicati verso i sudditi nell’esigere le tasse e i tributi. Ricco, borghese, intelligente e ambizioso, pare che lo Strozzi sia stato uno degli uomini più odiati dal popolo ferrarese.
Il figlio Ercole Strozzi, nato nel 1473, fu anch’egli ottimo poeta in lingua latina mentre, per buona parte della sua vita, avversò l’umanesimo volgare. Affiancatosi al padre nella magistratura e ostentando il medesimo spirito conservatore e aristocratico, divenne anch’esso assai impopolare in città. Lo testimonia una lettera scritta nel febbraio del 1505, anno della morte di Tito Vespasiano, da Benedetto Capilupi (un cortigiano-diplomatico) a Isabella d’Este: «M. Hercule Strozzo è in gran travaglio perché l’à tutto il popolo contra, ma si crede che ’l resterà per questo anno in ’l officio et fictanze […]. Se ’l resta serrà cum mala satisfactione dil popolo». Tre anni più tardi, Ercole venne assassinato.
Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013
Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi è intervenuta ieri al XVI Congresso Nazionale dell’Arci in corso a Bologna per ricordare la campagna #vialadivisa che sta portando avanti assieme ai familiari di altre vittime delle violenze delle forze dell’ordine. La richiesta è la destituzione dei quattro poliziotti condannati per la morte del figlio. I seicento delegati hanno aderito alla campagna con un flash mob sollevando un foglio con l’hashtag dell’iniziativa.
Il Congresso dell’Arci si concluderà domani con l’elezione del nuovo presidente nazionale. Per la prima volta si fronteggiano due candidati: Filippo Miraglia e Francesca Chiavacci, una contrapposizione che sta suscitando non poche tensioni tra i delegati e un acceso dibattito interno.
Da MONACO DI BAVIERA – In occasione dei cento anni dalla nascita di Alfred Andersch (Monaco di Baviera, 4 febbraio 1914 – Berzona, 21 febbraio 1980), attento e sensibile scrittore, editore e produttore radiofonico tedesco, si vuole dedicare a lui questo breve saggio sull’eco dell’opera di Bassani in Germania, ricordandolo come lo scrittore tedesco che più di ogni altro negli anni sessanta ha contribuito alla diffusione dell’opera dello scrittore ferrarese.
Le traduzioni dei romanzi e dei racconti di Giorgio Bassani sono apparse in Germania proprio negli anni in cui i tedeschi cominciavano ad occuparsi molto seriamente del loro passato nazista. Negli anni cinquanta, nel periodo del miracolo economico, il ricordo del Nazionalsocialismo fu bandito. I tedeschi avevano tentato di allontanare persino dai ricordi quell’epoca buia della loro storia. “Si cercò di evitare di pensare alla storia, si viveva e si pensava solo al presente. Lo stato e la politica non erano più in primo piano” così scrive di quegli anni il giornalista Helmut Boettinger in una retrospettiva degli anni ’50 nella Germania Ovest.
Questo atteggiamento cambiò negli anni sessanta, soprattutto ad opera del movimento del ’68. In questi ultimi anni si sono rivolte molte critiche al movimento studentesco, spesso anche giustificate, ma rimane incontestabile che si deve a quel movimento l’aver riaperto la discussione sul Nazismo, sul fascismo e l’aver messo in evidenza il ruolo delle diverse classi sociali nello sterminio degli ebrei. Soprattutto all’interno delle famiglie borghesi, nacquero forti scontri generazionali tra padri e figli, su chi fosse responsabile di quei misfatti. In quegli anni, vennero anche riscoperti nelle università testi letterari e filosofici di ebrei e antifascisti emigrati, che nel dopoguerra erano stati dimenticati o, peggio, nascosti. L’interesse per la cultura di lingua tedesca dell’esilio (la famiglia Mann, Walter Benjamin, Bertold Brecht, la Scuola di Francoforte, ecc.) trovò un nuovo impulso. Si scoprì anche la letteratura antifascista degli altri paesi europei, come per esempio i romanzi dello spagnolo Jorge Semprun, dell’austriaco Jean Amery che viveva in Belgio, il diario dell’olandese Anne Frank, i romanzi degli italiani Cesare Pavese, Alberto Moravia, Ignazio Silone, Primo Levi, oltre all’opera di Giorgio Bassani.
Ma ci sono differenze fra autori e artisti diversi. Per Primo Levi era centrale la realtà dei campi di concentramento nazisti. L’esperienza della resistenza contro l’occupazione nazista è narrata da Beppe Fenoglio. Roberto Rossellini ha rappresentato in Roma città aperta il comportamento delle truppe tedesche durante l’occupazione di Roma. Leggendo invece l’opera di Bassani “con occhi tedeschi” colpisce che il suo interesse si focalizzi sul fascismo, sull’Italia e su Ferrara. Alcuni dei protagonisti dei suoi romanzi vengono deportati in Germania e uccisi dai nazisti nelle camere a gas. “Dopo una breve permanenza nelle carceri di Via Piangipane, nel Novembre successivo furono avviati al campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, e di qui, in seguito, in Germania” (epilogo de Il giardino dei Finzi Contini). L’attenzione dello scrittore ferrarese è posta in particolare sul fallimento della borghesia italiana, soprattutto della borghesia ebrea in una città di provincia come Ferrara. Noi tedeschi siamo stati e rimaniamo colpiti dal modo con cui Bassani evidenzia criticamente le molte contraddizioni interne della borghesia ebrea.
Fotogramma Il giardino dei Finzi Contini
Nella Germania del dopoguerra dominavano due posizioni nei confronti degli ebrei, presenti in tutti i dibattiti politici: c’era ancora un latente ma talvolta chiaro antisemitismo, e si affermava un’immagine manichea del mondo. C’erano i nazisti e i loro simpatizzanti da una parte, gli antifascisti democratici, gli ebrei ed altri gruppi discriminati durante il periodo nazista, dall’altra. Tertium non datur. Era impensabile in Germania l’esistenza di cittadini ebrei che simpatizzassero con i fascisti, come invece avvenne a Ferrara fino alla promulgazione delle leggi razziali. Dalla lettura dei romanzi di Bassani, infatti, emerge un certo fascino esercitato dal fascismo sulla borghesia cittadina ed anche su quella ebrea. Forse per questo i romanzi di Bassani hanno avuto una sorprendente risonanza presso il pubblico tedesco: il suo antifascismo era più sottile e nascosto rispetto a quello di molti scrittori tedeschi dell’esilio.
A differenza di quanto successe soprattutto nella Repubblica Democratica Tedesca, dove l’antifascismo era rappresentato esclusivamente come qualcosa di eroico, Bassani non creò eroi. Ci si può facilmente identificare con i personaggi di Bassani e con i loro sentimenti (in particolare con la figura di Micol protagonista femminile de Il giardino dei Finzi Contini). L’ambiente borghese del Romanzo di Ferrara era, in ogni caso, molto più vicino alla sensibilità del lettore tedesco di quanto non fosse l’ambiente proletario descritto dagli scrittori della tradizione comunista. Per esempio, ci si sentiva vicini alla sensibilità del Dottor Fadigati, perché quell’atmosfera piccolo borghese si respirava anche nelle città tedesche.
Fra gli autori tedeschi degli anni sessanta, Alfred Andersch è stato colui che più di ogni altro ha avuto il grande merito di aver fatto conoscere l’opera di Giorgio Bassani in Germania. I suoi romanzi, infatti, hanno molte affinità con quelli di Bassani. Anche Andersch evidenzia il ruolo della borghesia nel movimento nazionalsocialista. Paradigmatica per esempio la domanda di Andersch nel racconto Il padre di un assassino incentrato sulla figura del filologo classico professore Rex: “E’ possibile che l’umanesimo non ci protegga?” Ricordiamo che la figura del filologo è ispirata al padre di Heinrich Himmler, l’assassino nazista. Si devono ad Andersch i primi apprezzamenti per l’opera di Giorgio Bassani nell’ambiente letterario di lingua tedesca, sua è infatti la laudatio in occasione del conferimento allo scrittore ferrarese del premio Nelly Sachs nel 1968. E il suo saggio Sulle tracce dei Finzi Contini è tra i più bei testi dedicati allo scrittore ferrarese e a Ferrara.
Quando si parla del rapporto tra Giorgio Bassani e la Germania, non si può non ricordare la sua ammirazione per Thomas Mann. La personalità e l’opera di Mann erano tenute anche in grande considerazione dalla famiglia Croce, legata da rapporti di grande amicizia a Bassani. Lo scambio epistolare tra Benedetto Croce e Thomas Mann degli anni ’30, mostra quanto questi grandi intellettuali europei si apprezzassero. Civiltà e cultura (parole mai tradotte in tedesco da Mann) erano i valori centrali di quella corrispondenza, importanti leitmotiv anche nell’opera di Bassani. Ma entrambi, sia Giorgio Bassani sia Thomas Mann, non sono più figure di riferimento nella cultura tedesca di oggi, sono poco presenti nella cultura delle giovani generazioni e vengono considerati scrittori di un’altra epoca. E questo è un grande peccato, ma è la realtà.
Cuochi, cantanti, manager, scrittori: la formula del master televisivo ha ormai un approdo per qualsiasi talento o aspirazione. Mancano ancora i giornalisti ma, vedrete, sarà solo questione di tempo.
Il format talvolta è superficialmente divertente e apprezzabile. Ma cosa premia? La conformità, non certo l’originalità. Le varie giurie di norma scelgono e selezionano non l’inventiva e la creatività, ma l’aderenza a un modello standardizzato o a una tendenza in voga. Non siete d’accordo? Provate a domandarvi se voci ‘stonate’ come un Vasco Rossi o un Paolo Conte avrebbero mai potuto dimostrare il loro X factor. Io ne dubito seriamente.
Si obietterà: la realtà (per fortuna!) non si risolve all’interno di un contenitore televisivo. Però, data la pervasività del mezzo e la sua sempre più marcata disposizione a imporsi come agenzia formativa accanto a famiglia e scuola – con forza e mezzi persuasivi spesso superiori a quelli che sono in grado di dispiegare genitori e insegnanti – viene da chiedersi quale messaggio veicolino tali programmi così in auge. Il rischio è che consegnino ai nostri figli la convinzione che si vince solo stando nel coro. Che non è in assoluto nemmeno un’indicazione fuorviante, purtroppo. Ma è di certo un orizzonte deprimente.
“Una piccola città per la cultura” è lo slogan del copparese Salotto letterario “Voci d’insieme”, un messaggio anticipatore della professoressa Zanella, notissima e bravissima insegnante, una vera istituzione del sapere, che con grande entusiasmo sollecitò ben venti docenti locali ad aderirvi nel momento del suo atto costitutivo, e così fu.
Ci si vide per la prima volta il 23 ottobre del 2007 a palazzo Zardi, per promuovere quello che si aveva in loco, in alcune note località del nostro paese ma, soprattutto, in Spagna e in Argentina.
Si partì, ovviamente da Copparo, dal gazebo del bar Jolly con la presentazione di un libro, poi in quello della Dolce vita con un giovane scrittore indigeno e, successivamente, alla vetrata Carducci dell’Albergo da Giuseppe con due pittori del posto, per chiudere il primo ciclo, al Museo della civiltà contadina alla Tratta, con una serata tra enogastronomia, musica e la lettura di alcuni stralci di un bel libro in dialetto copparese.
Piacque molto, e con la presenza iniziale di una quarantina di persone tra scrittori, pittori, musicisti, letterati e qualche pasticcino con il tè, si animò l’avvio di un clima culturale nuovo.
Poi si continuò, anche in altri luoghi, dentro all’ampio perimetro del bellissimo centro storico dove troneggia il torrione della delizia estense.
Alcuni itinerari in Copparo: al De Micheli, alla sala Braiati, al salone delle feste della Cavallerizza, al ridotto del teatro, al parco delle piscine, negli stand del Settembre copparese.
E ancora: le location scelte per cene letterarie, uno spritz appoggiati ai tavolini, con sgabello scomodo, sotto i portici di levante e ponente; poi letture dei dialetti e righe di poesie, i 150 anni dell’unità d’Italia, poi alle feste dei rioni, negli angoli del ciottolato di via XX settembre, a raccontare storie degli estensi e dei legati pontifici, aneddoti e tradizioni del ‘900.
Il cuore di tutte queste bellissime iniziative per la cultura fu, con “lo scialle dei ricordi”, un pubblico interessato tra i tanti tavolini a tre piedi nel salone delle feste del Parco verde, un po’ di musica, storie e racconti, riconoscenze, letture e band giovanili, qualche assaggio di pasticcini per completare il tutto.
Ora ci si concentra sulle quattro domeniche pomeriggio al salone del Palazzo Zardi, a fine inverno, a inizio autunno, con un ritorno che sta trovando moltissimi riscontri di pubblico, anche nel territorio più vasto, quello delle Terre “alte” di mezzo che occupa ben sei comuni e ventisei piazze del copparese.
Un Salotto che sta gestendo al meglio i quattro premi Braiati di arti figurative e il nuovo premio Cavalazzi sui libri gialli, e che coinvolge alunni e studenti delle scuole elementari e medie di Copparo e, soprattutto, le scuole superiori della provincia, nel partecipare ai bandi di concorso.
Premi che impongono un iter complesso e ben dettagliato: gli elaborati, oltre i 200, una commissione esaminatrice di valore, una premiazione al Teatro comunale con il pienone fino alla seconda galleria. Quest’ultimo rappresenta la punta più alta dell’attività culturale del Salotto copparese.
All’inizio, sul Salotto ci fu qualche mugugno e indifferenza, poi la prima attenzione della biblioteca, poi della provincia, del teatro, e anche richieste di uscite ad Ambrogio, a Tresigallo… e ora l’invito, a breve, alla Biblioteca Ariostea di Ferrara.
Che dire, dopo oltre 8.000 presenze, se non grazie alle amiche del Salotto!
Vista dall’alto dell’aereo che punta verso Est, Ferrara è un puntolino quasi invisibile, pochi secondi e si è già sulla palude di Venezia, la meravigliosa città in putrefazione, mangiata dalle pantegane, che sono enormi, panciute, loro digeriscono tutto, presto anche il campanile di San Marco e la speranza è una sola, che non diventino un boccone prelibato dei ristoranti alla moda, nouvelle cuisine consigliata dai grandi gourmiers oggi divenuti i marlonbrando della nostra asfittica televisione dominata, a suon di miliardi (nostri), dai Bruno Vespa, dai Giletti, dalle Venier e quant’altri abbia l’occasione di passare di lì e abbia disponibile una buona lingua avvezza al letamaio. Che dicevo? Ah, si, parlavo del puntolino Ferrara, che dall’aereo sparisce così in fretta alla vista del viaggiatore. Meglio così, Ferrara merita poco purtroppo, di tanto in tanto risorge dalle nebbie di un distratto letargo, e di un oblìo anche da parte dei suoi stessi abitanti, i quali hanno inventato, credo per loro stessi, l’aggettivo qualificativo “inculent”, che è un peggiorativo onomatopeico di indolente: i ferraresi sono inculenti, hanno passato grandi stagioni di effervescenza sociale e politica, ma ora si sono addormentati nelle vetrine di negozi sempre più poveri di merce, mentre si riempiono di paccottiglia quelli dei cinesi: è così che vive oggi il ferrarese, di paccottiglia, anche politica, oddìo se di politica si può parlare oggi in Italia, paese che ha tagliato i ponti perfino con se stesso. E Ferrara, da questo punto di vista, appare comunità emblematica, luogo che aspetta dall’alto una manna che non arriva e mai potrà arrivare; Ferrara è come ubriaca di vino di birra di pasticche, ogni politicante tira l’acqua al suo mulino e si inventa leader di nulla, cioè di piccoli movimenti senza significato sociale, senza ideologia, senza un pensiero da cui muovere, perfino la banca cittadina, quella che teneva in pugno l’economia locale, è in crisi speriamo non irreversibile, la gente ha paura di muoversi, di prendere una qualsivoglia iniziativa. Ha paura ed è caduta nell’inculenzia. Facile dire che si stava meglio quando tutti (che non fossero appartenenti a una borghesia chiusa in se stessa, arrogante e spesso anche ignorante), dicevo quando tutti erano comunisti: almeno si sapeva dove andare a sbattere la testa, c’era un partito (e questo era male, molto male) che pensava per chi non aveva testa, o voglia, o ideale. L’assenza di quel partito maledetto dai padroni e invece salvezza anche per i padroni, si fa sentire pesantemente nel momento più acuto e drammatico della crisi economica, che non è soltanto economica, ma principalmente ideologica, culturale, in cui la mancanza di solidarietà è la cifra contro la quale inutilmente andiamo a cozzare. Siamo poveri, poveri di spirito, speriamo che sia nostro il regno dei cieli.
Di un’altra Europa c’è bisogno. Un’Europa che non sia condizionata dai diktat delle banche e della finanza. La situazione è degenerata al punto da far gridare al golpe persino uno studioso serio, rigoroso e tradizionalmente misurato come Luciano Gallino: un colpo di stato che si traduce nella sottrazione della sovranità popolare da parte dei potentati economici e dei governi loro sodali.
Il segnale d’allarme che lancia è la traduzione – solidamente argomentata – del sentire diffuso fra le persone.
Il punto nodale è che al centro della politica non stanno più gli individui con bisogni e speranze dei quali i governi dovrebbero essere prima di tutto interpreti e poi strumenti capaci di fornire risposte coerenti. Le scelte ruotano attorno ad astratte valutazioni di compatibilità di sistema, laddove il sistema considerato è meramente quello economico-produttivo e prescinde dal reale benessere degli uomini e delle donne nella loro concretezza. Tali valutazioni poi trovano traduzione in parametri che misurano un presunto sviluppo e impongono il rispetto di obiettivi che ancora una volta esulano dall’esigenza di soddisfare necessità reali e alimentano semplicemente i bisogni delle ragionerie di Stato.
E’ quindi significativo l’impegno che anche in Italia intellettuali, esponenti politici, movimenti e partiti riconducibili alla sinistra antagonista e radicale stanno cercando di profondere per dare rappresentanza a questa legittima e indifferibile esigenza.
E’ avvilente però che, come regolarmente succede a sinistra, si sia incominciato a litigare e a dividersi ancor prima di mettersi in cammino.
Ed è altresì incomprensibile la ragione che ha indotto a far leva sulla presunta capacità catalizzatrice di una persona fisica, piuttosto che puntare sulle qualità del progetto e delle idee che ne sono espressione.
Contro il leaderismo e i rischi delle sue derive populiste, da sinistra si conduce una costante polemica. Eppure non si è resisto all’incoerente pulsione di sbattere nel simbolo del nascente partito che si candiderà alle elezioni per il parlamento europeo il nome del leader greco di Syriza, quasi fosse espressione di un potere demiurgico. L’Altra Europa auspicata da Andrea Camilleri e Marco Revelli, Barbara Spinelli e Moni Ovadia, Sonia Alfano e Paolo Flores D’Arcais, Luciano Gallino e Guido Viale, inciampa nell’irresistibile bisogno di dichiarare che sta “con Tsipras”.
Nessuno sottovaluta l’analisi di Weber sulla leadership e il carisma. Ma, ammesso che di questa dote Tsipras sia fornito, chi conosce l’esponente politico della nuova Grecia probabilmente già ne apprezza le qualità e non avverte il bisogno di ostentarlo quale nume tutelare.
Chi invece non lo conosce, cioè il potenziale elettore – quello più interessante in termini di strategia politica – difficilmente lo promuoverà con subitaneo entusiasmo a ‘leader maximo’, figura che ancora suscita attrazione in una certa parte della sinistra. Costui non solo non sarà attratto, ma potrebbe anche infastidirsi dall’esibizione del carneade.
Il rischio, dunque, è che, alla lettura dell’impronunciabile nome e alla conseguente domanda “Tsipras chi?”, segua un voto: non ‘all’Altra Europa’, ma a ‘un’altra lista’…
Abbiamo tenuto gli occhi puntati sui fiumi durante tutto l’inverno. Le alluvioni ci fanno ancora paura.
L’acqua, che un tempo invadeva la nostra città e che ancora oggi ogni tanto si riprende le nostre terre, è un elemento che continuamente riaffiora nella nostra storia. Tanti sono attorno a noi i segni che lo ricordano: gli argini, i nomi delle vie come viale Po, viale Volano, porta Reno o i nomi dei paesi come Porotto, Borgo Scoline, Fondoreno.
Il padimetro riportato su una colonna in marmo del palazzo municipale, all’angolo con piazza Savonarola (foto FeDetails)
Poi c’è anche un altro manufatto, che è sotto gli occhi di tutti proprio nel centro di Ferrara, ma al quale forse pochi prestano attenzione, pur passandoci davanti ogni giorno. E’ lì a testimoniare che quello tra l’uomo e l’acqua è sempre stato un rapporto difficile, una lotta continua, mai finita. Stiamo parlando del Padimetro, il misuratore delle massime piene del Po, che si trova all’angolo fra corso Martiri della Libertà e Piazza Savonarola.
E’ un bell’esempio di documento murale, en plein air e accessibile a tutti. Un idrometro monumentale, come ci dice Wikipedia, che ci racconta la storia della situazione idrologica del Po, attraverso la successione delle grandi piene del fiume dal 1705 al 1951, misurate su uno zero idrometrico, o livello di guardia, individuato a Pontelagoscuro.
Ciascuna di loro supera in altezza quella precedente, con l’eccezione di quelle del 1857 e del 1872.
Pur non avendo un valore storico, poiché non sono registrati tutti gli avvenimenti che si sono succeduti nel tempo, il Padimetro riesce a dare un’idea precisa di quello che si è verificato nel bacino del Po, e dei suoi affluenti, dal ‘700 in poi.
Da quel periodo le frequenze delle piene, e il loro livello, hanno avuto un costante incremento, dovuto a un peggioramento climatico, ma anche all’azione antropica di disboscamento nelle parti montane del bacino del fiume.
La conseguenza di questi fenomeni è stata l’ aumento di portata del Po e l’incremento di sedimenti, con il conseguente aumento del livello idrometrico.
Di questi avvenimenti segnalati dal Padimetro, alcuni hanno solo gonfiato il letto del fiume o hanno provocato delle rotte a monte di Ferrara, altri invece hanno riversato masse d’acqua nel nostro territorio provocando danni e lutti.
Volendo individuare le rotte più importanti nei tre secoli presi in considerazione, meritano attenzione quella del 1705, del 1872 e quella del 1951, anche se in questo caso la rottura dell’argine avvenne a sinistra del fiume, a Occhiobello.
La prima, documentata da Franco Cazzola (nel suo “La Bonifica del Polesine di Ferrara dall’Età Estense al 1885 “) si verificò nel novembre del 1705. Forti venti di scirocco da Sud-Est portarono abbondanti piogge in tutta l’Italia del Nord ed un contemporaneo rialzo del livello dell’Adriatico. Il Po ruppe in 15 punti. Cominciando dal mantovano e dal modenese, le acque entrarono nell’alveo del Panaro e ne ruppero l’argine di destra. Da qui arrivarono fino a Ferrara, dove, per evitare danni maggiori, furono pure murate le porte della città.
La piena fu talmente potente che le acque allagarono tutto il territorio fra Po e Volano per defluire nelle Valli di Comacchio. Solamente dopo molti giorni, i venti si attenuarono e il mare cominciò ricevere le acque che ormai ricoprivano gran parte del territorio.
Più di un secolo dopo, particolarmente grave è risultata la rotta di Revere del 28 ottobre 1872, chiusa solamente il 18 gennaio dell’anno successivo. Questa rotta avvenne fra il Secchia e il Panaro. L’angolo fra quest’ultimo e il Po era più basso rispetto alle zone contigue, per cui si formò un grande lago all’interno del comune di Bondeno che raggiunse la profondità massima il 30 ottobre con 7,14 metri. Numerose abitazioni furono distrutte e circa 50.000 persone furono costrette ad essere ospitate nei paesi vicini, molti si adattarono costruendo delle capanne con fango e paglia nei punti più alti dell’argine del Po, in attesa del ritiro delle acque. Il deflusso durò per molti mesi. Quotidianamente la Gazzetta Ferrarese (il giornale locale dell’epoca) pubblicò per un lungo periodo l’altezza dell’acqua nel territorio sommerso. Ancora ad aprile del 1873 erano allagati i terreni più bassi fra Scortichino e Pilastri.
Infine nel secolo scorso, il 14 novembre 1951, in seguito ad abbondanti precipitazioni si aprirono sull’argine di sinistra del Po, nel territorio del comune di Occhiobello tre bocche di rotta che rimasero attive fino al 20 dicembre dello stesso anno.
Furono allagati oltre 100.000 ettari della province di Rovigo e di Venezia, trovarono la morte circa cento persone, mentre più di 180.000 dovettero lasciare le proprie abitazioni: andarono perduti migliaia di capi bovini e di altri animali d’allevamento. Nel decennio successivo lasciarono in modo definitivo il Polesine 80.000 abitanti con un calo della popolazione nella provincia di Rovigo del 22%.
Le tacche del Padimetro, e le storie che raccontano, ci riportano ad oggi, con ancora negli occhi le tristi immagini delle campagne modenesi allagate. Un disastro che forse si poteva evitare se si fosse mantenuta la memoria del complesso rapporto tra la terra e l’acqua che ha da sempre caratterizzato la storia del bacino del Po e in particolare di Ferrara.
Sabato 15 marzo alle ore 16 a Palazzo Bonacossi (via Cisterna del Follo, 5) Tilt, La fabbrica di Nichi-Ferrara e il Coordinamento Provinciale di Ferrara di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie organizzano un incontro per addentrarsi nel complesso mondo del gioco d’azzardo e delle ludopatie.
Un paese dove si spendono circa 1450 euro procapite,neonati compresi, per tentare la fortuna con videopoker, slot-machine, gratta e vinci, sale bingo, e dove si stimano 800mila persone affette da dipendenza da gioco d’azzardo e quasi due milioni di giocatori a rischio. In virtù di questi dati l’Italia occupa il primo posto in Europa e il terzo posto tra i paesi che giocano di più al mondo.
Il settore del gioco d’azzardo mobilita il 4% del Pil nazionale, con un fatturato legale stimato nel 2011 in 79.9 miliardi di euro, a cui si devono aggiungere, mantenendoci prudenti, i dieci miliardi di quello illegale. E’ la terza impresa italiana, l’unica con un bilancio sempre in attivo e che non risente della crisi che colpisce il nostro paese.
Dietro questi numeri ci sono storie, fatiche, speranze che si trasformano per tanti in una trappola psicologica ed economica. Un cappio che si stringe non solo intorno ai giocatori, ma condanna intere famiglie la cui vita viene stravolta da un giorno all’altro: mogli che non riconoscono più i loro mariti, figli che perdono un genitore che non ha più tempo per loro, parenti che vorrebbero aiutare ma non trovano una soluzione efficace e nemmeno un efficace sostegno da parte della società e dei servizi alla salute.
Questo è il mondo del gioco d’azzardo in Italia. Sabato pomeriggio ne parleremo con: Luisa Garofani, psichiatra e responsabile del SerT di Ferrara, Daniele Poto, giornalista autore del dossier di Libera Azzardopoli 2.0, Simone Feder, psicologo e coordinatore dell’Associazione Movimento No Slot, e Franco Borgo, deputato di Sinistra Ecologia e Libertà.
Nella primavera fiorentina che offre ancora in certe ore e in certi momenti la possibilità di provare la sconvolgente esperienza della sindrome di Stendhal per la bellezza assoluta di cui questa città sembra avere inesauribile riserva, si esce alla mattina con i rigorosi principi del rispetto per quella città e per i suoi monumenti.
Muniti di sacchetti e di pacchetti di vecchi giornali volonterosamente ci si avvia alle aree interrate dove puoi scaricare le tue deiezioni. Cominciano i problemi perché appena fuori dalla porta sei sballottato e spinto da migliaia di persone con a capo un/una infelice che stremato/a racconta aneddoti improbabilissimi sulla storia e l’arte fiorentine in tutte le lingue del mondo. Le code ruminanti non guardano: mangiano, parlano, ti spingono e tentano di fare stupidissimi complimenti alla Lilla che non apprezza ma che vorrebbe avvicinarsi alle loro schifezze mangerecce. Invano. Così penosamente ci avviciniamo ai depositi interrati (pochi e messi nei luoghi più trafficati). Il pensiero corre agli anziani che debbono sobbarcarsi il medesimo percorso e quindi logicamente di notte abbandonano i sacchetti sulla strada per la gioia degli animaletti e per le tristi esplorazioni dei poveretti che praticamente vivono di carità lungo i percorsi turistici. A rendere il nostro discorso più comprensivo va detto che abito nella via dove c’è l’Accademia e troneggia il David di Michelangelo, oggetto del desiderio dei produttori di fucili ad alta precisione.
Frattanto si tenta di cambiar marciapiede ma è tentativo inutile. Una minacciosa e infinita fila di motorini ben piazzati non permette lo scambio di marciapiedi. Un muro che dura centinaia di metri tra urti e imprecazioni di chi vuol passare ma non ce la fa. Dopo aver espresso ad alta voce sdegno e angoscia si guarda in alto e tra l’azzurro come un sogno di pietra la Cupola e il Campanile ti riportano alla grande bellezza, poi si riporta l’occhio all’umanità transumante e ti viene da piangere. Che sia questa la formula per cui l’arte dà un riscontro economico? Lascio all’esperienza individuale l’ardua decisione. A me sembra una città distrutta, o meglio, mangiata dal turismo che implacabilmente tra un cattivo tramezzino e l’altro osserva con occhio indifferente la commovente bellezza della città forse più bella del mondo.
Vorrei comunque capire se questo tipo di formula di cui l’ex sindaco e ora presidente del Consiglio è orgoglioso sarà poi capace di risollevarne le sorti economiche. Al di fuori delle vetrine dei massimi marchi della moda i negozi chiudono a ripetizione. Nel centro è sempre più difficile comprare biancheria o calze in una merceria: tutto il “local” diventa “global”! Resta l’artigianato più sconsolante: statuette, collanine, borsettucce a mezzo tra una tradizione fiorentina mescidata con qualche fantasiosa elaborazione dell’est o dell’Africa. E nella città divorata dalla sua stessa bellezza un discorso abbastanza insultante come quello scritto da Visentini su “La Repubblica” dove si stigmatizza il lavoro delle sovrintendenze appare in tutta la sua vacuità o meglio senso del ripetuto e dell’inutile. Se anche questa fondamentale vocazione all’autodistruzione non viene in qualche modo “calmierato” dalla difesa eretta dalle sovrintendenze che senso ha parlare di rapporto pubblico-privato? Di irrinunciabile ritorno economico delle riserve artistiche? Se poi l’opera, il monumento, il sito, viene autofagocitato dalla stessa necessità di produrre?
E’ un circolo vizioso che appare in tutta la sua per ora insolvibile contraddizione: la bellezza che produce la bruttezza o viene vinta dal suo contrario. Poi dei miracoli come la imperdibile mostra sul Pontormo e il Rosso a Palazzo Strozzi, in assoluto tra le mostre più belle e più necessarie delle mostre di questi ultimi anni: quelle che nascono da una volontà scientifica di risistemazione e di rilettura di un patrimonio già acquisito e che ha bisogno di essere ridiscusso. Poi ma in linea secondaria si attua la strategia per rendere la mostra un’attrazione turistico-economica. C’è da riflettere su questa quasi irrisolvibile contraddizione. E si pensi che se gli Uffizi hanno quel numero di visitatori che li rende ormai inguardabili seriamente, gli altri importantissimi musei fiorentini sono semideserti come tutti i musei italiani esclusi tre o quattro universalmente conosciuti. Non è dunque un caso che nella città della bellezza si assistano ad episodi così umilianti per la bellezza stessa ormai agonizzante tra i motorini che non lasciano spazio a una contemplazione del bello almeno sopportabile e la ricerca disperata dei contenitori interrati dell’immondizia.
Giocatori che segnano tutti i gol con la mano, e nessuno che protesta. Il gioco è quello del calcio da tavolo e oltre un centinaio dei suoi partecipanti si sono dati appuntamento a Ferrara tra sabato e domenica scorsi. L’incontro era per il Super9, uno dei nove migliori tornei italiani che si disputano una volta all’anno e che nel nord Italia toccano appunto Ferrara, Cremona e Torino. Per vincere la coppa a squadre di sabato e quella individuale di domenica sono arrivati dal Piemonte (Casale Monferrato) come dall’Abruzzo (Chieti), da Trentino, Marche e Friuli, oltre che dalle più vicine Modena, Brescia, Lugo, Mestre, Cremona, ma anche Roma, Pisa, Pistoia, Grosseto e Vicenza. Addosso divise decisamente sportive, ma in mano una strana valigetta, che non è di quelle ventiquattr’ore marroncine di pelle e nemmeno di quelle nere high-tech.
Squadre in gara a Ferrara per il torneo Super9 di Calcio da tavolo dell’8 e 9 marzo 2014
Quando le apri, le scatole colorate sfoderano velluti verdi come scrigni di un gioielliere ad accogliere campioni in miniatura. Ci puoi trovare dentro un Maradona compresso in due centimetri e mezzo, con la microscopica ma fedelissima maglia bianco-azzurra e i compagni del Napoli fine anni ’80. In un’altra c’è un Messi rosso-blù che capitana una squadra ideale composta da Rooney del Manchester United, dal brasiliano Neymar e dall’attaccante del Milan e della Nazionale italiana El Shaarawy. Una scatola contiene tutti i giocatori della Spal che quest’anno giocano al Paolo Mazza. Un’altra ha stampati sulle basi a mezza sfera nomi che non sai bene da dove arrivino, finché non scopri che sono amici e compagni di squadra del giocatore stesso.
Ragazzi in gara al torneo individuale di calcio tavolo
Il Subbuteo è il calcio in punta di dito inventato da un inglese alla fine degli anni ’40. In Italia ci ha giocato per lo più chi era ragazzo negli anni ’80 e pian piano ha ripreso coraggio, magari perché ha rivisto quelle scatole di minuscoli calciatori in edicola o in qualche vetrina. E’ stata l’occasione per rispolverare miniature ormai dimenticate in soffitta e per rimettere in piedi il vecchio tavolo rivestito di panno verde con le righe bianche che delineano area di porta, lunetta e centrocampo.
Matteo Balboni del Subbito Gol di Ferrara affronta Bertelli
E’ così che alcuni di quegli ex ragazzi hanno approfittato del fatto di essere diventati adulti per fare del loro divertimento di gioventù uno sport serissimo. Nel 1994 è nata la Federazione italiana sport calcio tavolo (Fisct) con un migliaio di tesserati e campionati di serie A, B, C e D. Ci sono il Campionato italiano individuale, il Mondiale, la Champions League, l’Europa League, tornei Major e Super9.
Anche a Ferrara è successo qualcosa del genere. Il presidente della squadra cittadina, Filippo Rossi, aveva poco più di vent’anni nel 1996, quando ha pensato con alcuni amici di riaprire la valigetta. Nella taverna della casa materna Pippo installa tre tavoli verdi e attorno a quelli nasce la squadra, che si chiama Subbito Gol. Nel 2003 il gruppo – che conta una ventina di tesserati – ottiene dal Comune la sede, che è all’interno di Area Giovani in via Labriola. Il posto non è distante dalla Biblioteca cittadina che prende il nome da Gianni Rodari, lo scrittore che in punta di dita sapeva scrivere con tanta meravigliosa fantasia. Uno spazio dove, a seconda di giorni e orari, si alternano graffitari, musicisti in erba, corsi di scrittura creativa, web design e tutto ciò che può interessare e coinvolgere gli adolescenti. Di ragazzi, nel Subbito Gol ce ne sono un paio che partecipano con regolarità ai tornei.
Gasparetto del SubbitoGol Ferrara con De Francesco
Quando vanno lì, comunque, tutti tirano fuori il loro cuore più giovane; poco importa che abbiano 13, 40 o 50 anni. Curiosi e nostalgici sono i benvenuti ogni venerdì dalle 21 in poi. Per tornare a sognare e accalorarsi attorno a un campo di panno verde.
Turisti mordi e fuggi, attenti alla spesa e inclini al fai da te. E’ il ritratto di una tendenza. A tracciarla è Virna Comini, presidente dell’Associazione Guide Turistiche di Ferrara e provincia, settanta associati e diversi collaboratori di lungo corso. ‘Siamo di fronte a una clientela differente da quella a cui eravamo abituati anni fa – spiega – E’ più portata a tenere il denaro in tasca, a risparmiarlo anche quando sceglie di fare la gita fuori porta. E’ una realtà con cui dobbiamo misurarci, Bologna e Rovigo organizzano mostre di grande qualità, ci fanno concorrenza e trovano gioco facile grazie all’assottigliato patrimonio artistico da visitare. Il terremoto ci ha segnato profondamente, sono chiusi il polo museale di Palazzo Massari e molte chiese, ancora non sappiamo quando verranno recuperati. Senza contare le condizioni della piazza, che è un cantiere. Non sono fattori stimolanti per il turismo’. Magari scegliendo un periodo diverso per fare i lavori sul ‘listone’, sostiene, si poteva facilitare l’accoglienza invece di scoraggiarla come sta avvenendo.
La sfida di questi anni è trattenere, fare ritornare e invogliare i turisti a una tappa prolungata nella capitale degli Estensi. ‘Il consorzio Visit Ferrara sta adoperandosi per promuovere offerte che uniscano pubblico e privato nell’interesse di tutti – spiega – C’è fermento per riuscire a sfruttare le fiere internazionali e l’Expo 2015, anche la nostra associazione partecipa al progetto con una guida in via di pubblicazione’. Nel frattempo l’alleato più potente è Matisse protagonista dell’esposizione di Palazzo dei Diamanti in programma fino al 15 giugno. ‘Primavera con Matisse’, programma di visite guidate nato dalla collaborazione con Itinerando, prevede appuntamenti il sabato, la domenica per chi dispone di MyFeCard e una tre giorni, il 27 marzo, il 24 aprile e il 29 maggio, dedicata ai visitatori ferraresi (per info: 333 1581942). ‘Insieme alle visite guidate abbiamo legato alla mostra, giocata per gran parte sulla figura femminile, un’ulteriore iniziativa intitolata Arte. Sogni e Misteri, aspettando Matisse – spiega – E’ una lettura della città attraverso l’evocazione di donne di grande spessore artistico, storico, intellettuale. Penso tra le altre a Olimpia Morata, letterata del Cinquecento meno nota di Parisina e del suo sfortunato amore dall’epilogo tragico, ma senz’altro un’innovatrice’.
Le nuove proposte – come la mostra nazionale di sculture contemporanee ‘San Giorgio, il drago e la principessa’, organizzata nel centro storico dal 10 al 24 aprile dall’associazione Stileitalico – servono ad alimentare la curiosità verso la città e a rendere accogliente. Ma si potrebbe fare di più. ‘Bisognerebbe aprire luoghi diversi dal solito, quando è successo con la Sala dell’Arengo i visitatori l’hanno gradito moltissimo – dice – Ci vorrebbe una maggior collaborazione tra categorie, tra pubblico e privato, ci sono palazzi di grande interesse da svelare. Allargare il ventaglio delle proposte ci aiuterebbe a limitare la concorrenza, a fare il salto di qualità di cui abbiamo bisogno. Personalmente posso dire che le collaborazioni nate da un obiettivo comune funzionano molto bene. Lo confermano i risultati di Viva Movida, le visite guidate promosse da Ascom, molto apprezzate anche da un pubblico di giovani’.
Il costituzionalista Michele Ainis (Corsera 4 marzo) ha chiamato in causa niente meno che la legge Basaglia per riferirsi agli emendamenti dei deputati Giuseppe Lauricella e Alfredo D’Attorre, entrambi Pd, presentati durante la discussione attorno alla legge elettorale.
Sullo sfondo la posizione del Nuovo centrodestra (Ncd) di Alfano: sistema di voto e riforma del Senato devono essere un unico pacchetto. Punto sul quale, invece, Forza italia non ci perde il sonno.
Differenza non da poco, visto che una volta approvato l’Italicum a qualcuno potrebbe venire in mente di andare alle urne già nel 2014, si è insinuato, perché gli conviene.
Ipotesi vista come fumo negli occhi da Ncd che, appena nato nel tepore dell’incubatrice parlamentare, potrebbe sparire nelle urne prima ancora di dire “mamma”. Per questo Angelino e compagnia vogliono legare l’Italicum al cambio della Costituzione perché, richiedendo tempi più lunghi, diventa più concreto lo scenario del termine legislatura alla sua scadenza naturale, il 2018, e cioè il tempo necessario per non ridursi ad una scorreggia nello spazio, come capitato fin qui a chiunque sia uscito da Arcore sbattendo la porta.
Di fronte allora al dilemma se rimangiarsi l’accordo con il Cavaliere (pur essendo all’opposizione gli ha promesso sostegno per la riforma del sistema di voto e della Costituzione), oppure ammazzare il neonato Ncd (che invece è maggioranza di governo), Renzi ha trovato negli emendamenti Lauricella e D’Attorre la via per salvare capra e cavoli, anche se con qualche scoria.
Il primo tendeva a subordinare l’entrata in vigore dell’Italicum alla riforma del Senato, il secondo a limitare l’applicazione del nuovo sistema di voto solo alla Camera, mentre per palazzo Madama, finché ci sarà, varrà il proporzionale mutilato dalla Corte.
Alla fine ha prevalso l’emendamento D’Attorre e così, con l’Italicum, avremo due sistemi di voto, uno per ciascun ramo del Parlamento.
Ora, forse, si capisce meglio perché Ainis abbia citato la legge che nel 1978 chiuse i manicomi: “C’è la prova – scrive – che il seme della follia ha ormai attecchito nelle meningi dei nostri parlamentari”.
E a proposito di follia, a nessuno con la testa sul collo verrebbe in mente di andare alle urne in queste condizioni, con la quasi certezza di trovarsi due maggioranze parlamentari diverse nelle due Camere e la prospettiva dell’ergastolo delle larghe intese.
Anche se di questi tempi ormai tutto è possibile, persino mandare un cannolo siciliano nello spazio (su QN del 5 marzo scorso).
Comunque questa situazione istituzionale sarà destinata a rimanere fino a quando i senatori non voteranno per la propria abolizione, il che, come ha detto Beppe Severgnini, è come chiedere ai pesci rossi di votare per l’abolizione dell’acqua.
Come se non bastasse, piovono critiche come delle bombe sull’Italicum.
Il politologo Gianfranco Pasquino è certo che la legge sia da buttare.
Le liste chiuse, anche se corte, continuano a non convincere. Esattamente come la presenza di più soglie di sbarramento nel caso le liste si presentino da sole o coalizzate.
Poi c’è la questione delle candidature multiple che paiono un vero e proprio scandalo: addirittura fino ad otto circoscrizioni.
Tra l’altro, sull’altare delle liste chiuse e delle multicandidature si è consumato anche il recentissimo psicodramma delle quote rosa.
Rimarrà pure un solo ramo del Parlamento, ma a qualcuno continua tremendamente a piacere l’idea che sia composto da nominati.
E così, siccome l’ipotesi più semplice dei collegi uninominali non si addice all’Italia bizantina, in molti sono tornati a suonare, alla fine inutilmente, il valzer delle preferenze, storicamente responsabili nella prima repubblica di traffici e accordi ben poco da rimpiangere.
Ma la mazzata peggiore arriva dal suo stesso ideatore.
Scrive, infatti, Roberto D’Alimonte (Sole 24 Ore 2 marzo), che troppe mani sono intervenute sulla sua idea e che bisogna rimettere mano al premio di maggioranza.
Intervento ritenuto necessario per scongiurare la possibilità, in caso di ballottaggio, di una maggioranza con premio pari a 321 seggi.
Il problema è che a Montecitorio il 50 per cento più uno è a quota 316 e così la stabilità e la governabilità sarebbe appesa a soli cinque voti di margine.
Non c’è che dire, un bel pasticcio se le sorti di un paese devono essere appese ai vari Razzi, Scilipoti, Turigliatto e compagnia cantante.
Ma, in fondo, l’impressione è che la vera partita si giochi sulla figura di Matteo Renzi.
Che sia un giocatore di poker è chiaro. Quello che è meno chiaro è se in mano abbia una scala reale servita oppure una coppia di sei.
Detto altrimenti, il Pd sul suo nuovo leader si sta di nuovo squartando e questioni come l’accordo con Forza Italia, quote rosa, preferenze, scelte di politica economica e chissà quanto ancora, sono cavalcati come pretesti strumentali per riaprire ferite mai chiuse.
Il Pd, che rassomiglia più alla saga tv dei Borgia piuttosto che ad una famiglia politica, dovrà decidersi se essere un partito, con l’accento decisamente più sull’articolo indeterminativo che sul sostantivo.
D’altra parte non è difficile immaginare che in casa azzurra più d’uno si freghi le mani ad assistere alla cottura a fuoco lento, peraltro nella propria pentola, del principale, e unico, antagonista sulla scena politica.
Per non parlare della stessa pentola.
Le stragi di figli da parte di madri lasciano sgomenti tanto urtano il senso comune. Descrivono una tragedia inscritta in un passato secolare: “Tieni lontano il più possibile i figli, non lasciarli avvicinare alla madre. L’ho già vista mentre li guardava con occhio feroce, come se avesse in mente qualcosa” (Euripide, Medea, vv. 89-92).
L’amore materno non è mai solo amore. Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore e allora può essere una delle cause di infanticidio. Talvolta, invece, una madre può uccidere il proprio bambino come atto d’amore malato, per sottrarre il bambino ad un mondo ritenuto cattivo e spietato. Spesso la depressione post partum trascurata può portare ad esiti tragici.
Una caratteristica del sentimento materno è l’ambivalenza: la donna ha il potere della vita e della morte, nella sua possibilità di generare e di abortire. Ogni figlio vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera e dei suoi affetti.
Oggi la famiglia contemporanea vive un isolamento particolare. Chiuso nelle pareti domestiche ogni problema si ingigantisce, perché non c’è altro punto di vista, manca un termine di confronto che possa relativizzare il problema o che consenta di diluirlo nella comunicazione, di attutirlo nel confronto che può provenire dagli altri.
Il desiderio materno è per sua natura un desiderio cannibalico. La madre tende a fagocitare ciò che ha generato, a riprendere il proprio frutto. Ad impedire ciò interviene la funzione paterna che ha lo scopo di frapporsi tra madre e bambino in modo di impedire la fagocitazione del bambino stesso.
L’identificazione della donna alla maternità la legittima ad entrare in modo dirompente nella vita del bambino su cui crede di poter esercitare il suo potere in nome dell’amore materno. La madre dovrà imparare ad allontanare il bambino, mentre il padre dovrà imparare ad acquisirlo.
Una madre è prima di tutto una donna, che non deve perdere di vista il legame d’amore iniziale col proprio uomo. È il desiderio per un uomo che potrà proteggerla dalla minaccia di una spinta cannibalesca nei confronti del figlio.
Una madre sufficientemente buona dovrebbe mantenere i propri interessi al di là del bambino, considerare il bambino come separato da sé e non come prolungamento di sé, dare al bambino un posto particolare, sostenendone i desideri. Non dire sempre Sì: è il NO che crea il legame.
Dovrebbe mettere in funzione il nome del padre. Continuare ad essere una donna, una moglie/compagna, ritagliare uno spazio per la coppia separato da quello genitoriale. Non sapere tutto sul figlio, non raccontare tutto al figlio, creare uno spazio di ascolto e di parola che non si trasformi in interrogatorio, non essere l’amica della propria figlia.
La madre è quell’abbraccio forte che contiene il bambino appena nato, ma è anche quella stessa madre che durante la fanciullezza trasforma l’abbraccio in una stretta di mano che accompagna il proprio figlio nel mondo ed è la stessa madre che ad un certo punto fa di quella stretta di mano una forza per spingere il proprio figlio verso gli altri e verso la vita.
Tutto ciò è difficile. Come disse Oliviero Toscani con una felice intuizione : “E’ più facile far uscire un bambino dalla mamma che la mamma dal bambino!”.
Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com
Angelo Agostini è stato senz’altro la principale cerniera fra mondo giornalistico e mondo accademico. Non soltanto perché era professore di Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico allo Iulm di Milano e giornalista professionista, brillante editorialista e autore di interessanti servizi. Questa doppia appartenenza l’hanno avuta e l’hanno anche altri. Ma perché è stato per quasi tre decenni uno snodo fondamentale fra questi due mondi, non sempre in grado di parlarsi e intendersi, animando una quantità impressionante di attività, progetti e iniziative. Soprattutto Angelo ha delineato la formazione al giornalismo nel nostro paese, sicuramente il tema che maggiormente lo appassionava e sul quale ha scritto, pensato, progettato, proposto e – soprattutto – realizzato dagli inizi della sua carriera fino alla fine.
Sostenendo che Angelo ha “creato” la formazione al giornalismo in Italia non credo di cadere in una di quelle stucchevoli iperboli frequenti quando siamo chiamati a ricordare uno stimatissimo collega, ma soprattutto un amico, quale era Angelo per me.
Certamente tanti – anche prima di lui – hanno teorizzato, proposto e lavorato perché nel nostro paese la radicata convinzione che “giornalisti si nasce” perdesse consistenza; ma sicuramente nessuno come Angelo è riuscito a far diventare tutto ciò realtà, prima con l’Istituto per la formazione al giornalismo di Bologna e poi con l’esperienza del Master allo Iulm, nonché con l’impegno in campo europeo. Angelo ha caratterizzato il dibattito sulla centralità della formazione, indispensabile per raccontare un mondo complesso, in tempi resi sempre più stretti e convulsi dalle tecnologie.
Già, le tecnologie, un altro “pallino” di Angelo. Stamattina, riguardando le annate di Problemi dell’informazione, la rivista creata da Paolo Murialdi che lo volle nel 1999 come suo successore e che Angelo si apprestava a lasciare, leggevo un suo intervento di oltre vent’anni fa in cui già indicava nel digitale la sfida che il giornalismo avrebbe dovuto affrontare. Una lungimiranza che aveva trasferito nell’instancabile azione di “progettatore” – termine per lui più adeguato di quelli di direttore e coordinatore – di formazione per il giornalismo. E che non poche critiche gli erano costate all’interno del mondo della professione, spesso lento almeno quanto quello accademico nel recepire le novità.
Seppure se così prematuramente, Angelo se ne va lasciandoci generazioni di giornalisti che ha contribuito a formare. Sono sicuro che ci avrà riflettuto in questi ultimi suoi giorni e gli si sarà aperto quel sorriso che sempre riservava agli allievi, attenuando per un momento la focosa irritazione per la politica e il giornalismo italiani, amori viscerali le cui tante imperfezioni ha osservato e descritto fino agli ultimi giorni.
*L’articolo è stato pubblicato oggi da Europa quotidiano (www.europaquotidiano.it) e da ferraraitalia ripreso per gentile concessione. L’autore è il nuovo direttore de “I problemi dell’informazione” (il Mulino)
Studioso dei media e giornalista, Angelo Agostini se ne andato l’11 marzo, a 54 anni. Giovanissimo ha contribuito a fondare l’Istituto per formazione al giornalismo di Bologna, del quale è stato condirettore e poi direttore per dieci anni. Ha in seguito fondato il master Iulm in giornalismo di cui è stato docente e coordinatore. E’ stato anche presidente della European Journalism Training Association, l’associazione europea delle scuole di giornalismo ed era direttore di “Problemi dell’informazione”, il trimestrale di media e comunicazione, edito da Il Mulino.
Fra i vari incarichi, è stato consulente della Presidenza del Consiglio per l’editoria tra il 1996 e il 1998 e direttore del corso di giornalismo della Svizzera italiana a Lugano. Ha fatto parte, inoltre, del consiglio direttivo della Federazione della stampa ed è stato membro di commissioni ministeriali per la riforma dell’Ordine dei giornalisti e per il riordino dei corsi di laurea in Scienze della comunicazione.
Potrei iniziare il mio visionario commento dicendo che lo sapevo che anche Renzi avrebbe combattuto le battaglie che avevano combattuto Bersani e Letta, battaglie contro i membri Pd deputati (gli stessi che affossarono Prodi dopo averlo proclamato con un’ovazione), del resto la maggioranza ed i parlamentari sono gli stessi, con alcuni di loro che più che persone responsabili sembrano un accozzaglia di opportunisti e parassiti, quindi il buon Renzi di cosa va lamentandosi, “chi è causa del suo mal pianga se stesso” recita il proverbio. Potrei dire che lo immaginavo che il percorso renziano avrebbe trovato ostacoli dentro il suo stesso partito, con alcuni dei membri parlamentari della direzione che votano una cosa nell’organismo di partito e, poi, in parlamento, protetti dal voto segreto, ne votano una diversa. Potrei dire tutto ciò, ma evito per rispetto del lavoro che il segretario sta tentando di fare, a proposito del quale avrei qualche annotazione critica sotto forma di domande, era il caso di “svendersi” così tanto ai voleri berlusconiani pur di dimostrare al proprio ego ed agli italiani che portava a casa un risultato (uso l’articolo indeterminativo non a caso)?
Oggi verrà presentata la “riforma shock” del cuneo fiscale, e su ciò mi pongo, da non esperto, la domanda se non fosse meglio suddividere i denari trovati tra l’Irpef e l’abbassamento dell’Irap a carico delle aziende? Siamo certi che con un pochino di denari in più ci saranno file davanti ai negozi di cittadini vogliosi di comprare qualcosa o, forse gli stessi non li metteranno in banca o per pagare i debiti contratti con la crisi o per sicurezza? Mah…
Un ultima considerazione vorrei farla sul l’intervista al segretario della Cgil in cui afferma che bisogna dare i denari ai lavoratori ed ai pensionati, intendendo, lei, con la parola lavoratori, solo il mondo del lavoro dipendente… Cara Cgil anche chi lavora in proprio è un lavoratore, e, al contrario di altri, lo è senza tutele e sta pagando questa crisi in modo almeno paritetico agli altri… smettiamola, cortesemente, con la rappresentazione che tutti gli autonomi sono evasori. E stimoliamo la politica combattere davvero l’evasione che danneggia l’economia ed in modo maggiore l’immagine di tanti autonomi onesti che le tasse le pagano, a volte, anche a fronte di redditi non percepiti.
C’è un’utile e illuminante riflessione del sociologo ferrarese Max Ascoli che riteniamo interessante riproporre ai nostri lettori poiché, a dispetto del fatto di essere stata elaborata 90 anni fa, appare ancora oggi per molti tratti attuale, per la sua capacità di illustrare alcune dinamiche motivazionali la cui chiave di comprensione risiede nella storia e nella cultura del nostro territorio. L’articolo che ospitiamo su Ferraraitalia s’intitola “Il Ferrarese” ed è stato pubblicato nella rivista di cultura politica “Rivoluzione liberale”, n. 40, il 28 ottobre del 1924. Nell’ottobre 1924, Piero Gobetti (che ha fondato la Rivista nel 1922), vuole dedicare un numero monografico di “Rivoluzione liberale” alle lotte agrarie nelle campagne padane, e chiede contributi per le loro particolari conoscenze a diversi intellettuali: Mario Missiroli, Andrea Parini (segretario di Giacomo Matteotti), Luigi Francesco Ferrari, a Max Ascoli naturalmente chiede di scrivere di Ferrara.
Max Ascoli
Nell’articolo Ascoli (Ferrara, 25 giugno 1898 – New York, 1 gennaio 1978) esamina la lotta politica primordiale che si era svolta fra contadini ferraresi, non ancora educati al socialismo, e proprietari reazionari. Nelle parole che chiudono l’articolo: “Ferrara colle sue masse di avventizi sempre sconvolte e torbide, con la sua classe di proprietari-agrari schiavisti e cinici quanto ciechi, è una infelice e per inesorabile necessità turbolenta Balcania. Ed ha offerto infatti, col Fascismo, il suo dono balcanico all’Italia. Poiché qui, in questa atmosfera di palude umana, è sorto il Fascismo, la sua nullità disastrosa l’ha iniziata gli si è plasmata qui, nel tentativo di conciliare colla forza, per far tornare proprietari i possidenti, dissensi che con la forza si inveleniscono e non si risolvono. E nel fatto che il Fascismo sia sorto in una regione socialmente e politicamente arretrata e inorganica, collocata proprio nel centro della civilissima Italia settentrionale – nella natura dei luoghi da cui il Fascismo sorse come una meridionalizzazione con spinta dal Nord – forse qui non é l’ultima causa dei mali di cui tutti soffriamo”, si comprende che Ascoli aveva perfettamente intuito, fin dal 1924, la portata decisiva dei fatti avvenuti a Ferrara per la nascita del fascismo.
“Il Ferrarese” (di Max Ascoli)
Il Ferrarese è, dicono, terra rivoluzionaria; dal 1897 non v’è più stata pace; i più noti agitatori, Pasella o Bianchi, si sono resi esperti qui nell’arte dei sommovimenti sociali, utilizzata poi con ben maggiori profitti, e altri agitatori, Rossoni e Balbo, son nati e son cresciuti qui. Pure, in ben poche regioni dell’Italia settentrionale la popolazione è tanto inerte e indifferente a tutto quel che non sia lavoro indefesso su una fecondissima terra: gente tranquilla, abituata senza sofferenze al dominio dei preti e fatta sortire da questo dominio senza rivoluzioni. E’ proprio certo che il ferrarese non invelenisce affatto con romagnola volontà di parteggiare i dissensi esistenti fra le classi e le categorie economiche, ma se questi dissensi han determinato per quasi trent’anni una permanente agitazione devono essere di natura ben complessa e grave, poiché il ferrarese di suo, di deliberato malanimo, non ci mette nulla. Tanto, che non si può parlare di lotta politica, ma di nuda lotta di classe, di pura lotta agraria, nel Ferrarese. In poche altre regioni la maturità politica, nelle classi dirigenti e nelle masse è più infantile. Prova ne siano, per le masse, i passaggi repentini, totalitari da un estremismo all’altro; e di classi dirigenti par non poterne parlare se i ceti borghesi han vivacchiato nella più gretta moderateria clericale per affidarsi poi, stremati, al Fascismo; e i dirigenti del socialismo il Ferrarese li ha sempre presi dal di fuori fra i disponibili capitani di ventura. Anche i pochi uomini d’ingegno partecipanti alle lotte politiche, son poi spinti dalla natura greve della razza a sopportare quello che nelle loro fazioni si compie: ne sian prova due uomini di opposti partiti, l’uno, il Sen. Pietro Niccolini (1) emergente appena, con scetticismo caustico sornione, fra la consorteria clerico-moderata; l’altro, Mario Cavallari, sempre, con volonteroso buon cuore, sacrificatosi ai forestieri, capitani di ventura. Son nature queste fatte più per dar Senatori che uomini di parte.
Non vi è mai stata lotta politica nel Ferrarese, ma solo rovesciamenti di situazioni: poiché qui la lotta politica è solo la rivelazione travolgente e esacerbata di una mai risolta situazione economica. Ogni principio politico ha per il Ferrarese la propria promessa, e ogni principio viene quindi accolto torrenzialmente: nella lotta politica cioè la situazione economica rivela sempre lo stesso groviglio, e non si risolve. Se il ritmo della politica è tutto lineare e tragica lotta di classe, allora la Provincia di Ferrara merita d’essere alla testa d’Italia poiché qui la lotta di classe è nuda; ma qui appare verosimile un principio alquanto diverso dalla nuda enunciazione della lotta di classe che, appunto perché anima sottintesa d’ogni conflitto economico e politico, non può mai essere affrontata nei suoi termini crudi. Come si poté giungere a questa disastrosa lotta di classe che tramutò quasi di colpo la più completa conquista socialista in dominio fascista spostando appena alcuni, e non tutti, fra i dirigenti locali? Il socialismo fu qui il perfetto fratello cadetto, il ricalcatore non sempre originale del capitalismo. Le grandi opere di bonifica (2) attrassero i lavoratori da tutte le zone vicine, aiutarono il disgregamento della unità familiare colonica nelle terre vecchie, chiamando a sé i contadini più sradicabili, pronti ad abbandonare i complessi vincoli di subordinazione nella vita colonica per ridursi a proletari viventi a salario di danaro. Le grandi opere di bonifica diedero una enorme massa proletaria al Ferrarese, attrassero braccia col ritmo stesso con cui la grande industria stacca i lavoratori dalla campagna per renderli operai nei suburbi della città. E i proletari ferraresi, terminate le opere di bonifica, non trovarono la disciplina della fabbrica o la vita dei centri urbani, ma solo l’obbligo di ritornare contadini senza legame alcuno con la terra – contadini appunto viventi a salario di danaro – peggio ancora che braccianti, avventizi.
La condizione quindi, così delineata da un ventennio, si presentava straordinariamente propizia alla lotta di classe, sopratutto alla lotta di classe intesa in senso sindacalista. Qui non era necessario dare agli agricoltori coscienza proletaria, se il proletariato agricolo c’era, creato dalla grande industria: bastava strappare le altre categorie di lavoratori legati da patti di cointeressenza alla terra del proprietario (piccoli affittuari, mezzadri e, sopratutto obbligati (3), ridurre il più possibile ogni forma di ricompensa al salario di danaro, spezzare cioè ogni altra categoria che non fosse quella degli avventizi, fino a identificare con questa l’intera classe dei lavoratori della terra. Pressoché tutte le agitazioni tesero appunto a questo: proletarizzare i lavoratori del Ferrarese strappando nello stesso tempo alla classe proprietaria quelle concessioni e quegli aumenti di salari che togliessero i lavoratori dalla miseria e dessero loro quel tanto di relativo benessere che occorre per condurre una lunga lotta rivoluzionaria. L’ultima agitazione, nel 1920, aveva chiarissima, troppo chiara sventuratamente, questa meta finale. In essa l’elemento politico rivoluzionario dominava su quello economico: tanto che nel patto Zirardini (Marzo ’20) appena e non del tutto i salari stabiliti raggiunsero quelli dell’anteguerra, tenendo conto del deprezzamento della moneta. Il patto Zirardini concretò la situazione rivoluzionaria del ferrarese con l’ufficio di collocamento. Con esso il proletariato veniva insieme disciplinato ed educato rivoluzionariamente ad un vero controllo sulla gestione delle aziende agricole: nella regione cioè cui le grandi bonifiche diedero un proletariato industriale costretto al lavoro agricolo, gli uffici di collocamento furono l’esatto equivalente dei consigli di fabbrica. Il patto Zirardini fu stipulato nel marzo del 1920. Alla fine del ’20 cominciò l’offensiva agrario-fascista, alla metà del ’21 tutta la Provincia di Ferrara era fascista, e tutto il rivoluzionarissimo proletariato ferrarese era passato nei Sindacati di Edmondo Rossoni.
Che cosa era avvenuto? Non vi era dunque una coscienza rivoluzionaria – la nuda lotta di classe per lo sradicamento ormai ottenuto degli operai dalla terra, non doveva produrre il capovolgimento? Il capovolgimento infatti avvenne: fatalmente, quasi senza resistenza – ma fu da Zirardini a Balbo. La enorme massa resa tutta proletaria, staccati gli ultimi vincoli che la legavano al suolo, per l’urto del fascismo, totalmente si capovolse. I senza terra possedevano ormai, attraverso le loro organizzazioni di classe, tutto il suolo ferrarese – negli uffici di collocamento avevano lo strumento per governarlo – i diritti legali di proprietà erano ormai divenuti altrettanto nominali quanto quelli degli industriali che, nell’autunno del ’20, avevano le officine occupate: e questi strumenti e questo dominio il proletariato ferrarese se li lasciò strappare di mano con una resistenza che, se si guarda a Molinella, par nulla. Possedeva ormai tutto: e, se si confronta alla enormità del dominio sfuggitogli, non reagì. Evidentemente, quindi, di questo dominio non sapeva che farsene: era troppo per lui, troppo per la sua capacità rivoluzionaria e produttiva. Poiché forse la realtà dura è questa: che nel Ferrarese non vi fu mai del Socialismo; vi fu dell’avventiziato, del leghismo, vi furono tutte le condizioni esteriori della lotta di classe, ma la coscienza di classe fu da una parte sola: negli agrari. Non fu un proletariato che si conquista la propria potenza e la propria azione rivoluzionaria, non ebbe nemmeno mai educazione alla gestione diretta della proprietà con cooperative di produzione e con affittanze collettive: gli esperimenti, limitatissimi, si debbono a riformisti condotti nel Portuense da Mario Cavallari ed Antonio Bottazzi e nel Bondesano da Ugo Lugli.
Pareva un proletariato armato, del tutto simile a quello della grande industria, ed era invece un regalo della grande industria: operai sradicati dalla terra, inquieti e torbidi, che vollero forse la terra, ma senza avere né l’educazione dell’industria né quella dell’agricoltura. E la rivoluzione che pareva imminente e matura fra centomila organizzati, abortì per l’urto di alcune centinaia di fascisti. Il Ferrarese ora non è fascista come non fu socialista; occorre altra anima, altra preparazione economica, per concedersi il lusso delle lotte politiche. Il problema unico, vero è quello dell’avventiziato che fu creato dal Capitalismo, che il Socialismo tentò di risolvere con la costruzione di un edificio crollato in poche ore – edificio che i fascisti distrussero si ma per montare la guardia intorno ai suoi imponenti ruderi e per contribuire alla risoluzione essenziale del problema, praticamente, con niente. Il loro programma agrario fu la solita formula: la terra ai contadini. Ma la verità più intima fu: i contadini alla terra. E i contadini, infatti, furono non radicati ma sbattuti alla terra e tenuti ben proni ad essa: non si frazionò la proprietà che in scarsissima misura, non si fece risorgere dopo il livellamento provocato dal Socialismo, la categoria così tipicamente ferrarese degli obbligati; appena dove fu possibile, favorì il sorgere della mezzadria e della piccola proprietà o affittanza, ma il problema fondamentale del Ferrarese rimane inalterato in tutta la sua grandiosità; peggio, forse, aggravato. Poiché, dopo che il Fascismo diede la sicurezza ai proprietari, il valore delle terre ferraresi, in quattro anni triplicò: si era giunti a quattro o cinque mila lire l’ettaro, ed ora si è arrivati a tredici, quattordici, quindicimila. E i nuovi proprietari, affittuari, mezzadri molto spesso non sono ferraresi ma veneti, romagnoli, cremonesi e bresciani perfino, chiamati a Ferrara dall’ora vivissimo commercio di terre che sono fra le più feconde d’Italia. Così nuove famiglie ferraresi devono andare ad ingrossare la massa degli avventizi. Come rimedio o palliativo temporaneo, vanno sorgendo per la Provincia stabilimenti industriali, zuccherifici, essiccatoi di tabacco, fabbriche di conserve alimentari. Ma poco fa la fabbrica in campagna, fra operai avventizi, quando il lavoro è saltuario. E poi il problema e la risoluzione del problema è agricolo, e non industriale: costruzione di opere coloniche nelle grandi terre di bonifica, educazione della massa alla gestione e alle affittanze collettive, intensificata diffusione del cooperativismo. Si è, si era agli inizi con una povera massa sprovvista quasi di tutto, materialmente e moralmente: e si faceva già del comunismo!! Il Ferrarese – se è una povera terra vittima della sua ricchezza – vittima della grande industria e dell’affarismo agricolo – vittima delle correnti troppo forti di ricchezza che affluiscono a lei e sorgono da lei e non permettono ancora alla sua economia sociale di assestarsi; sussultante per un ritmo di vita economica troppo forte per quel ché può essere sopportato nelle vicende della terra. Economicamente sviluppatissimo, socialmente primordiale, politicamente gretto o infantile… Si avrà ritmo normale di attività, quando si potrà trovare un equilibrio fra questi tre aspetti di vita. Per ora di fronte alla solidità politica e sociale del Bolognese e della Romagna, Ferrara colle sue masse di avventizi sempre sconvolte e torbide, con la sua classe di proprietari-agrari schiavisti e cinici quanto ciechi, è una infelice e per inesorabile necessità turbolenta Balcania. Ed ha offerto infatti, col Fascismo, il suo dono balcanico all’Italia. Poiché qui, in questa atmosfera di palude umana, è sorto il Fascismo, la sua nullità disastrosa l’ha iniziata gli si è plasmata qui, nel tentativo di conciliare colla forza, per far tornare proprietari i possidenti, dissensi che con la forza si inveleniscono e non si risolvono. E nel fatto che il Fascismo sia sorto in una regione socialmente e politicamente arretrata e inorganica, collocata proprio nel centro della civilissima Italia settentrionale – nella natura dei luoghi da cui il Fascismo sorse come una meridionalizzazione con spinta dal Nord – forse qui non é l’ultima causa dei mali di cui tutti soffriamo.
NOTE (1) Al Niccolini si deve uno studio lucidissimo e meritatamente ritenuto quasi classico, sulla questione agraria nel Ferrarese. L’opera del Niccolini (La questione agraria nella Provincia di Ferrara – Ferrara, 1907) può ancora essere con grande profitto consultata poiché dal 1907 ad oggi non si può purtroppo dire che la situazione sia nelle sue linee essenzialmente mutata. (2) Una sola bonifica, detta “La Bonifica” per antonomasia, promossa da gruppi capitalistici torinesi, ha aumentato il suolo coltivabile ferrarese di 16.000 ettari. (3) Il patto con gli obbligati è tipicamente ferrarese e fu già diffusissimo nella Provincia con grande, beneficio nell’agricoltura. L’ obbligato vive sul fondo e viene ricompensato oltre che con l’alloggio la legna ecc., con salario di lavoro e con una cointeressenza variamente graduata alle colture.
Si ringrazia la Dr.ssa Anna Maria Quarzi, Direttrice dell’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara, che ha contestualizzato l’articolo nel delicato periodo della storia ferrarese in cui è stato scritto.
L’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara ha dedicato a Max Ascoli, nel 2008 (Ridotto del teatro comunale 23 e 24 ottobre), in occasione del trentesimo anniversario della morte, il convegno internazionale “Max Ascoli, antifascista, intellettuale, giornalista” ed è stato pubblicato a cura di Renato Camurri il libro con lo stesso titolo Max Ascoli, antifascista, intellettuale, giornalista (Ed. Franco Angeli, Milano 2012) contenente i saggi del convegno.
Ringraziamo altresì Carl Wilhelm Macke per la preziosa segnalazione del testo
Da anni è in atto una contrapposizione generazionale. Nella storia accade spesso, ma ogni volta in modo diverso. Si tratta allora, per capirne le cause specifiche, di spostarsi dal piano della polemica quotidiana, a quello culturale e antropologico.
Schematicamente organizzo il discorso mediante alcune mosse storico-concettuali per fornire qualche criterio metodologico. All’indomani della Seconda guerra mondiale, il filosofo liberale Benedetto Croce e il leader comunista Palmiro Togliatti si confrontarono pubblicamente su che cosa sia una nuova generazione. Croce ne negava l’esistenza sostenendo che il compito dei giovani era quello di invecchiare. Togliatti rispondeva che esistono peculiarità che caratterizzano una nuova generazione, ma non tutte le generazioni che si succedono sono nuove. Entrambi dicevano una cosa giusta. Per Croce, l’invito ai giovani di invecchiare significava richiamare il difficile e necessario impegno per diventare adulti e responsabili. Togliatti richiamava l’esigenza che ogni generazione, per definirsi nuova, dovesse essere portatrice di novità vere e significative rispetto a quelle precedenti.
Antonio Gramsci, in alcune note dei Quaderni del carcere, fornisce alcuni criteri che restano importanti per il nostro tema: “Una generazione che svaluta la generazione precedente, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. […]Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Una generazione che sa fare solo soffitte, si lamenta che i predecessori non abbiano costruito palazzi di dieci o trenta piani.” Questo modo di ragionare sul passato era presente nella generazione del ’68, ed è diffuso anche oggi nel comune sentire dei giovani, soprattutto nei confronti della politica.
E sulle responsabilità delle vecchie generazioni? Si interroga Gramsci: “Da dove viene l’irrequietezza dei giovani? Si può dire che essa è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, e più precisamente ciò vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera con una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare; e si dichiara una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione. In questa situazione le responsabilità sono degli anziani. Costoro dirigono la vita, ma fingono di non dirigere, di lasciare ai giovani la direzione. I giovani credono di dirigere, ma i risultati delle loro azioni sono contrari alle loro aspettative, e così diventano ancora più irrequieti e scontenti. Il risultato può essere che chi domina non può risolvere la crisi, ma ha il potere di impedire che altri la risolva.” Infine, conclude Gramsci “[… ]nel succedersi delle generazioni può avvenire che si abbia una generazione anziana dalle idee antiquate e una generazione giovane dalle idee infantili, che cioè manchi l’anello storico intermedio: la generazione capace di educare i giovani.”
Quest’ultima annotazione rappresenta bene l’attuale stallo in cui ci troviamo.
A conclusione di questo schematico e rapido percorso, mi permetto due indicazioni positive, da parte di un anziano, per un dialogo fecondo e non rissoso.
Per ciò che riguarda la politica, resta decisivo il monito di Vittorio Foa: “I valori politici non si ricostituiscono con le prediche. Vorrei vedere degli esempi, perché è dagli esempi che nasce qualcosa. Ho notato che la parola ‘esempio’ non compare più nel lessico della politica, mentre è una parola essenziale: l’esempio è la cosa più importante che si deve chiedere al politico.” E’ detto chiaro il rifiuto di ogni atteggiamento paternalistico nel rapporto tra anziani e giovani.
Per ciò che riguarda il piano esistenziale, ricordo il consiglio che dava Jean Paul Sartre ai giovani, per evitare la trappola del lamento permanente e del vittimismo: “Non è importante ciò che gli altri hanno fatto di te, ma ciò che tu farai di ciò che gli altri hanno fatto di te.” Sembra uno scioglilingua. Traduciamo: non lamentarti per tutta la vita dei condizionamenti che ti derivano dal tempo in cui sei nato, dalla famiglia in cui sei cresciuto, dal lavoro che fai, dall’ambiente che frequenti. Esci dallo stato di minorità e diventa adulto: esercita fino in fondo la dimensione personale della responsabilità. Come diceva Immanuel Kant: “Sapere aude!” Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto!
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara