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Crescono gli stranieri in regione, 180mila in più negli ultimi cinque anni

di Emiliano Trovati

La crisi non ferma il flusso dei migranti e grazie a questo la popolazione in regione continua a crescere. Dal 2008, infatti, anno di inizio della recessione, gli stranieri residenti in Emilia Romagna sono aumentati di 181.832 persone, quasi una città (è lo stesso numero di abitanti di Parma). Il dato emerge da uno studio discusso oggi in Regione, a margine del dibattito sul programma biennale 2014-2016 per l’integrazione degli stranieri.

Come indica chiaramente lo studio, è propria l’ingresso degli immigrati ad aver consentito la crescita del 10% negli ultimi dieci anni della popolazione residente in regione. La presenza degli stranieri, all’incirca di 547.552 persone su una popolazione totale di 4.471.104, è stata coadiuvata nel tempo dal programma biennale d’integrazione. Questo strumento di mediazione interculturale agisce in tre direzioni: potenziare le iniziative locali per l’apprendimento e l’alfabetizzazione alla lingua italiana, la mediazione culturale e l’informazione sui diritti e doveri degli stranieri.

Anche se negli ultimi anni gli stranieri in ingresso per motivi di lavoro si riducono, mentre sono rimasti stabili quelli per ricongiungimento familiare, secondo la Regione, nel breve periodo, sarà possibile un processo di riqualificazione dei lavoratori stranieri disoccupati.

Come emerso durante i lavori, la normativa regionale sul lavoro e immigrazione risulta datata e va cambiata. A dirlo è l’assessore al Welfare, Teresa Mazzocchi, che ha dichiarato: “la legge regionale è stata approvata in uno scenario decisamente diverso dall’attuale”. Riferendosi, invece, al programma di integrazione degli stranieri, ne ha sottolineato l’importanza, descrivendolo come “uno strumento trasversale che pone al centro della programmazione il tema di una società emiliano-romagnola interculturale, con un fenomeno migratorio stabile in cui coesistono persone provenienti da oltre 170 paesi differenti”.

[© www.lastefani.it]

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Fiera internazionale del turismo di Mosca, Emilia Romagna al top

Da MOSCA – Centomila visitatori e più di tremila aziende partecipanti che presentano oltre 185 destinazioni turistiche in tutto il mondo. Sono i numeri del Mitt, la Fiera internazionale del turismo, una delle cinque più grandi del mondo nel settore e la più grande della Federazione Russa, la cui ventunesima edizione si è conclusa sabato.

Mi sono recata all’Expocentre principalmente per due ragioni: in primis, perché quest’anno l’Italia è il Paese partner della fiera (il 2014 è l’anno incrociato del Turismo Italia-Russia, come vi abbiamo accennato nel testo sul Gran ballo russo a Roma), e volevo, dunque, verificare se davvero tutto questo parlare di cultura e arte nella nostra penisola trovava una voce in questo evento; in secondo luogo, perché mi interessava vedere se la mia bella e ricca regione vi era degnamente rappresentata.

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Mitt, stand dell’Italia

Devo ammettere che, se alla prima motivazione che mi aveva condotto lì, abbiamo dimostrato, ancora una volta, come tutto il discorso sulla cultura in Italia sia nuovamente, e spesso, un vuoto e mero bla bla (abbiamo sprecato una grande ed ennesima opportunità nel non insistere sulle nostre bellezze, lasciando unicamente la parola a brochure fiammanti e ammiccanti di alberghi lussuosi e belle donne eleganti), alla seconda ho avuto ben altra e soddisfacente risposta.
Mi si potrebbe obiettare che il turismo russo sia molto di massa e spesso interessato a località balneari leggere e un po’ vuote (testimoniato dalla grande affluenza agli stand delle “goderecce” isole spagnole e greche), oltre che al nostro stile in tema di vestiti e cibo (campeggiavano, ovunque, pubblicità di abiti, taralli e vini, senza nulla voler togliere a quest’ultima dimensione della nostra cultura); ma è anche vero che una maggior enfasi sulle nostre bellezze storiche e uniche, avrebbe giovato agli occhi e allo spirito di ogni visitatore. Sugli stand degli altri paesi ospiti campeggiavano bellissime e imponenti immagini di antichi palazzi, musei, teatri, sui nostri non comparivano belle fotografie ma scritte standard, degne di una tipografia minimalista di periferia, oltre a qualche foto qua e là, peraltro di scarsa qualità grafica.

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Fiera internazionale del turismo di Mosca, Emilia Romagna al top

Se lo stand di Roma capitale si differenziava un po’ per la presentazione del video di Folco Quilici sul Lazio, distribuito gratuitamente, quello dell’Emilia-Romagna (magari lo scrivo anche con un po’ di sano campanilismo), presentava un’offerta turistica davvero variegata. Nello stand regionale di 70 metri quadrati, coordinato da Apt servizi, sono stati ospitati circa 25 operatori turistici che hanno presentato le novità 2014 nello strategico mercato della vacanza che, nel 2013, ha raggiunto sulla Riviera circa un milione e duecentomila presenze. Il 19 marzo, la Regione aveva anche organizzato una serata di presentazione delle sue eccellenze, a bordo del battello Radisson royal cruise in navigazione sulla Moscova: dal genio artistico di Federico Fellini e Tonino Guerra al “sogno” a quattro ruote Ferrari, dall’enogastronomia unica, all’offerta di vacanza delle città d’arte e cultura, simboleggiata da Ravenna con i suoi mosaici patrimonio Unesco e città candidata a Capitale europea della Cultura 2019. Sul battello sono stati esposti anche i mosaici dell’artista ravennate Marco Bravura e il programma prevedeva l’intervento del direttore della Ferrari driver academy, la video-intervista a Lora Guerra, vedova del compianto Tonino Guerra, il saluto della nipote di Federico Fellini, Francesca.

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Fiera internazionale del turismo di Mosca, Emilia Romagna al top

Se le mie critiche all’organizzazione generale da parte dell’Enit possono essere legate al fatto che mi sono recata all’evento sabato (giorno di apertura al pubblico, ma proprio per questo, a mio avviso, importante per la nostra immagine), lo stand emiliano mi rassicurava con carnet di viaggio che raccoglievano belle e colorate fotografie e racconti, in russo, di escursioni nella natura e nelle città d’arte emiliane (ammetto che mi sarebbe piaciuto vederne uno su Ferrara, visto che i travel notes distribuiti sono concentrati sulla riviera romagnola, e che Ravenna, considerata la sua candidatura del 2019, attira tutta l’attenzione). Di Ferrara ho trovato un opuscoletto leggero, segno che esistiamo in questa grande realtà moscovita. Parlando con alcune ragazze allo stand emiliano mi hanno rivelato che, a loro grande sorpresa, quest’anno la richiesta di informazioni sulla città è molto aumentata rispetto agli anni scorsi. Segno che, anche qui, la si vuole conoscere di più e meglio. Credo che nel 2015, si debba pensare a qualcosa di più per promuovere la nostra città…

Ho concluso il mio giro da curiosa, con un passaggio agli stand dei musei Ferrari (quello di Maranello e quello di recente apertura di Modena), dove ho mi sono persa in chiacchiere con i responsabili del marketing di queste strutture molto visitate anche dai russi. All’Emilia terra di motori (presentata anche in queste sua veste, in conferenza stampa), a nostro avviso, dovremo però dedicare un apposito e degno spazio. A seguire.

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La Grande Bellezza, un’abbagliante bulimia citazionistica

di Salvatore Billardello

Forse qualcosa è ancora rimasto da dire sul motivo per cui La Grande Bellezza ha avuto così tanti consensi all’estero e – a scoppio ritardato – in Italia. Iniziamo mettendo le mani avanti: a giudizio di chi scrive, il film risente eccessivamente dello stridore tra le allusioni simboliche, soltanto accennate e rapidamente abbandonate, e i referenti che incarnano questi significati – monumenti, cardinali o spogliarelliste che siano. Un impasto di sacro e profano, di starlette e cardinali, di eterno e caduco, che non provoca il febbrile brivido del tempo perduto al quale aspirerebbe Sorrentino, ma una certa indigestione dovuta all’accumularsi di metafore e citazioni impegnative in un contesto che non pare il più adeguato a metterle a proprio agio. L’effetto raggiunto è un involontario kitsch spinto, se non proprio la banalità più trita. Ma gli spunti interessanti indubitabilmente non mancano. Qui vorrei soffermarmi su due in particolare, perché grazie alla loro fusione Sorrentino si aggiudica un sicuro riscontro di pubblico e critica e ci induce – non so quanto consapevolmente – ad una riflessione sulla società di oggi: l’accumulo di citazioni e il topos della festa.

Il regista ha sempre ambito a fare il postmoderno, mescolando registri, codici e situazioni diversissimi, senza offrire un punto di vista privilegiato. Qui ci riesce maluccio, ma non è questo il punto. Nella Grande Bellezza c’è una mitologia di riferimento altissima: le occasioni perdute di Proust, citato scopertamente in una delle scene iniziali del film, animano lo sciupìo incallito dell’amore e del tempo del tragicomico Jep; l’evanescenza languorosa dell’apparato umano che popola le terrazze romane ricorda tanto le ambientazioni di Francis Scott Fitzgerald; lo strepitoso scambio di battute finali tra Gassman, Tognazzi, Mastroianni e Trintignant ne La Terrazza tiene a battesimo la requisitoria di Jep contro la vocazione civile sinistrorsa di Stefania. La cornice del testo è poi la celiniana citazione di apertura, come ad anticipare il senso inconcludente delle passeggiate del “re dei mondani”. Ad un certo punto, affiora persino un rapido, amletico richiamo a Breton. Di fronte a tale corredo di ammiccamenti, il più sincero, cioè l’unico adeguato al film, appare quello a Flaubert e al suo leggendario romanzo sul nulla. Perché La Grande Bellezza alla fine rimane una incompiuta sarabanda di umanoidi in disfacimento che nulla fanno e che al nulla tendono.

Ma è un nulla di concetto, questo sì, quello di Sorrentino. Pauline Kael, famosa critica americana, chiamò nel 1960 “come-dressed-as-the-sick-soul-of-Europe party” il genere di film sullo stile della Dolce Vita. La Grande Bellezza si inserisce comodamente in questo solco: è l’ennesimo film sulle feste senza che vi sia più nessun rito da officiare, se non la perdita di sacralità assoluta della contemporaneità, ed è l’ennesimo film sulle feste che riscuote un certo successo. Cosa sono i party dati da vecchi scarponi, da giovani rampolli arricchiti e da circoli pseudoesclusivi se non la manifestazione più alta del puro nulla, della straordinaria arte del velleitarismo instancabile, che va periodicamente in scena col solo scopo di “guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro…”, come afferma l’oracolo Jep? La festa della Grande Bellezza, questa logorrea di grandi dichiarazioni di intenti (le citazioni di cui sopra) risolte con esiti altalenanti, che caratterizza in egual misura l’ambizioso regista e i suoi personaggi, incarna l’enorme sperpero di talento di ciascuno di noi, dell’eredità dei padri spesa in chiacchiere, in alcol e in produzioni cinematografiche senza più radici (un confuso Sorrentino ha però l’ardire di affermare, tramite Suor Maria, che quest’ultime “sono importanti”). Da questo punto di vista, la pellicola appare una perfetta messa in scena non solo della romanità, non solo dell’Italia, ma di tutta la modernità. “So’ belli i nostri trenini, perché non vanno da nessuna parte” affermano all’unisono un amaro Jep, un compiaciuto Sorrentino, il pubblico gaudente e le giurie votanti, all’insegna del più narcisistico nichilismo. Che nel 2014 si conferma utile lasciapassare per ritirare premi e approvazioni.

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Selfie, l’identità in vetrina

Bisognerà spiegarsela questa esasperata mania di fotografarsi nei luoghi più disparati e quotidiani. Selfie è la parola dell’anno secondo l’Oxford English Dictionary; la moda intercetta la tendenza ad una esasperata narrazione di sé. Una volta ci si faceva fotografare in vacanza e nelle occasioni speciali, l’autoscatto sembrava triste ed era limitato a condizioni di necessità, quando nessuno poteva aiutarci per la foto-ricordo, adesso sembra che esprima la convinzione che solo noi sappiamo “capirci così bene”.
E non è più solo la vacanza il luogo. Il quotidiano recupera interesse, proprio in quanto scenario reale della nostra vita che deve essere resa significativa da un gesto che la catturi, per non scorrere insignificante. Così, l’autoscatto ci coglie sul treno, all’uscita da un’aula, al bar con gli amici, davanti ad un piatto, in un negozio mentre ci proviamo un abito, in un’abituale scena familiare.
È come se, per vederci, dovessimo essere visti con occhi “oggettivi”, possibili solo quando l’oggetto guardato è distaccato dall’atto del guardare e trova una sua consistenza, acquista stabilità, diventa un supporto fisico.
Per spiegare tutto ciò è fin troppo facile evocare il narcisismo dilagante di un io fragile che cerca conferme e consonanza relazionale in un tempo di diffusa insicurezza.
Con gli autoscatti esprimiamo il bisogno di lasciare tracce: una sorta di ricerca di consistenza in un mondo sempre più veloce, che tende ad evaporare ad ogni istante. Fissiamo i nostri momenti di eternità, ridiamo senso ad un quotidiano che spesso sembra non averne se non nei legami che lo popolano. Cerchiamo il valore delle piccole cose, una sorta di zavorra contro l’evanescenza e l’irrilevanza in un mondo senza ordine, chiediamo di essere riconosciuti e, innanzitutto, di essere visti, Se altri più solidi riferimenti mancano, per costruire l’identità, le pagine dei social network fungono da supplenza.
Lo spazio privato ha bisogno di un palcoscenico pubblico. Lo sguardo degli altri ti fa più bella, recita il claim di un efficace video pubblicitario di una marca di sapone molto diffuso che descrive e confronta ritratti di donne, ritratti realizzati sia attraverso la descrizione diretta delle donne protagoniste, sia attraverso descrizioni delle stesse da parte di altri. Alla fine del video, i ritratti vengono confrontati: in quelli che sono il risultato della descrizione altrui le donne appaiono più belle, sorridenti, meno segnate dalla fatica e dal tempo.
Non potrebbe essere meglio interpretata la ragione del grande impegno di energie per una manutenzione del sé che, abbandonati i canoni di un’attenzione estetica esasperata, si volge ad alimentare quotidianamente le bacheche e i profili, sempre più numerosi e adattati alla diversa cifra comunicativa dei social che li ospitano: da Facebook a Pinterest, da Linkedin a Instagram, per citarne solo alcuni…
La pratica del selfie può essere piuttosto considerata la ricerca di un reciproco, permanente e universale specchio: lo sguardo degli altri è un’indispensabile via di riconoscimento, in assenza di altri più consistenti ancoraggi.

Maura Franchi è laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@unipr.it

Nudità e corporeità

Nudità e corporeità sono atteggiamenti (e concetti) molto simili, quasi sovrapponibili e legati nella maggior parte dei casi a esperienze artistiche che in gran parte hanno siglato il Novecento. Il cinema ci ha abituato a questa progressiva spoliazione fino al limite (ora superato) del sesso maschile in attività. Altrettanto in certe performances si è visto e rivisto; ma nella progressiva liberazione dai panni la nudità è diventata anche protesta politica come quella del gruppo di Femen o delle ragazze incarcerate perché hanno inscenato una protesta politica a seno nudo nelle chiese ortodosse russe.

Anche questo uso viene superato ora con una molto originale (?) azione inscenata a Firenze davanti a uno dei più celebri quadri di ogni tempo, La Primavera di Botticelli. Riportano le cronache che un uomo si è rapidamente sbarazzato di tutti i vestiti e nudo si è prostrato davanti all’opera spargendo petali di rosa profumati. Il tempestivo arrivo dei custodi non è stato però così rapido da non permettere quello che forse era l’intendimento dell’attore di questa scena: essere registrato in una foto che sarà guardata da milioni di persone. Dunque la nudità diventa immagine che si propone come sostitutiva della sessualità.

Già da tempo i cinema a luci rosse ci avevano abituato alla mimesi dell’atto sessuale dove tra ansiti e mugugni di fronte all’esplosione di performances inaudite per gli avidi spettatori si consumava la solitudine di un inevitabile autosoddisfacimento. Tempi lontani ora sostituiti dai più tecnici siti dei media dove sempre di più l’erotismo è consumato in solitudine senza bisogno del partner etero o omo che sia. A questo sistema si abituano molti “utenti” di ogni età quasi che “fare sesso”, come hanno proclamato da tempo culture diversamente soggette a vincoli religiosi o etici, diventi un fatto puramente immaginativo.
E così nascono situazioni artisticamente straordinarie come quelle espresse nel film Lei dove il protagonista fa l’amore con una voce registrata e non con una partner. La solitudine del sesso si esprime in questa rassegnazione a una facoltà immaginativa che non cerca l’altro ma si autocompiace della propria e unica fonte. Se stessi. La nudità dunque perde ogni carica eversiva mentre lo scandalo o perlomeno il proibito si trasferisce alla parola che spalanca violenze e situazioni apparentemente invalicabili.

Su questo stesso giornale la violenza della parola molto peggio di quella carnale o dello scandalo della nudità è stata giustamente sottolineata da Mauro Presini nell’articolo in cui commenta una frase del critico d’arte Vittorio Sgarbi, candidato dai Verdi alla guida del comune di Urbino. Ecco il punto dell’articolo di Presini che m’interessa sottolineare: “Esprimendo il proprio pensiero – riferisce l’articolista – a proposito della proposta di rendere il centro storico accessibile attraverso l’uso di scale mobili e di ascensori gratuiti, il nostro ha dichiarato: ‘Mi fa schifo solo la parola. Una città civile non ha né ascensori né scale mobili. Solo quelle abitate da nani, zoppi e handicappati hanno le scale mobili. Se le devono mettere nel culo’.”
L’uso della metafora sessuale così cara a Grillo (il vaffa…) si associa a un concetto chiaramente riconducibile alla sfera della corporeità altra: i nani, gli zoppi, gli handicappati, strappando nell’immagine di una nudità della parola l’orrenda simbologia che non è parlar chiaro ma esprimere la violenza dell’immagine che si realizza nella parola.

Solo pochi decenni fa nel 1960 in Inghilterra si è permessa la pubblicazione di un libro che ora appare innocente come L’amante di Lady Chatterley scritto da Lawrence nel 1928. Anche qui l’erotismo che gioca una importante parte nel triangolo tra la donna, il marito paraplegico, e l’operaio che sostituisce il dovere/piacere del sesso non esercitato dal marito. La nudità della parola è molto più complessa di quella del corpo, ma anche più nociva quando non descrive l’atto sessuale anche il più perverso ma si accanisce sull’orrore della debolezza di chi non sa né può difendersi.
Ancora una volta il parallelo tra le arti assegna alla parola il primato sulle altre forme d’espressione. Perfino il twittare può rivelare nella nudità dei 140 caratteri una perfidia etica difficilmente controllabile. Una specie di slogan pericoloso nel cui nome si affrontano battaglie cruente. Ma ciò che colpisce veramente è il senso di come la globalizzazione dei concetti, delle parole, dei modi di espressione nel momento stesso che si compie in simultanea ci restringe nel cerchio della solitudine e del solipsismo.

Il comunicare attraverso il corpo (scusatemi la sentenza degna di Crozza che imita Renzi) in fondo ribadisce la solitudine. Il concetto di nudità del corpo è molto familiare a chi, come chi scrive queste note, è stato osservatore attento della ribellione studentesca degli anni Sessanta. Dal raduno nel 1968 sull’isola di Wight al musical Hair fino alla moda del naturismo che ha raggiunto il suo apice negli anni Ottanta per poi tramontare. Ma alla mia generazione la scoperta della nudità del corpo è affidata anche alle atroci immagini dei campi di concentramento nazisti colte nel momento della liberazione. Un indicibile e indimenticabile galleria dell’orrore ma comunque essa sia stata ripresa nel tempo, nulla raggiunge la testimonianza della parola che descrive quella nudità: come in Primo Levi. Tramontata la sacralità del corpo, resa usuale la trasmissione della bellezza o dell’orrore del corpo nudo nelle arti, la nudità rimane ora l’espressione più icastica di una solitudine e di una scelta solipsistica.

Ma già Lui, Dante, ne aveva capito la potenza e la grandezza. Non nei corpi nudi dei dannati o degli espianti, ma in quella sublime nudità che è la testimonianza più alta della missione unica che Francesco, il poverello, prende su di sé. E si spoglia nudo per sposare una donna che nessuno vuole. La povertà. Chi voglia riconoscere la grandezza della parola che descrive questa nudità legga o rilegga il canto XI del Paradiso. E ora? Forse l’esibizione di una lap dance o certe serate eleganti trascorse in villa testimoniano il degrado della nudità del corpo.

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Autodeterminazione dei popoli, un diritto a singhiozzo

di Gianluca Ciucci

Il concetto di autodeterminazione dei popoli è vago come stelle dell’Orsa, volubile come solo l’uomo sa essere, abusato e, a volte, violentato come solo la politica sa fare.
Invocato centinaia di volte nel secolo breve che ci siamo lasciati alle spalle, l’ultima applicazione di questo principio si è visto pochi giorni fa nel referendum che ha sancito il ritorno della regione della Crimea nella Federazione russa. Ma può un voto popolare che sancisce il “cambio di casacca” di una popolazione, più o meno grande che sia, rientrare nell’ambito del diritto inalienabile (ius cogens) di un popolo di autodeterminarsi? A sentire i politici di ogni risma, la risposta è sì, ma solo quando fa comodo, per cui anche no, per lo stesso motivo. Basti pensare ai miseri salti di piccoli paesi da una provincia all’altra: ce ne sono almeno un paio all’anno in Italia. Oppure alla sparata di un Salvini qualunque, che, sventolando la bandiera di Crimea (come un novello Cavour), brandisce l’idea di un referendum simile per staccare il Veneto, e perché no anche il Salento, dal resto del Belpaese. Se però ragionassimo in punta di diritto (parole ostiche nei tempi che viviamo: ragionare e diritto), la risposta alla domanda sarebbe, cristallinamente, no.
Il principio di autodeterminazione dei popoli sancisce il diritto di un popolo sottoposto a dominazione straniera ad ottenere l’indipendenza, associarsi a un altro stato o comunque a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico. Questo principio è un diritto internazionale generale e viene riconosciuto dalla Società degli Stati. Venne enunciato per la prima volta da Woodraw Wilson, ventottesimo presidente degli Stati Uniti, in occasione del Trattato di Versailles del 1919. Avrebbe dovuto servire da linea guida per tracciare i nuovi confini dell’Europa uscita dalla Grande Guerra e fu un disastro. Anche allora c’era di mezzo la Russia e anche allora vennero indetti dei plebisciti dagli esiti contestati. Chissà cosa penserebbe Wilson, se sapesse che, un secolo dopo, il principio da lui annunciato con il chiaro intento di arginare la potenza di Mosca sarebbe stato usato da un nuovo zar per annettere un territorio storicamente, ma anche strategicamente, “cuore del popolo russo”. E cosa penserebbe Wilson di un suo successore alla Casa Bianca che invece non riconosce la validità del voto popolare che ufficialmente ne sancisce la volontà di autodeterminarsi? La confusione è grande sotto il cielo: la situazione non è affatto eccellente.

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Portare a spasso la propria vita con orgoglio e riguardo

Maria Perosino viaggia per lavoro e per scelta, da sola. Ha imparato a farlo da quando la vita l’ha messa dentro un’altra mappa, quella che ci si deve attrezzare a leggere da soli. Io viaggio da sola (Einaudi) è un po’ manuale pratico su come scegliere un ristorante e un albergo e su come organizzare la valigia, ma è soprattutto una specie di sorriso a specchio.
Piena dei suoi ricordi e di un passato che non se ne va, consapevole di non volere un ripiego per andare avanti, ma una scelta, Maria Perosino dà un valore, e un risvolto molto pratico, alla “solitarietà” del viaggio. La precondizione è smettere di rimandare, risparmiarsi e dire “come sarebbe bello se”. Basta con la tristezza e se proprio questa non ti molla, portala in un buon ristorante, perché “forse è meglio mangiare le ostriche in due invece che da soli, ma non mangiarle del tutto è ancora peggio”. E così tutto quello che le capita durante i viaggi diventa ricordo di vita vissuta e assaporata. Un aperitivo davanti al tramonto del Bosforo se l’è goduto e lo ricorderà per sempre.
Vero è che l’umore con tutti i suoi cattivi pensieri è spesso in agguato e allora è inutile ignorarlo, serve una strategia per non dargliela vinta: trattarsi bene imparando a farsi compagnia. Mica facile, con cosa? Anche gli animi più esigenti e sofisticati (parlando di donne, poi) possono trovare soddisfazione un una delle “cure sintomatiche e azioni preventive” che Maria Perosino propone. Dobbiamo provare a invitarci a cena, ad accompagnarci a fare shopping o un massaggio, a offrirci un aperitivo o a regalarci un libro. Bisogna abbandonare la sciatteria e truccarsi e vestirsi perché stiamo andando a un appuntamento con una persona di riguardo: noi stesse.
Quale occasione migliore di un viaggio per aprirsi al mondo e favorire “serendipity”? Viaggio dopo viaggio, ci si fa accorte e sempre meno timorose di affrontare da sole itinerari, città e persone. Si impara a fare amicizia con i luoghi e ad avvicinarsi a ciò che non si conosce. In fondo al viaggio la conquista della sicurezza di potercela fare e di potere fare affidamento su noi stesse anche di fronte agli imprevisti.
La valigia deve contenere la nostra vita che stiamo portando con noi, non va bene lasciare a casa dei pezzi. Scarpe, abbigliamento e accessori vanno scelti con criterio e adattabilità, non è poi così difficile.Viaggiare da sole non è essere sole, è doversi portare la valigia, ma possiamo anche incontrare qualcuno gentile che ci aiuti.
Può succedere di viaggiare in compagnia e bisogna essere preparate su come gestirsi a seconda di chi ci accompagna. Il prontuario aiuta nel caso in cui si viaggi con amico, collega (uomo), amante, amica, collega (donna).
Ho letto questo libro dopo avere fatto un viaggio a Parigi con un’amica, un mese fa. Potere dividere spazzole, phon, piastra e bagnoschiuma dimezzando le cose da inserire e alleggerendo il peso della valigia da portare, è una gran fortuna. Studiare la cartina della città accorgendosi, sempre in due, che la si sta guardando dalla parte sbagliata, spartisce la responsabilità e fa anche abbastanza ridere.
Credo che la prossima volta, da sola, non sbaglierò.

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“Musici” ferraresi fra Settecento e primo Ottocento

CESARE PATRIGNANI E PIETRO PARMEGGIANI

Cesare Patrignani – Nativo di Comacchio (Fe), il canonico Cesare Patrignani (1769-1838), seguendo i degni dettami della più alta fra le virtù cristiane, la mortificazione del proprio Io, si sottrasse sempre alla pubblica lode e fu invidiabile figura di uomo e sacerdote.
La naturale inclinazione alla musica lo condusse ad approfondire i suoi studi prima a Bologna, poi a Senigallia e quindi a Napoli al Conservatorio di Sant’Onofrio, dove divenne allievo del celebre Giovanni Paisiello.
Patrignani venne in seguito nominato Maestro di cappella dell’Apiro nella marca d’Ancona e più tardi di Montolmo (Macerata). Ritornato a Comacchio nel 1793, il magistrato del comune lo chiamò per qualche tempo a reggere la cappella locale.
Vestì l’abito ecclesiastico nel 1800. Da allora, pur consacrandosi alle opere di religione e di carità, si esercitò e compose molte musiche sacre, pervase di gusto squisito e idonee come poche altre ad ammantare convenientemente le varie preghiere della liturgia.

Pietro Parmeggiani – Originario di Cento (Fe), Pietro Parmeggiani (1806-1890) entrò all’età di diciannove anni come tenore nel gruppo musicale della cappella di San Biagio della città del Guercino. Quattro anni dopo ebbe inizio la sua carriera operistica, che lo portò a calcare i migliori palcoscenici della provincia italiana.
Poi, conclusa l’esperienza teatrale, si dedicò alla composizione di musiche sacre: L’inno di San Biagio, L’inno di San Michele arcangelo, i Gradi della passione di Gesù Cristo, le Litanie e tre messe concertate.
Durante la sua vita, Parmeggiani conseguì diversi premi in concorsi nazionali, come ad esempio all’“Esposizione delle arti cristiane” di Roma nel 1870, per la quale compose una raccolta di 366 versetti per organo.

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La strage di Capaci

di Roberto Dall’Olio

Il fragore di un applauso
salito dal carcere dell’Ucciardone
fece irruzione
nel teatro naturale
della primavera
siciliana

poi un boato

un vulcano di morte
stava affogando nel sangue

Palermo
l’Italia intera
una lava scrosciante
il corpo disintegrato
della giustizia
offuscava il cielo

la luce in pieno giorno
si fece nera

—–
La strage di Capaci
(nel ricordo di un amico siciliano)

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L’altra faccia di Birmingham: tra crochi, papaveri di carta, arte e studenti soddisfatti

Da BIRMINGHAM – Improvvisamente uscita dall’uniformante grigiore invernale, la città si è risvegliata con una leggera brezza primaverile. Anche la stazione dei treni è meno cupa, nonostante rimanga avvolta in pareti e soffitti color pece. Prendendo il treno verso sud-ovest, ci si avvicina alla University of Birmingham, individuabile in mezzo alle verdi colline grazie all’Old Joe Clock Tower, che si staglia per 100 metri nel cielo limpido.

Questa torre, difatti, è il simbolo per eccellenza dell’Università: ispirata alla Torre del Mangia di Siena, leggenda vuole che lo stesso Tolkien fosse rimasto talmente colpito dalla sua imponenza da prenderne spunto per creare Orthanc, la celebre torre oscura di Isengard del Signore degli Anelli. Posto nel cuore del campus, l’Old Joe scandisce i ritmi di studenti e professori nella loro frenetica routine accademica grazie ai suoi possenti rintocchi.

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L’altra faccio di Birmingham: tra crochi, papaveri di carta, arte e studenti soddisfatti

Questa settimana, però, è stata diversa: i prati tra i sentieri dei vari edifici sono stati colonizzati da fiori tipici inglesi, i crochi, nelle vivide tonalità del viola e del giallo, sommersi a loro volta da papaveri di cartone, striscioni e palloncini. Uno sguardo poco attento avrebbe scambiato lo scenario per il prato di un asilo, quando, in realtà, dietro a questo apparente parco del divertimento, si cela una vera e propria campagna elettorale, combattuta a colpi di caramelle e pancake gratuiti, distribuiti per convincere lo svogliato studente medio a votare per i rappresentanti degli studenti del prossimo anno. Cinque giorni per vincere, ma soprattutto per sensibilizzare i giovani, perché l’anno scorso solo il 25% di loro ha espresso le proprie preferenze. In un certo senso, ciò è confortante: non è arduo, quindi, solo per gran parte degli universitari ferraresi curarsi di chi li rappresenta. È risaputo, infatti che, purtroppo, in alcuni dipartimenti, la giornata di elezioni si basa sul nobile metodo dei candidati, di fermare noncuranti studenti nei corridoi ed accompagnarli al seggio… machiavellici a tal punto, per cui il fine giustifica i mezzi, anche in questo caso?
In attesa di scoprire se queste elezioni inglesi hanno portato significativi miglioramenti nelle performance, Giulia, studentessa italiana in Erasmus, trae le proprie conclusioni di mid-term: «le ore di lezione frontale sono meno che in Italia e ciò è dovuto al diverso metodo di studio, perché qui gli insegnanti assegnano tante letture da svolgere a casa. Inoltre, il voto finale è comprensivo non solo dell’esame, ma anche di saggi che scriviamo durante il semestre: ciò richiede più impegno durante il periodo di lezione. La vita sociale ne risente un po’, ma il quartiere di Selly Oak adiacente all’università è abitato quasi esclusivamente da studenti, la maggior parte dei quali sono internazionali e la sera i pub sono sempre pieni. L’università offre tantissimi servizi, le infrastrutture sono ottime e il collegamento con il mondo del lavoro è molto stretto: queste sono le cose che preferisco. Anche gli spazi di ritrovo e le aree dedicate allo sport all’interno del campus sono una caratteristica molto apprezzata, aiutano a sviluppare i propri interessi e a socializzare». Tra gli studenti partiti per l’Erasmus oltremanica c’è anche un ragazzo ferrarese, Umberto, che non vedeva l’ora di tornare a Birmingham dopo le vacanze natalizie: «Sono molto soddisfatto della mia esperienza finora, sebbene ambientarsi sia stato un po’ difficoltoso, anche per la lingua. Ora percepisco, però, di essere migliorato e trovo anche più facile seguire le lezioni. I professori si aspettano che ci creiamo una nostra idea degli argomenti trattati e che argomentiamo a nostra volta; con i saggi, non solo ho preso più confidenza con l’inglese, ma ho imparato pure a ragionare meglio. Mi piace particolarmente la cultura dello sport che è parte integrante della vita universitaria: gli studenti sfoggiano quotidianamente la divisa di appartenenza; da amante dello sport, è una cosa che mi piacerebbe ci fosse anche in Italia. Nonostante mi trovi molto bene e il cibo italiano sia un vero e proprio culto, non sono ancora riuscito a mangiare una buona pizza». Neanche gli inglesi sono infallibili.

Faraday di Eppure, l’Italia non rappresenta un modello solo per il cibo, ma anche per la cultura: nel Barber Institute of Fine Arts, galleria d’arte e sala concerti del campus, i nomi italiani appesi sono innumerevoli, da Canaletto a Botticelli, passando per altri pittori, in particolare del Rinascimento. L’arte italiana è forse la più presente. Di origini italiane anche Eduardo Paolozzi, artista scozzese precursore della Pop Art, che per il centenario dell’Università nel 2000 ha donato una sua maestosa scultura di 5 metri, Faraday, in omaggio allo stesso scienziato. Un’iscrizione del poeta T. S. Eliot accompagna l’opera alla sua base e riassume i motivi che dovrebbero spingere gli studenti ad andare all’università: “Per viaggiare, ascoltare, pensare e cambiare”. Un augurio sensibile, per ricordarci ciò che troppo spesso dimentichiamo, oppressi dai rintocchi, dalle scadenze e dalle inezie abitudinarie.

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Volgari equivoci. Le rovesciate verbali di Vittorio Sgarbi

Il noto critico d’arte Vittorio Sgarbi, in qualità di candidato per i Verdi a sindaco di Urbino, qualche giorno fa ha concesso un’intervista al giornale dell’Istituto per la formazione al giornalismo “Il Ducato online”. Esprimendo il proprio pensiero a proposito della proposta di rendere il centro storico accessibile attraverso l’uso di scale mobili e di ascensori gratuiti, il nostro ha dichiarato: “Mi fa schifo solo la parola. Una città civile non ha né ascensori né scale mobili. Solo quelle abitate da nani, zoppi e handicappati hanno le scale mobili. Se le devono mettere nel culo”.
Ora, non intendo entrare qui nel merito del tema “accessibilità”, ma soltanto fermarmi al giudizio su alcune espressioni usate nell’intervista, perché non penso che le parole volino, anzi, al contrario, credo che esse aprano delle strade, disegnino orizzonti, traccino futuri, abbiano una loro vita.
Da un’analisi sintetica del pensiero del critico ferrarese si può dedurre che se “nani, zoppi e handicappati” non possono vivere nella città civile ideale di Vittorio Sgarbi, dovrebbero stare in una città separata. Per questo la frase pronunciata da Sgarbi si può considerare offensiva perché il vocabolario della lingua italiana definisce l’insulto una “grave offesa ai sentimenti e alla dignità, all’onore di una persona, arrecata con parole ingiuriose, con atti di spregio volgare o anche con un contegno intenzionalmente offensivo e umiliante.” E’ inoltre una frase indiscutibilmente razzista perché il razzismo è “ideologia, teoria o prassi politica che, fondandosi sulla presunta superiorità di una razza sulle altre e sulla necessità di mantenere la purezza, favorisca o determini discriminazioni sociali”. Infine, la frase risulta essere decisamente volgare poiché sempre secondo il nostro vocabolario, volgarità è “mancanza di cultura, di educazione, di finezza e di signorilità, di elevatezza e di nobiltà spirituale. Modo di comportarsi o di esprimersi grossolano e offensivo del buon gusto e della decenza”.

Proprio ieri l’ufficio stampa del critico d’arte, in seguito alle polemiche suscitate dalla sua uscita verbale, ha diffuso una nota in cui, fra l’altro, è scritto: «Ogni mio riferimento agli “handicappati” e agli “zoppi”, ovviamente, non ha niente a che fare con la realtà fisica, e solo pensare che io volessi umiliare i disabili, mi offende. Le mie parole sono state volgarmente equivocate. E a offendere i disabili è chi li utilizza come argomento per imbastire una polemica inutile contro di me. Io alludevo all’infermità mentale di certi amministratori, mentalmente handicappati e zoppi, oltre che nani mentali, perché non hanno consapevolezza del patrimonio storico, artistico e architettonico di Urbino“.
Già! Con la più classica rovesciata, ecco che la frittata è rivoltata. Siamo noi che abbiamo volgarmente equivocato, e non lui che ha invitato qualcuno “ad infilarsi le scale mobili nel culo”. Siamo noi che abbiamo sbagliato e non chi ha invitato “nani, zoppi e handicappati” ad andarsene fuori dalle città civili o a restarsene in un angolino. Ormai viviamo in una situazione talmente paradossale, che le persone volgari riescono a dare del “volgare” a chi si indigna per la loro volgarità senza nemmeno vergognarsene. Del resto cosa potevamo aspettarci? Non è forse questo il Paese degli Equivoci e delle Smentite, dove la Volgarità diventa lo Stile dominante? Non è forse il nostro il Paese dove si offrono candidature politiche di importanza direttamente proporzionale alla volgarità del candidato? Non è forse l’Italia il Paese che offende la sua grande bellezza, accettando di farsi rappresentare da persone volgari che invece la trascurano.
Scriveva Vittorio Foa: “Il degrado del linguaggio non è un problema di parole, ma deriva da un comportamento pratico, cioè dall’esempio”. Colpisce sempre anche me constatare che non esiste l’esempio come categoria di giudizio del proprio e dell’altrui comportamento. Eppure, dovrebbe essere così emotivamente naturale e razionalmente umano trarre le proprie conseguenze dopo aver osservato, nelle persone, lo spazio che c’è tra il dire e l’essere, la distanza che esiste tra l’apparenza e l’essenza. Non mi aspetto certo che proprio chi ha messo questo Paese alla rovescia si impegni per raddrizzarlo, spero invece che tutti coloro che sentono forte l’odore pesante della volgarità, decidano di deodorarlo offrendo un esempio limpido di un bel modo di essere, di fare e di far politica.

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Spira aria da guerra fredda e torna “Il sole a mezzanotte”

Se state canticchiando Say you Say me [ascolta] e siete di buonumore, forse avete appena finito di vedere (o rivedere) lo splendido film Il sole a mezzanotte (titolo originale White Nights). Se siete rimasti impressionati dalla coreografia da sogno della prima scena del film, Le Jeune Homme et la Mort [guarda], eseguita da Michail Nikolaevič Baryšnikov, anche se non amate troppo i passi sulle punte, non potete essere rimasti indifferenti all’armonia con cui questo ballerino si regge su braccia e gambe in esercizi al limite dello sconvolgente, all’abilità indescrivibile con cui gioca con sedie e tavoli, in prove di forza e armonia uniche per l’esecuzione.

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Il sole a mezzanotte, locandina del film

Quasi sicuramente, allora, vi siete persi fra le ali di Barysnikov che, nel ruolo di Nicolai “Kolya” Rodchenko, sembra volare per davvero [vedi]. Certamente avete pure tremato un pochino con lui, quando l’aereo su cui viaggiava, in volo da Londra a Tokyo, era stato costretto ad atterrare sulla pista di un aeroporto siberiano, al suono di strappi nervosi e decisi delle pagine del suo passaporto. Perché Nikolai, ferito e ricoverato in un ospedale dell’Urss (il film è del 1985), non poteva permettersi quel lusso, lui che, divenuto americano, era scappato dal paese dieci anni prima, approfittando di una tournée in occidente del balletto Kirov, di cui era il primo ballerino, e trovando la libertà negli Stati Uniti (parte di quasi certa autobiografia). Riconosciuto dal colonnello del Kgb, il cattivo stereotipato Chaiko, l’ex-sovietico viene messo in un lussuoso appartamento, perennemente seguito da Raymond, un afroamericano che, a suo tempo, aveva fatto la scelta contraria, convinto di poter realizzare i propri ideali nel Paese che lo aveva ospitato, dove aveva anche sposato Darya, una gentile e bellissima moscovita, interpretata da una giovane Isabella Rossellini. Poiché Raymond è un asso del tip tap, i due uomini sono obbligati a convivere e ad addestrarsi duramente in una sala-prove del teatro Kirov di Leningrado (oggi teatro Mariinskij di San Pietroburgo), spiati da microfoni e fotocellule. Qui la scena della danza di un Baryšnikov quasi allo specchio è magistrale, come meravigliosa e forte è quella in cui il ballerino sfoggia tutta la sua abilità e potenza, sulle note di Fastidious Horses di Vladimir Semënovič Vysockij, davanti all’affascinante e bionda Galina Ivanova, suo grande antico amore che, nonostante il rancore per l’abbandono passato, lo aiuterà in una rocambolesca fuga verso l’ambasciata americana. Non vi sveleremo il finale di un film del più degno clima da guerra fredda, oggi di triste e inquietante attualità. Basti dire che la musica, le acrobazie, la rabbia costruttiva, la voglia di libertà, la dolcezza dell’amore, la forza che può infondere l’arrivo inaspettato di un figlio, la passione, la bellezza di strade e teatri di Leningrado, oltre che la melodia del trionfo dei buoni, meritano davvero una visione. Per potersi perdere, di nuovo, almeno un po’.

Il sole a mezzanotte – Diretto da Taylor Hackford. Interpreti: Mikhail Baryshnikov, Gregory Hines, Jerzy Skolimowski, Helen Mirren, Geraldine Page, Isabella Rossellini, John Glover, William Hootkins, Daniel Benzali, Hilary Drake, Florence Faure, Stefan Gryff, Shane Rimmer, Ian Liston, Megumi Shimanuki, David Savile, Maria Werlander, Benny Young. Usa, 1985. Drammatico, durata 135′ min.

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Vent’anni fa l’omicidio di Ilaria Alpi. La madre: “Sono rimasta sola ma combatto per lei”

di Silvia De Santis

Il 20 marzo 1994 morivano in Somalia, in circostanze ancora oscure, i due giornalisti del tg3 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Dopo vent’anni di muro di gomma, il governo toglie il segreto agli atti. La mamma di Ilaria: “La battaglia per la verità su mia figlia è la mia ragione di vita”.

Correva l’anno 1994. Correva in un’Italia sedotta e strangolata da Tangentopoli, mentre i contorni della Seconda Repubblica si profilavano nell’ombra. Correva a Mogadiscio, in Somalia, trascinata da tre anni nel caos di una guerra civile di fronte cui l’Onu alza bandiera bianca. “Restore hope”, la missione di polizia internazionale avviata nel 1992 per “ridare speranza” a questo Paese sconvolto da una “Cernobyl” politica, ha fallito e disertato il campo già da un anno. I cronisti, invece, non vanno via. Restano a documentare le stimmate del Corno D’Africa dilaniato dallo scontro tra fazioni, scivolato inesorabilmente nell’anarchia.
Ma due di loro, due giornalisti del Tg3, sbirciano dietro un sipario pericoloso. E per questo perderanno la vita: il 20 marzo di vent’anni fa Ilaria Alpi e Miran Hrovatin vengono freddati da un commando somalo a Nord di Mogadiscio, in circostanze ancora poco chiare.

Un agguato o un’esecuzione? Il pendolo della giustizia finora non ha mai smesso di oscillare, anche se la decisione odierna del governo di desecretare i documenti del caso Alpi potrebbe determinare, finalmente, una svolta. Dopo vent’anni di indugi giudiziari, di silenzi colpevoli, di indagini mai effettivamente decollate, la verità latita ancora. Mancano i tasselli fondamentali di una nebulosa vicenda che incrocia signori della guerra con colletti bianchi ed imprenditori. Che lascia intravedere Italia e Somalia stretti in un abbraccio velenoso, mortifero. Triangolazioni d’armi in viaggio dall’Est europeo verso l’Italia attraverso la Somalia. Malattie strane, mai viste prima, che aggrediscono il continente nero. Scampoli di territorio che marciscono, terre di contadini e pastori consumate dal veleno. È la terra dei Fuochi africana e Ilaria l’ha intuito, ha studiato e ne ha le prove. In cambio di munizioni, la Somalia bisognosa di alleanze offre non solo denaro ai Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, ma anche la possibilità di nascondere sotto il tappeto di casa propria le scorie dei loro cortili. “Il mio regno per un Kalashnikof”. E così, a bordo di navi, giungono sulle coste africane carichi di rifiuti tossici e nocivi.

Il giorno prima di morire Ilaria era stata a Bosaso, nel nord della Somalia, a parlare con il sultano per avere conferme su quanto aveva saputo. “Devi fare delle ricerche – le aveva risposto lui, rifiutandosi di fare nomi importanti – Devi guadagnarti il pane”. E Ilaria il pane se lo guadagnava: si documentava molto prima di ogni servizio, studiava. Lo faceva sin da bambina. “Era una ragazza come tante. Le piaceva studiare, era brava a scuola, leggeva di tutto. Amava molto i libri di storia e i romanzi”. Nelle parole di sua madre Luciana, nessun lirismo altera il ricordo di Ilaria. “Ha studiato arabo all’Università e ha passato al Cairo tre anni e mezzo per imparare bene la lingua. Era molto curiosa e amava viaggiare. A un certo punto ha fatto un concorso ed è entrata in Rai”.

“Era una persona seria che faceva seriamente il suo mestiere. Era una che andava sui luoghi, incontrava la gente, conosceva le situazioni, cercava riscontri. Forse è per questo che ha perso la vita”. Francesco Cavalli, direttore del premio Ilaria Alpi istituito nel 1995, ha appena scritto un libro, “La strada di Ilaria”, in cui riporta alla luce le trame di questo caso insabbiato dalla giustizia italiana. “Là dove i fatti non sono comprovati, ma restano nondimeno ragionevolmente possibili, è lecito tendere dei fili per cercare di colmare i vuoti” scrive Pietro Veronese nella premessa al libro. E i fili di Ilaria si perdono in Somalia, perciò è lì che Francesco ha deciso di andare. “Negli anni è maturato in me il desiderio di approfondire le motivazioni che stanno dietro a questo duplice omicidio. Sono stato tre volte in Somalia proprio per cercare di indagare sulle stesse piste su cui Ilaria stava indagando”. Ilaria l’ha conosciuta solo nei ricordi e nei racconti dei genitori di lei, Giorgio e Luciana, ma questo non è un buon motivo per indulgere a glorificazioni postume: “Non credo che debba essere raccontata come un santino o un eroe. Non so dire se avesse una marcia in più o una marcia in meno. Sicuramente era una brava giornalista”.

Il giornalismo è una passione che fa capolino nella vita di Ilaria a dodici anni. “Frequentava una scuola sperimentale a tempo pieno e il pomeriggio c’erano dei corsi extrascolastici. Lei aveva scelto giornalismo e se ne andava in giro per il quartiere a fare domande – racconta Luciana -. Chiedeva alle persone che giornali leggevano e perché. Domande da bambina, insomma. Così le è rimasta questa voglia di fare la giornalista”.

Dopo Bosaso, Ilaria torna a Mogadiscio. Il contingente italiano sta facendo le valigie e i giornalisti sono già partiti, ma lei e Miran vogliono restare qualche giorno in più per vedere come evolve la situazione nel Paese subito dopo la partenza dei caschi blu. Lo comunica alla madre Luciana. Non sa che quella sarà la sua ultima telefonata. Poche ore dopo, di fronte all’hotel Amana, dall’altra parte della città, oltre i posti di blocco e la linea verde supervisionata dall’Onu, verrà uccisa brutalmente. Qualcuno le aveva passato un’informazione sbagliata: le aveva riferito che lì c’era il collega dell’Ansa ad attenderla. Ma non era vero. Luciana non ha dubbi, è stata una trappola.
A corroborare l’idea che non si tratti di un incidente, ma che dietro il duplice omicidio sia in atto un piano preordinato lo conferma una serie di misteriose sparizioni: tre taccuini, cinque cassette di materiale girato di Ilaria non saranno più ritrovati. Sparisce anche il suo certificato di morte, ritrovato, prima di perdersi un’altra volta, nel corso di una perquisizione tra le carte di un ingegnere italiano, autore di un progetto per sparare rifiuti sul fondale marino spinti da missili.

Due commissioni parlamentari di inchiesta e una governativa non riescono a dipanare la matassa. Fino ad oggi, per l’omicidio di Ilaria e Miran c’è solo un colpevole, Hashi Omar Hassan, che si è sempre professato innocente. Luciana gli crede. “Ha pagato con 26 anni di carcere perché qualcuno lo ha indicato come membro del commando che aggredì e uccise mia figlia e Miran. Circostanza che lui continua a negare con forza. Io so perché Ilaria e Miran sono stati uccisi. Dopo 20 anni di indagini inutili e faticose, di menzogne, depistaggi, sparizioni, altre morti sospette, ho bisogno solo di conoscere i nomi dei mandanti di quel duplice omicidio. Non li voglio vedere dietro le sbarre. Mi basta guardarli in faccia”. Basterebbe scalfirlo questo muro di gomma, per dare tregua a una battaglia che è diventata una ragione di vita. “Sono quasi quattro anni che mio marito non c’è più. Sento moltissimo la sua mancanza perché andavamo molto d’accordo, e poi perché in quella triste vicenda ci davamo una mano molto affettuosa, molto forte – confessa Luciana, emozionata. – Purtroppo sono sola ora, e devo andare avanti. Ogni tanto passo qualche momento di scoramento, ancora oggi. Però poi mi riprendo, e mi dico che Ilaria, in fondo, è morta. Io, invece, alla mia età sono ancora viva. Se non facessi questo non saprei che cosa farmene della mia vita, alla mia età”.

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L’equinozio di primavera è un buon giorno per parlare di giardino

Venti marzo 2014, l’equinozio di primavera è scattato alle 17.57 ora italiana, stabilendo ufficialmente l’inizio della bella stagione. L’equinozio per l’esattezza è un attimo, un incrocio di traiettorie celesti che la scienza definisce con termini precisi, ma dalla Terra, meglio ancora, dalla mia finestra aperta sul giardino, quello che conta è la percezione di qualcosa che rinasce e quest’anno la primavera ha giocato parecchio d’anticipo. La primavera non spunta all’improvviso e chi ha occhi per vedere ne gode le prime avvisaglie già da febbraio, ma quest’anno è stato veramente un anno strano. Le mie piante sembrano in forma, ma la precocità delle fioriture e il disorientamento di un giovane riccio che da febbraio passeggia affamato a tutte ore, non rappresentano segnali positivi. Guardo il cielo, la nebbiolina sta scendendo e mi chiedo: questo interminabile autunno avrà fatto danni? Mi sta preparando qualche bel pacchetto regalo con una gelata tardiva? Vedremo, non ho ancora sviluppato poteri premonitori e pratico forme di giardinaggio poco fedeli ai manuali, quindi, farò come sempre, mi adatterò cercando di capire che cosa serve alle mie piante.
Ogni anno la primavera è un miracolo e non posso fare a meno di pensarla con i versi di una canzone: “Primavera non bussa lei entra sicura, come il fumo lei penetra in ogni fessura, ha le labbra di carne e i capelli di grano, che paura che voglia che ti prenda per mano…” così Fabrizio De Andrè rielaborò, assieme a Giuseppe Bentivoglio, alcune poesie della “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Master e nella canzone “Un chimico” aggiunse queste parole alla poesia “Trainor, il farmacista”. La primavera è così, ti trascina e la sua esplosione ha ben poco a che fare con i bancali di primule dopate dei centri commerciali, ma anche loro ormai fanno parte del nostro corredino primaverile e invecchiando, le guardo con più benevolenza di quello che facevo anni fa. Le primule sono l’immagine di un desiderio frettoloso di primavera, ma ho la sensazione che quest’anno abbiano avuto meno successo degli anni scorsi, prese in contropiede dai narcisi e dalle forsizie che anticipando la fioritura hanno tolto il desiderio di allestire ciotole di primule in technicolor. Nota di coltivazione: le primule sono piante rustiche e acidofile, quindi non crescono spontaneamente nel terreno calcareo come quello ferrarese. Possiamo provare a metterle in terra, qualche volta sopravvivono regalando ancora qualche ciuffetto di foglie, ma ricordiamoci che queste piantine forzate sono vegetali usa-e-getta fatti per essere ricomprati.
Nel repertorio sconfinato di piante che gridano la fine dell’inverno, il mio quadro preferito per un piccolo giardino di primavera è fatto di bianchi, gialli e celesti, magari con accenni di rosa. Al centro del quadro metterei un bell’albero di prugne o ancora meglio un rusticano, il prugno selvatico; alla sua base un fondo di piccole pervinche celesti, una striscia di narcisi e un tappeto di margherite, viole e pisaletto; sullo sfondo, nuvole di prugnoli, alternati a ligustri verdi e scintillanti, qualche forsizia gialla e un po’ di spiree, ancora senza fiori, ma dal fogliame tenero e vibrante. Ci starebbe bene un tocco di rosa, ma solo un tocco, non una secchiata come quella dei cotogni giapponesi, bellissimi, ma da trattare con parsimonia, quindi per dare un leggero tocco di rosa e per non lasciare da solo il prugno, ci metterei un bell’albicocco potato con leggerezza e lasciato crescere con qualche ramo in più, perché a un giardino chiediamo armonia, non il massimo della produttività.

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“Tutti uguali, tutti diversi”. Lascia un segno del tuo passaggio

“Un ritratto per dire c’ero anch’io”. Mario Rebeschini notissimo e apprezzato fotoreporter bolognese, autore di libri, mostre e straordinari reportage realizzati in tutto il modo con l’obiettivo sempre attento a cogliere l’umanità delle situazioni e gli aspetti di socialità, domattina arriverà a Ferrara, sistemerà in piazza Municipale il suo telo fotografico e inviterà la gente a lasciare un segno del proprio passaggio e della propria adesione alla manifestazione antirazzista facendosi fotografare. La performance fotografica accompagna infatti la settimana contro il razzismo (promossa da Coordinamento provinciale degli enti di servizio civile di Ferrara, Caritas, Centro Donna Giustizia) che nell’intera giornata di sabato 22 avrà la propria ribalta in piazza Municipale organizzano.

Ovviamente l’invito è rivolto a tutti: italiani e stranieri, uomini, donne, bambini, famiglie, mamme con le carrozzine, con la bicicletta, con il cane, rappresentanti del comune, della provincia, rom, volontari, studenti.
“Si può entrare nel set, ridendo, scherzando, seri, abbracciandosi – spiega Rebeschini -. Di lato al set ci sarà un tavolino che presenterà la settimana antirazzista. Verrà gestito dai ragazzi e ragazze del servizio civile. Sempre i ragazzi inviteranno passanti e chi condivide la manifestazione a farsi fotografare lasciando un segno del loro passaggio. Un cartello avviserà chi entra nel set, il cui transito automaticamente darà la liberatoria per utilizzare le foto in una mostra, in un dvd con proiezioni nell’ambito di manifestazioni antirazziste e anche per un libro on-line o cartaceo. Il successo ovviamente è assicurato – aggiunge il fotoreporter – se attorno succedono cose belle e se la gente fa cerchio attorno al set”.

La mostra fotografica con 40 pannelli in formato 40×60, verrà inaugurata ed esposta sempre in piazza Municipale tutta la giornata di lunedì 7 aprile come evento Copresc a conclusione dell’anno di servizio civile a favore delle popolazioni colpite dal terremoto nel maggio del 2012. Diventerà poi mostra itinerante. Verrà esposta in diverse occasioni ma anche esposta dove verrà richiesta.

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Non proprio equivalenti. Fra farmaci di marca e alternativi resta grande l’incertezza

Non avrò altro farmaco all’infuori di te. E’ una questione di marca. Ma è anche il “verbo” sposato dal 32 per cento di un campione 475 pazienti, che hanno partecipato a un’indagine di Gruppo Salute Donna dell’Udi sui farmaci generici a Ferrara e Provincia. Se da una parte il 53 per cento di chi ne fa uso li trova efficaci quanto quelli blasonati, dall’altra si continua a guardarli con sospetto come se al prezzo più basso corrispondesse una ridotta capacità d’azione. Nonostante la loro irruzione sul mercato dal 2001, gli “equivalenti” sono medicine spesso considerate di serie “b”. La conferma arriva dall’indagine dell’Udi, la metà esatta di amici e parenti delle intervistate, il 33,9 per cento nutre poca fiducia e il 17,5 per cento anche una punta di scetticismo nei loro confronti. Al di là del gioco dei numeri, la resistenza all’uso di un farmaco generico è dettata in gran parte da una parola chiave: fiducia. Sette lettere in caduta libera quando si tratta di controllo e controllori. Lo stretto legame tra il mercato del farmaco e le istituzioni ha generato un freddo e diffidente rapporto con il pubblico al punto da spingere molti pazienti a continuare le cure con farmaci di marca nonostante l’esborso più consistente per il loro portafogli, la maggior parte della cifra è infatti a carico del malato. Le donne non sono diverse. Meglio un’etichetta ‘doc’ piuttosto dell’incertezza in cui arrancano il principio attivo, la tracciabilità e la qualità delle materie prime usate per produrre i farmaci. Fattori evidenziati dall’indagine in base alle cui risultanze si chiedono maggiori ispezioni dell’Agenzia italiana del Farmaco e programmi di vigilanza sull’effetto degli “equivalenti”.

Sono molti i sintomi della schizofrenia italiana messi a nudo dal questionario al femminile sui farmaci generici, dentro i quali devono ‘lavorare’ la stessa quantità di principio attivo e la biodisponibilità di una formula farmaceutica dal brevetto scaduto, che ha di fatto sospeso il monopolio di vendita dell’azienda farmaceutica a cui si deve la sua realizzazione. Tra i tanti “contro” descritti nell’indagine c’è la conflittualità tra i medici e farmacisti per i quali “non sempre tutti i farmaci equivalenti sono intercambiabili”, c’è un “conflitto interistituzionale tra appropriatezza prescrittiva e liste di trasparenza in ambito farmacologico”, c’è “un conflitto d’interesse tra concorrenza commerciale e qualità” e ci sono “carenze organizzative e legislative dei nostri sistemi di controllo rispetto a quelli applicati dagli anglosassoni”. E così, di conflitto in conflitto va in crisi l’assunto più importante, quello con cui i prezzi contenuti dei farmaci equivalenti avrebbero dovuto essere di supporto al diritto alla salute. Che non significa diritto al caos.

Dopo 12 anni la confusione è ancora lontana dall’essere districata ed è probabile che lo rimanga per chissà quanto ancora. Al di là della bontà dei consigli scaturiti dalla ricerca di Udi con cui si invitano i medici a promuovere una maggior informazione e i farmacisti “ad assicurare nei limiti di legge la continuità di trattamento cronico con lo stesso marchio” . In certe sale d’aspetto si fa la fila per ore prima di essere visitati e si torna a prendere la ricetta per i farmaci ordinati dallo specialista il giorno dopo. Non c’è tempo per l’informazione. E in farmacia si fa spesso la coda con il numero in mano come al supermercato. In poche parole ce n’è quanto basta per ricorrere a un’aspirina. Americana. Tanto per andar sull’efficacia sicura.

[Leggi il dossier]

partigiano

Il condottiero

Gaetano Collotti era un bel tipo. Ufficiale di polizia, comandava le brigate nere a Trieste durante la guerra. Era un poliziotto pieno di spirito e di belle idee, soprattutto gli piacevano le donne, le partigiane erano il suo boccone preferito, quando ne vedeva una la prendeva, la portava, o se la faceva portare, nel suo ufficio e poi cominciava il giuoco preferito. Il suo giuoco preferito era la tortura: al processo per i crimini nazifascisti commessi alla Risiera di San Sabba a Trieste, una testimone, vecchia partigiana, quindi boccone preferito di Gaetano Collotti, raccontò che l’ufficiale la mise seduta alla sua scrivania, la denudò, poi aprì un cassetto e le face mettere i seni dentro il cassetto, che poi chiuse con forza sì che i capezzoli rimasero schiacciati in mezzo.
Collotti, capo della famigerata “banda Collotti”, terrore di Trieste, che era di stanza nella nota “Villa Triste”, dove si commettevano le più spietate gesta fasciste, venne giustiziato dai partigiani dopo il 25 aprile del 1945, nel suo ufficio, dietro la sua scrivania, teneva come reperto religioso un mazza da baseball, arma che era stata data a un soldato polacco, un uomo enorme, ingaggiato dai tedeschi, al quale era stato affidato il delicato ruolo di boia. Il massacratore stava dietro la porta di una cella al pianterreno della Risiera e aspettava che si aprisse la porta e fosse spinto dentro un prigioniero condannato alla morte, appena la vittima entrava partiva la grande botta del boia, una mazzata terribile in faccia e buona lì: soltanto mesi più tardi furono inaugurate le esecuzioni di massa, oddìo ancora rudimentali, i prigionieri (partigiani, ebrei, slavi) venivano ammassati dentro alcuni camion, con i tendoni ben sigillati e il tubo di scappamento con la proboscide infilata all’interno, poi venivano accesi i motori e pochi minuti dopo i prigionieri venivano estratti cadaveri. Tutti asfissiati.
I testimoni al processo raccontarono che sentivano urla strazianti, i nazifascisti no, non sentivano niente loro, avevano un delicato compito da portare a termine. D’altra parte c’erano ordini precisi in questo senso: nel ’42 il governatore dell’Istria Battisti, figlio dell’eroe, scrisse a Mussolini dicendogli che, per controbattere l’attività partigiana in quella zona c’era soltanto da “eliminare” tutta la popolazione “autoctona” e il duce rispose con un succinto telegramma: “Si proceda” (la lettera e il telegramma sono negli archivi di Stato).
Fu così che nell’isola di Arbe i fascisti rinchiusero quasi cinquemila prigionieri , soprattutto donne, bambini e vecchi, che furono lasciati morire di fame: un eccidio che la nostra storia non ricorda. Ma la nostra storia viene continuamente vagliata, controllata e aggiustata dal potere, sempre di destra. E’ un discorso lungo, lo faremo. Ma, tanto perché non si pensi che queste righe siano dettate da ideologia estremista, è sufficiente raccontare ciò che avvenne durante una festa nazionale nel 1950, quando, a Palermo, lo Stato italiano consegnò ai familiari del palermitano comandante Collotti la medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Così vanno le cose.

sant-agostino

Il paese riprogettato assieme agli abitanti. Fotoracconto di un’esperienza di urbanistica partecipata

“Qui il rapporto tra uomo e natura non può mai interrompersi” ha affermato l’architetto Moreno Po della Provincia di Ferrara nella sua breve e interessante lezione di storia del territorio. A Sant’Agostino continuano gli incontri con gli abitanti per ascoltare le loro idee (comunicate a voce o tramite postit), ma – come appunto in questo caso – anche per fornire loro informazioni. “I nostri sono terreni sabbiosi e argillosi perché questi erano i letti dei fiumi, come racconta gran parte della toponomastica dei nostri paesi (Dosso, Porotto, Borgo Scoline, Fondo Reno). – ha aggiunto Po – L’uomo ha scelto di consolidare la sua vita sui dossi di sabbia perché lo proteggevano dal rischio idraulico, ma si sono dimostrati più pericolosi in caso di terremoto. Questo deve dare adito ad un nuovo modo di costruire”.

Ecco il fotoracconto del processo partecipato per la ridestinazione della piazza di Sant’Agostino distrutta dal terremoto

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Foto di Davide Pedriali

Silvia Raimondi, operatrice del processo partecipato Less is More ha illustrato agli abitanti i risultati della ricerca condotta tra gli imprenditori di Sant’Agostino su come loro percepiscono la piazza.

Silvia Raimondi
Silvia Raimondi

“Vuota e soffocante al tempo stesso” ha detto Emilio Rossi, descrivendo esattamente una sensazione diffusa.

Non è una piazza vissuta e non è un punto di aggregazione hanno detto in molti. Il vuoto lasciato dal municipio abbattuto dopo il terremoto è schiacciante. Ma emerge anche la sensazione che la piazza avesse perso la sua funzione accentratrice già in precedenza e quindi la sua ridefinizione, ora, sia ancora più importante. Anche perché le potenzialità sono grandi.

“Datemi qualcosa da mostrare al mondo, perché il mondo passa di qui” ha detto Claudio Giberti di Petroncini Impianti che riceve spesso clienti internazionali che volentieri si fermerebbero in zona per visitarla, se però ci fossero strutture adeguate e percorsi storico naturalistici adeguati.

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Anche i bambini sono stati coinvolti nel processo partecipato.
Una bella mattina di sole, invece di chiudersi in classe a fare lezione le classi prima e terza della scuola media di Sant’Agostino, hanno percorso a piedi l’anello che dalla piazza abbraccia tutto il paese lambendo il Bosco della Panfilia, percorrendo l’argine dello scolmatore del Reno, fino a rientrare in corso Roma, e tornare al punto di partenza.
La missione era raccogliere oggetti che per loro rappresentassero il territorio.
“Ho preso questo sassolino del vecchio municipio, perché mi dispiace che non ci sia più. Ora questa piazza non è più un luogo familiare”, ci ha raccontato un bambino alla partenza del percorso accanto alle macerie del comune.
“Dovrebbero ricostruire un municipio uguale all’altro, nello stesso posto” dicono in tanti.
“Oppure potrebbero farci dei giardinetti per giocare”, suggerisce un bimbo. “No dovrebbero farci un supermercato” lo contraddice l’amico. “Noi invece vogliamo dei negozi di vestiti e di scarpe!”, dicono le loro compagne.
Anche i bimbi hanno detto la loro su quel che dovrebbe essere la nuova piazza.

La camminata è stata ripetuta di pomeriggio dagli adulti, ed è stato evidenziato come a volte la segnaletica sia carente. “Non ci sono cartelli adeguati che indichino il Bosco della Panfilia e i percorsi attorno. E i cartelli che ci sono sono sbiaditi” ha rilevato una partecipante.
Il percorso sull’argine e attorno al Bosco della Panfilia, soprattutto in primavera, è uno dei più belli che si possano fare in provincia e sicuramente meriterebbe di essere valorizzato.
Anche a questo si spera possa servire il processo partecipato.

Il prossimo appuntamento pubblico del processo partecipato sarà il 22 marzo con l’Open Space Technology, una discussione collettiva per un massimo di 60 partecipanti gestita con una tecnica innovativa che in un clima piacevole, permette in tempi relativamente brevi di produrre un instant report, un documento riassuntivo di tutte le proposte e i progetti elaborati dal gruppo, che oltre alla sua utilità pratica diviene testimonianza di un lavoro fatto e garante degli impegni presi.

Di seguito il programma della giornata.

CHE PIAZZA VORRESTI? 

CONDIVIDI LA TUA IDEA PER TRASFORMARE IL VUOTO NEL CENTRO DI DOSSO, SAN CARLO E SANT’AGOSTINO

SABATO 22 MARZO 2014 ore 10—16
OST/EVENTO PARTECIPATIVO
Biblioteca di Sant’Agostino (FE) – via statale 191


La partecipazione è aperta a tutti, ma per motivi organizzativi il numero massimo è di 60 partecipanti. Per questo motivo è necessario
iscriversi: compilando la cartolina di iscrizione (reperibile presso la sede del Comune, le edicole di Dosso e di Sant’Agostino e la Farmacia di San Carlo), telefonicamente (340 6483093) oppure scrivendo a lessismore.santagostino@gmail.com

La giornata include una pausa pranzo offerta dal progetto, a cura dell’associazione Tuttinsiemepersancarlo.

Il materiale prodotto durante la giornata costituirà le basi dei laboratori di progettazione previsti per il 5 e 12 aprile.

Per informazioni
U.R.P. COMUNE Sa
nt’Agostino 0532 844411 – www.comune.santagostino.fe.it

 

lavoro

Ecco perché i nuovi contratti a termine non favoriranno l’occupazione

Dopo avere ascoltato il neo ministro Poletti parlare di mercato del lavoro a Ballarò, vien quasi nostalgia di Elsa Fornero (scherzo, naturalmente).
Qui siamo oltre l’incompetenza, siamo alla violazione del principio per cui un argomento dovrebbe essere quantomeno sostenuto da un minimo di razionalità.
Poletti sostiene che lo scopo del decreto annunciato sui contratti a termine sarebbe quello di favorire una durata maggiore degli stessi, fino ai 36 mesi massimi previsti.
Oggi la durata media è molto più breve, ma questo dipenderebbe – secondo il Ministro – dall’incertezza normativa, cioè dalla necessità di dover indicare una causale che molto spesso diviene oggetto di impugnazione. Sarebbe per questo che l’impresa «per stare dalla parte dei bottoni» preferisce assumere per 6, 7 mesi e poi prendere «un altro, poi un altro, poi un altro ancora». Meglio quindi abolire la necessità di una causale e in questo modo i contratti avranno una durata più lunga, si costruirà una relazione più solida con l’azienda, per la quale diventerà a quel punto più conveniente stabilizzare il rapporto di lavoro
Ora, è assolutamente vero che la durata media dei contratti a termine è molto breve: oltre il 40% arriva al massimo ad un mese. Ed è altrettanto vero che le impugnazioni della causale sono frequenti: è l’unica strada che ha il precario, una volta lasciato a casa, per rivendicare l’assunzione a tempo indeterminato.
Ma perché mai il timore di un’impugnazione della causale dovrebbe essere il motivo che induce l’impresa a cambiare ogni 6 mesi il proprio dipendente a termine? Anzi, semmai è vero il contrario: meglio dover far fronte al rischio di un’impugnazione ogni 3 anni che ad una ogni 6 mesi!
L’argomento portato da Poletti è del tutto privo di fondamento.
Il motivo vero è un altro. Si è voluto togliere alle imprese il rischio di trovarsi costretti, magari dal giudice, a trasformare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Facile prevedere le conseguenze: magari ci sarà qualche assunzione a tempo determinato in più, prevalentemente a scapito di altre forme contrattuali, ma la durata media di questi contratti non si allungherà e neppure aumenterà la percentuale delle stabilizzazioni.
E, a proposito di impugnazioni, che dire dell’idea di non prevedere più, nel contratto di apprendistato, la formalizzazione di un progetto formativo?
Questo sì che, essendo in palese contrasto con le normative europee, aprirà la strada ad un bel po’ di contenziosi giuridici!

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Cinema come un farmaco: serata alla biblioteca Vigor

Il cinema come un farmaco per aiutare i malati di demenza senile a ricordare adoperando il “memofilm”. L’idea di Eugenio Melloni, piaciuta a Giuseppe Bertolucci e poi diventata esperimento scientifico portato avanti su persone affette da lievi demenze, funziona ormai da cinque anni e gli incoraggianti risultati sono stati resi pubblici con “Memofilm, la creatività contro l’Alzheimer”, un libro + dvd recentemente uscito in libreria.
Venerdì sera nella video-biblioteca “Vigor”, verrà presentato questo innovativo progetto di cura reso possibile proprio dal linguaggio cinematografico, capace di tenere insieme musica e immagini, ricordi ed emozioni.
A parlarne con Giorgia Mazzotti, giornalista, saranno Eugenio Melloni, ideatore del progetto Memofilm; Luisa Garofani, psichiatra e responsabile del Sert dell’azienda Usl di Ferrara; Pier Luigi Guerrini della biblioteca Vigor e Massimo Alì Mohammad dell’Associazione Feedback; a conclusione un contributo in video di Alessandro Bergonzoni.
Eugenio Melloni, documentarista e sceneggiatore che vive a Ferrara, ha scritto tre film in collaborazione con Stefano Incerti: Prima del Tramonto (1999); La vita come viene (2003); Complici del silenzio (2009). Per la regia di Wim Wenders ha scritto soggetto e sceneggiatura del mediometraggio in 3D “Il Volo” (2010) con Ben Gazzarra e Luca Zingaretti.
Nel 2011 ha curato la regia del documentario “700 anni per vedere il mare”, Premio Medaglia di rappresentanza del Presidente della Repubblica.

Biblio-cineteca Vigor, via Previati 18 (cortile del cinema Boldini), Ferrara. Venerdì 21 marzo, ore 21. Ingresso libero

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Pomeriggio nel medioevo ferrarese

Il cielo è coperto, me ne sto rannicchiato in una stanza vuota. Stretto tra le facciate di terracotta della città vecchia, ad angolo con Saraceno, ascolto il silenzio dei vicoli, a pochi passi dal nucleo bizantino. Un microcosmo in cui ti lasci accogliere, dall’alto un rombo sinuoso spaccato dalla fenditura di Via Cavedone, che taglia l’isolato e incontra la bella e discreta Via Carmelino.

Sulla cassettiera uno stereo rotto suona i Marlene Kuntz rendendoli più rumorosi del dovuto, pochi libri sparsi: l’Eneide, Fenoglio, Ernesto De Martino, Kafka, Carlo Levi, Silone, Kapuscinski. Poi una bottiglia d’acqua, un’agendina, polvere e fazzoletti.

In questa dimora viva, che porta i segni del terremoto, il parquet scricchiola sotto il peso del corpo, le travi oscillano insieme ai passi scalzi, la casa accompagna i movimenti, sembra rispondere a logiche affini alle mie. Scrivo lettere su un monitor che affaccia sulla schiena del mondo. Le parole scorrono veloci e riempiono la pagina.

Verso la cucina si sentono i bambini dei vicini che giocano e portano la mente ai miei, lontani. Di fronte studenti universitari guardano come al solito la televisione, intanto apro questo grosso volume sulla poesia italiana del novecento e trovo Pavese:

“(…) mio povero vecchio,/ che non hai nulla al mondo,/ se non quel sogno tiepido e un odio disperato,/ io mi struggo di essere come te,/ io che vengo da tanto più lontano,/ ma che ho nel cuore il tuo odio/ e sogno i tuoi stessi sogni./ Verrà una notte,/ forse domani/ che m’accascerò come te/ sotto la nebbia in una via deserta, colla tempia spaccata,/ e sognerò l’ultima volta in quell’istante/ un cibo meraviglioso (…)”.

L’anima oppressa dello scrittore piemontese suona fuori luogo in questa primavera ferrarese. Il suo è un brano di novembre, al massimo gennaio, e noi siamo verso la vita, la potente illusione che dona l’Italia di marzo. Volto pagina. Mi rimuovo insieme al pavimento verso la luce.

Dalla finestra qualche passante porta al guinzaglio il cane, una città in cui passeggiano più cani che bambini vorrà pur dire qualcosa. Piccoli inconvenienti di un luogo che mostra parte del suo fascino nella decadenza, e il resto nella memoria:

“Ferrara cinquecento anni fa era New York”, è scritto su un muro da qualche parte.

Io cinquecento anni fa non c’ero, e ora vedo i vecchi soli, affacciati alle finestre, che quando muoiono lasciano i soldi ai figli e il posto agli universitari. Vedo il mio piccolo microcosmo in cui mi sento accolto: la pizza di ceci da Orsucci e il calzolaio Vittorio; l’artigiana della tana della tartaruga turchina con quell’aria lieve, dimessa; le piccole librerie; il geometra; la farmacia, la chiesa. Più avanti il ristorante greco messo in piedi da una coppia di albanesi. Poi i fruttivendoli pachistani e i loro bimbi dagli occhi vivi, neri, che se ne stanno tutto il tempo nei negozi, cresciuti dalle loro mamme bambine in strada, come si faceva una volta, mentre intorno tanti altri uomini e donne meglio vestiti preferiscono attardarsi nel ruolo di figli. E questa città illude che si possa vivere senza rimpianti.

Non c’ero cinquecento anni fa e a ben guardare nemmeno oggi, perché starsene alla finestra, al pc, o alla tv è un po’ aver abdicato alla vita, la quale sarà in mezzo alla strada o da qualche altra parte, certo non in queste parole sole, e non in questa stanza.

Mi risiedo e scelgo di riascoltare una canzone d’amore in cui alla fine le chitarre elettriche volutamente percorrono la pentatonica sbagliata, un po’ come a dire che l’esistenza può essere pure una declinazione di note e passi falsi, e che se le storie hanno un verso, tuttavia capita che siano percorse contromano:

E’ certo un brivido averti qui con me
in volo libero sugli anni andati ormai
e non è facile, dovresti credermi,
sentirti qui con me perché tu non ci sei.
Mi piacerebbe sai, sentirti piangere,
anche una lacrima, per pochi attimi.

Va già meglio. “Portami con te”, dice in una poesia dedicata al figlio Attilio, il poeta Caproni, e invece sa benissimo che il bello di questo mondo è che prima o poi ognuno è costretto a fare per sé, a prendere la sua strada, sperando che sia la volta buona, che sia il verso giusto, o perlomeno quello voluto.

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Ricomincio da me. Il coraggio di cambiare vita

Sono in aeroporto, come sempre, troppo spesso ormai. Ho di fronte due signore russe, eleganti, truccate, profumate, sempre al telefono o impegnate a frugare nella loro costosissima borsetta. Una è bionda platinata, sicuramente tinta, e ora sta aprendo un campioncino di crema Chanel per spalmarne il morbido contenuto sulle mani curate dalle unghie laccate bianco avorio. L’altra ha i capelli rossastri, anch’essi tinti. Come molte altre donne intorno, pure lei parla a qualcuno dal suo nuovo iPhone luccicante. E anche lei, immancabilmente, inizia a cercare nella sua borsa marrone intrecciata una crema, un rossetto o un profumo, di quelli all’ultima moda.

Io le osservo e le descrivo. La scena si ripete spesso, io che viaggio, io che analizzo-rimugino-scrivo, loro che sono curate e orgogliose dello status acquisito. Tutto ciò proprio adesso che sto leggendo questo libro di Simone Perotti, Adesso Basta, che vi voglio commentare.
Eh sì perché, come molti manager pensanti, con un benessere stabile e raggiunto dopo anni di duro e intenso sacrificio, Simone ha riflettuto attentamente e profondamente e poi agito, quando ha compreso che il suo tempo non gli apparteneva più. Allora, come molti, aveva cercato di trovare spazi, sempre più ristretti, sempre più difficili da conquistare, fra una riunione e l’altra, fra un volo, una partenza e un ritorno, un decollo e un atterraggio, un treno e l’altro. Ma così non andava. Gli affetti erano lontani, gli amici pure, in nome di un benessere raggiunto per sé ma soprattutto per la propria famiglia, arrivati a un punto dove si guadagnava bene ma non si aveva il tempo per spendere, un tempo sempre più difficile da trovare, che non c’era mai per nessuno e per nulla.

Allora il nostro autore ha iniziato a pianificare, a ritagliare spazi e momenti per scrivere, per leggere, viaggiare, vedere mostre, visitare musei, andare dai propri cari. Ma con in testa un piano. Cambiare vita. La via per la libertà passa per la solitudine e gli uomini e le donne combattivi, come lui, non ne hanno paura, anzi la amano, non temono la scalata. Da soli si scoprono e s’imparano un sacco di cose, anch’io lo so da anni ormai. Con se stessi si fanno discorsi, ci si emoziona e poi si condivide. Conosci te stesso, Socrate prima di tutto, e così ci si prepara al cambiamento.
Chi mi starà osservando ora penserà che stia lavorando, scrivendo un rapporto sul mio iPad, quando in realtà sto volando lontano con la fantasia e molto in alto… Bisogna capire quale è il vero sogno, lavorare seriamente per realizzarlo, non improvvisare, pianificarlo bene. Da manager a manager. Altrimenti può diventare un’avventura senza senso e dalle conseguenze pericolose e imprevedibili. Bisogna capire cosa importa, cosa conta di più, a cosa possiamo rinunciare, provare piano piano a ridurre consumi e bisogni, trovare alternative a cose inutili e che non ci serviranno mai.

Con Simone, parliamo, dunque, del downshifting. Dobbiamo capire quanto consumiamo, fare un down grade del nostro stile di vita, si può vivere con meno, senza spreco e con più risparmio. E’ una ricerca di quello che conta, si deve arrivare a essere “liberi da” oltre che “liberi di”. Finora avevo riflettuto solo al secondo concetto di libertà. Quante volte non abbiamo trovato il tempo per gli amici, la famiglia, le persone amate, impegnati a correre dietro a riunioni, email, notizie, incontri inutili, chiacchiere che non hanno più alcun significato o valore.
Non conosciamo più il vero significato di otium alla latina, di uno spensierato perder tempo produttivo, il valore e l’importanza di passeggiare con il naso all’insù guardando solo il bello che ci sta intorno, di assaporare il gusto di stare con persone che ci scegliamo noi, in posti e tempi scelti solo da noi, di partire e tornare dove decidiamo noi.

Non è bello saper far giardinaggio ed essere capaci di coltivare un orto o di riparare un oggetto? Non siamo più capaci di alcun lavoro manuale, abbiamo perso il contatto con le cose e la terra, non siamo realmente autonomi. Mauro Corona l’ha spiegato bene ne La fine del mondo storto. Non siamo liberi. Ci servono davvero vestiti e scarpe costosi, sciarpe e foulard di seta, blackberry e telefoni cellulari, gadget, salette vip, punti mille miglia, cibi esotici che ti fanno solo venire il mal di pancia, taxi veloci, autisti e receptionist che non si comprendono perché spesso parlano un idioma del tutto sconosciuto? Ha forse un prezzo scambiare una parola nella tua lingua madre con un simpatico metronotte che t’indica una via, con un giornalaio sorridente che ti regala un inserto gratuito di un giornale che una signora ha lasciato lì perché non interessata? Non era meglio andare in libreria e gioire per il prezzo scontato di un libro tanto ricercato che faceva miracolosamente capolino da un grigio scaffale impolverato? Ora si hanno i soldi per tutti i libri che si desidera, questo sarebbe un duro prezzo da pagare, rinunciarvi, ma magari qualche casa editrice te li manda gratuitamente in cambio di una recensione….

Se mi piace scrivere, pensava Simone, magari posso farlo diventare il mio pane quotidiano anche così. Ci hanno sempre indicato la via del dovere mai quella del piacere, ricorda. Il si fa e il non si fa, il si dice e il non si dice, il non sta bene. Non siamo più avvezzi al risparmio, a quello vero, non a un tirare la cinghia a ogni costo ma a una semplice idea di spendere meno e meglio. Si tratta ora di riflettere alle proprie passioni, a come realizzarle, preparandosi seriamente, avendo sempre di fronte le responsabilità verso se stessi e gli altri. Alcuni altri, ovviamente, siamo selettivi! Simone ci ha messo quasi dieci anni, investendo solo su di sé, studiando, tornando a scuola, capendo cosa voler fare per davvero, con una vera ricerca progettuale che chi ha fatto il manager come lui può riuscire a realizzare.

Era un ragazzo giovane in ascesa professionale, ben pagato, ora è uno skipper soddisfatto e uno scrittore di successo. Se era riuscito a fare carriera, a superare tante difficoltà, a varcare oceani, magari anche deserti e foreste, perché non doveva riuscire a portare avanti il suo sogno di sempre? Non gli erano mai mancati forza di volontà, impegno, assiduità, voglia di fare e arrivare. Perché doveva fallire proprio ora? La scelta doveva, certamente, essere consapevole, chiara, serena, voluta, meditata, pensata, progettata. Partendo dalla solitudine, spesso necessaria, il percorso è stato sicuramente difficoltoso e impegnativo, ma valeva la pena provare a impostarlo, non come una fuga, ma con una visione…. Perché per un vero viaggio di scoperta non occorrono posti nuovi ma occhi nuovi, avrebbe scritto Marcel Proust. Come non essere d’accordo…

[In libreria]
Simone Perotti, Adesso basta. Lasciare il lavoro e cambiare vita. Filosofia e strategia di chi ce l’ha fatta, Chiarelettere

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Il volo dell’Ippogrifo, le malie di Lucrezia, le intuizioni di Ercole d’Este: suggestioni per un museo multimediale della città di Ferrara

Si parla con insistenza in questo periodo di un museo della città a Ferrara. E’ qualcosa di prezioso che ancora manca a completare la pur già ricca offerta culturale. Se n’è discusso di recente in relazione alla futura destinazione dell’ex caserma Pozzuolo del Friuli. La caserma, in effetti, è adiacente al palazzo Schifanoia e dunque prossima al lapidario, dista pochi metri dal museo Riminaldi e quindi da palazzo Bonacossi che lo ospita e che a sua volta confina con la casa natale di Giorgio Bassani… La sua è una collocazione congeniale, insomma.

Ma più in generale, l’idea di un museo della città scaturisce in risposta ad un’avvertita necessità. E, al di là del possibile contenitore, giova ragionare e interrogarsi sull’eventuale contenuto: è utile domandarsi cosa dovrebbe caratterizzare un ‘museo di città’ e quali benefici potrebbe assicurare in termini di consolidamento dell’offerta culturale, di attrattiva turistica e di completamento di un percorso sulla memoria civica, quindi a vantaggio anche di tutti coloro che a Ferrara vivono.

Il museo della città deve saper raccontare la vicenda di una comunità attraverso la storia, la cultura, le tradizioni che le sono proprie. Per Ferrara significa una secolare galoppata temporale dai primi insediamenti nell’antica Voghiera, all’esarcato, al dominio barbarico, all’età comunale, sino ai fasti estensi, allo Stato della chiesa, alla repubblica Cispadana, per giungere ai moti risorgimentali e infine fluire nella contemporaneità attraverso la fosca pagina del fascismo e il riscatto dovuto alla lotta di liberazione. In senso figurato: il volo dell’Ippogrifo, le malie di Lucrezia, le intuizioni di Ercole d’Este, l’inquisizione ecclesiastica, le trasvolate di Balbo, le lotte partigiane…

Per tradurre una simile ambizione in qualcosa di vivo, in una realizzazione, cioè, a prova di sbadiglio, non si può pensare di prescindere dalle spettacolari opportunità offerte dalla tecnologia e dalla multimedialità. Solo così, crediamo, si potrebbe suscitare curiosità e interesse in senso diffuso, presso un ampio pubblico composta da adulti e ragazzi, ferraresi e non.

In questo senso colpisce la concezione dello straordinario museo della città di Bergamo. “Il museo storico dell’età veneta – dicono i curatori della loro stessa creatura – è un museo multimediale, sensoriale e interattivo, che propone un nuovo modo di raccontare la storia al grande pubblico mescolando conoscenza e gioco, intelletto ed emozioni: le testimonianze del passato – dipinti, manoscritti, mappe e documenti, selezionati con rigore scientifico – prendono vita e raccontano il nostro passato come non si era mai visto”. Ed è proprio così: al di là delle parole il visitatore vede, sente, tocca si immerge nella storia.

Suoni avvolgenti si inseguono e avviluppano nelle loro magiche spire i visitatori; effetti di luce creano bagliori, rimandano evocativi chiaroscuri, originano atmosfere rendendo vitali gli ambienti; cubi si trasformano e riflettono immagini in un vorticoso caleidoscopio di sensazioni che ci proietta in tempi remoti. E poi, ecco la possibilità di maneggiare gli oggetti, di interagire con essi, di esplorare, muovere, sperimentare, toccare, aprire cassetti che generano ogni volta profumi, cromatismi e differenti illusioni ottiche stimolando sensi e mente.

Il museo non trasferisce mere informazioni, ma offre davvero un’esperienza polisensoriale che attiva la percezione e la curiosità. Pochi sono gli oggetti e i reperti esposti. Il fulcro sta nel racconto svolto per immagini e suoni. E nell’allestimento scenografico che integra la tecnologia e declina la conoscenze in narrazione. Con presupposti simili Bologna, fra le prime, ha di recente realizzato a palazzo Pepoli il suo museo della storia cittadina.

Per Ferrara ora è solamente un sogno. Un’ambizione enorme in rapporto alle disponibilità, che per non risultare smisurata si potrebbe stemperare, agevolandole la praticabilità, magari concependo il progetto nella sua globalità e realizzando poi l’intervento per stadi successivi e autonomi: priorità all’età estense e via via integrazioni della storia patria con tutte le sue più significative pagine. D’altronde solo chi pensa in grande può arrivare a grandi traguardi.

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Il museo dell’età veneta di Bergamo
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Ricordando Ezio Raimondi e la sua scommessa culturale su Ferrara

Ci lasciano i grandi protagonisti della cultura novecentesca. Tre giorni fa Cesare Segre, ieri Ezio Raimondi. Se ancora una parola come Maestro ha senso non c’è dubbio che Segre e Raimondi siano stati legittimamente Maestri. Solo nel 2012 all’apertura della settimana Alti Studi dell’Istituto di Studi Rinascimentali nel salone dei Mesi di Schifanoia Ferrara tributò un commosso omaggio a Ezio Raimondi assegnandogli il premio città di Ferrara, consegnato alla figlia, per la sua lunga e mirabile attività di presidente dell’Isr.

E’ difficile per i non addetti ai lavori ripercorrere il cammino che portò un’associazione culturale, come quella che nel 1983 nacque tra le tombe neoclassiche della Certosa di Ferrara, a diventare tra le più vivaci e interessanti realtà culturali del Paese, frequentata e sorretta dall’entusiasmo con cui un gruppo di intellettuali – con l’aiuto di un purtroppo dimenticato troppo presto assessore alla cultura quale fu Giuseppe Corticelli allievo di Raimondi – puntò sulla proposta che l’Europa delle Corti, libero e nuovo gruppo di studiosi, attenti alle società di antico regime, faceva a Ferrara e alla sua mirabile storia.

Nacque allora e ebbe sede a Ferrara l’Istituto di Studi Rinascimentali. Lavorarono per l’Isr studiosi come Amedeo Quondam, Paolo Prodi, Adriano Prosperi, Carlo Ossola, per citarne solo alcuni tra i tanti che firmarono quei testi, che superando ormai il centinaio di titoli, hanno profondamente influito sulla consapevolezza critica della funzione fondamentale delle corti italiane e tra le prime proprio Ferrara e il suo Rinascimento, ma non solo. Basti pensare a opere monumentali come lo Iupi, l’incipitario unificato della poesia italiana a cura di Marco Santagata o il fondamentale Atlante di Schifanoia a cura di Ranieri Varese o le edizioni dei volumi sulle Guerre in ottava rima fino alla pubblicazione dell’Orlando Furioso 1516 a cura di Marco Dorigatti.

E’ alla meta degli anni Novanta del secolo scorso che Ezio Raimondi viene invitato dall’allora sindaco di Ferrara ad assumere la presidenza dell’Istituto ferrarese. Un motivo d’orgoglio in più, specie in una stagione dove le risorse economiche si facevano sempre più esigue e dove, nonostante il prestigio raggiunto dall’Isr, si faticava non solo a stampare i volumi ma a trovare anche le possibilità di produrre regolarmente la pubblicazione di “Schifanoia”, la rivista, organo scientifico dell’Istituto. E se è necessario ritessere il filo che univa o ha unito per lunghi anni il lavoro svolto da Raimondi come presidente e da chi scrive questa nota come direttore dell’Isr è anche necessario ripercorrere le affinità e le discordanze che ci hanno permesso una collaborazione appassionata.

In tempi ormai lontani le scuole critiche saldamente gestite dai Maestri ( e Raimondi era tra i più prestigiosi) innescavano confronti e utili scontri sul metodo e sulla fedeltà alla scuola. Era dunque logico che le mie credenziali critiche affidate all’insegnamento di Walter Binni e di Claudio Varese non fossero sulla linea raimondea. Certo ci univa la comune amicizia con un grande storico dell’arte come Andrea Emiliani e da parte mia l’ammirazione per Francesco Arcangeli amico e sodale di Raimondi che – per li rami – portava a Giorgio Bassani e in più l’irresistibile propensione a interessarmi di storia dell’arte che mi portò a diventare canovista e “giardiniere”: due specificità critiche che Raimondi coltivava da sempre in modo superbo. Ciò non impedì che nel comune rispetto e nell’ammirazione che gli professavo sarebbe stata una non facile scommessa pensare a come sarebbe stata la collaborazione che fu estremamente proficua e leale.

La sua inflessibile consapevolezza di un’ eticità del pensiero critico che mai si sarebbe piegata a una sia pur minima strumentalizzazione del lavoro scientifico si coniugava con quella sterminata cultura che gli rendeva possibile leggere quell’ impressionante numero di testi che invadevano come un meraviglioso castello d’Atlante la sua casa e il suo ufficio all’Istituto dei Beni Culturali di Bologna. E quanta ironia e nello stesso tempo quanta consapevolezza c’era nella raccomandazione di portargli i libri in ufficio per non turbare la moglie destinata a coinvivere con quelle migliaia di volumi! L’incarico era affidato a Claudia Spisani la segretaria dell’Isr addetta ai contatti con la sede bolognese.

Con Raimondi si respirò in quegli anni il senso e il modo di raggiungere l’internazionalità del lavoro svolto dall’Isr. Un nome come quello di Raimondi significava che per l’associazione ferrarese era giunto il momento dell’eccellenza (parola troppo usata e spesso a sproposito) nella produzione scientifica, nel lavoro organizzativo e nelle settimane alti studi. Sembra ormai che quei tempi siano lontanissimi, quasi un’età dell’oro, ma forse dimentichiamo che l’intero impianto culturale sta subendo radicali cambiamenti che renderanno gli studi e la loro organizzazione fondamentalmente diversa da come noi (quelli dell’altro secolo) avevamo immaginato e perseguito.

E’ di pochi giorni fa la clamorosa protesta del presidente dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento di Firenze, Michele Ciliberto, che minaccia la chiusura di alcuni settori del più importante Istituto di ricerca sul Rinascimento dotato di una sterminata biblioteca e di opere d’arte d’altissimo pregio perché i fondi vengono negati o scemati. La stessa sorte che ha in parte condiviso anche l’Isr. Sembra che quel tipo di cultura ma soprattutto il modo con cui i Maestri hanno gestito l’organizzazione della cultura sia diventato obsoleto o non perseguibile. Un motivo che immagino sarà di non poca importanza per il nuovo ministro del Mibac, Dario Franceschini.

Quello di cui dobbiamo essere grati è stato come un intellettuale di primissimo piano come Ezio Raimondi abbia creduto nelle possibilità culturali di una piccola città come Ferrara e con lui quella straordinaria schiera di studiosi che si sono messi al servizio di una città che dovrebbe del suo glorioso passato trarre linfa per costruire o suggerire un futuro ancora foriero di speranze.

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Vendere con i social network? Si può fare!

Se c’è un ritorno dell’investimento, nelle operazioni di visibilità con i social network, è una delle domande classiche che un imprenditore fa a chi li propone come canali di promozione. Shopify, uno dei migliori servizi per la creazione di e-commerce al mondo con ben 70.000 clienti, ha realizzato un’analisi attraverso la documentazione in loro possesso. Generando un’infografica grazie all’analisi di 37 milioni di pagine raggiunte attraverso i social media, in cui sono stati registrati 529 mila ordini. Una media di un ordine ogni 70 visite sul prodotto.

I dati indicano che Facebook è la piattaforma da cui partono l’85% delle vendite. La sua incidenza è particolarmente evidente nei settori come la fotografia (98%), sport (94%) e gli accessori per animali domestici (94%). Tuttavia, va notata che l’influenza di altri canali sociali come Pinterest (sono statistiche composte da e-commerce made in Usa), in cui è fortissimo nella vendita di oggetti d’antiquariato e da collezione (74%), libri e riviste (29%). YouTube si mette in luce attirando clienti sui prodotti digitali (47%), servizi (36%) e automotive (26%). In coda Twitter, in cui sembra più utile per articoli per la casa e l’ufficio (18%), giardinaggio (13%) e regali (13%).

La capacità dei social media di essere d’aiuto nelle decisioni di acquisto è in aumento. Durante la prima metà del 2013, è stato osservato un aumento del 17,8% dei profitti riconducibili al traffico web generato dai social network. Questi utenti sono anche più attivi e predisposti rispetto a chi non li utilizza. Una recente ricerca di Nielsen indica che il 70% di loro acquista online, ben 12% in più rispetto all’utente medio di Internet.

Molte aziende stanno prendendo confidenza con gli adv di facebook che creano in autonomia e questo si vede in termini di aumento del fatturato. Ovviamente queste promozioni funzionano solo che le pagine di atterraggio sapranno essere veramente coinvolgenti, rassicuranti e il prezzo in linea con le aspettative del cliente. Il web marketing non si limita alla creazione di un post sponsorizzato.

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Parigi sta con i siriani, al Trocadero accanto agli esuli

Da PARIGI – La Tour Eiffel ha brillato per i siriani, vittime di tre anni di una guerra devastante con 146.000 morti e il più alto numero di rifugiati al mondo. Al tramonto, la scritta #AvecLesSyriens è stata proiettata sul primo piano della Tour Eiffel, mentre in quasi tutto il mondo si stavano svolgendo manifestazioni di sostegno al popolo siriano. Davanti, nella spianata del Trocadero dedicata ai diritti dell’uomo, decine di siriani si sono raccolti per manifestare contro il governo di Assad, con canti e cori antiregime, tante le donne e tanti i bambini. E’ accaduto sabato scorso. Anche noi eravamo lì, con loro, fianco a fianco, e abbiamo voluto guardarli negli occhi, parlare con loro, raccogliere alcune testimonianze e conoscere quelle storie che ci toccano sempre più da vicino.

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15 marzo 2014: Parigi sta con i siriani

Non parla francese, ma la sorella traduce per noi: è una giovane donna, ci racconta di essere fuggita quattro mesi fa dal campo di Yarmuk e di aver raggiunto la Giordania, dopo che la sua casa era stata presa di mira dai soldati di Assad e i proiettili le passavano sulla testa giorno e notte. E’ riuscita a portare con sé i suoi tre figli di due, quattro e dodici anni, che le stanno stretti accanto, lo sguardo un po’ smarrito ma sereno. Voleva fin da subito raggiungere la Francia perché ha due sorelle che vivono a Parigi da anni, ma non riusciva ad ottenere il visto; ha raggiunto la capitale solo un mese fa, dopo che le sorelle la sono andata a cercare direttamente in Giordania. “Mio marito è stato ferito mentre usciva da una moschea, adesso si trova in Francia”, ma non ci dice dove. Ora accenna un sorriso, guardando la scritta che è dedicata anche a lei, il viso dolce, illuminato da un tramonto colorato di rosa.
Ma l’atmosfera è grave, gli sguardi tristi e spenti, molte donne tengono tra le mani cartelli con la foto dei loro uomini, di prigionieri politici.

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Yaser e Mohamed Jamous dei Refugees of Rap

Hanno smesso di cantare i Refugees of Rap, intervistiamo i due rapper che si sono uniti alla manifestazione: “Mi chiamo Yasser Jamous e questo è mio fratello Mohamed, siamo palestiniani-siriani, siamo a Parigi dal marzo 2013. Per ottenere il visto per la Francia, prima siamo dovuti passare per il Libano. Abbiamo iniziato a suonare nel 2005 nel campo per i rifugiati palestinesi di Yarmuk, al confine con Damasco, con canzoni che non parlavano di guerra; siamo diventati famosi e ci chiamavano a suonare in diversi Paesi del Medio Oriente. Quando sono cominciate le rivolte nel marzo del 2011, ci siamo messi a scrivere testi antiregime, contro la dittatura di Assad. Presto abbiamo cominciato a ricevere minacce, il nostro fratello più piccolo è stato imprigionato, poi per fortuna rilasciato, e il nostro nuovo studio completamente distrutto, era stato finanziato dalle Nazioni unite, lo avevamo chiamato Sawt Al Shaab (The voice of the people). Abbiamo dovuto lasciare il nostro Paese, ma ora, come rifugiati politici, denunciamo con le nostre canzoni le atrocità subite dal popolo siriano.

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15 marzo 2014: Parigi sta con i siriani

La manifestazione di Parigi si è unita alle iniziative di solidarietà e di mobilitazione a livello internazionale, per chiedere ancora una volta ai capi di stato di adoperarsi e fermare al più presto questo terribile e inutile massacro, è stata organizzata da Amnesty International France e altre organizzazioni, tra cui Action des Chrétiens pour l’Abolition de la Torture, CARE France, CCFD – Terre Solidaire, Comité de l’Action Chrétienne en Orient, Fédération internationale des Ligues des droits de l’Homme, Justice et Paix, la Vague Blanche pour la Syrie, Médecins du monde, Oxfam France, Pax Christi France, Reporters sans frontières, le Réseau Euro Méditerranéen des Droits de l’Homme, Vision du Monde.

incertezza

In un cono d’ombra…

Il futuro oggi è in crisi. E, di conseguenza, l’idea di progresso che ha accompagnato la modernità è screditata, o non credibile. Raymond Aron definiva il progresso la religione secolare della modernità. Senz’altro è stata la più grande narrazione che l’Occidente ha fatto di se stesso e della sua egemonia nel mondo per molti secoli. Il progresso si può contestare come fece aspramente la generazione del ’68, e nello stesso tempo crederci. Sì, perché quella generazione credeva in un futuro migliore! Per il giovane di oggi il futuro è un deserto, o un incubo.

Sappiamo attraverso studi di importanti sociologi e antropologi che le rappresentazioni del futuro sono oggetto di costruzione sociale. Ma ciò non significa che siano frutto di immaginazione o di semplice volontà. Sono sempre espressione di processi materiali e della loro interpretazione. Non c’è alcun dubbio che la questione strutturale che provoca la crisi del progresso e della fiducia nel futuro è la mancanza di lavoro. Non ho memoria di questa angoscia per ciò che riguarda la mia generazione sessantottina. Cercavamo un lavoro, ma eravamo sicuri di trovarlo. Criticavamo le forme e i modi dei lavori a disposizione, ma non avevamo dubbi sulla loro esistenza. E’ questa ovvietà che oggi è in crisi.

La domanda che dobbiamo porci è di quelle fondamentali: come fa un giovane a diventare adulto se viene meno il principale rito di passaggio rappresentato dal lavoro che dà autonomia e identità? Per descrivere questa cruciale esperienza esistenziale facciamoci aiutare da un classico della letteratura del novecento: “La linea d’ombra” di J. Conrad. “Uno chiude dietro a sé il piccolo cancello della mera fanciullezza, ed entra in un giardino incantato. Là perfino le ombre splendono di promesse. Ma uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finchè si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù”. In senso metaforico, la linea d’ombra è quella che separa la giovinezza dalla vita adulta. Alla fine del romanzo il protagonista, infatti, dirà: “Non sono più un giovane”. E il suo interlocutore anziano farà un cenno di assenso. Ecco ciò che manca oggi. Un passaggio che sigli l’entrata nella adultità, facendo cadere la pelle della vita precedente di formazione.

Se si comprendesse fino in fondo questa condizione attuale del giovane, la si smetterebbe di fare dello stucchevole sarcasmo sui bamboccioni o sulla mancanza di voglia di diventare adulti! Proviamo ad immaginare lo stato d’animo di un giovane di oggi. Quali sono le prove a cui deve sottomettersi affinchè la sua maturità venga riconosciuta da parte di adulti autorevoli? Studia, si laurea, accumula master, si iscrive a corsi di specializzazione senza mai passare a uno stadio successivo. Insomma, vive una condizione di passaggio senza fine. La sensazione, per usare le metafore di Conrad, è di vivere non sulla linea d’ombra, ma in un cono d’ombra.

Le esperienze prive di tappe e di mete perdono di significato, perché salta il legame con il passato e con un possibile io futuro. Questa condizione che Benjamin chiamerebbe di fine dell’esperienza e di eternizzazione di un presente precario, procura una inesorabile perdita di energia e fiducia nella società e nel futuro. La mancanza di scadenze e la uguale ripetizione di esperienze è destinata a devitalizzare anche il naturale entusiasmo che è proprio dell’età giovanile. Infine ricordiamo che fra le promesse del progresso c’era una diffusa convinzione che le chances fossero equamente distribuite. Oggi, chi resiste a credere nel progresso, è convinto che se questo è possibile, non lo sarà per tutti. Questo diffuso sospetto di disuguaglianza non è fra le cause secondarie nella creazione di stati d’animo risentiti e frustrati. E in questo humus possono crescere piante velenose: estremismi, populismi, violenze…

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

stretta-di-mano

La Carta dei servizi, questa sconosciuta

Vorrei parlare dell’importanza della Carta dei servizi e propongo la lettura di un importante rapporto annuale di UnionCamere che con merito e collaborazione di Indis e RefRicerche ne ha approfondito i contenuti. “Questo contesto ha portato ad uno scarso utilizzo di tale strumento” così si dice e così confermo essendo occupatomene per anni. Per questo insisto. La Carta dei servizi è un impegno generale sulla qualità reso ai clienti e agli altri portatori d’interesse da parte del gestore di servizi pubblici e agisce sulla chiarezza del rapporto e sulle strategie di miglioramento; impegna a misurare il conseguimento degli standard dei servizi, a informarne i clienti e a individuare procedure di miglioramento in continuo.
Chi vuole approfondire l’analisi può scaricare il Rapporto sulle tariffe sui servizi pubblici e leggere da pag 109 a pag 126 [leggi].

Da parte mia ritengo che occorra individuare strumenti e procedure affinchè sia forte il valore dei cittadini e quindi i bisogni dei cittadini che devono essere recepiti quali obiettivi, standard qualitativi e di prestazione nella Carta dei servizi. La carta dei servizi si prefigge infatti il raggiungimento di obiettivi di miglioramento della qualità dei servizi forniti e del rapporto tra utenti e fornitori dei servizi. Le prime indicazioni generali, intese come atti di indirizzo, vanno a quei comportamenti e principi generali che troppo spesso vengono considerati ovvi, ma che poi spesso nascondono insidie e delusioni. Ci si riferisce in particolare ai principi di: eguaglianza di trattamento, imparzialità, continuità, partecipazione, efficacia ed efficienza, cortesia, chiarezza e comprensibilità dei messaggi, condizioni principali di fornitura, accessibilità al servizio, facilitazioni per utenti particolari, rispetto degli appuntamenti concordati, tempi di attesa agli sportelli, risposta alle richieste degli utenti, risposta ai reclami scritti, gestione del rapporto contrattuale, rettifiche di fatturazione, semplificazione delle procedure, continuità e servizio di emergenza, pronto intervento.

Una puntuale attenzione deve essere rivolta agli strumenti e ai criteri di informazione; il gestore deve assicurare al cliente un agevole accesso ad ogni informazione (con continuità nel tempo) e deve individuare idonee modalità di comunicazione per informare gli utenti sui principali aspetti normativi, contrattuali e tariffari, che caratterizzano il servizio.
Il personale deve essere tenuto a trattare i clienti con rispetto e cortesia, a rispondere ai loro bisogni, ad agevolarli nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento degli obblighi. I dipendenti sono tenuti altresì a indicare le proprie generalità, sia nei rapporti, sia nelle comunicazioni telefoniche. Inoltre il personale a contatto con il pubblico deve essere munito di tesserino di riconoscimento, sul quale siano riportati il nome e la fotografia. Al momento delle richieste delle singoli prestazioni il personale deve dunque provvedere a fornire al cliente le informazioni concernenti i diritti riconosciuti dalla carta dei servizi, i tempi massimi di esecuzione delle prestazioni, gli indennizzi automatici previsti, etc.

E’ però sulla qualità e tutela ambientale che i gestori si devono impegnare soprattutto ad attuare un sistema di gestione della qualità tendente al miglioramento continuo delle prestazioni che assicuri la soddisfazione delle legittime esigenze ed aspettative dei clienti e l’attuazione di un sistema di gestione ambientale che assicuri il rispetto dell’ambiente, la conformità alle norme ambientali e la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, tramite la fissazione ed il monitoraggio di parametri qualitativi del servizio e la raccolta delle procedure adottate in un manuale della qualità.
Un tema importante, su cui non è mai sufficiente soffermarsi e che si ritiene debba avere molto più spazio anche nella definizione degli standard di una Carta dei servizi e quello relativo alla accessibilità fisica ed informativa dei servizi e dei documenti a tutti coloro che hanno disabilità e che soffrono di un handicap sia esso temporaneo o permanente. La maggior parte di queste persone troppo spesso non riesce a partecipare pienamente alla vita sociale ed economica a causa di barriere fisiche o di altro tipo, ma anche perché discriminate. Vi sono dunque purtroppo molti cittadini con disabilità che possono incontrare gravi ostacoli o comunque difficoltà nel fruire dei servizi di gestione idrica e dei rifiuti. Bisogna dunque con forza anche in questi settori ambientali consentire ai disabili i esercitare i propri diritti. Si pensa alla standardizzazione specifica dei servizi, all’applicazione mirata di norme, alla accessibilità agli edifici, alle strutture, agli strumenti ed ai servizi digitali.

Se sono riuscito ad attirare la vostra attenzione leggete la Carta dei servizi; sicuramente è in qualche cassetto di casa e fatene un vero strumento per la gestione dei servizi pubblici ambientali.