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INTERVENTI
“Franz, perché disprezzi i veneti?”

Da: Sergio Bolognesi

Sono rimasto allibito nel leggere le parole pronunciate dal prof. Gianfranco Franz, detto Giangi, che dipinge i veneti come un popolo di evasori fiscali e afferma che Venezia e il Veneto non meritano alcuna compassione e neppure solidarietà.

Perché? Perché da anni votano per il centro-destra e reclamano l’autonomia, come afferma lo stesso docente.

Ancor peggio ha fatto il prof. Franz dopo la burrasca (potremmo dire nubifragio,pensando a Venezia) che ha suscitato con le sue incredibili affermazioni.Si è infatti scusato (forse indotto a ciò dalla moglie, Roberta Fusari, che aveva presentato – pensate un po’ – una mozione a sostegno di Liliana Segre contro ogni forma di odio e di intolleranza) ma con parole che hanno peggiorato la situazione. “Pezo el tacon del buso”, direbbero i veneti che il prof.Franz evidentemente detesta. Il nostro docente ha infatti assicurato, con intento derisorio, che verserà 2 (due!) euro a favore di Venezia!

Ammesso che le scuse siano sincere (ma nessuno ci crede), le parole non si possono cancellare. “Voce dal sen fuggita, poi ritirar non vale/non si trattien lo strale quando dall’arco uscì”, ammoniva Metastasio. Troppo tardi e troppo male,caro professore. Lei era adirato e, come dicevano i Romani, “in ira veritas”!

Una semplice domanda: con quale coraggio guarderà negli occhi i suoi studenti veneti, allorché li incontrerà a lezione?

E come potrà parlare, d’ora in poi, di rispetto, solidarietà e tolleranza per il prossimo? Solo i migranti la meritano? I veneti no?

Se fossi un suo studente la guarderei dritto in faccia, con espressione “serenissima” e griderei, molto educatamente: viva San Marco!

Mario Testi presenta “Inciampare nel cancro e rialzarsi”

Da: Organizzatori

Venerdì 22 novembre 2019, alle ore 17, presso Palazzo Crema (Via Cairoli 13, Ferrara) si terrà la presentazione del libro di Mario Testi “Inciampare nel cancro e rialzarsi. La filosofia del Decathlon come efficace adiuvante alle cure mediche per ostacolare il male”, pubblicato nella collana sportiva della casa editrice ferrarese ‘Faust Edizioni’ di Fausto Bassini.
Motivato dalla speranza che questo libro-diario possa essere utile a quanti, malauguratamente, dovessero inciampare nello stesso ‘ostacolo’, l’autore ha deciso di parlare della sua impegnativa esperienza, ennesima sfida o – come lui la chiama – “Decathlon della sopravvivenza”.
“Sei un combattente, un lottatore, sei una roccia… ce la farai”. È questa la frase più ricorrente che il professor Testi si è sentito ripetere, da amici e conoscenti, nel tentativo di rincuorarlo all’indomani della diagnosi del “brutto male” (Mieloma Multiplo) che sportivamente combatte dal settembre del 2016. Oggi, a tre anni di distanza dalla diagnosi di tumore, a chi incontrandolo gli chiede “come va?”, lui può rispondere, altrettanto sportivamente: “Per il momento sto vincendo ancora io… spero che continui!”.

Ne parleranno con l’autore: Riccardo Modestino e Massimo Masotti dell’Associazione De Humanitate Sanctae Annae.
Il volume si fregia dei prestigiosi patrocini di AIL Sezione di Ferrara; FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera); CONI Comitato Regionale Emilia Romagna; Università degli Studi di Ferrara; Comune di Ferrara; Associazione De Humanitate Sanctae Annae; Fondazione Estense. Si fregia, inoltre, del prezioso contributo grafico del creativo ferrarese Dino Marsan e degli amichevoli pensieri-testimonianza di: Alan Fabbri, Antonio Cuneo, Gian Marco Duo, Andrea Maggi, Donato Selleri, Riccardo Modestino, Luciana Boschetti Pareschi, Giancarlo Volpato, Sir John Kirwan, Andrea Stella, Mario Fornasari, Alessandro Bratti, Roberto Di Marco, Leonardo Milani, Stefano Montanari, Dino Marsan, Alessandro Donati, Eugenio Capodacqua, Massimo Magnani, Orlando Pizzolato, Andrea Giannini, Manuela Levorato, Salvatore Buzzelli, Sandra Truccolo, Daniele Scarpa.
Nel corso dell’evento verranno proiettate numerose immagini inedite dagli anni ’50 a oggi.
Tutti i proventi dell’autore derivanti dalla vendita del libro saranno devoluti all’AIL (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma) – Sezione di Ferrara.
La partecipazione è libera e gratuita.

Mario Testi: titolare della cattedra di Scienze Motorie e Sportive nei licei di Ferrara; consulente tecnico-sportivo della trasmissione ICARUS 2.0 di Sky Sport.

Quando si dice una cosa di sinistra: Zingaretti tira fuori dal freezer lo Ius Soli

Nicola Zingaretti ha tutta l’aria di un uomo tranquillo; il suo esercizio giornaliero sembrava quello di richiamare tutti alla calma, al dialogo, alla ragionevolezza. Ma sono settimane difficili: il governo giallo-rosso è partito in gran salita. Dopo la debacle annunciata in Umbria c’è una Finanziaria da cucire assieme. Intanto Di Maio e i 5 Stelle sono nella bufera, Matteo Renzi si fa largo a spintoni e Calenda fonda il suo partitino. E poi c’è il bubbone Ilva. E l’acqua altissima a Venezia, l’allarme alluvioni, il rischio frane e valanghe…
In mezzo al grande polverone (reale e mediatico), per salvare una maggioranza sempre più traballante, il Pd aveva scelto di stare sulla difensiva. Calma ragazzi, ripeteva il cucitore Zingaretti, se andiamo avanti così, andiamo a sbattere. Insomma, linea morbida su tutto il fronte. Con scarsi risultati.
Finché il segretario arriva a Bologna per lanciare il nuovo statuto dem. Bologna non è una città qualsiasi per la sinistra; e tira una nuova aria, due giorni prima 15.000 sardine avevano stipato piazza Maggiore. Tant’è, quando Zingaretti comincia a parlare sembra un leader diverso. Nei toni e nei contenuti. Stanco di subire il logoramento degli alleati riottosi propone al Pd e al governo una “nuova agenda”.
E dice una cosa inaudita. Fa quella cosa che, inutilmente, Nanni Moretti chiedeva al partito una ventina d’anni fa: “D’Alema, dì una cosa di sinistra!”.
Il ri-lancio di Ius Soli e Ius Culturae – così almeno mi piace credere – può rappresentare una svolta. Reale e simbolica. Un atto di coerenza e di coraggio, una risposta forte a un populismo sgangherato e cialtrone. E il rispetto di una antica promessa, quella fatta da Pier Luigi Bersani (un altro uomo tranquillo, anche troppo) alla vigilia delle elezioni politiche del 2013: “La prima cosa che faremo? Daremo la cittadinanza italiana a tutti i bambini nati in Italia”.
Come è noto, Letta, Renzi e Gentiloni quella promessa se l’erano messa in tasca. Guarda caso: non era mai il momento giusto per provarci. Adesso il nuovo Zingaretti rampante ha pescato lo Ius Soli dalla tasca e l’ha ritirato fuori. Ha detto una cosa di sinistra. Ha raccolto una sfida che sta a cuore – così almeno sembra nella narrazione mediatica – solo a Papa Francesco e a una minoranza degli italiani. Ma Gandhi (uomo tranquillissimo ma assai deciso) aveva ragione, non bisogna aver paura di essere minoranza. Così, solo così, ti può capitare di vincere.

Speciale DIARIO IN PUBBLICO
Venezia, Venice, Venise, Venecia

La tragedia di Venezia è paragonabile a quel gusto tutto contemporaneo della ‘diminutio’. Basta osservare l’uso che di questa figura retorica fanno i cantanti che, assieme ai calciatori, sono gli autentici idoli degli italiani.
Un tempo, ai miei tempi (forse anche più terribili degli attuali) esisteva ancora il concetto del ‘bon ton’ come si può vedere nelle puntate televisive di Downton Abbey o nel bel film che ne è stato tratto, gusto del vestire corretto che durerà almeno fino agli anni Novanta del secolo scorso. Bon ton che la mia generazione ha tentato di scardinare con le minigonne, i pantaloni a zampa d’elefante, il foulard al collo dei maschi. Eppure noi giovani , come del resto tutti, in occasioni formali ci si vestiva correttamente secondo le regole del tempo. Al festival di San Remo o nei concerti-fiume che riempivano stadi, piazze, teatri il cantante e i musicisti vestivano quasi sempre lo smoking, segno di distinzione e di eleganza. Ora la giacca dello smoking rimane, ma sotto c’è la maglietta o al massimo una strana camicia senza collo. L’orrore puro l’ho appena visto in tv. Nello spettacolo in onore di Fabrizio de André un cantante sembra di grido appare vestito come mai mi sarei immaginato. Questo vecchietto con gli occhi pittati, il ciuffo bianco cadente veste la giacca da smoking e sotto una camicia da notte; indossa poi una specie di calzone-calzamaglia, gli stivaletti di vernice e canticchia una bella canzone di De André esibendo quella mise che, nelle più spericolate esibizioni, non si sarebbe permesso nemmeno Renato Zero. Ed è ‘IL’ segno di eleganza: l’eleganza imposta da chi detta la moda e, purtroppo forse una parte non indifferente del cosiddetto pensiero il cui impulso viene dai cantanti e da i calciatori
Che c’entra Venezia? Venezia esibisce lo smoking nei luoghi turistici poi indossa la parodia dello smoking in quelli toccati dalla lebbra turistica.
Osservavo una bella rappresentante di Forza Italia che parlava in politichese ad un recente raduno del suo partito e le sue ciglia finte sconfinavano nell’assurdo. E quelle ciglia finte, quella ‘diminutio’ della giacca da sera sono ciò che il turistame vuole dalla mia Venezia. Ho frequentato i palazzi più esclusivi della città lagunare, il circolo delle contesse, la Venezia segreta che non si oppone ma incita a far soldi con il turismo, che non mette però piede al Danieli o da Cipriani, troppo alla moda, ma che al massimo si spinge per non essere contaminata nelle sale segrete del Gritti o dell’Europa. Anche loro hanno distrutto Venezia per una specie di cinismo e di indifferenza.

Riprendo la polemica che oppone ora in città l’Amministrazione leghista alle dichiarazione del professor Giangi Franz che anche sulla mia pagina fb aveva ripetuto e scritto affermazioni che si riassumono nel concetto per cui i veneti e i veneziani s’arrangino a salvare loro e solo loro Venezia. A leggerle, le ho ben inquadrate in un atto non di cinismo ma di impotente amore che è sì ad un passo dall’odio ma che constata la disperazione di un intellettuale di essere alla fine di un processo di autodistruzione. Da qui la riprovazione ma anche la comprensione. Sembra allora esagerato oppure ‘politicamente corretto’ l’azione della Amministrazione ferrarese? Ricorrere poi alla censura degli organi universitari a cui Franz appartiene è simile ad una barzelletta. E chi scrive ne sa qualcosa delle ‘censure’ universitarie! Mi accorgo di usare una caterva di termini virgolettati quasi a sottolineare quella ‘diminutio’ di parole in smoking ma che nascondono la camicia da notte.

A Venezia si è consumata la tragedia delle grandi navi in cui gente vestita come il cantante dal ciuffo bianco crede di possedere la città più bella del mondo perché la può calpestare, insudiciare con la bava del credersi ‘su’! E riaffiorano immediatamente i ricordi di una città coltissima, di una Università tra le prime in Europa, di biblioteche mozzafiato di musei che producono la sindrome di Stendhal, di chiese deserte e silenziose, dell’intatta Giudecca dove anche ai senza soldi, come me da giovane, venivano serviti piatti eccezionali per pochi spiccioli.
Mi venne offerto di lavorare all’Università veneziana ma a malincuore rinunciai perché vivere a Venezia, come morirvi, è difficilissimo. Thomas Mann aveva capito tutto un secolo fa.

Come si sono comportati allora i politici? Hanno commesso una caterva di decisioni sbagliate dettate anche – e va sottolineato – dalla necessità di adeguamento a una città così difficile, dalla spinta che proveniva dal basso di produrre reddito, ma soprattutto dalla volontà di far soldi con la città più bella del mondo. Piegarsi alle necessità del turismo più pacchiano è stato il loro peccato originale. Ricordo le riunioni a casa di De Michelis, editore e politico di rilevanza, riunioni in cui la minaccia di quello che un tempo si chiamò consumismo di massa restava nello sfondo. Agiva forse ancora una certa ansia sessantottina per cui anche ai meno abbienti era finalmente concesso di frequentare quella città fatta per i ricchi. Poi lo spopolamento e il lento naufragio di istituzioni, attrazioni, bon ton, e modelli di una vita inimitabile che scese fra le strade portando lo smoking e la maglietta.
Venezia risorgerà, a fatica, sempre più usata, forse, e sta a noi che l’amiamo toglierle quella giacca e riscoprirne la bellezza, ristoro unico ai mali del mondo.

PER CERTI VERSI
Ilia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

ILIA

sì Ilia
la incontrai per le vie di Buda
come una patriota magiara
ma lei era di Creta
era di Troia
era azzurra
blu
come Cnosso
le sue parole in saccoccia
nel flusso termale di Buda
tremavano le barricate del quarantotto
c’erano stati i funerali di Nagy
c’erano le barriere
il filo spinato
l’Ungheria non era più Lei
Ilia mi raccontava
mi raccontava di una sconfitta
di una distruzione
di una rinascita
da dove cominciare
da dove
forse dalla sconfitta
dalla distruzione
Troia era cenere
tutta per terra
come i morti
gli scannati
i divelti
come sempre
gli sconfitti totali
pagano brutalmente
la sconfitta
e ancora si crede
ai vinti
ai vincitori
non so perché
ma mi salvai
un uomo
un uomo nemico
molto importante
mi mise su una nave
qualcuno doveva sopravvivere
ordini venivano da Creta
dovevo diventare regina
di quella terra unica
meravigliosa
ma come potevo
in cuore mio sopravvivere
eppure si sopravvive
si riesce a portare il sangue
dentro il vascello
del pensiero
che ancora ci sono giorni
da vivere
in questa terra
in questa esistenza
giorni diversi
differenti giorni
chiamati da altre cause
non avevo più nulla
se non me stessa
la cenere mi tappava il respiro
mi strozzai di lacrime
avrei voluto combattere oltre
morire sul campo di battaglia
forse meglio sarebbe stato
perché sopravvivere a tale strazio
a tale scempio della vita
forse perché nella donna
c’è il battito della vita
il dono della floridità
della continuità
forse
tutte le ipotesi cadevano
io non sapevo cosa fosse meglio
non avevo parole per dire niente
non avevo più parole
rimasi muta per un tempo incalcolabile
il viaggio non porta ricordi
non mi appare nulla sullo schermo della mente
nel flusso del cuore
nel granaio degli occhi
completamente vuoti
spenti
assenti
eppure tornai
tornai alla vita
con una freddezza così calma
così calda
che mi sorprese ferocemente
con un vigore imperioso
per tutti gli dei
non posso dire altro
che portata nel grembo
di una terra nuova
ricca di bellezza
di fascino
di potente passione per l’arte
in questa
in questa passione
fu possibile per me
tornare alla vita
ricominciare
dare figli al re
al mondo
alla storia
alle mie braccia

DIARIO IN PUBBLICO
Che settimana!

Cerco di raccapezzarmi ricostruendo con il ‘Lego’ della memoria i fatti sconcertanti, inammissibili, crudeli e gloriosi che questa Italietta petulante è riuscita a mettere assieme.
Aggiungere qualcosa al problema Ilva supera di molto le mie possibilità intellettuali, morali e ideologiche: lo strazio del sentimento (e della ragione) di fronte all’implacabile ‘fatto’ dei licenziamenti, del ritiro dei franco-indiani, di una città avvolta nel veleno: reale e metaforico. Tutto è dunque colpa dei politici? Oppure anche il ‘popolo’ ha messo del suo?
Ma quello che m’offende, che trovo privo di alcuna possibilità di riparazione, che dimostra il prevalere dell’odio su tutta la gamma dei sentimenti umani è il caso Liliana Segre e del comportamento della destra rimasta quasi tutta seduta al momento della standing ovation che ha seguito la proposta di una commissione anti-odio proposta dalla senatrice. Da qui la vergognosa necessità di offrire alla Segre la protezione di una scorta che l’accompagni e dissuada da gesti incivili chi ha fatto della politica dell’odio la propria bandiera. A questo ormai ‘sentire comune’ si lega e prende forma una pericolosissima forma di protesta quale quella messa in atto dal sindaco di Predappio che nega il contributo comunale al viaggio ad Auschwitz di due studenti.

Il ribollire della coscienza non serve se non si ha pronta una ferma condanna e una altrettanto ferma risposta. In questo dubbio mi conforta e mi sostiene lo splendido articolo di Fiorenzo Baratelli apparso su questo stesso giornale. Scrive: “Vengo da una tradizione politica che negli anni bui della dittatura fascista distingueva tra il filosofo Gentile e lo squadrista Farinacci. Perché non dovrei praticare la stessa arte della distinzione giudicando la Lega? […] La democrazia funziona così, mediante una dialettica quotidiana che condiziona tutti i protagonisti della vita pubblica e che di volta in volta determina spostamenti in direzioni diverse a seconda della capacità culturale messa in campo dai diversi attori politici. Chi si aspetta vittorie clamorose e definitive non ha capito il carattere ‘grigio’ di un sistema che vive all’insegna di mediazioni, compromessi e non aut-aut da ultima spiaggia”.
La proposta di Alan Fabbri, sindaco leghista di Ferrara, di offrire la cittadinanza onoraria a Liliana Segre e di coinvolgere tutte le forze politiche in questo progetto è encomiabile. Ho appena assistito alla votazione della proposta che ha riscosso l’unanimità. Sulla campagna elettorale ormai iniziata da Matteo Salvini con il pranzo al Petrolchimico di più di 400 persone ovviamente il mio giudizio cambia non approvando per ragione anche di gusto personale (il solito radical chic!) che l’uomo politico Salvini con la sua candidata alla presidenza dell’Emilia Romagna, Borgonzoni, tra tripudi di cappellacci, idromele, e altri prodotti della cucina a chilometro zero tenti la scalata alla presidenza della Regione con questi ‘festival’. Poi, come la stampa locale ha sottolineato la visita ai padiglioni di ‘Usi & Costumi’ dove il leader si scatena a farsi riprendere con il testa l’elmo di centurione alla foto con il sosia del guerriero maya di Apocalypto. Qui Matteo Salvini a suo agio si ritaglia un’ora di bagno di folla. Certo non è facile trovare nell’intera storia italiana dall’unità ad oggi un politico che aspira a diventare Presidente del Consiglio che folleggi come il Nostro dal Bagno Papeete ai costumi pseudo-storici. Ma questo è ciò che il popolo vuole e su questo s’impernia la futura ‘prise de pouvoir’ della, un tempo, Emilia rossa.
E la reazione di chi si considera politicamente di sinistra? Un cupo silenzio salvo il chiacchericcio dell’altro non meno imprevedibile Matteo.

Pregustavo da tempo la visione del film “La belle époque” come un evento a cui partecipare; con Fanny Ardant che adoro. Ormai più vecchio del personaggio principale che rivive la sua storia d’amore degli anni Settanta quella di Victor-Daniel Auteuil volevo provare l’emozione di quella Francia che ho cosi ben conosciuto. Che delusione! L’intellettualismo di cui i francesi sono maestri spinto alle conseguenze estreme: quasi una presa in giro. Dire banale è poco; dire sbagliato s’avvicina al vero. Ormai la douce France sta ripetendo i suoi miti con in più la convinzione d’essere nel vero. Helas! E’ ora di cambiare. Un attento lettore mi fa notare che senza il pensiero francese non potremmo capire la nostra storia contemporanea. Tutto vero e condivisibile ma qui non si tratta di pensiero francese ma di utilizzazione di schemi ormai obsoleti con la ‘nostalghia’ degli anni Settanta rivissuti alla luce dei nuovi mezzi comunicativi. Ecco perché m’arrabbio. Sarebbe come se mi mettessi a singhiozzare sul foulard che portavo al posto della cravatta, sui cineclub, sull’isola d Mann, sull’erba e sui pantaloni a zampa d’elefante. Abbiamo dato. Ora è la proiezione della cultura di massa che preoccupa come ben spiega Fiorenzo Baratelli nel suo ottimo articolo che ho citato.

E quale è la notizia più importante della settimana? Quella che racconta come il ministro Dario Franceschini ha rimesso in gioco e ha restituito quei 25 milioni negati al proseguimento della costruzione del Meis, il Museo dell’Ebraismo e della Shoah a Ferrara. E nel nome di chi? Di Liliana Segre.
Bravo ministro.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
DUE PIAZZE – Amore giusto, perfetto, eterno… La parola ai lettori

Bingo… la persona giusta!

Cara Riccarda, caro Nickname,
impegnativo il concetto di persona giusta! Impegnativo ma non impossibile, un po’ come vincere all’enalotto. L’amore è conoscenza, curiosità, complessità, cabala e gioco se vuoi. Il tutto in un contesto temporale!
S

Caro S,
all’enalotto vinci in un secondo o non vinci. In amore c’è tutto quel che dici: la conoscenza dopo la curiosità e il gioco della cabala. Che ad alcuni fa molta paura.
Riccarda

Caro S,
voglio farti una iniezione di ottimismo: trovare la persona giusta è più probabile che vincere una somma sconsiderata all’enalotto. In entrambi i casi però bisogna giocare con passione: farlo una tantum è garanzia di fallimento. A meno che tu non sia un predestinato: in quel caso, fossi in te, mi preoccuperei perché prima o poi un asteroide ti cadrà in testa.
Nickname

La formula dell’amore perfetto?

Cara Riccarda, caro Nickname,
il per sempre c’è e a volte ti cade addosso a volte lo hai a fianco e te ne innamori passo a passo. Il per sempre è quello che è migliore di te.
Quando guardi chi ti sta accanto e ti accorgi che sei migliore di lui è inutile cercare il buono, vedere il lato positivo, fare l’elenco dei pro e contro.
Lascia stare le cure palliative. Chiudi tutto e vai avanti. L’amore non è una malattia, non va curata, è un sentimento da trattare bene e lo facciamo per noi stessi. L’amore è la persona che hai scelto perché tu la vuoi.
Siamo degli egoisti ecco perché ci innamoriamo. Succede solo e fino a quando il ricavo unitario è maggiore del costo marginale. E’ necessario che la funzione guadagno sia derivabile e l’ascissa del punto massimo si ottiene annullando la derivata prima.
V

Cara V,
non ho sufficienti conoscenze matematiche per comprenderti fino in fondo, tuttavia, hai ragione: l’amore non è una malattia. Però mai come quando si è innamorati, i nostri meno e i nostri più, le nostre somme algebriche così puntuali e rigorose, si sparigliano. E’ quel senso di sconosciuto che ci fa vedere finalmente cosa siamo.
Riccarda

Cara V,
la tua conclusione mi fa sospettare di trovarmi davanti ad una studiosa dell’economia.
In tal caso, potresti rappresentarmi in un grafico con ascisse e ordinate la funzione che ti permette di individuare chi è “migliore” o “peggiore” di te?
Nickname

L’amore eterno? Questione di momenti…

Cara Riccarda e caro Nickname,
un tempo avrei detto che la persona giusta e il rapporto giusto, nascono in un momento, ora credo, più in linea con Nickname, siano il risultato di un tempo condiviso.
N

Caro N,
c’è il rischio del grande bluff ad affidarsi al momento, devo ammetterlo. E anche quello vale la pena conoscerlo. Poi non si sbaglia più.
Riccarda

Caro N,
sarei anche favorevole ad un tempo diviso, che permetta di gustare appieno quello condiviso.
Nickname

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Trent’anni fa la Bolognina: e tutto fu diverso

La Bolognina, mi colse di sorpresa, stavo regalando il mio anno allo Stato, notizie frammentarie, non c’erano telefonini e le informazioni non esplodevano così velocemente come nel nuovo millennio. Ero un ragazzo, avevo votato per il mio partito solo una volta, ero già tesserato al Pci, come prima lo fui della Fgci. Non ricordo bene quale fu il primo pensiero di mio padre, che fu la mia guida politica dai tempi delle elementari. Mi ricordo cosa disse, nei pochi mesi successivi, anche durante la malattia, forse la sua ultima analisi e il suo ultimo pensiero fu: “Non è importante il simbolo, oppure il nome, importante è che rimangano i nostri valori”.
Purtroppo, non ebbe il tempo per capire, per spiegarmi, la sua vita si interruppe il 23 gennaio 1991, quella del suo partito, come in un rapporto simbiotico si interruppe il 3 febbraio 1991 durante il XX° congresso, quando la maggior parte dei delegati approvò la svolta avvenuta alla Bolognina due anni prima.
Per lunghi anni, per troppo tempo le parole di mio padre mi risuonarono nella testa, forse lui aveva capito prima di me la necessità di questo disfacimento, forse ci sarebbe servito per essere più moderni, per accettare la novità della dissoluzione delle ideologie, forse politica significa mediazione, moderazione, importante è sapere chi siamo e chi rappresentiamo.
Si, forse.
Sinceramente, io credo che il 3 febbraio 1991, sia stato l’inizio della fine. Scissioni, contro scissioni, frammentazione, pulviscolo di idee, disperse nei rivoli di mille però. Nessun partito potrà mai prendere il posto del mio partito, la deriva mai finita ha portato l’ex più grande partito della sinistra Europea ad essere un ex partito di sinistra.
Poche idee, nessun ideale, perdita continua del contatto con la propria gente, fino ad arrivare a regalare la classe lavoratrice ai moderati, alle destre, ai sovranisti.
Quante volte papà, avrei voluto confrontarmi con te, in questi trent’anni passati troppo in fretta, sono sicuro che la tua delusione nei confronti di quello che fu il tuo partito ed il tuo mondo sarebbe stata ancora più cocente e indelebile, di quanto lo sia stata per me. In neanche una generazione, è sparita la voglia di lottare, i traguardi raggiunti col sangue degli operai sono stati erosi a poco a poco, la solidarietà non è più un valore, l’antifascismo non è più scontato, in fabbrica si odiano gli immigrati e non il capitale, in campagna sono riemersi i caporali che aveva sconfitto Di Vittorio.
Ma quale modernità?
Ma quale progresso?
Papà avresti visto un mondo ‘all’arrovescio’, dove i poveri combattono contro i più poveri e i ricchi diventano sempre più ricchi, dove evadere le tasse è un valore, dove il furbo fa carriera, diventa manager, diventa capo, governa.
Esistono politici che non hanno lavorato un ora in vita loro, che fanno diventare un manifesto politico l’odio nei confronti di chi si siede sulle panchine.
Un mondo senza né capo e né coda, papà.
Quando eri in ospedale, un’infermiera ti chiese che mestiere facevi, tu le rispondesti: “un mestierazz…”. Eri sindacalista per vocazione e ne sentivi il peso e la responsabilità, ora in questo mondo senza sinistra, in tanti denigrano e rinnegano il tuo lavoro, tanti operai pensano di difendersi da soli, tanti padroni ci sguazzano in questa melma e votano come i loro dipendenti.
Assurdo.
Senza speranza, un mondo senza lotta di classe, dove gli sfruttati calpestano i diritti degli ultimi arrivati, dove dalle fogne riemerge il guano che pareva sconfitto nell’aprile del ’45.
Lo so che le mie sono solo parole, parole al vento, io per primo non ho la tua forza, papà, tu eri un trascinatore, io scrivo e mi difendo, cerco ancora, tra la polvere del tempo, la tua bandiera. Vorrei pulirla e riconoscendone il colore rosso, la alzerei, gridando al mondo che non siamo morti, non siamo estinti, non siamo superati, siamo ancora lì, ed ora, più che allora ne siamo convinti, trent’anni fa non diventammo moderni, diventammo moderati. Da quella porta cominciò ad entrare il vento freddo della dissoluzione.
E’ da troppo tempo che aspettiamo, torniamo ad essere ciò che siamo.

OSSERVATORIO POLITICO
La lega non è un monolite, vanno fatti dei distinguo

Finalmente due buone notizie. Il sindaco della città, Alan Fabbri, porterà in Consiglio comunale la proposta di conferire la cittadinanza onoraria a Liliana Segre e il ministro Dario Franceschini ha ufficializzato il ripristino del finanziamento per il completamento del Meis: “Lo dobbiamo a Liliana Segre, a lei personalmente e a quello che rappresenta. La conoscenza è il migliore antidoto contro odio e intolleranza”.

Scriveva Antonio Gramsci che in democrazia “l’assedio è reciproco”. Teniamolo presente quando ci prende lo sconforto a fronte di notizie quotidiane gravi e inquietanti. In questi mesi la destra estrema, che fa capo alla Lega e a Fratelli d’Italia, si è scatenata nel promuovere campagne di odio e assumere decisioni vergognose. La non approvazione della ‘Commissione Segre’, sindaci della destra che considerano i viaggi della memoria ad Auschwitz ‘iniziative di parte’, la presenza di Casa Pound e Forza Nuova alle manifestazioni della Lega, sono solo alcuni dei fatti gravi tra tanti altri che potremmo ricordare. Ebbene, la reazione di una parte larga dell’opinione pubblica li ha costretti a compiere qualche gesto riparatore.
A chi, a sinistra, vorrebbe archiviare tutto sotto il titolo ‘ipocrisia’ e chiudersi in un rifiuto (a prescindere) di qualunque cosa succeda a destra propongo alcune riflessioni. In politica contano gli atti pubblici, non il processo alle intenzioni. Per esempio, conferire la cittadinanza onoraria a Liliana Segre è un gesto importante e di indiscutibile significato simbolico all’insegna dei valori della libertà, democrazia, tolleranza, contro ogni posizione razzista e filo nazi-fascista. Perché non riconoscere il segno positivo, nell’atto che solennemente verrà compiuto oggi in Consiglio Comunale, delle manifestazioni di queste settimane, della campagna quasi unanime sulla stampa e in tv, delle prese di posizione nella rete, della coscienza diffusa tra i giovani dei valori rappresentati dalla senatrice Segre? Tutta la città deve essere orgogliosa di avere Liliana Segre tra i suoi cittadini onorari!
Aggiungo un’altra valutazione storico-politica. Perché rifiutarsi di prendere atto che la Lega non è compatta e unita su posizioni estreme e pericolose? Perché negare che sia attraversata da divisioni su principi e temi fondamentali per la convivenza civile e democratica?

Vengo da una tradizione politica che negli anni bui della dittatura fascista distingueva tra il filosofo Gentile e lo squadrista Farinacci. Perché non dovrei praticare la stessa arte della distinzione giudicando la Lega? Senza sottovalutare l’effetto deprimente che produce un atteggiamento di non considerazione dei risultati che la mobilitazione dell’opinione pubblica può determinare. La democrazia funziona così, mediante una dialettica quotidiana che condiziona tutti i protagonisti della vita pubblica e che di volta in volta determina spostamenti in direzioni diverse a seconda della capacità culturale messa in campo dai diversi attori politici. Chi si aspetta vittorie clamorose e definitive non ha capito il carattere ‘grigio’ di un sistema che vive all’insegna di mediazioni, compromessi e non aut-aut da ultima spiaggia.

Vorrei concludere queste note ricordando l’insegnamento di un grande filosofo e maestro di democrazia morto in questi giorni: Remo Bodei. Anche nel suo ultimo importante libro (“Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale”, Il Mulino) invitava, dinanzi a problemi in continua evoluzione e a eventi circonfusi da uno spesso alone di incertezza, a non perdersi in profezie di sventura o a coltivare superficiali ottimismi, ma impegnarsi a studiare per capire e ad organizzarsi per agire.
Remo Bodei amava ripetere un detto di J. M. Keynes: “L’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”. Viviamo tempi difficili, ma anche affascinanti. C’è l’urgenza di rimodellare dalle fondamenta il nostro apparato concettuale e di abbandonare idee ‘tampone’ o anacronistiche che producono solo indecisione e immobilismo. A volte più che abbracciare idee nuove, si fa fatica a liberarsi di quelle vecchie. Insieme ad opere fondamentali Remo Bodei è stato un intellettuale per molti aspetti originale in questo tempo di stucchevoli narcisismi e diffuse sciatterie. Rigore nella ricerca storico-filosofica, instancabile divulgazione apprezzata per chiarezza e qualità, presenza costante nella discussione pubblica concepita come luogo di verifica e di controllo della stessa riflessione filosofica. Siamo grati a queste testimonianze di serietà intellettuale e impegno civile che ci sostengono nella determinazione a ‘non mollare’.

PER CERTI VERSI
Giocosa

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

GIOCOSA

anch’io
aspiro a fare con te
a cuscinate sulle nuvole
a mettere le dita
nella marmellata
salendo sulla giostra
del sole
toglierci la stanchezza
dal viso
con una carezza
visitare con una guida
le tue mani
e scucire dal tuo petto l’infanzia
come un filo di Scozia
nel cassetto del novecento
troppo facile poi
lisciarci il mento

Potere al Popolo pensa alle Regionali e intanto si insedia in Gad. I militanti: “Spazio aperto a tutti”

Ieri sera ha avuto l’avvio la nuova avventura che vede coinvolta la compagine politica di sinistra “Potere al Popolo“. Stare in uno dei quartieri più discussi della città, in Corso Piave 4a, a pochi passi dallo stadio, con la volontà di dare un’immagine diversa di queste zone che secondo il collettivo che ha dato il via a questa iniziativa, sarebbe distorta dalla propaganda di destra. Chiara Pollio, tra gli organizzatori, così racconta questa scelta: “Esserci a Ferrara serve. Noi siamo precari e abbiamo sentito questa esigenza perché non c’è nessuno che ci dia delle risposte tra le forze politiche, le quali fanno solo propaganda. Vanno riparate le strutture sociali e vanno riconnessi gli individui per far capire loro che i bisogni dei precari sono gli stessi. Bisogna quindi organizzare la loro rabbia e il loro disagio in maniera positiva”. Anche sulla questione lavoro Pollio chiarisce che “nessuna forza in campo parla della qualità del lavoro, di welfare, nessuno prova a organizzare le persone sulla base dei miglioramenti delle condizioni di vita da ottenere.” Alla domanda del perché la risposta in città dovesse arrivare da una nuova forza politica ha aggiunto: “Vogliamo essere una realtà politica perché crediamo sia un mezzo per cambiare la realtà e anche per questo vogliamo provare a partecipare alle elezioni regionali, nonostante tutte le difficoltà che ciò comporta. Vogliamo essere l’alternativa al Pd che ha privatizzato e centralizzato il potere nelle mani di pochi ed ha creato questo disagio sociale che viene cavalcato dalla Lega, la quale però dà risposte fatte di odio e xenofobia.” Concludendo sulla nuova apertura, Chiara Pollio ha terminato il proprio discorso dicendo che “la sede è uno spazio aperto al quartiere e alle persone. Saremo noi a doverci far conoscere e vorremmo diventare un punto di riferimento nel quale i ferraresi possano portare le loro domande, le loro vertenze, i loro bisogni quotidiani, per poter trovare insieme una risposta”.

Nel corso della serata, poi, è stato presentato anche il libro “Popolo chi?” (ed. Ediesse, 2019), nel quale gli autori hanno affrontato il difficile tema di descrivere chi è il popolo, ma con uno sguardo diverso dal solito. Tra gli autori anche Niccolò Bertuzzi, ricercatore precario alla Scuola Normale Superiore di Pisa, il quale ha così descritto questo testo: “Siamo alla ricerca di risposte e ci siamo concentrati sulla narrazione che si fa del popolo, soprattutto dall’alto. Abbiamo notato che non corrisponde al vero nella gran parte dei casi. Ad esempio il ‘razzismo culturale’ che si pensa sia intrinseco ai ceti più bassi della società in realtà non esiste, o non nella forma in cui la stampa mainstream  vorrebbe farcelo passare. Io parlerei più di ‘razzismo materiale’. Nei quartieri popolari gli italiani sono a stretto contatto con le persone straniere, e vedono quest’ultimi come dei competitors a livello lavorativo. La ricerca, seppur limitata a sole 60 interviste, fa apparire chiaro come la narrazione che è fatta del popolo sia faziosa e spesso abbia dei veri e propri fini elettorali”.

Tra gli intervenuti alla serata anche Lorenzo Piccinini, dello Sportello Sociale Bolognina, il quale ha descritto sia il lavoro fatto dal suo collettivo sia quella che è la situazione dei quartieri popolari a Bologna, dando la colpa dell’estremizzazione delle risposte elettorali anche al “tradimento” di una certa sinistra: “Siamo in una crisi profonda da anni. Una crisi non solo economica ma anche sociale. È evidente che l’élite abbia perso il consenso, e lo hanno dimostrato tanti appuntamenti elettorali diversi tra loro come la Brexit, le elezioni in Catalogna, il voto sul referendum in Italia, l’oxi greco e così via. La popolazione non risponde più a quelli che sono i ‘diktat’ calati dall’alto. Ma anche la sinistra è in crisi, avendo perso quell’egemonia che prima deteneva nel proprio elettorato. I motivi sarebbero tanti. Il primo è sicuramente il fatto che non esiste più una classe operaia come c’era negli anni ’70. Ma sicuramente il tradimento dei valori attuato dai partiti social-democratici e dai sindacati confederati ha peggiorato la situazione”.

La sede, da ieri operativa, sarà aperta tutti i lunedì e i giovedì dalle 17 e 30 alle 18 e 30 e ci sarà una riunione settimanale tutti i mercoledì dalle 18 alle 20.

LA STORIA
“Io, tornata alla vita dopo aver visto la morte passarmi accanto”

“A 28 anni ho avuto un’emorragia celebrale, sono stata in coma farmacologico per una decina di giorni senza che ci fosse per me alcuna certezza: l’altalena oscillava fra la morte e il ritorno alla vita, col rischio però di risvegliarsi ed essere ridotta a uno stato vegetale. O avere, invece, una possibilità di recupero…”. Elisa Baldrati, oggi giovane e felicissima mamma, racconta la sua storia, fatta di sofferenza e angoscia, ma risolta in una straordinaria rinascita.

Tu, quando è accaduto, hai avuto consapevolezza di questo rischio o solo in seguito hai compreso la situazione?
L’ho saputo in seguito. Non sapevo neanche cos’era un ictus. Ne avevo sentito parlare, ma lo associavo ad un “qualcosa” che può venire a persone anziane. Entrata nel mondo degli ‘ictati’ ho scoperto che l’età è sempre più bassa purtroppo.
Cosa hai provato in quel momento?
Shock, terrore! Dopo aver sentito come una scossa in testa, la mia gamba destra non si muoveva più. Mio marito mi ha portato subito al Pronto soccorso di Argenta e la diagnosi è stata immediatamente chiara: da lì è iniziata una corsa contro il tempo per raggiungere Cona. Sinceramente, dopo essere salita in macchina non mi ricordo più niente… Non ricordo nemmeno di essere arrivata a Cona, né di essere entrata all’ospedale, anche se poi mi hanno detto che sono sempre stata sveglia fino a quando non mi hanno messo in coma farmacologico.
Per fortuna la sorte ti è stata amica. Ma cosa è successo dopo?
Dopo un mesetto in ospedale mi hanno portato in un centro riabilitativo e da lì è incominciata la mia rinascita… I primo momenti però furono terribili. Tutta la parte destra del mio corpo era inerte, sia il braccio sia la gamba. Speravo fosse un incubo dal quale mi sarei risvegliata! Piano piano, dopo avere incominciato la riabilitazione, ho iniziato a muovere gli arti: prima un po’ la gamba e poi un po’ il braccio… Così dal letto sono passata alla sedia a rotelle, dalla sedia al bastone, finché un giorno ho incominciato a stare sulle mie gambe senza ausili.
Che sensazione hai provato in quei momenti?
Il pianto era il mio sfogo, la mia famiglia e il mio ragazzo erano la mia forza.
E poi?
Quando sono uscita dalla riabilitazione ero felicissima, ma immediatamente mi sono scontrata con la realtà… Nulla era più come prima e la mia vita non sarebbe stata più la stessa. Non ero più autonoma. Dopo diversi mesi di depressione, però, ho incominciato a vedere un po’ di luce, grazie al conforto delle mie amiche e all’amore del mio compagno … Così gli ho chiesto di diventare mio marito e dopo un anno ci siamo sposati. Ero felicissima… Robi mi accettava anche ‘la mia nuova me’. La nostra sorte era unita.
E da qui inizia la tua vera rinascita, giusto?
Sì. Un anno dopo il matrimonio pensammo di adottare un bambino: adottare, perché era impensabile che dopo un ictus potessi affrontare una gravidanza, i rischi erano troppi alti. Ma un bel giorno durante una visita di routine nel reparto di angiologia di Bologna, chiesi un parere allo dottoressa che mi aveva in cura e lei, con mia grande e piacevole sorpresa, mi risposte: “beh, perché no?!?”. Ovviamente mi fece presenti tutti i rischi che io e il bimbo potevamo correre, ma la decisione era nostra. Otto mesi e mezzo dopo nacque Dafne. Durante la gravidanza ero super-monitorata, soprattutto per la coagulazione del sangue, la causa del mio ictus. Tutto andò e continua ad andare bene: per Dafne, che ora ha tre anni e mezzo ed è una bimba meravigliosa, piena di voglia di giocare e di crescere, e per me…
Una cosa straordinaria…
Dopo aver vissuto l’inferno a 28 anni, ora che ne ho 35 posso dire che grazie alla mia famiglia, a mio marito, alle mie amiche e ad un’insospettata forza di volontà che ho trovato in me, sono riuscita a sopravvivere, a credere ai miracoli e a scoprire che esistono davvero. La mia esistenza e la vita di mia figlia sono i miei miracoli.
Cosa ti senti di dire a chi, direttamente o di riflesso, ha vissuto o sta vivendo drammi analoghi al tuo?
Vorrei tanto che chi ha avuto problemi come i miei, o attraversa percorsi di sofferenza o vive condizioni di disabilità, riesca sempre a credere a quell’insospettabile forza di volontà che risiede in noi e che ci viene in soccorso quando tutto sembra perduto. Ma questo accade solo se non ci arrendiamo, se non smettiamo di lottare, di voler vivere. Ci vuole tanta tanta forza di volontà. Certo, da sola non basta, non sempre le storie possono avere un lieto epilogo come è stato per me. Io per questo mi sento fortunata. Ma dico anche che senza la volontà di opporsi al male difficilmente il male si supera.

“Elogio della democrazia” l’ultima conferenza ferrarese di Remo Bodei, il filosofo che coniugò ragione e passione: il video integrale

“Elogio della democrazia” è il titolo della conferenza filosofica tenuta da Remo Bodei a Ferrara il 29 gennaio 2016, su invito dell’istituto Gramsci. Lo notizia della scomparsa del grande filosofo ha destato profonda emozione. Ricordiamo la sua figura attraverso le parole di Fiorenzo Baratelli, direttore dell’istituto Gramsci e opinionista di Ferraraitalia. E lo facciamo, altresì, riproponendo le immagini integrali del suo lucido intervento di tre anni fa.

“Il post di stamane – ha scritto Baratelli sulla sua pagina Facebook – lo dedico ad una notizia triste: è morto il filosofo Remo Bodei. Lo considero un Maestro di pensiero e di vita. L’ho conosco dagli anni settanta del secolo scorso e ne ho sempre studiato le opere importanti che andava pubblicando. E’ stato ospite di un ciclo di conferenze organizzato dall’Istituto Gramsci e il numeroso pubblico presente alla sua ‘lectio magistralis’ ricorda la lucidità e la profondità della sua lezione dedicata alla democrazia e alla libertà. Studioso di Spinoza, Hegel, Ernst Bloch, cercò sempre di coniugare uno storicismo non giustificazionista con un rigoroso pensiero filosofico. In uno dei suoi testi più belli (“Geometria delle passioni” Feltrinelli) superò la contrapposizione tra ragione e passione, nella piena consapevolezza che l’uomo è un animale desiderante. E riflettendo sul concetto di limite, che per i greci era custodito dagli dei, arrivò a definire la ‘globalizzazione’ il trionfo dell’illimitato. Si laureò alla Normale di Pisa e ne divenne uno dei suoi docenti più famosi. Tenne molti corsi all’estero e insegnò per molti anni a Los Angeles. Remo Bodei ha messo la sua grande cultura al servizio della ricerca e dell’alta divulgazione. Gli siamo grati non solo per i libri che ci lascia in eredità, ma “…per aver abbassato il ponte levatoio di quel castello arroccato e cupo con cui di solito si guarda alla filosofia”. E tra i suoi meriti, va ricordato tra i promotori del Festival della Filosofia di Modena di cui era il direttore scientifico.
Infine, una nota personale. Negli incontri avuti con lui mi ha sempre colpito una caratteristica di levità, gentilezza, eleganza intellettuale, mitezza, serenità e naturale disposizione alla conversazione attenta e appassionata. Proprio in questi mesi ho studiato l’ultima sua fatica: “Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale” (Il Mulino). Si tratta di una storia di ‘lunga durata’ che parte da Aristotele (il grande filosofo che giustificava lo schiavismo) fino ai giorni nostri all’insegna della grande rivoluzione dell’Intelligenza artificiale. Bodei ci accompagna in questo lungo viaggio tenendo fermi i termini di ‘Dominio e sottomissione’ come costante di un rapporto di potere fortemente asimmetrico che innerva la storia dell’umanità e che nella civiltà occidentale ha conosciuto numerose metamorfosi. Né catastrofismo, né superficiale ottimismo, ma sempre ‘ottimismo della volontà e pessimismo dell’intelligenza’. Quest’ultimo era un detto coniato da Romain Rolland e ripreso da Gramsci che piaceva molto a Remo Bodei”.

Infanzia: Save the Children, subito nella Legge di Bilancio maggiori risorse per asili nido

Da: Ufficio Stampa Save the Children

Necessario un piano pluriennale che aumenti offerta di servizi per la prima infanzia, oggi disponibile solo per 1 bambino su 4. L’Organizzazione chiede al Governo, in vista della manovra economica, che venga data priorità agli investimenti a favore del contrasto alla povertà educativa, al tempo pieno e alle mense gratuite.

In Italia solo 1 bambino su 4 (il 24%) ha accesso all’asilo nido o a servizi integrativi per l’infanzia e, di questi, solo la metà (12,3%) frequenta un asilo pubblico. Un Paese che resta ancora molto lontano dal target stabilito dall’Unione europea di garantire ad almeno il 33% dei bambini tra 0 e 3 anni l’accesso al nido o ai servizi integrativi. Per questo è fondamentale investire nei servizi socio-educativi per la prima infanzia di qualità, accessibili a tutti i bambini, al fine di ridurre le disuguaglianze educative che emergono sin dai primi anni di vita. Un obiettivo che in Italia va perseguito anche aumentando la disponibilità di posti e la copertura territoriale per i bambini fino ai 3 anni.
Questo l’allarme rilanciato oggi da Save the Children, l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro, in occasione della presentazione in Senato del rapporto “Un miglior inizio”, che si è svolta stamattina alla presenza, tra gli altri, di Francesca Puglisi, Sottosegretario del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
A poche ore dalla presentazione in Aula della Legge di Bilancio da parte del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Save the Children ribadisce l’importanza degli interventi a favore della primissima infanzia, che lo stesso premier aveva messo tra le priorità dell’azione di governo nel discorso in cui chiedeva la fiducia al Parlamento.

“Apprezziamo l’attenzione che il Governo destina al tema della prima infanzia nella bozza di legge di bilancio, ma servono più risorse da destinare a favore della fascia tra gli 0 e i 3 anni. Siamo ancora troppo lontani dagli obiettivi di copertura di accesso al nido e ai servizi integrati ed è necessario un piano pluriennale che consenta l’ampliamento dell’offerta di servizi per la prima infanzia”, spiega Raffaela Milano, Direttrice dei Programmai Italia-Europa di Save the Children.
“Lo stanziamento di 520 milioni previsto dalla bozza della Legge di Bilancio per il Bonus Asili Nido potrà coprire solo una ridotta platea di beneficiari, presumibilmente quelli che già usufruiscono dei servizi, senza incidere sull’ampliamento dell’offerta”.

Save the Children sottolinea l’importanza di dotare di risorse il Fondo per il Piano d’azione nazionale pluriennale per un sistema integrato da zero a sei anni. Solo in questo modo si potrà progredire verso l’obiettivo di copertura della popolazione sotto i tre anni del 33% (pubblico e privato), in tutte le regioni e cofinanziare nuove strutture integrate, i Poli per l’infanzia, come previsto dalla riforma delineata dal Decreto legislativo n. 65 del 13 aprile 2017, garantendo al contempo il ruolo di indirizzo, programmazione e coordinamento al MIUR, che necessiterà di risorse aggiuntive specializzate.
Tali strumenti consentono di combattere le diseguaglianze educative che possono avere sui bambini un impatto di lunga durata e si manifestano molto prima dell’accesso alla scuola dell’obbligo. La povertà educativa va infatti combattuta a partire dai primi anni di vita, attraverso solide politiche di sostegno alla prima infanzia e alla genitorialità, oggi assolutamente carenti nel nostro Paese, evitando che siano proprio i bambini delle famiglie più svantaggiate a rimanere esclusi dalle opportunità educative di qualità.
È quindi necessario anche un impegno finalizzato a garantire un servizio educativo di qualità.
“Il contrasto alla povertà educativa resta una delle sfide primarie che il nostro paese deve affrontare se vuole guardare al futuro, investendo sulle nuove generazioni. Anche per questo è urgente investire nuove risorse destinate all’istruzione per garantire il tempo pieno nel primo ciclo e nella scuola dell’infanzia nelle aree prioritarie di contrasto alla povertà educativa minorile, incluso un investimento nelle mense di qualità gratuite per tutti i bambini della scuola primaria e consentire ai nostri ragazzi di poter studiare in scuole sicure”, conclude Raffaela Milano, sottolineando l’urgenza di queste misure, che andrebbero attuate a partire dalla Legge di Bilancio che si sta per presentare al Parlamento.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Non può piovere… per sempre

Quanto dura un rapporto senza dovere ricorrere alle cure palliative? E la persona giusta è un’intuizione immediata o una valutazione finale? Riccarda e Nickname dialogano A due piazze sulla fatalità di chi ti piove addosso e sugli spazi in cui farsi un po’ di posto.

N: È possibile una relazione affettiva che duri, francamente, per sempre? (“francamente” significa senza troppa ipocrisia, senza troppa finzione e con molto trasporto, altrimenti è troppo facile: durano tutte, se ci metti molta ipocrisia e finzione).
Secondo Nickname, tendenzialmente no. Secondo la mia interlocutrice, tendenzialmente sì.
È il “tendenzialmente” a fare la differenza (e pensare che dichiaro di detestare gli avverbi…). Secondo Nickname (trovavo ridicolo chi parlava di sé in terza persona), puoi lavorare finché vuoi sul rapporto, ma se la persona non è quella, lavorarci sopra è come una cura palliativa: migliora la situazione, ma non la risolve.
Secondo la mia interlocutrice, se lavori bene sul rapporto lo capisci, prima o poi, se quella è la persona giusta per te. Quindi dipende solo da te (da voi), da quanta energia e cura ci metti. La persona giusta per te esiste, difficile non beccarla (interlocutrice). La persona giusta per te esiste, difficile beccarla (Nickname).

R: A parte che parlare in terza persona lo faceva Giulio Cesare oppure lo fanno i bambini, capisco che “tendenzialmente” tu, Nickname, non ami la strategia delle cure palliative: pazienza, tempo, fiducia e coraggio di non pensare che sia così difficile beccare quella persona giusta. Pochi giorni fa, una mia amica mi ha detto che l’uomo giusto le è cascato addosso, all’improvviso, fatalmente, insomma l’ha beccato. Senza cercarlo. La mia amica non si chiede, ora, se sarà per sempre, ma “francamente” se ogni giorno sia l’incastro giusto. Per tanto tempo le ho sentito definire “faticoso” il suo vivere sfasato rispetto a un uomo del tutto disallineato.
Non credi che, allora, la proiezione temporale del “per sempre” abbia bisogno solo di una libera semplicità nel fare girare le cose?

N: Eccome se lo penso. Ma più lo penso, più quel “per sempre” finisce per assomigliare ad un “per ora”. I conti si fanno alla fine: se, alla fine, quella somma di momenti scelti e non subiti insieme, di “per ora”, ha dato come risultato un “per sempre”, vuol dire che quella era la persona giusta. Talvolta, ridurre la filosofia ad aritmetica mi alleggerisce l’animo.

R: Tu, ti conosco, non hai l’animo leggero e alla matematica hai sempre preferito gli orizzonti larghi della filosofia. Ma in amore non vale mai ciò che abbiamo amato, fatto, preferito. Un amico, che ha il coraggio di scrivere “ora voglio davvero solo lei”, dice di essersi stancato delle mezze persone. E allora credo che la persona giusta sia quella intera, con le sue parti mancanti, le sue cavità, i suoi spazi liberi in cui ti chiama facendoti posto.

Cosa ne pensate del “per sempre”? E la persona giusta la possiamo valutare solo alla fine?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Ti do un(a) Pack sui cabasisi

Infuria la battaglia della plastica che sta portando sull’orlo di una crisi di nervi il Pd e i suoi alleati mentre il bimbo Di Maio non sa più a quale santo (si fa per dire) rivolgersi. Preoccupato il presidente uscente dell’Emilia-Romagna, Bonaccini, dice, rettifica, convoca, usa un silenzio parlante mentre il Capitan Salvini s’appresta a sbarcare con le sue truppe nella forse conquistabile Emilia.

La più surreale tra le prove di dialogo tra Pd e il M5S si concretizza in un probabile incontro fra le due forze politiche chiamato “plastic meeting”.

Ma è possibile??? Già li vedo entrare con passo solenne avvolti in toghe di plastica mentre qualche Matteo di turno affila le armi per far saltare tutto, accusando l’abuso e la mala usanza di avvolgere i migranti in fogli dorati forse fatti con la plastica.

Zingaretti preoccupatissimo sollecita il fratello a prendere il suo posto e a mandare Fazio e la sua troupe poliziottesca a recuperare le plastiche che approdano inesorabili sulla spiaggia di Marinella mentre Catarella urla “dottore, dottore le vogliono rifilare un(a) Pack sui cabasisi”.

Inesorabile il commissario Montalbano evita plastiche e plasticume nuotando verso lidi puliti.

Ma il Capitano che fa? Munito di bei bicchieri di plastica e di bottiglie monouso minaccia sfracelli e proclama che si chiuderà in Parlamento al momento del voto e non ne uscirà se non verrà modificata la legge sulla plastica, ovviamente munito di package straordinari che invaderanno tutti gli angoli delle sedi parlamentari.

Frattanto l’imperturbabile Carofiglio dalla bella Gruber spiega che tutto giuridicamente è sbagliato naturalmente parlando dello scudo che blocca le trattative sulle sorti dell’acciaio mentre Carlo Calenda che non sa più a quale rete (tv) votarsi prova ad ululare la sua versione dei fatti in quanto esplicitamente coinvolto. Libri e libri si editano, si pubblicano tra i sorrisi conniventi dei soli (ig)noti che aspettano la prebenda della pubblicità mentre un Fiorello fuori di testa si lancia in una trasmissione folle che dovrebbe dimostrare la ‘freschezza’ dei programmi Rai, specie la rete ammiraglia.

La ‘negritudine’ intesa come categoria etico-politica si sfrena. Non è nemmeno il caso di citare il caso di Liliana Segre così abnorme da rischiare l’incomprensione dei raziocinanti che non si rassegnano a mettere sotto silenzio la campagna d’odio che ha investito la senatrice e che ha ireso evidente il comportamento , per me indecoroso, della destra parlamentare. Non entro poi nella vicenda Balotelli poiché uscirebbe, e ne sono conscio, tutta la mio personale avversione per le curve, gli stadi e le bocche urlanti dei loro frequentatori.

A ognuno il suo, scriveva un grande autore. Il mio non passa per il calcio. Tiratemi pure pomodori marci ricambierò con materia non certo odorosa, specie per i dirigenti del Verona calcio (si chiama così?), che assicurano di non avere sentito niente. E tutto questo nella città di Giulietta e Romeo e dell’Arena.

Ultima e non commentabile notizia che arriva dalla città pentagona.

4 Novembre, festa delle forze armate. All’alzabandiera in piazza la presidente della Provincia Barbara Paron si avvicina al prefetto e si scusa di allontanarsi dalla cerimonia in quanto il discorso sarà tenuto dal vicesindaco Nicola ‘Naomo’ Lodi in rappresentanza del sindaco Alan Fabbri, malato. Perché? Secondo la versione della Paron, lei non avrebbe potuto assistere a quella cerimonia in quanto l’anno scorso lo stesso vicesindaco avrebbe issato di notte la bandiera della Lega sul pilone destinato il giorno dopo alla bandiera italiana.

Che dire? Siamo ridotti tutti a tirarci, come in un probabile e imminente futuro, Pack nei cabasisi

I giorni dell’abbandono: pensionati in piazza per difendere la propria dignità

In questi giorni, fino al 15 novembre, a Ferrara e in provincia i sindacati dei pensionati appartenenti a Cgil, Cisl e Uil raccolgono le firme per una legge nazionale sulla non autosufficienza. L’iniziativa precede una manifestazione nazionale il 16 novembre a Roma al Circo Massimo, luogo di memorabili mobilitazioni del mondo del lavoro.

Le persone non autosufficienti in Italia sono tre milioni, in maggior parte anziani. Chi se ne fa carico sono quasi sempre le loro famiglie, affrontando notevoli sacrifici personali ed economici, fino a rischiare l’impoverimento. È un aspetto dell’invecchiamento della popolazione – fenomeno che la provincia di Ferrara conosce bene, assai più che altre aree dell’Emilia-Romagna e d’Italia – e che nei prossimi anni cambierà profondamente la società e il welfare. Ci sono località del Basso Ferrarese dove, tra un decennio, le previsioni demografiche indicano che la percentuale di persone con più di 65 anni sarà vicina al 40%, senza ricambi delle generazioni più giovani.
L’Italia, ricordiamolo, è la seconda nazione al mondo più longeva, dopo il Giappone. La non autosufficienza ha ricevuto risposte sino ad ora insufficienti. Lo stanziamento di bilancio per la non autosufficienza della Regione Emilia Romagna – nel 2018 oltre 437 milioni – supera quello nazionale, ed è tutto dire.

© Marco Merlini / Cgil Roma, 1 giugno 2019

La richiesta dei sindacati non è cosa dell’ultimo momento. Da tempo è oggetto di trattative con i vari governi, ma non si è arrivati ancora ad ottenere soluzioni decenti e credibili. In sostanza, la legge che si chiede deve contenere un aumento adeguato delle risorse per le aziende sanitarie e i distretti; nuove norme per l’assistenza e la presa in carico dei soggetti fragili; criteri uniformi per la valutazione dei bisogni, l’accreditamento dei servizi residenziali, semi-residenziali, di assistenza domiciliare e familiare; un sistema efficace di definizione e di controllo delle prestazioni sociali e sanitarie.
Un paese civile si riconosce anche da come tratta i propri cittadini più deboli. Non è bastato e non basta certamente l’esercito di badanti – senza il quale saremmo al collasso sociale – che ha solo parzialmente tamponato l’emergenza. Né è possibile pensare che la cura familiare, svolta soprattutto dalle donne, possa bastare. Per fare solo un esempio, la domanda di accesso alle strutture residenziali pubbliche per anziani in provincia di Ferrara è il doppio dell’offerta, mentre la rete di servizi sociali erogata dai Comuni è in affanno crescente per i tagli e i limiti imposti alla finanza degli enti locali.
Il sindacato, nelle iniziative di questi e dei prossimi giorni, sostiene che la non autosufficienza è una emergenza nazionale. Non esagera. Tutti invecchieremo, tutti avremo più bisogno di aiuto, aumenteranno le persone più fragili in una società che sarà certamente diversa, ma che non dev’essere disumana.

PER CERTI VERSI
Al crepuscolo

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

AL CREPUSCOLO

Nel tempo in cui
Il cielo si arancia
Il sole rientra come un feto nella sua pancia
Mi tolgo dai panni di Amleto
Sono io che passo nel tuo ventre
In quel preciso mentre
Dove il mio equinozio
Tocca il tuo solstizio
Il dolce ozio
Di godersi la luce
Sul precipizio

NOTA A MARGINE
La rimozione della morte e l’illusione dell’eterna giovinezza

Una società che trascura o ignora il culto dei morti è essa stessa morta. Ci siamo avviati già da tempo verso l’indifferenza davanti alla morte e sentiamo la necessità di rimuovere, accantonare, cancellare le tracce di chi ci ha preceduto, come se le pietre tombali, le lapidi e tutti i segni che ne onorano la memoria siano fastidiosi obblighi, ingombranti fardelli che appesantiscono la nostra quotidianità scandita e organizzata, che non contempla il rispetto del passato né tantomeno l’elaborazione del dolore della perdita. Non sempre le “Urne dei forti” nei Sepolcri di foscoliana memoria accendono “L’animo dei forti”. La ritualizzazione della morte ci trova impreparati perché abbiamo difficoltà a condividere il dolore, il lutto, la commemorazione dei nostri defunti: lo ‘spettacolo della morte’ è concepito come impossibile da sostenere e preferiamo rimuovere, trovare scorciatoie e vie di fuga per non affrontarlo. Un grande paradosso, se pensiamo alle immagini di morte veicolate dai media che ogni giorno siamo costretti ad ingoiare e che ci hanno condotti all’assuefazione totale, perché in fondo non ci riguardano in modo ravvicinato.

La frammentazione sociale, i martellanti messaggi valoriali di benessere, dinamismo, prestanza, giovinezza, salute, spensieratezza, benessere ci hanno indotti a perdere il senso dei nostri limiti terreni, cadendo nell’inganno della pseudo-eternità. Si elabora la morte e si ricordano i propri defunti attraverso i social network, e sullo schermo del computer e dello smartphone scorrono foto nostalgiche, dediche, epitaffi, massime e aforismi, emoji che rappresentano stati d’animo e sentimenti, messaggi di cordoglio, che non potranno mai sostituire il supporto che una reale vicinanza può offrire. Un’esternazione del dolore fine a se stessa che ci lascia inevitabilmente soli. Occorre infrangere l’idea che la morte e il ricordo dei propri cari creino una sofferenza insormontabile; occorrono più che mai momenti comunitari – proprio come il Giorno dei Morti – dove riesumare modalità comunicative autentiche, che permettano all’individuo di relazionarsi in un destino comune, trovando sostegno l’un l’altro, come richiede la nostra stressa storia evolutiva.
Trovarsi nei cimiteri, il Giorno di commemorazione dei defunti, è un rituale socialmente condiviso che permette di dare un ordine e un contenimento all’angoscia e al dolore della perdita. E’ un modo di riconoscere anche il valore e l’identità di chi non c’è più, la sua presenza nel passato, il suo essere stato, malgrado la sua scomparsa fisica. Molti aderiscono alla cerimonia, altri respingono l’idea di presenziare. Alcuni non ci vanno mai perché sentono i propri cari in ambiente diverso, altri non ammettono forme di celebrazione perché ritengono che ‘tutto sia finito’. C’è chi definisce quest’usanza come occasione ipocrita destinata all’apparenza di facciata, all’ostentazione dei vivi, piuttosto che sincero raccoglimento nel pensiero dei propri defunti.
Qualcuno preferisce visitare il cimitero soltanto in giorni più discreti, lontano da liturgie e appuntamenti ufficiali. Il cimitero è un luogo fisicamente ben definito con connotazione sociale chiara e condivisa. Permette di rimanere in contatto con i propri defunti, ricordarli ed essere di sostegno agli altri. Recarsi in quel luogo significa andare in un posto che ha una sua sacralità e richiede tanti piccoli rituali, piccole azioni, piccoli impegni – percorrere i vialetti tra le tombe, portare i fiori, accendere un lume, recitare una preghiera, rimanere in un silenzioso dialogo con se stessi e il defunto – che ci permettono di dare una sorta di sede al nostro dolore, alleggerendo il peso delle emozioni forti, rendendo meno pervasiva la sofferenza, riducendo l’angoscia, facendoci sentire meno soli.
Sono gli stessi gesti, le stesse modalità compiute nei secoli da chi c’era prima di noi, con caratteristiche diverse a seconda dell’epoca e civiltà, ma con lo stesso senso profondo. In alcune aree del mondo la commemorazione dei defunti assume un’importanza che supera per quel giorno le esigenze dei vivi. In Messico il Dia de Muertos, di origini preispaniche, diventa una festa di due giorni che coinvolge l’intera popolazione: l’1 novembre festeggiato dai bambini e il 2 dagli adulti. Si preparano gli altari dei morti attorno alla sede tombale, un arco addobbato con fiori, foto del defunto, incensi, per favorire il ritorno del caro estinto almeno per quei giorni. Vengono distribuiti dolci e pan de muerto ricoperti da zucchero colorato. La glassa di colore rosso, si narra, fu un’idea dei colonizzatori spagnoli per dissuadere simbolicamente la popolazione dalle pratiche dei sacrifici umani ai loro dei. Il colore dominante della giornata dei morti è il giallo, che domina la scena con le composizioni di cempasùchil, dei garofani particolari. File interminabili e suggestive di candele accese segnano il cammino che i defunti dovrebbero percorrere, mentre le famiglie rimangono riunite in cimitero per tutta la notte, con gruppi musicali che suonano le canzoni e melodie che piacevano ai loro cari. Una grande festa sentita che trae le sue radici nell’antichità, mantenendone tutta l’intensità, non solo folklore. Nel 2008 l’Unesco ne ha riconosciuto il valore, dichiarandola ‘Patrimonio immateriale dell’Umanità’.
Ci ha esortato anche Papa Francesco a fare visita ai nostri defunti oltre il Giorno dei Morti, onorarli, ricordarli per chi e ciò che sono stati e non soltanto per colmare il divario che ci separa dalla perdita. Disertare una visita ai nostri cari scomparsi significa privarsi di un momento dedicato esclusivamente al loro ricordo in un luogo a loro riservato. E se ci imbattiamo in qualche epigrafe spoglia, qualche tomba abbandonata, qualche sede sepolcrale davanti a cui nessuno si ferma, depositiamoci un fiore.

Il museo Archeologico è il migliore, parola di turista

Il primo museo da visitare a Ferrara, secondo la classifica stilata in tempo reale da turiste e turisti che ogni giorno vengono nella città estense? E’ il museo Archeologico Nazionale, che sorprendentemente si trova al primo posto su TripAdvisor considerando solo i musei, e addirittura al secondo se guardiamo a tutte le attrazioni – in cima, in questo caso, non si trova un particolare monumento, ma l’intero centro storico ferrarese! – . Un segnale notevole, frutto di un lavoro costante e rivolto al futuro.

Dalla sua prima inaugurazione nel 1935, di acqua ne è passata sotto i ponti. Era nato in prima istanza per la conservazione dei reperti rinvenuti nelle campagne di scavo appena concluse, nel rinascimentale Palazzo Costabili, detto di Ludovico il Moro. Sin da subito, il cinquecentesco fascino della costruzione, unica nel suo genere per l’architettura e gli affreschi, ben si sposava con gli innumerevoli ritrovamenti dell’antica città di Spina, che finalmente tornava a vivere dopo millenni di oblio. Nel 1970 lo avrebbe atteso un nuovo allestimento, fino alla chiusura negli anni Ottanta per una ristrutturazione del Palazzone, come il popolo soleva chiamarlo. Dal 1997, infine, ha riaperto i battenti, e da allora gli attuali spazi espositivi sono ancora più vasti, con una circoscritta rotazione dei materiali visibili, data la strabiliante mole di oggetti conservati negli archivi. L’integrale fruizione del museo, infatti, è di nuovo possibile dal 2011, quando la realtà digitale dei nuovi media non ha trovato difficoltà nell’incontrare il mondo tangibile di una realtà museale, aumentandone le potenzialità per venire incontro ai diversi possibili pubblici. Alcuni oggetti, per esempio, sono stati scannerizzati in 3D e i loro modelli sono apprezzabili navigando sul sito del museo, insieme con informazioni utili a chi volesse approfondire. Su Google Arts & Culture, inoltre, è possibile procedere con una vera e propria visita, virtuale, all’interno del palazzo, con la tecnologia di Google Street View. Insomma, come avere un ingresso gratuito al museo! Dal piano terra, ricco di testimonianze dell’abitato etrusco, salendo l’imponente e monumentale scalone si arriva direttamente al piano nobile, dove a essere ospitati sono gli antichi resti della necropoli. Ma la proposta espositiva in vigore da otto anni ha aperto, al pianterreno, nuovi spazi sempre più adeguati a far vivere emozioni ed esperienze a chi per la prima volta cammina su quei pavimenti. Innovazione non vuol dire, però, solo tecnologia. Il cambiamento sta nel riuscire a vedere con occhi nuovi ciò che già ci circonda, parafrasando Proust. Ecco perché anche inaugurare una zona relax e concedere a chiunque di poter toccare con mano alcuni reperti, rigorosamente autentici, vuol dire stare al passo con i tempi. La multisensorialità, nel percorso museale, può essere esperita anche in veri e propri laboratori didattici, grazie ai quali, in speciali occasioni, l’innegabile stupore che provoca la storia di Spina può essere ben sperimentato in prima persona da giovani e studenti. E se la curiosità stimolata dal museo sarà troppo incontenibile, il museo stesso vi verrà incontro, aprendo le porte della cospicua biblioteca. Una collezione libraria che negli anni Settanta constava di 1278 volumi, raccolti sin dagli anni Trenta, ma che con il passare dei decenni ha visto incrementare tale numero, fino ad arrivare ai più di novemila volumi attuali. Gioielli da sfogliare che proprio da quest’anno sono finalmente accessibili a chiunque ne abbia il desiderio.

Per trascorrere un’intera giornata con piacere, stuzzicarsi con nuovi stimoli o entrare nella macchina del tempo alla scoperta di un mondo antico, il Museo Archeologico si configura come una soluzione ottimale. Può essere una valida alternativa ai soliti luoghi per tutta la famiglia, grazie ai vari servizi offerti, così come può essere sempre stimolante per le studiose e gli studiosi del settore, grazie al suo essere costantemente in divenire. Mostre, concerti, rievocazioni storiche, convegni, conferenze: il Palazzo Costabili non è una mera vetrina di manufatti sottratti alla custodia della terra, ma è un museo vivo e in cammino che attende di accogliere chi ancora non lo ha incontrato.

 

Museo Archeologico Nazionale di Ferrara
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IL SARTO
Una poesia di Carla Sautto Malfatto dedicata alla Commemorazione dei defunti

di Carla Sautto Malfatto

IL SARTO

A cosa serve questa notte
se non a spurgare fantasmi
dalle pieghe del mio tempo perduto?
Non c’è luce che li dissolva
e solo si rincantucciano come topi
alla lama arrotata del giorno.

Chiamo a raccolta i santi
ma sono i morti il mio rimorso
di occasioni non sfruttate
di baci trattenuti
questioni irrisolte
parole mai dette.

Sembrava il tempo un filo interminabile
da dipanare a piacimento
quasi ne conservassi i capi tra le mani…

Poi, per ognuno, si è reciso
e di queste gugliate ne ho fatto un ginepraio

e sul mio abito affiorano punti d’imbastito
lasciati da un sarto ancora da pagare.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)
da ‘Troppe nebbie’, Edizioni Il Saggio, 2019

DIARIO IN PUBBLICO
O bli-bli o bla-bla… Il racconto e la politica

Imperversa tra i protagonisti (invariabilmente gli stessi) dei nostri talk show televisivi il termine ‘racconto’ della e nella politica che viene declinato associandolo al tratto fisiognomico caratteriale del ‘raccontatori’ tra i quali si distinguono il Marco Travaglio dal sorriso sprezzante – pericolosissimo – l’arruffio della barba di Marco Damilano da cui esce una valanga di racconti – a volte contraddittori – la testa d’uovo (letteralmente) di De Angelis, la rada barbuzza bionda di Giannini, il pelo bianco di Beppe Severgnini e la bocca spalancata di Antonio Polito, tanto per citare i più assidui inquadrati tra i tacchi 45 cm della Gruber e le sue giacchette perfette, tra le spille di Barbara Palombelli e le improbabili mises di Bianca Berlinguer. Tutti con alle spalle i sorrisi minacciosi e carnosi di Maurizio Belpietro e la versione Crozza di Alessandro Sallusti. Zoro frattanto tenta di ‘raccontare’ in modo diverso, ma purtroppo la nuova versione dura lo spazio della trasmissione.

Informiamoci allora su cosa significa la parola racconto e affidiamoci alla Treccani:

Raccónto s. m. [der. di raccontare]

1. Relazione, esposizione di fatti o discorsi, specie se fatta a voce o senza particolare cura, oppure se relativa ad avvenimenti privati (si distingue perciò da narrazione come raccontare da narrare, ed è diverso anche da resoconto, più ufficiale e tecnico)

2. Componimento letterario di carattere narrativo, quasi sempre d’invenzione, più breve e meno complesso del romanzo (in quanto dedicato in genere a una sola vicenda e destinato a una lettura ininterrotta) e distinto dalla fiaba perché tende a presentare i fatti come realmente avvenuti (per questi suoi caratteri si identifica sostanzialmente con la novella).

3. Nel linguaggio della critica letteraria (specie nella critica formalistica), è sinonimo di intreccio, contrapposto alla fabula, ed è pertanto usato per ogni opera narrativa in versi o in prosa.

Escludiamo per amor di semplificazione la definizione 3 e – pur con qualche riserva – la 2.

Dovrebbe, dunque, il racconto della politica assumere il significato più pregnante di ‘resoconto’ di ciò che la politica fa. Il risultato è: “ciapal”, in ferrarese (“prendilo” in italiano) che nella versione dialettale meglio esprime l’impossibilità dell’azione…

Sembra che al resoconto ormai si assommi anche la seconda definizione del dizionario, in quanto i narratori ufficiali tendono motu proprio a trasformare il resoconto in componimento letterario, che ha per sua caratteristica quella di ‘presentare i fatti come realmente avvenuti.

E’ quello che gli ‘itagliani’ – ormai popolo avvinto alla narrazione – richiedono a gran voce, come insegna loro il gran Maestro, dantescamente parlando, Salvini.

Basta dire ciò che non lede il loro interesse, la loro priorità (prima gli italiani) e tutto può venir raccontato. Chi tra la comunità nazionale non avrebbe sognato di brindare al Papeete tra belle ‘femmine’ che sculettano ‘Fratelli d’Italia’?

Ciò che imperversa nel racconto e la politica è la volontà di narrare ciò che è già avvenuto come fosse una novità e predisporre un futuro perlomeno immaginifico a ciò che già si ‘suppone’ sarà l’andamento delle cose.

La più schifosa presenza della ‘narrazione’ è però ciò che racconta la parte più oscenamente fascio-nazista (sì, ne esistono tanti, e troppi di aderenti a questa orrida ideologia ) all’indirizzo di Liliana Segre. Da catalogare costoro come sub-umani, ma non da confondere con le bestie dotate di ben più alta capacità di comprensione.

Questo dovrebbe indignare i tanti italiani che non sono raggelati dalle interpretazioni narrative. Questo dovrebbe essere il cammino dell’umanità. Ben venga il progetto di Luigi Marattin che dovrebbe rendere legge la conoscenza dell’identità reale di chi usa i social per offendere e anche per esaltare a sproposito.

Il mio sogno odierno? Fare come il grande direttore d’orchestra Daniel Harding che, giunto all’apice della carriera, abbandonerà per un anno il suo lavoro, per volare. Sì. Volare materialmente. Volare quindi anche oltre la musica e riconquistare il diritto alle scelte e all’infinito del volo.

Ma io povero tapino dove volerei? Lo so e lo faccio da sempre: nell’infinito dell’arte e della poesia. Purtroppo chi ci trascina a terra è la necessità-dovere di fare i conti con la ‘narrazione’, la prosa della politica.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Quattro lettere: ad ogni lettore il suo evitante

Cosa significa intrecciare una relazione con un “evitante”? Abbiamo chiesto ai lettori di raccontarci le loro storie a metà. E c’è anche chi ammette di essere stato uno di quelli.

Ogni volta… come la prima volta

Cara Riccarda,
vengo da una relazione con una donna evitante. È come non stare con nessuno, ti prendi e ti lasci ogni volta che ti vedi, praticamente.
P.

Caro P.,
praticamente sì. Non esiste, con gli evitanti, un ponte fra una volta e l’altra, è sempre un affaccio sul vuoto che dà un bel po’ di vertigini. Ma non per gli evitanti, che non si spingerebbero mai così vicini all’orlo.
Riccarda

Una relazione… da brivido

Cara Riccarda,
mi sono venuti i brividi. Il ritratto dell’evitante sembra quello di una persona che ho vicino in questo periodo. Devo stare attenta. Forse i miei campanelli d’allerta interiori non stanno suonando a caso.
A.

Cara A.,
se presti attenzione, sono trombe quelle che stanno suonando dentro di te. Ti potrà sembrare una cacofonia quell’avvertimento che ti rovina certi momenti e sembra distogliere dall’abbaglio. È fastidioso perché contraddice tutto e rovescia le aspettative. Ignorare quella voce muta, solo nostra, che saprebbe guidarci, significa consegnarci a qualcosa che sta fuori, al posto di qualcosa che sta dentro e ci appartiene. Che fretta hai? Ad ascoltarli bene, quei campanelli ti sembreranno essere una melodia.
Riccarda

Outing!

Cara Riccarda,
sono stato un evitante per una vita e forse lo sono ancora!
F.

Caro F.,
confido che quel ‘forse’ sia un tocco lezioso, così tanto per mantenere quel po’ di mistero che un ex evitante non vuole abbandonare mai del tutto.
Baci
Riccarda

I colleghi “diversi”

Cara Riccarda,
credo che gli evitanti siano sia uomini sia donne e nel mondo del lavoro, mi è capitato di incontrarli. Da qualcuno di loro, ho sentito dire “ma io fuori di qui, sono diverso”. Dopo anni nella stessa azienda, non li sai definire perché non si espongono, non si danno, non intrecciano amicizie, simpatie, niente. Li trovo trasparenti come qualcosa da cui non si vede nulla.
M.

Cara M.,
non credo siano molto diversi da così fuori dal lavoro. Perché poi sdoppiarsi? Pensa che fatica mettere un abito e toglierlo ogni volta, a seconda di dove ti trovi. Gli evitanti lo sono sempre, anche quando stanno soli, soprattutto quando sono soli.
Riccarda

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Culturalmente anoressici

Siamo ignoranti e non abbiamo neppure voglia di apprendere, la promessa dell’educazione permanente si è arenata a Lisbona il 20 marzo del 2000. Ma poi cosa avremmo da studiare, da ignoranti neppure sappiamo cosa ignoriamo. Mica dovremo ritornare sui banchi di scuola a compitare di lingua, matematica, scienze e giù di lì per tutte le materie dei programmi scolastici!
Siamo ignoranti anche a parlare di sapere. O, per lo meno, c’è un tot di sapere che raggiunto quello ci basta e ci avanza.
I dati raccolti da chi si occupa di queste cose dicono che una volta terminate le scuole e l’università non si studia più. Ci sono fior fiore di imprenditori che vantano di non aver mai aperto un libro da anni. I libri neppure si mettono più sugli scaffali di casa a prendere la polvere, alla faccia di quelle indagini che una volta profetizzavano il destino sociale di un individuo sulla base del numero di volumi posseduti in famiglia.
Diciamoci la verità, a non sapere si sta molto meglio, perché la resistenza all’apprendimento è il prodotto del bombardamento di informazioni e notizie a cui ogni giorno siamo esposti. A un certo punto si raggiunge la saturazione, allora ci si difende diventando refrattari, almeno impermeabili. Meno si sa, meno ansie si hanno sul clima, sull’ambiente, sulla sicurezza personale, sulla salute, su come eravamo e su come potremmo diventare. Come si fa ad essere continuamente sollecitati da tutti questi messaggi, è difficile da reggere, è troppo complicato mantenere un sano equilibrio.
Però anche non sapere è rischioso, perché potresti essere preso di sorpresa. Se l’avessi saputo prima avrei potuto provvedere in qualche modo. Si è ignoranti anche nei pesci da pigliare.
È che i radical chic non comunicano, pontificano e la loro cultura è noiosa, con la boria di sapere tutto loro, perché loro sarebbero i competenti e tutti gli altri cialtroni. E poi c’è internet, basta digitare che si aprono pagine e pagine di spiegazioni.
Forse il sapere così come l’abbiamo imparato è un arnese superato. Poi, se il sapere che sai non lo usi mai, cosa te ne fai? Finisci per dimenticarlo. È vero che se non sai fatichi anche a sapere quale sapere andare a cercare in rete.
Siamo il paese con il minor numero di laureati e il più ignorante in Europa. Forse a qualcuno dovrebbe sfiorare il dubbio che la questione centrale, l’emergenza del paese è l’apprendimento, forse bisognerebbe fare qualcosa come ai tempi in cui la televisione affrontò il problema della alfabetizzazione con il “Non è mai troppo tardi” del maestro Manzi. Le cose oggi sono assai differenti, i bisogni di sapere sono diversi, altro è l’analfabetismo, che ora viene denunciato come funzionale, cioè non saper usare i propri saperi, anche da parte di chi ha conseguito una laurea.
Allora la questione dell’apprendimento è “la questione”. Come avviene, come è organizzato, metodi, tempi e contenuti. Se c’è un’età per lo studio e una in cui non si studia, o apprendere sempre, perché apprendere è una necessità come nutrirsi, che ha inizio con la nascita e termina con la morte.
Sono usciti libri importanti in materia che dovrebbero aiutare la politica ad affrontare la questione, l’emergenza apprendimento.
Penso a “Apprendimento non stop” di Rossella Cappetta, docente della Bocconi e, ultimamente, “Ignorantocrazia” di Gianni Canova, rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione Iulm di Milano.
Siamo un paese che sembra condannato a diventare una nazione di analfabeti e populisti, secondo Canova l’Italia del XXI secolo è diventata culturalmente anoressica.
Dall’altra parte Rossella Cappetta ci ricorda che “Studiare tutti e studiare sempre non è un programma semplice da realizzare, ma è alla base della crescita seria e felice di una comunità.”
Le questioni che il nostro paese dovrebbe affrontare non sono solo, dunque, lo stato delle nostre scuole e delle nostre università, ma lo stato delle competenze dei suoi cittadini, come mettere mano ad una politica di apprendimento permanente capace di qualificare l’apprendimento formale e di investire nello stesso tempo sul riconoscimento degli apprendimenti non formali e informali, in modo che nulla nella formazione delle persone vada sprecato, così come non si butta nulla del cibo del corpo, nulla va sprecato del cibo della mente.
Senza apprendimento non c’è benessere né produttività. Solo da noi si tollera il disprezzo del sapere approfondendo la voragine che ci separa da una ripresa dello sviluppo e dagli altri paesi.
L’unica forma di crescita seria è la crescita della conoscenza, oggi assente dai programmi della politica, eppure costituirebbe la vera alternativa a chi predica la decrescita felice, semmai accompagnata da una serena ignoranza permanente.