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Dopo più di 4 giorni di discussione, alla fine è arrivato l’accordo sul Recovery Fund europeo. L’accordo prevede che siano disponibili sempre 750 miliardi di euro, rimodulati però tra 390 come sovvenzioni a fondo perduto e 360 come prestiti, rispetto ai 500 dei primi e 250 dei secondi, come precedentemente convenuto. Peraltro, all’Italia spetterebbero 82 miliardi di risorse a fondo perduto, 3 in meno della proposta iniziale, mentre i prestiti salirebbero a 127 miliardi, 38 in più, sempre rispetto a prima. Vengono confermati sconti significativi nei contributi al bilancio europeo a favore di Olanda, Danimarca, Svezia, Austria e Germania. Sul rispetto dello stato di diritto, questioni rivolte in primo luogo ad Ungheria e Polonia, ci sono solo affermazioni e procedure generiche.
Cambia, in modo sostanziale, il meccanismo decisionale per accedere a tali finanziamenti: intanto rispuntano le famose condizionalità per cui gli Stati membri devono presentare propri Piani nazionali di ripresa e resilienza (Recovery Plan) che devono rispettare le raccomandazioni che la Commissione produce sulle politiche economiche e sociali dei singoli Stati. In più, la sede decisionale per l’approvazione di tali Piani passa dalla Commissione Europea al Consiglio Europeo, che li assume a maggioranza qualificata, dando così vita al tanto declamato ‘freno a mano’ rispetto alle scelte nazionali.

Tale complesso di decisioni rappresenta un ulteriore arretramento rispetto alle discussioni precedenti, non tanto sulle risorse stanziate, quanto sui meccanismi decisionali e sulle dinamiche che sono state messe in campo.
A differenza della narrazione che è stata presentata dalla gran parte del nostro sistema mediatico, secondo la quale è stata sostanzialmente bloccata l’offensiva dei Paesi cosiddetti ‘frugali’, in realtà quello che è successo è che l’Europa ha fatto un ulteriore passo indietro rispetto alla possibilità di rispondere in modo utile alle questioni che la crisi sanitaria, economica e sociale propone. Mi riferisco in particolare al meccanismo decisionale definito, che, nei fatti, rimette in piedi l’idea di un’Europa che deve controllare chi si discosta dall’ortodossia delle politiche di matrice mercatista e di vincolo del debito e che si basa sulla mediazione intergovernativa, che è quella che esalta le posizioni dei singoli Stati o di coalizione degli stessi.
Infatti, assumere la condizionalità del rispetto delle raccomandazioni dell’Unione europea implica, prima di tutto, ridare centralità al tema del rientro dal debito pubblico, che è stato il faro da cui sono partite le politiche di rigore e austerità dagli anni ‘90 in poi, oggi sospese, ma destinate ad essere ripresentate una volta superata l’attuale fase di emergenza. Basta pensare che anche le ultime raccomandazioni della UE rivolte all’Italia in piena pandemia, nel maggio di quest’anno, oltre ad indicare alcuni provvedimenti per far fronte ad essa, ricordano che “l’Italia presenta squilibri macroeconomici eccessivi. In particolare l’elevato debito pubblico  e la prolungata debolezza della produttività…”.
Inoltre, il passaggio dell’approvazione dei Piani nazionali dalla Commissione Europea, che, almeno, è organismo che deve essere legittimato dal voto del Parlamento europeo e non rappresenta i singoli Stati membri, al Consiglio Europeo, che, invece, è composto dai capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri ed è  esattamente rappresentativo dei governi nazionali significa proprio legittimare l’idea di un’Europa come assemblaggio di singoli Stati o coalizioni di essi, con la conseguenza di doversi misurare con il possibile potere di veto delle stesse.

Con questo arriviamo alla dinamiche presenti oggi in Europa.
Da una parte, ci sono i Paesi ‘frugali’, la coalizione formata da Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia e Austria. Intanto, bisognerebbe smetterla di continuare ad usare quest’appellativo, che dà un’idea distorta delle posizioni in campo, come se ci fossero i Paesi ‘attenti ai conti’ e quelli, in particolare del Sud dell’Europa, ‘spendaccioni’. Meglio sarebbe definire questa coalizione come quella del ‘neoliberismo nazionalista’, nel senso che essa esplicita un approccio fondato sul dogma dei vincoli di bilancio e sulla preminenza dei singoli Stati nella costruzione europea.
Da qui l’avversione alla concessione di risorse a fondo perduto e l’insistenza sui prestiti (che dovranno essere restituiti) e la sorveglianza sui singoli stati rispetto al loro utilizzo. Del resto, il profilo del loro portavoce, il premier olandese Rutte è esemplificativo al riguardo: ex manager della multinazionale Unilever, strenuo difensore del paradiso fiscale del suo Paese, ben attento a non farsi insidiare dalla forte destra sovranista olandese.

Poi, ci sono i Paesi del cosiddetto ‘blocco di Visegrad’: in testa l’Ungheria, assieme a Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia, interessati in primo luogo a mantenere la propria posizione per cui ricevono, anche in tempi ‘normali’, più risorse dall’Europa di quanto ne versano. Soprattutto, usando questo surplus per costruire il proprio consenso interno con vere e proprie politiche antieuropee e lesive dei diritti umani, dal costruire muri rispetto all’immigrazione extracomunitaria ad attaccare stampa e magistratura. Insomma, sono loro I veri “sovranisti”.

Ancora, i Paesi mediterranei: oltre all’Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e, a fasi alterne, la Francia (che non ha perso la velleità di giocare anche il ruolo di partner minore della Germania), che sono quelli che patiscono di più la crisi, provano, anche se in modo confuso, a perorare la causa di un’Europa più solidale e, dunque, accennano ora a politiche che possano mettere in discussione la linea dell’austerità e della centralità del rientro dal debito.
Potremmo denominarli come gli ‘incerti riformisti’.

A tentare di tenere insieme queste spinte contrapposte e anche tatticamente mutevoli, ci prova la Germania, a cui a volte si associa la Francia, che pare aver compreso che, dentro la crisi, è a rischio la stessa tenuta dell’Unione Europea e che, almeno adesso, occorre mettere in campo iniziative in discontinuità con il recente passato. Peccato che ciò sembra avvenire più per necessità che per virtù: insomma, ‘l’arte suprema della mediazione’. Che quindi si traduce nel trovare un punto di equilibrio tra le varie spinte in campo, peraltro molto distanti tra loro, piuttosto che nella capacità di delineare un progetto compiuto per un’altra idea di Europa per il XXI secolo.

Che, invece, è quello di cui avremmo bisogno e di cui continua a non esserci traccia. Del resto, è evidente che stare su questo terreno comporta un cambio di paradigma, una rottura con le scelte che l’Europa ha compiuto da decenni in qua: significa non semplicemente sospendere, ma abolire il Patto di stabilità, quello che ha imposto i parametri stupidi sui vincoli di deficit e debito pubblico, fare della Banca Centrale Europea una reale banca pubblica, costruire politiche che sul serio assumano il lavoro e i diritti come bussola di fondo per delineare un’altra idea di modello produttivo e sociale, modificare i Trattati europei in queste direzioni.
Qui potrebbero dare un contributo i Paesi del mediterraneo, a partire dal nostro. Certo, non aiuta in questo senso il Programma nazionale di riforma, deliberato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 6 luglio, che dovrebbe costituire la base per l’elaborazione del Recovery Plan italiano da portare in Europa. Purtroppo, il piano governativo si muove troppo in continuità con il passato, parla in modo insufficiente di scuola e sanità, enfatizza le grandi opere e la digitalizzazione come vettori di sviluppo e già si pone l’interrogativo centrale di come uscire dal debito pubblico che è stato creato in questi mesi. Anche da qui si può facilmente capire che il futuro non può semplicemente nascere dai governi e dalle mediazioni tra gli stessi in Europa. Solo uno scatto dei movimenti e della società  nazionale ed europea può mettere all’ordine del giorno il cambiamento che è necessario e, senza il quale, non si possono profilare soluzioni adeguate.

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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