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Che si nasconde dietro il Caso Solaroli?
Alan Fabbri e la grande ombra di Naomo

“La S.V. è invitata a partecipare alle sedute del Consiglio Comunale indette in 1^ convocazione…”. Tutto è cominciato oggi pomeriggio (3 febbraio) ma i lavori continueranno anche domani (4 febbraio): una seduta fiume, tante cose da discutere a cui corrisponde un ordine del giorno sterminato [leggi il testo completo della convocazione]. Un elenco che prevede 17 punti, e dove, solo all’ultimo posto, si può leggere l’ordine del giorno URGENTE presentato dai tre gruppi di opposizione presenti in Consiglio “sull’inchiesta giornalistica relativa al tentativo di indebita pressione nei confronti della Consigliera Anna Ferraresi e richiesta di dimissioni del Consigliere Vicecapogruppo Lega Stefano Solaroli.”.

Sulla grave e spinosissima vicenda i ferraresi risultano già informati sui fatti, basterà quindi riferire il nocciolo di quella ‘incredibile’ telefonata (ma invece credibilissima, anzi vera tout court, dato che la telefonata è stata registrata) in cui Solaroli offre uno scambio alla compagna di partito dissidente Ferraresi: un lavoro in cambio delle dimissioni. Ma già il solo fatto di aver relegato in fondo alla lista delle cose di cui parlare il caso Solaroli, significa che tra maggioranza e opposizione sarà ancora muro contro muro.

Già a gennaio, nella scorsa seduta del Consiglio Comunale, la minoranza di Centrosinistra aveva chiesto di mettere al primo posto dell’ordine del giorno il ‘caso Solaroli’, come logica e a gravità del fatto suggerivano. La maggioranza di Centrodestra (che in Consiglio è appunto maggioranza) aveva opposto un rifiuto. Allora la minoranza aveva lasciato l’Aula per protesta, mentre la maggioranza aveva deciso di interrompere e rimandare la seduta.

Uno a Uno, anzi, Zero a Zero e Palla al Centro.  E da subito aspettiamoci altre scintille. Alla rinnovata richiesta dell’opposizione di parlare subito del vergognoso affaire Solaroli e delle necessarie dimissioni del Consigliere Stefano Solaroli, la maggioranza ha risposto con un nuovo rifiuto; come a gennaio, trattando la questione come una estrema e trascurabile ‘varie ed eventuali’. Non si tratta, è evidente, di una semplice questione procedurale. Siamo di fronte ad uno scontro senza esclusione di colpi, a una spaccatura verticale, profonda, insanabile all’interno del Consiglio. A Ferrara non era mai successo. Del resto, non è forse lo specchio di quanto sta succedendo in città? Ferrara stessa, i suoi abitanti, sembrano  sempre più dividersi in due poli opposti. Non so se già oggi esistono due Ferrara distinte, ma il processo di radicalizzazione è del tutto evidente.

Vedremo come si svolgeranno questi due pomeriggi di Consiglio Comunale, se avremo o no un altro Aventino o se lo scontro assumerà altre forme e altri contenuti. E vedremo come questo processo di polarizzazione, in Consiglio e nella Città Reale, sopra e sotto lo Scalone, si evolverà.  Qui vorrei svolgere un altro tema, una suggestione che però mi arriva dallo stesso caso Solaroli, o più precisamente, dalle reazioni di Sindaco e Vicesindaco davanti al montare mediatico del caso.

Anche su ciò i ferraresi sono abbastanza informati. Le parole – le difese – di Alan Fabbri e di Naomo Lodi le abbiamo lette o ascoltate sui giornali locali e nazionali, su tutti i social possibili e immaginabili, nelle interviste e nelle ospitate televisive. A farla breve: Il Vicesindaco ha difeso in toto il comportamento di Stefano Solaroli (sostenendo la  tesi insostenibile che ‘il fatto non sussiste’), d’altro canto Il Sindaco Fabbri – pur pressato dalle richieste di una sua decisa presa di distanze – si è limitato a dire che sì, il Consigliere Solaroli aveva sbagliato, ma accettava di fatto le sue scuse: quindi  nessun suo allontanamento dalla carica di Vicecapogruppo in Consiglio, niente espulsione dalla Lega, nessuna richiesta di dimissioni dal Consiglio Comunale. Dalla montagna un misero topolino: l’autosospensione.

Il Vicesindaco ormai abbiamo imparato tutti a conoscerlo. E’ un uomo sempre e comunque all’attacco. Che, come vuole la storia italica, ‘se ne frega’ delle critiche: al suo patentino invalidi o alla sua abitazione a mini-canone popolare. Un uomo che se qualcuno gli intralcia il passaggio… lo denuncia e lo porta dritto in tribunale (fra qualche giorno si celebra l’udienza contro i quattro cittadini denunciati da Naomo). Insomma, la difesa – la totale assoluzione – dell’indifendibile Solaroli da parte di Naomo Lodi era del tutto prevedibile. Avremmo potuto raccontarla con un giorno di anticipo, prima ancora che il Vicesindaco aprisse bocca. Solaroli è un uomo di Naomo, e Naomo non abbandona i suoi uomini.

Stupiscono invece, almeno in apparenza, le parole – pochissime – pronunciate dal Sindaco Alan Fabbri. Il quale Fabbri non si smarca in nessun maniera dal suo viceE tantomeno scarica Solaroli. Usa un altro tono rispetto a Naomo Lodi – i due hanno stili affatto diversi – ma si accoda diligentemente alla linea di difesa ad oltranza tracciata dal suo Vicesindaco. Questa volta, e non è la prima volta, tra le posizioni dei due leader della Lega non si intravvede neppure un granello di differenza.

La figura, il ruolo, il potere del Sindaco sono cresciuti moltissimo in questi ultimi quindici vent’anni. La legge ha investito la carica di Sindaco di poteri sempre più ampi. Per fare un solo esempio: se il Presidente del Consiglio non va più d’accordo con un suo Ministro, non può mandarlo a casa, al massimo può chiedergli gentilmente di farsi da parte. Un Sindaco invece è Dominus, e può dimissionare a suo piacere un suo Assessore. E’ quello che ha fatto Tiziano Tagliani con  l’Assessore  Annalisa Felletti, estromessa  dalla Giunta il 22 maggio 2017 per il suo passaggio dal Partito Democratico ad Articolo Uno-MDP.

Quel che è vero per i sindaci in generale, è ancor più vero per il Sindaco di Ferrara. Perché nella nostra città – a partire almeno dal lungo regno di Roberto Soffritti, non a caso soprannominato ‘Il Duca’ – il sindaco ha sempre goduto di un potere eccezionale. Quel che il Sindaco decideva era legge, in Giunta e nel Consiglio, come dentro il suo Partito.

Concludendo. Forse non è vero che il Sindaco attuale di Ferrara ha in mano la sua squadra di governo e il suo partito. Forse non e nemmeno vero che ci sono 2 figure, Alan Fabbri e Naomo Lodi, che si dividono i ruoli (poliziotto buono e poliziotto cattivo) e condividono la guida del governo locale e della Lega, partito di maggioranza relativa. Forse a decidere, a dare la linea, è solo uno. E non è il sindaco.

Dietro alla miserrima vicenda Solaroli – mentre continuiamo a sperare che la magistratura lo persegua per la sue azioni – si staglia la grande ombra di Naomo Lodi. Il Vicesindaco sembra detenere il vero potere, nella Lega di Ferrara quindi nel governo della città. E il Sindaco, che non è autoctono e non ha in mano il partito cittadino, deve accodarsi.

Quindi Naomo decide su tutto e su tutti? Forse no, ma almeno su due cose sì, assolutamente: sulle politiche della Sicurezza e sulle cariche di partito. Come a dire: caro Alan tieni pure un profilo morbido, prometti pure la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, ma non azzardarti a entrare nel mio recinto. Non metter bocca sulla sicurezza. E non toccare i miei uomini. Solaroli compreso.

Potete prendere queste mie note come semplici e opinabili supposizioni. I prossimi mesi ci diranno meglio cosa succede a Ferrara, davanti ai nostri occhi e dietro le nostre spalle. Quello che su cui non è più lecito indulgere è quell’aria di superiorità intellettuale (tipicissima di una certa Sinistra), quegli sfottò all’indirizzo di questo curioso personaggio. Perchè Naomo non appartiene alla Commedia dell’Arte. Non è una macchietta. E’ sarebbe ora di prenderlo sul serio.

 

DOPOELEZIONI
Matteo Salvini e la Vogelschiss. Una nota tedesca dopo il voto

Lunedì 27 gennaio era il Giorno della Memoria, domenica 26 gennaio c’è stato il voto in Emilia Romagna. Cosa c’entra il giorno della memoria con le elezioni emiliane? A prima vista molto poco, perché emiliani e romagnoli hanno votato per il rinnovamento della giunta di una regione italiana nell’anno 2020, ben lontano dagli anni ai quali il giorno della memoria rimanda. Ovviamente non era presente, fra le diverse formazioni in lizza, un partito che negasse i fatti di Auschwitz e di tutti gli altri campi di concentramento per quali sono stati responsabili i nazisti tedeschi.
Ma attenzione: mi ricordo benissimo un comizio di Salvini alcuni mesi fa assieme a un rappresentante ufficiale di Afd (Alternativa per la Germania), un partito tedesco di estrema destra, che definiva l’epoca nazista in Germania come un vogelschiss, ovvero “piccola merda di un uccello”. Sicuramente la Lega italiana non è un partito fascista paragonabile con il fascismo italiano di una volta e men che meno con i nazisti tedeschi, ma a ben guardare ci sono tanti aspetti della propaganda leghista che ricordano la weltanschaung delle Destra estrema della Germania di ieri e di oggi.
Per questo, a mio avviso, rimane vergognosa l’amicizia dell’onorevole  Vittorio Sgarbi con la Lega e il suo furioso attacco al movimento delle Sardine, che ha risvegliato in Italia il sentimento antifascista. Assolutamente inaccettabile la sua strumentalizzazione di Giorgio Bassani e Paolo Ravenna e, più in generale, le sue continue e quasi sempre violente aggressioni verbali contro gli avversari politici. Le ho ascoltate ancora, appena due giorni prima del voto emiliano.
Ciò detto resta almeno una speranza, quella che ci viene dalla nuova e giovane cultura delle Sardine: l’epoca politica di uomini come Sgarbi è in declino.
Per l’Europa nuova e giovane il risultato del voto emiliano apre una finestra. Un po’ più di speranza e dignità. E meno aggressività e volgarità verso il prossimo.

DOPOELEZIONI
Scampato il pericolo, c’è molta strada da percorrere

Adesso che abbiamo tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, vale la pena ragionare su cosa ha determinato questo risultato e su alcune tendenze di fondo che percorrono la società regionale e quella ferrarese in particolare. Dal punto di vista dei flussi elettorali, ci soccorrono le analisi, come sempre molto puntuali, dell’Istituto Cattaneo che giustamente individua nel passaggio del voto M5S delle scorse elezioni europee al campo del Centrosinistra e nella crescita della partecipazione i due fattori fondamentali della vittoria del Centrosinistra. A cui si può aggiungere il voto disgiunto per Bonaccini, anche se, comunque, a differenza delle elezioni europee, in queste elezioni regionali il consenso alle liste del Centrosinistra supera quello andato alla coalizione della destra.

In particolare, va notato il tracollo del M5S che passa, su base regionale, in valori assoluti, da più dei 600.000 voti delle elezioni politiche del 2018 a 290.000 nelle elezioni europee a poco più di 100.000 voti in questa tornata regionale. Con una dinamica che – detta un po’ grossolanamente – ha visto la propria perdita dalle elezioni Politiche fino a quelle Europee dirigersi prevalentemente verso la Destra e l’astensione, mentre quella dalle Europee del 2019 ad oggi verso il Centrosinistra. Così come va sottolineato che la crescita della partecipazione è sì generalizzata, ma, in termini percentuali, registra valori più alti in quelle province dove è più forte il Centrosinistra, a partire da Bologna, Modena e Reggio Emilia.

Non c’è dubbio, come in molti hanno già fatto presente, che questi spostamenti elettorali, sul piano politico, sono innanzitutto il prodotto dell’emergere del movimento delle Sardine, da una parte, e dalla reazione all’estrema radicalizzazione dell’impostazione e dei toni della campagna elettorale in terra emiliana, dall’altra. Radicalizzazione voluta in primo luogo da Salvini, che di fatto ha evocato un referendum sulla Lega e sulla sua fisionomia di ‘uomo solo al comando’,. Matteo Salvini, inoltre, intendeva verificare anche la propria ipotesi strategica: arrivare a prendere i ‘pieni poteri’, “liberando” dapprima l’Emilia Romagna per poi dare una spallata al governo e approdare a nuove elezioni anticipate.

Da questo punto di vista, anche per le ragioni che provo subito dopo ad avanzare, non penso sarebbe bastato a costruire un argine sufficiente sottolineare che le elezioni avevano un carattere regionale – ragionamento peraltro giusto e che è stato bene avanzare – che l’esperienza amministrativa emiliano-romagnola aveva rappresentato un solido esempio di ‘buon governo’. In realtà, come si è realizzato nei fatti – e non per un’operazione programmata a tavolino – serviva anche una narrazione di carattere generale capace di contrapporsi a quella di Salvini. Serviva, per fermare il suo disegno, un sentimento popolare, proprio come quello proposto dal movimento delle Sardine e scaturito anche come rigetto dei toni pericolosi e sopra le righe continuamente avanzati da Salvini. Parlo di sentimento popolare come dato politico e culturale, perché di questo si è trattato, di una forza che ha contrastato con efficacia l’idea di una società divisa, incattivita e impaurita, che può essere governata e rimessa a posto solo con politiche securitarie e repressive, cioè quella idea di fondo che alla fine costituisce la vera cifra della destra salviniana. Opponendo a questa, una visione alternativa per cui – ancora prima dei contenuti che sono tutti quanti ancora da mettere a fuoco –  si sente la necessità di costruire una responsabilità sociale condivisa, una politica capace di progettualità e che necessariamente si alimenta della partecipazione, Dunque una visione, quella proposta dal movimento delle Sardine, che rifiuta il manicheismo, la semplificazione, e ancor più l’insulto e la demonizzazione dell’avversario.

E’ stata questa grande spinta politica e culturale che è stata fortemente in campo nella vicenda elettorale emiliano-romagnola e ha determinato la polarizzazione elettorale, ben di più e ben al di là della vulgata di un ritorno al bipolarismo come prodotto dell’esistenza di due schieramenti contrapposti, del pesante ridimensionamento del Movimento 5 Stelle che ha visto evaporare definitivamente la propria già malcerta identità di non essere né di destra né di sinistra, e anche dell’irrilevanza delle liste a sinistra del Pd che non hanno proprio capito ciò che si stava producendo nella realtà emiliana..

Serve però scavare ancora più a fondo per comprendere davvero ciò che ci consegna il risultato elettorale emiliano-romagnolo. Anche qui i dati sono molto chiari: non esiste più un’unica società regionale, tantomeno il modello emiliano. Anche in Emilia Romagna il tessuto sociale ed economico si è fortemente differenziato e si è determinata una ri-gerarchizzazione territoriale e sociale. Ciò è stato il prodotto, in primo luogo, del predominio delle logiche neoliberiste e mercatiste che, ancor più dentro la crisi, hanno messo in discussione il compromesso sociale costruito in passato e accentuato le disuguaglianze e alle quali, nei fatti, le stesse politiche di governo, nazionale e locale, del Centrosinistra si sono mostrate subalterne. Ce lo dicono gli stessi risultati elettorali, che, non a caso, vedono prevalere del Centrosinistra nelle aree più forti della regione ( Bologna, Modena e Reggio Emilia) e nella Romagna (con l’eccezione di Rimini), mentre nelle province di Piacenza, Parma, Ferrara e Rimini, fuori dall’area forte si estende una cintura dove la Destra è maggioritaria. Così come il centrosinistra realizza i risultati migliori nelle aree urbane e nei Comuni medio-grandi, come già ci aveva avvertito sempre l’Istituto Cattaneo sin dalle elezioni europee dell’anno scorso.

In proposito possiamo anche utilizzare, in modo emblematico, anche la situazione di Ferrara, dove nel Comune capoluogo la destra subisce un arretramento rispetto alle elezioni comunali dell’anno scorso e la differenza tra i due candidati è favorevole alla Borgonzoni per soli 142 voti ( 48,05% per lei e 47,85% per Bonaccini), ma il risultato  degli altri Comuni della provincia fa sì che nella circoscrizione provinciale la distanza significativa a favore della candidata della destra ritorna pesantissima: 54,88% contro il 40,76% di Bonaccini.

Insomma, lo scampato pericolo non deve trasformarsi in un’autoassoluzione. Penso, prima di tutto, a una  tentazione, prima di tutto nel Partito Democratico: quella di pensare di avere battuto definitivamente la destra e quindi si poter proseguire in continuità con le politiche fin qui attuate, di occultare che ci sono grandi questioni irrisolte, invece di costruire un nuovo pensiero e un’azione politica adeguata alla situazione che si è squadernata di fronte a noi e di mettere in campo nuove politiche economiche e sociali. Occorrono cioè politiche concrete capaci di aggredire i nodi delle fratture e delle disuguaglianze sociali e territoriali, senza le quali non si potrà mettersi alle spalle il disagio sociale, l’insicurezza e l’incertezza sul futuro, che costituiscono il terreno di coltura su cui si innesta la propaganda della destra razzista e autoritaria.

Tutto questo vale anche per Ferrara. Per risalire la china è possibile, ma solo se non ci si culla nell’illusione che basta aspettare gli errori dell’attuale Amministrazione. Servono invece, e contemporaneamente, forte mobilitazione sociale e nuova progettualità per prefigurare la città del futuro.  Non saranno sufficienti iniziative puntuali ma frammentate, né ragionamenti astratti sulla città ideale: abbiamo bisogno, con pazienza ma determinazione, di individuare alcuni punti di fondo che costituiscano il cuore di un progetto – innovativo, attrattivo e vincente – per la Ferrara dei prossimi anni e, nello stesso tempo, far crescere su questi temi partecipazione e attivazione delle persone. Non è una strada né facile né breve, ma probabilmente l’unica efficace.

 

DOPOELEZIONI
La cometa del 26 gennaio ha portato molti doni,
ecco perché Ferrara è rimasta a bocca asciutta.

Molti, moltissimi, i commenti del Dopoelezioni. Si sapeva che mai prima d’ora una elezione parziale, anche se in un territorio importante come l’Emilia Romagna (senza nulla togliere alla Punta dello Stivale), avrebbe significato qualcosa di tanto decisivo per tutto il Paese. Così è stato.

Tutto il quadro politico nazionale è stato investito dal sisma emiliano e ne ha registrato le conseguenze. La pesante battuta d’arresto per una parabola salviniana che sembrava puntare diritto in cielo, la definitiva liquefazione del Movimento Pentastellato, qualche pastiglia ricostituente per un Partito Democratico in perenne ristrutturazione, infine, un probabile scampolo di vita per il traballante Governo Conte. E’ indubbio, le elezioni emiliane hanno portato in dono queste quattro cose: dolcetti per gli uni, carbone per altri.

Eppure, a guardar bene, queste 4 cose non sono le più importanti, E’ successo qualcosa di molto e di più. Mentre infatti i quattro effetti ricordati segnano un contingente (e forse effimero) cambiamento degli equilibri politici, un riposizionamento delle strategie dei partiti e dei vari leader, una grande cosa è successa sotto i nostri occhi, un fatto nuovo destinato a segnare profondamente la società italiana. Dopo svariati anni in cui il vento di destra ha soffiato, con una tale violenza che sembrava non trovare nessun ostacolo di fronte a sé, da un paio di mesi si è levato un vento uguale e contrario. Non proprio uguale: il vento populista, sovranista, egoista, assomigliava (e assomiglia) a una tempesta, a una rabbiosa bufera, mentre Il vento messo in moto, forse inconsapevolmente, dalle prime quattro sardine bolognesi, sembra piuttosto una brezza leggera, gentile e nonviolenta, pacifica e pacifista, accogliente e pluralista.

Bene ha fatto il Segretario del Partito Democratico, nella stessa notte di domenica, a ringraziare in primis Le Sardine e il grande risveglio che hanno saputo suscitare. Lo stesso ha fatto il neoeletto Stefano Bonaccini, anche se con meno enfasi e forse minor simpatia. Ringraziamenti assolutamente doverosi perché, ed è bene scolpirselo in testa, Bonaccini non avrebbe vinto, non ce l’avrebbe fatta senza quella brezza leggera, senza quel grande movimento che ha riempito le piazze e acceso un nuovo protagonismo.

In Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha lasciato indietro Lucia Borgonzoni di quasi 8 punti. Una vittoria netta, indiscutibile, superiore ad ogni previsione. Matteo Salvini ce l’ha messa tutta, ha battuto la regione palmo a palmo, dalla Riviera Romagnola a Bibbiano, lanciando pubblici avvertimenti e suonando privati campanelli,  ma la sua candidata è naufragata nelle urne. L’Emilia Romagna (scusate, non posso nascondere un filo di orgoglio) si è dimostrata ancora una volta un baluardo della democrazia e dei valori costituzionali. L’avanzata populista della Nuova Destra si è trovata davanti un argine invalicabile e ha dovuto arretrare. Questo è il primo, fondamentale successo, che in molti oggi celebriamo. A cui ne aggiungerei un secondo: l’exploit di Elly Schlein, la più votata in assoluto in regione, con oltre 22.000 preferenze, e nonostante fosse la capolista non di uno squadrone di partito ma di una piccola lista di sinistra collegata. Elly Schlein entrerà in Consiglio Regionale e ci porterà un po’ di quella brezza leggera. L’unico rammarico è che, se tutto il Centrosinistra avesse scelto di puntare su di lei, se oggi potessimo festeggiare in lei la prima Governatrice donna, non saremo a festeggiare solo lo stop alla Destra, ma l’inizio di un nuovo corso, l’apertura cioè a quel cambiamento radicale di cui la Sinistra ha un disperato bisogno.

Dentro questa grande festa, non tutti possono gioire. Se Bologna, Modena, Reggio Emilia si sono ‘slegate’, votando in massa contro il populismo e ricacciando indietro la Lega e i suoi alleati, la nostra Ferrara è rimasta saldamente in mano al Centrodestra. Lo stesso Centrodestra che nel maggio scorso aveva vinto a mani basse le elezioni comunali.

Sul triste destino di Ferrara –  e sulla sua figura vergognosa, come denuncia Giovanni Fioravanti su questo giornale [qui] – ho ascoltato molti lamenti, e anche qualche tentativo di spiegazione. Perché la Lega di Salvini e i suoi uomini (Alan Fabbri e Naomo Lodi in testa) sono riusciti a conquistare stabilmente il favore della maggioranza dei ferraresi? Un caro amico vede in questa resa alla Destra radici antiche. In poche parole, dietro la Ferrara democratica e antifascista, dietro la Ferrara governata per Settant’anni dal Pci e dai suoi nuovi avatar, dietro – ma nemmeno tanto – c’è ancora la Ferrara culla del fascismo. La Ferrara che nel giro di due o tre anni si trasformò da inespugnabile roccaforte socialista in città fascistissima. La tesi di questo amico, pessimista o semplicistica la si voglia giudicare, suona come una sentenza, una condanna della storia. Ferrara diventerebbe la peggiore incarnazione della nostra tara nazionale, il trasformismo, essendo passata con imbarazzante disinvoltura dal socialismo turatiano, al fascismo di Italo Balbo, al comunismo di Togliatti, per giungere oggi al leghismo proto-squadrista di Naomo. Un viaggio lungo un secolo: dalla Destra… alla Destra.

Il discorso è assai scomodo, e meritevole di approfondimenti. Lo dico a chi nella nostra città coltiva la passione per la storia. Personalmente però non mi sento di aderire a questa lettura; ne uscirebbero dei ferraresi ‘geneticamente tarati’, impermeabili al libero arbitrio e alla responsabilità individuale.No, non siamo così. Non siamo peggiori degli altri italiani.

Le ragioni del ‘ritardo politico’ di Ferrara e dei suoi abitanti, mi sembrano avere radici più recenti. Stanno in buona misura nel ritardo – nella miopia, nel conservatorismo, nella pigrizia – della sua classe politica, e segnatamente nella classe dirigente del Partito Comunista ferrarese e dei partiti che l’hanno via via incarnato dopo la svolta della Bolognina. Con rare eccezioni, i leader locali della Sinistra e i candidati selezionati per tutte le elezioni per sedersi negli scranni del Consiglio Comunale, Provinciale o Regionale, fino ai ‘posti sicuri’ in Parlamento, non hanno mai rappresentato e dato voce alla necessità del cambiamento. Brave persone, oneste, ma sempre polli allevati alla disciplina del partito e del sindacato. Chi proponeva nuove idee, chi chiedeva nuove regole, ma razzolava fuori dal pollaio, è stato sistematicamente accantonato.

Da qui – o almeno, anche da qui – la mediocrità della Sinistra Politica ferrarese, la sua autoreferenzialità, la sua incapacità a rapportarsi e valorizzare la ricchezza della società civile, e corre dirlo, anche la sua superbia. E dove lo mettiamo il Buongoverno? Certo, ma il mondo va veloce e alla fine il Buongoverno non basta (vale anche per Stefano Bonaccini che non ha vinto per il suo Buongoverno). Anche alle ultime elezioni a Sindaco il Pd ferrarese si è presentato all’insegna della continuità, riproponendo il vecchio: sia nei programmi sia nei candidati. E per queste elezioni regionali, a Ferrara la musica non è affatto cambiata. Con tutto il rispetto, chi può sostenere che la candidata di punta Marcella Zappaterra, già assessore a Portomaggiore, già Presidente Provinciale e ora eletta in Consiglio Regionale, rappresenti in qualche modo il nuovo che avanza?

Ora il pollaio è vuoto. Il Partito Democratico di Ferrara è ridotto ai minimi termini. C’era un segretario che aveva aperto un dialogo aperto e coraggioso con la società civile; è stato prima sconfessato, quindi sostuito. La sinistra a sinistra del Pd si diletta in un inutile e suicida tiro al bersaglio. A Ferrara la situazione è tutt’altro che eccellente. La Destra rimane forte, nonostante le scivolate del Sindaco e del Vicesindaco. Per riconquistarla fra quattro anni non serviranno le baruffe in Consiglio Comunale, né saranno sufficienti le pubbliche denunce o i sacrosanti flash mob. Bisognerà ripartire insieme. Da capo. Dal basso. Da domattina..

 

DOPOELEZIONI
La vocazione populista per il sedere e l’autogol di Naomo

Jean Paul Sartre sosteneva che l’universo intero gira intorno ad un paio di chiappe, senza sospettare che un giorno il fondo schiena sarebbe assurto agli onori della politica, nel qual caso forse anche lui ne avrebbe avuto ‘nausea’.

Dall’enfasi di Beppe Grillo in piazza Maggiore a Bologna ormai diversi anni fa, alle ultime minacciose esternazioni parapolitiche del Naomo de noantri, il ‘culo’ è assurto agli onori delle dirette televisive, dei social e dell’informazione in generale. Pare che il turpiloquio degli italiani si sia aggravato e a trionfare sul sedere sia l’organo sessuale maschile, dall’etimo incerto, che per pudore sui giornali continua a essere scritto “c.zzo”, come se una ‘a’ facesse la differenza. Ma è dalla loro accoppiata che parte il più minaccioso degli strumenti di persuasione ora usato con generosità di eloquio anche dal nostro vicesindaco.

Non siamo più all’evocazione del sedere per mandare a quel paese un’intera classe politica, propria del grillismo della prima ora, adesso si promettono asfaltamenti di elettori del centrosinistra con esecuzioni di massa a carico dei loro posteriori da parte di intere legioni di leghisti, disposti a sospendere per una simile evenienza anche la loro risaputa omofobia. Minaccia preoccupante dai tempi del ‘celodurismo’ del loro fondatore, che sta a significare come l’organo maschile, con annessi e connessi, costituisca una tara genetica del leghismo.

Così Ferrara, tra i siti patrimonio dell’umanità, Ferrara città del Rinascimento che si candida ad essere capitale europea della cultura, viene umiliata facendo il giro delle reti televisive e della stampa nazionale attraverso l’immagine burina e volgare del suo vicesindaco.

Qui bisogna decidere se è il signor Nicola Lodi, detto Naomo, ad essere incompatibile con la nostra città o se è la città ad essere incompatibile con questo vicesindaco. Non ho sentito scandalo in giro. Il rischio, nel migliore dei casi, è che si accetti per indifferenza di  vivere come i personaggi di una commedia dell’assurdo all’Achille Campanile tra il grottesco e il paradosso. Personalmente credo che ci sia una dignità della cittadinanza, dell’essere cittadini, dello stare insieme, dell’abitare lo stesso territorio che non può ammettere di erigere mura da cui sparare le proprie bordate nei confronti dell’altro che non nutre le nostre stesse idee. La diversità, anche quando le distanze sembrano agli antipodi, è una ricchezza che va rispettata,  ascoltata, mai minacciata, semmai sfidata, sfidata al meglio senza umiliare e calpestare chi sta dall’altra parte.

Non vorrei che con il cambio della guardia alla guida della città avessimo perduto un patrimonio importante che è quello di saper stare insieme, rispettandosi anziché covando la tentazione di annullare l’altro. Avrei voluto una città che reagisse in massa alle parole di Lodi e alla pistola di Solaroli, che non archiviasse questi fatti come episodi di costume, della normale dialettica politica. Il vulnus creato al nostro tessuto sociale dalle parole del vicesindaco avrebbe dovuto indurre tutti coloro che credono in una cittadinanza amichevole, anche se diversi, a chiedere le immediate dimissioni del vicesindaco. Lo stesso sindaco Fabbri ha il dovere di tutelare la città dissociandosi dal suo vice, ricordando di essere il sindaco di tutti e, dunque, anche di quella parte della città che si è sentita ferita dalle parole e dal comportamento di Lodi.

Ritengo gravissimo tollerarne la condotta, derubricarla a macchietta, perché potrebbe essere molto vicino il giorno in cui in tanti non ci riconosceremo più come cittadini di questa città e il suo tessuto umano e culturale, che è costato la fatica di tanti anni di storia, potrebbe essere lacerato per sempre.

In conclusione, sebbene senza speranza, inviterei Naomo e anche il sindaco Fabbri a consultare il dizionario della lingua italiana del Battaglia, ammesso che ne conoscano l’esistenza, potrebbero chiarirsi le idee, e Naomo scoprirebbe che a esprimersi sui social e sulle reti televisivi con un certo linguaggio può rivelarsi un autentico autogol. Perché, scrive il Battaglia, “Fare il culo a qualcuno” significa ingannarlo, imbrogliare, primeggiare su di lui con mezzi sleali. A questo punto, è lo stesso Naomo  ad averlo ammesso pubblicamente.

Per i miei concittadini ferraresi citerò invece il Tommaseo – Rigutini: “Perdoni il lettore l’enumerazione… ‘Natica’…’Chiappa’…’Culo’ è voce bassa che non dovrebbe mai comparir né negli scritti né risonar sul labbro delle persone”. Specie, aggiungo io, se persone chiamate ad amministrare la cosa pubblica.

Cella 22

racconto di Maurizio Olivari
foto di Giordano Tunioli

Il clac clac metallico della chiave della cella 22 nel carcere femminile di Como era penetrata come una stilettata nella sua testa già turbata dal protocollo d’ingresso nella casa circondariale. La consegna di tutti gli effetti personali, di fatto, l’avevano staccata definitivamente dal mondo esterno.
La cella era una stanza lunga cinque metri e larga circa quattro, con una piccola finestra in alto da dove entrava un raggio di sole interrotto dal disegno di sbarre verticali e orizzontali che formavano sulla parete opposta l’ombra di una scacchiera. Due reti per dormire lungo le pareti e un tavolino sotto la finestra, due sedie con la vernice scrostata, due mobiletti e due mensole a fianco e sopra i letti.
Sara, con un fagotto di indumenti fra le braccia, fece due passi avanti, fermandosi di fronte alla finestra, rimanendo poi immobile a guardare il raggio di sole, quasi non accorgendosi della presenza nella stanza di un’altra persona.
“Ciao sono Angela, sedici anni per omicidio colposo, fra quattro esco” esordì con tono garbato la compagna di cella “accomodati pure, non fare complimenti, fai come fossi a casa tua” continuò sorridendo “tu perché sei qui ? Devi aver fatto fuori qualcuno, l’importante che tu non abbia fatto del male a bambini. Se hai fatto fuori un uomo, hai fatto bene. Sono delle bestie, come il mio compagno, ex compagno… Mi trattava come un animale, soprusi, sevizie e io a sopportare, sopportare, sopportare… Fino alle cinque coltellate che gli ho dato mentre dormiva come un ghiro ubriaco. Zac zac zac zac zac… fine della trasmissione!”
Sara si girò lentamente verso quella voce e, sedendosi sul ciglio del letto con in grembo il suo fagotto di indumenti, vide di fronte a lei una donna minuta con i capelli neri appena segnati da qualche ciocca bianca, gli occhi di un azzurro intenso ma con un velo di tristezza e le labbra coperte da un rosso intenso, appena dischiuse in un sorriso, rimasto dopo aver detto zac zac zac zac zac.
Rimasero qualche minuto senza parlare, solo guardandosi negli occhi, trasferendo nel silenzio, le emozioni che provavano in quel momento.
”Mi chiamo Sara…” Fu interrotta dall’apertura della cella e dalla voce della secondina: ”Fuori! C’è l’ora d’aria!”
Angela prese sottobraccio la novizia ed insieme si avviarono in fila indiana con le altre detenute verso il cortile interno recintato da muri altissimi che impedivano la vista dell’esterno, tranne la punta di un campanile di una chiesa che confinava con il carcere.
Camminando lungo il recinto, Angela dispensava consigli a Sara sul comportamento da tenere verso le altre detenute. ”Quella rossa di capelli, lasciala perdere” sussurrò “è sempre pronta al litigio e nessuna compagna la vuole frequentare. Ha ucciso i suoi due bambini… le hanno dato 30 anni ma meritava l’ergastolo. Della secondina bionda ti puoi fidare, puoi anche chiederle qualche favore e se può ti aiuta, è una brava ragazza. Con quella cicciona là in fondo invece non ti confidare, va subito in Direzione a spifferare tutto.”
Sara ascoltava mantenendo però uno sguardo assente, come se le parole le sentisse solamente, senza capirne il senso. Tornate in cella, la compagna riprese il discorso interrotto: “Dicevi che ti chiami Sara… e poi?”
Così Sara, con un filo di voce, iniziò a raccontare: “Avevo dieci anni e vivevo ai margini di un paesino di campagna dove la mia famiglia lavorava la terra, terra che ci ha dato il Duce, ci diceva mio padre che s’impegnava venti ore al giorno per ottenere i migliori raccolti ma non il sabato, perché andava alle adunate fasciste con il vestito della festa e la camicia nera. Mia madre si raccomandava di non andare sempre a quelle manifestazioni, lui per tutta risposta le rispondeva di stare tranquilla perché in Italia son tutti fascisti. Poi la politica coloniale di regime l’aveva portato in Africa alla ricerca di un posto importante, lasciando alla mamma tutto il peso del lavoro e della famiglia che si era allargata per aver ospitato una mia zia, anche lei rimasta sola perché il marito s’era arruolato nella Decima Mas.
Al mattino mia mamma, dopo aver munto le tre mucche che avevamo, m’accompagnava alla scuola elementare facendo quasi cinque chilometri a piedi lungo uno stradone sterrato che quando pioveva diventava un torrente di fango. Quel tempo trascorso per arrivare al paese era per me piacevolissimo, era l’unico momento che mi permetteva di stare sola con lei. Ascoltavo i suoi racconti, le sue raccomandazioni, perché la sera era talmente stanca che dopo cena, mi portava con sé nel lettone e subito s’addormentava. Io la guardavo e pregavo il Signore di darci la salute e d’aiutare il papà che era lontano…”
“Vuoi molto bene a tua mamma” l’interruppe Angela.
“Volevo molto bene… adesso la tengo nel cuore” precisò Sara.
”Dimmi perché sei qui!” insistette Angela.
Sara riprese a raccontare: ”Avevo dieci anni, nel 1944 e c’era la guerra. Noi in campagna la sentivamo meno però i pericoli c’erano, non solo dagli alleati che bombardavano ma anche dai soldati tedeschi che si ritiravano. Quell’anno non andai più a scuola, era stata chiusa per mancanza della maestra che aveva lasciato il paese e, poiché rimanevo tutto il giorno a casa sola con lo zio che era tornato dal fronte perché aveva perso una gamba, mia mamma mi diede una rivoltella dicendomi di usarla solo per difendermi. Una sera appena prima di cena, intorno al tavolo illuminato dalla luce di una candela per evitare che gli aerei ci potessero bombardare, la mamma, la zia e lo zio sulla sua sedia a rotelle, dicevano sottovoce, tanto che facevo fatica a sentire, che in zona c’era un gruppo di partigiani che se ne stavano nascosti da qualche parte. Chiesi senza ottenere risposta chi fossero. Ma proprio allora si sentirono delle voci provenire dal cortile…”
In quel momento una voce proveniente dall’esterno della cella ordinava d’uscire per la cena.
Angela prese sottobraccio la sua compagna, che appariva ancora immersa nei suoi pensieri e forse rattristata dall’interruzione del suo racconto, e insieme s’avviarono verso la sala mensa che era molto grande, con tre file di lunghi tavoli ed un bancone dove veniva distribuito il pasto. Nel vassoio trovarono minestra di verdura, tre fette di prosciutto cotto, un formaggino molle, un pezzo di pane e posate di plastica. Sul tavolo una brocca con acqua di rubinetto.
Sara, dopo due cucchiai di minestra, abbassò la testa rifiutando il resto del pasto. Una detenuta accanto, l’apostrofò con “la signorina non ha gradito il menù, cameriere porti caviale e champagne!”
Angela intervenne apostrofando la vicina con uno spregiativo “stupida!”
Il ritorno in cella fu per Sara un sollievo, tanto che, dopo il solito rumore del clac clac della chiave che chiudeva la porta, continuò a raccontare cosa successe quell’aprile del quarantaquattro.
“Mia mamma andò alla finestra e da una fessura dell’imposta vide un gruppo di uomini armati che si avvicinavano alla casa. Non avevano una divisa, quindi non erano né tedeschi né soldati della Repubblica di Salò. Si spaventò e corse da noi urlando che erano partigiani. Io però non capivo perché avesse così paura. Sentimmo dei colpi forti contro la porta finché non la sfondarono ed entrarono coi fucili spianati. Cercavano mio padre e tutti gli altri fascisti della zona. Così presero mio zio, lo strattonarono, lo buttarono a terra e lo trascinarono fuori in cortile. Io m’ero aggrappata alla mamma e alla zia che venne staccata da noi e portata via. Poi sarebbe toccato a noi due e quasi gentilmente, quello che doveva essere il capo, perché gli altri lo chiamavano comandante Mauro, ci prese sottobraccio e ci invitò a seguirlo. Gli altri trascinarono lo zio e la zia dietro la stalla e scomparvero alla nostra vista. Uno di loro tornò dal capo chiedendogli cosa dovessero fare. Lui rispose che lo sapevano. La mamma intanto mi strinse a lei così tanto che sentii il suo cuore che batteva forte su di me. All’improvviso sentii una raffica di mitra e mia mamma che gridava disperata. Un secondo partigiano arrivò per ricevere ordini dal loro capo. Lui gli ordinò di prendere mia madre, così il partigiano me la strappò dalle braccia e la portò via. Questo comandante Mauro mi teneva stretta mentre io gridavo mamma e piangevo, e lei, mentre la trascinavano via, urlava il mio nome!” Sara s’asciuga una lacrima e continua: “Incrociai lo sguardo del capo, era magro coi baffi, vedevo nei suoi occhi il piacere per quello che stava per succedere. Ho nella testa l’ultimo urlo che ho fatto chiamando mia madre e la raffica di mitra che è seguita. Poi rivedo il sorriso beffardo di quell’uomo… alla fine mi lasciarono in mezzo al cortile e se ne andarono lungo lo stradone che portava al paese. Io piangevo, piangevo e piangevo!”
Mentre Sara pronunciava quelle ultime parole, Angela le prese le mani e gliele baciò. Poi le accarezzò il viso rigato di lacrime.
La lampada della cella si spense, era arrivata l’ora del silenzio. Rimase solo il tenue bagliore blu della luce d’emergenza che permetteva alla ronda notturna di controllare l’interno delle celle.
“Proviamo a riposare” sussurrò Angela.
“Proviamo” rispose Sara.
In carcere il mattino arriva presto col suono assordante della sirena. Ma Sara si svegliò molto prima. Aveva visto spuntare l’alba attraverso la finestrella con le sbarre incrociate che quel giorno non disegnarono la loro ombra sulla parete.
Quella mattina il cielo era grigio e metteva ancor più tristezza di quanto già non facesse lo stare in quel posto.
Angela si svegliò, “maledetta sirena” disse. Poi invitò Sara ad andare con lei al turno dei bagni. Dopo il clac clac della serratura della porta, si unirono alle altre detenute e s’avviarono ai bagni.
Al mattino le porte delle celle rimanevano aperte e questo fatto offriva l’impressione di una certa libertà anche quando rientrarono dalla colazione.
Sara riprese il suo racconto, bisbigliando le parole, quasi non volesse far sentire oltre la porta della cella 22.
“Avevo dieci anni quando, dopo l’uccisione di mia madre, venni accolta da una sua cugina vedova che viveva a Fusignano, in Romagna, assieme al figlio di quindici anni. Era molto lontano dal mio paese ma mi trattavano benissimo…”
“Ma tuo padre che fine fece?” chiese d’un tratto la compagna.
Prima di rispondere Sara cambiò espressione, socchiuse gli occhi quasi a voler scavare nella memoria. Poi disse: “Solo dopo qualche anno ho saputo che era stato catturato dagli inglesi e rinchiuso nel campo di concentramento di Assau. Finita la guerra fu liberato, ma intanto s’era ammalato e, quando seppe ciò che ci era successo, s’aggravò… Morì proprio mentre la Croce Rossa lo stava trasportando in Italia. Io non riuscii nemmeno a vederlo un’ultima volta.”
“Per te fu un’ulteriore disgrazia…” cercò di consolarla Angela.
“Quando hai vissuto tante tragedie, quello che arriva dopo ha un peso minore… Era comunque mio padre e, con la sua morte, rimasi definitivamente da sola. Ho passato sei anni travagliati, sono entrata e uscita da diversi istituti. Ho avuto problemi comportamentali, fobie e raptus isterici. Sono stata in cura per anni, anche se i medici non si facevano illusioni sulla mia guarigione. Nonostante ciò mi ero molto affezionata alla mia nuova famiglia e provavo per mio cugino Fulvio molta tenerezza, tanto che mia zia già ci immaginava sposati… Dopo l’ennesima cura, il dottore disse che nel mio caso l’arrivo di un figlio sarebbe stata probabilmente la soluzione a tutti i miei problemi. Così a sedici anni e, col benestare di tutti, mi decisi a sposare mio cugino Fulvio, anche lui minorenne…”
“Avete avuto figli?” chiese Angela.
“No… Stavo un po’ meglio ma il mio tormento non è mai passato e l’unico mio desiderio era quello di sapere chi fosse quel bastardo… il Comandante Mauro, il boia che ha distrutto la mia famiglia!” Sara fece un lungo sospiro, poi riprese a raccontare: “In Romagna dove abitavo ci vivevano tanti ex partigiani, così andai alla sezione dell’Associazione Partigiani d’Italia a chiedere informazioni su questo Comandante Mauro. Non è stato facile perché faceva parte di un gruppo che operava in un’altra zona d’Italia, molto a nord, in provincia di Como per l’esattezza. Mi dissero che sarebbe stato necessario chiedere in altre sezioni dell’Associazione. Però qualcuno dal cielo m’ha aiutata, perché dopo qualche tempo ho saputo finalmente il suo vero nome: Anteo Raditti!”
“Hai saputo anche dove abitava?” chiese incuriosita Angela.
“No Purtroppo… ma, non so perché, pensai che dovevo andare a chiedere al mio vecchio paese. E così ho fatto. E venni a sapere che i Raditti erano diventati proprietari dei vecchi terreni che sotto il fascismo erano stati assegnati a mio padre. Ho scavato nella memoria per vedere se tra la mia famiglia e loro ci fossero mai stati dei contrasti, dei rancori. Trovai la conferma parlando con una vecchia signora novantenne che abitava ancora in paese e che all’epoca aveva lavorato alle poste. Mi disse che aveva visto molte volte mio padre litigare fortemente con Anteo Raditti per vecchie questioni sui confini dell’azienda agricola, tanto da venire alle mani. Una volta sentì il Raditti gridare a mio padre che gliela avrebbe fatta pagare. Adesso tutto appariva più chiaro, l’esecuzione della mia famiglia non era stata frutto di un’azione militare ma di una vigliacca vendetta personale. Continuavo a star male, anche se mio marito faceva di tutto per consolarmi. Mi sentivo sola, il figlio non arrivava e nella mia testa risuonava sempre il nome di Anteo Raditti. Ho cercato conforto nella fede, non ho mai pensato alla vendetta, ma avrei voluto tanto incontrarlo, guardarlo in faccia e chiedergli il perché di tanta cattiveria. Avevo dieci anni quando mi tolse tutto. Ora ne ho trenta e dopo vent’anni di dolore… adesso sto bene, abbastanza bene direi.”
“Andiamo a fare due passi nel corridoio?” propose Angela.
“Sì andiamo!” annuì Sara.
Il corridoio di quella sezione della casa circondariale, era molto lungo e l’andirivieni delle detenute lo faceva somigliare al passeggio domenicale in una via del centro, con la differenza che, al posto degli alberi, ai lati c’era una fila di celle con le porte di ferro aperte che alla sera si chiudevano, chiudendo al loro interno le speranze, i sogni, i ricordi, i pentimenti e le rabbie di tutte quelle detenute.
Mentre camminavano avanti e indietro lungo quel corridoio, il volto di Sara appariva più sereno, quasi che il racconto fatto ad Angela, l’avesse in qualche modo rasserenata.
Angela l’aveva capito, ma la sua curiosità non era stata soddisfatta completamente. D’un tratto ruppe il silenzo e le chiese: “E poi?”
“E poi qualcuno dal cielo m’ha aiutato ancora…” riattaccò Sara “perché mio marito, che insegnava a scuola, fu nominato preside di una scuola media vicina a Como, a pochi chilometri da qui. Ci siamo trasferiti e siamo andati ad abitare in una bella villetta appena fuori paese. Iniziai le pratiche per il cambio di residenza e un giorno andai in Comune per consegnare dei documenti. Forse era la vecchia Casa del Fascio, ora era il Municipio.
Nell’atrio c’era un pannello dov’erano indicati tutti gli uffici e i nomi dei responsabili, poi vidi per caso il nome del sindaco… era Anteo Raditti!”
“Cazzo! Alla fine l’avevi trovato!” esclamò Angela sempre più coinvolta.
“Proprio così…” continuò Sara “Il suo ufficio si trovava al secondo piano. Avevo il cuore in gola e dovetti sedermi per calmarmi. Avevo il dubbio che non fosse lui, che fosse solo un omonimo. L’unica cosa da fare era incontrarlo. Così ho salito le scale, mi sono fatta coraggio e ho bussato al suo ufficio. Uscì una segretaria che mi disse che il sindaco era fuori città e che sarebbe rientrato il giorno dopo. Quando tornai a casa non dissi nulla a mio marito, ma quella notte non riuscii a dormire. Il giorno dopo sono riaffiorati tutti i ricordi, gli incubi, tutto il dolore vissuto in quegli anni. Così ho tirato fuori l’abito più bello che avevo, ho messo un filo di trucco, un po’ di rossetto e sono tornata in Comune. Per salire di nuovo quelle scale ho fatto uno sforzo enorme, ogni gradino mi faceva rivivere quel giorno tremendo, rivedevo mia madre, i miei zii, sentivo le grida, il terrore, gli spari, la disperazione… poi lui, la crudeltà del suo sguardo, il comandante Mauro… Sono arrivata al secondo piano, mi fermo davanti alla porta del suo ufficio, busso, apro. Mi viene incontro la segretaria che mi chiede chi deve annunciare al Signor Sindaco che si trova dietro un’altra porta. La scanso in malo modo e le rispondo che mi annuncio da me. Faccio tre passi e apro la porta, entro in una sala molto ampia, in fondo vedo un salottino in pelle con una grande scrivania, dietro vedo il sindaco che si alza e mi viene incontro lentamente. Incrociamo lo sguardo. Quella faccia magra, i baffetti sottili, era il comandante Mauro… S’avvicina, mi guarda con stupore, era incredulo. M’aveva riconosciuta come io avevo riconosciuto lui! Buon giorno Comandante Mauro, gli dico. Poi, prima ancora che quel boia potesse dire qualcosa, tiro fuori dalla borsetta la pistola che m’aveva dato mia madre. Lo sentii gridare, implorare come aveva fatto mia madre… Gli ho sparato tre colpi nel petto ed è caduto ai miei piedi, morto stecchito. Ho gridato con tutto il fiato che avevo il nome di mia madre, poi ho pianto…”
“Vieni, andiamo” Angela la prese sottobraccio e, stringendola forte, la fece sedere sul letto della cella. Sara era tornata silenziosa, con lo sguardo verso la finestra. Un raggio di sole, che filtrava fra le nuvole, formava un disegno a scacchi sulla parete.
Una guardia entrò in cella invitando Sara a seguirla. “Sei trasferita al carcere di Ravenna!” Sara raccolse il suo fagotto di indumenti, s’avviò verso la porta e girandosi sussurrò: “Ciao, auguri!”
“Ciao a te!” rispose Angela piangendo.
Dopo due giorni si riaprì la porta della cella 22. Entrò una giovane ragazza, con una coroncina di fiorellini finti inserita fra i capelli rossi, indossava un giaccone verde con sotto un maglione, più grande di almeno due taglie, e pantaloni che in fondo si allargavano a coprire gli scarponcini con la suola a carrarmato.
“Ciao sono Angela, sedici anni per omicidio colposo, fra quattro esco. Accomodati pure, fai come fossi a casa tua. E tu chi sei?”

LA GRANDE ARTE DI IRENE NEMIROVSKY
Un ricordo della scrittrice ebrea morta ad Auschwitz

di Michele Balboni

All’approssimarsi del 27 gennaio, trascorsi tre quarti di secolo dall’ingresso nel campo di sterminio di Auschwitz, mi chiedo quale modestissimo contributo posso fornire io. Parlare con chi ti sta vicino e sensibilizzare i figli, presenziare ad iniziative, leggere qualcosa e anche – perché no –comporre un testo originale e proporlo. Anche Irène Némirovsky, attorno al 1938, davanti alla marea  montante dell’ antisemitismo, annotava nei suoi appunti: “Cosa posso fare io se non scrivere”.

Irène Némirovsky è la mia scrittrice preferita. Ebrea di nascita di padre e di madre, trova la sua fine proprio ad Auschwitz il 17 agosto 1942. Il registro di morte del campo parla di tifo, ma non v’è dubbio che sia passata per i camini. Irène è “nel vento” da allora, ma i 17 romanzi e le decine di racconti che ci ha lasciato sopravvivono alla umana follia e resteranno per sempre vivi.

Era nata a Kiev, capitale della Picccola Russia (ora Ucraina), l’11 febbraio 1903. Figlia di un banchiere ebreo, Leonid, e di una madre che non le ha mai voluto bene, Anna Margulis; vive quindi poco più di trentanove anni. Ma valgono un secolo. Il ‘900 vede in Europa molteplici avvenimenti di portata epocale, e lei è protagonista diretta di due grandi accadimenti, forse quelli di maggiore impatto e drammaticità: la Rivoluzione Russa e – tragicamente – la Shoah.

La vita stessa di Irène Némirovsky è un romanzo: per quello che vive, per gli avvenimenti che affronta direttamente, per ciò che le succede vicino. Tutta la sua vasta produzione narrativa, letta in controluce con la biografia, racconta il romanzo di una vita. Scrive lei stessa: “Nella mia vita ci sono abbastanza ricordi e abbastanza poesia per farne un romanzo”. E nel 1933, già famosa scrittrice, dichiara ad un giornale russo: “Con tutti gli episodi della mia vita si potrebbe scrivere la sceneggiatura di un film”. Inevitabile richiamare alla memoria il famoso “Ho visto cose che voi umani..” di Blade Runner.

Il film della sua vita si dispiega tra la Rivoluzione Russa con i turbolenti anni che la precedettero, fino a quando, nella sua nuova patria, la Francia, viene caricata su un treno con destinazione sterminio. Nel mezzo, stanno ben vivi i suoi ricordi. Nei suoi romanzi la sua prosa racconta il pogrom di Kiev del 1905, i moti rivoluzionari sotto casa sua, il suicidio della sua tata Zezelle, la fuga da San Pietroburgo in slitta, la guerra civile finlandese, un quasi naufragio nel viaggio verso la Francia, le ultime luci della Belle Epoque vista dalla sua finestra a Parigi, il successo come scrittrice, il bel mondo, la ricchezza, l’amore e il matrimonio, due figlie, l’antisemitismo arrembante, il confino nella campagna francese, la (quasi) povertà, l’invasione dell’esercito tedesco, la stella gialla degli ebrei cucita sul petto, le ultime righe scritte seduta nel bosco della campagna francese dove era riparata, la porta del vagone che si chiude.

Tra i tanti romanzi e racconti composti, vere punte di eccellenza letteraria sono Suite francese  (incompiuto, pubblicato postumo solo nel 2004 e diventato un caso letterario internazionale), David Golder (1929) che le da successo e popolarità, il romanzo breve e sferzante Il Ballo (1930). Io – forse perché per me è stato il primo incontro con la scrittura di Irène Némirovsky  – sono particolarmente legato a Jazabel (1936), la storia di una bella donna tremendamente egoista e ispirato a sua madre.

Il 13 luglio 1942 viene prelevata dai gendarmi francesi collaborazionisti e portata via. Lei e la famiglia ignorano  ancora la destinazione finale. Poche settimane dopo anche il marito Michel Epstein troverà il medesimo destino. Nel vagone Irène trova ancora il modo di scrivere: “Non rimpiango niente. Dunque sono stata felice. Non lo sapevo, ma ho avuto tutte le fortune. Sono stata amata. Lo sono ancora, lo sento nonostante la distanza, nonostante la separazione“. Di lei, che ha prevalentemente vissuto a Parigi, un biografo scrive: “Nata a Est è andata a morire a Est. Ma chi può oggi mettere in dubbio che Irène Némirovsky sia straordinariamente viva?”.

Per chi non la conosce, un atto di ricordo in occasione del Giorno della Memoria, può essere la lettura di un suo romanzo.

Aspettando Godot
Lettera aperta al Sindaco di Ferrara

Da: Cgil Cisl Uil Ferrara

Il 29 luglio 2019, a seguito dell’incontro con le confederazioni di CGIL CISL UIL con il Sindaco di Ferrara, sulla stampa locale viene pubblicato il resoconto dell’incontro: “Insieme per capire cosa si è fatto e cosa si può fare per migliorare l’aspetto socio-economico e occupazionale del nostro territorio”. Alan Fabbri si è dimostrato disponibile al dialogo e al confronto su modelli di progettualità condivise ecc.
Un incontro che nella forma e nei contenuti ci aveva fatto credere nella possibilità di costruire un sistema di relazioni con l’unico scopo di intercettare i bisogni dei cittadini e con l’impegno di ricercare, attraverso il confronto, soluzioni condivise. Quello fu l’unico incontro avuto con il primo cittadino. Un incontro cordiale e utile (a Fabbri) per farsi fotografare facendo così trasparire il lato “umano e moderato”
Così come avevamo creduto nell’incontro con l’Assessora Coletti sulle politiche di welfare che, merito a parte, ha dimostrato un netto profilo di incoerenza perché dopo svariate rassicurazioni sulla disponibilità al confronto sul regolamento per le case popolari, interviene sui criteri per l’assegnazione degli alloggi senza il confronto con il Sindacato, lasciando intendere che forse la tutela che le è più a cuore è quella del vicesindaco.
Siamo sempre in attesa del confronto con l’assessore Maggi, il cui dialogo con la sola rappresentanza imprenditoriale, non può, per sua natura affrontare il problema della tutela del mondo del lavoro nella filiera degli appalti e nei lavori pubblici senza la parte che rappresenta i lavoratori.
Così come da troppo attendiamo la prosecuzione del confronto con l’assessora Travagli che in sede istituzionale si era assunta l’impegno per collaborare ad un sistema condiviso di misure a sostegno delle lavoratrici e dei lavoratori che si trovano o dovessero trovarsi in difficoltà a causa della perdita del posto di lavoro.
Allo stesso modo ci aspettavamo (perché così ci era stato detto da Fabbri e Fornasini) l’incontro per la discussione del DUP, mentre sulle partecipate avevamo ricevuto rassicurazioni sul mantenimento dell’intera proprietà del Comune. Al contrario la giunta ha fatto assumere al Consiglio Comunale una decisione in senso contrario.
Cosa diversa è accaduta con l’Assessore Balboni: alle dichiarazioni che annunciavano un intervento SOLO a sostegno delle imprese che avevano sforato i conferimenti dei rifiuti, la richiesta (soddisfatta) di incontro fatta dalle Confederazioni ha permesso, sia al sindacato che all’amministrazione, un serio approfondimento del problema. È stato il confronto che ha consentito di trovare la soluzione alla richiesta di CGIL CISL UIL di ricercare risorse economiche a sostegno ANCHE dei cittadini e delle famiglie che avevano sforato il numero dei conferimenti.
Ci siamo rivolti al Sindaco pubblicamente perché le richieste formali che già da tempo avevamo inviato hanno avuto risposta solamente oggi, ossia al termine del ciclo di assemblee con i lavoratori che hanno manifestato grande preoccupazione. Una convocazione che fissa la data di incontro il 19 febbraio, cioè tra un mese!
Solo per non offrire terreno di polemica strumentale a nessuno, valutiamo questa disponibilità, seppur tardiva, come segnale di apertura e immaginiamo che la disponibilità al dialogo non sia da intendere solo come uno slogan e che questo decreti la fine della disintermediazione delle relazioni con i sindacati più rappresentativi.
Ci aspettiamo che il giorno 19 febbraio alle ore 10,00 iniziamo a discutere del tema delle aziende partecipate a garanzia del servizio ai cittadini e a tutela del futuro di chi ci lavora, e al contempo si allarghi il confronto su tutti i temi che hanno ricadute sulla qualità della vita dei cittadini e nel rispetto reciproco del ruolo che rappresentiamo il Sindaco sottoscriva insieme a noi un Protocollo di relazioni sindacali che definisca modalità, radicalmente diverse da oggi, e di confronto concreto.
La informiamo che dal confronto ci aspettiamo di affrontare e trovare soluzioni ai problemi che le poniamo da mesi e che non faremo la fine dei personaggi dell’opera teatrale “aspettando Godot”.
Per questi motivi, le categorie di CGIL CIL e UIL convocheranno assemblee con tutti i lavoratori da svolgersi nei giorni immediatamente successivi al 19 febbraio per decidere le eventuali iniziative da intraprendere a sostegno delle nostre posizioni.

Le dimissioni di Luigino e i pugnali di gomma della nostra Repubblica

Luigino ci è rimasto male.  Per spiegare le sue dimissioni da Capo Politico ci ha messo tre quarti d’ora. Non per annunciare il suo passo indietro, quello lo conoscevamo già tutti, ma per lamentarsi, sfogarsi, lanciare velati avvertimenti ai colleghi e ai falsi amici (Dibba in testa) che gli hanno assestato una o più pugnalate alle spalle.

Prima di Luigino, Matteo Renzi è incappato nello stesso, spiacevole inconveniente. Una brutta storia, che Matteo non riesce proprio a mandar giù. Beh, è comprensibile, pugnalate e tradimenti non piacciono a nessuno. Così, da due anni a questa parte, tutte le volte che un giornale lo intervista, o quando riesce a tornare in televisione, anche se si parla di Libia o di Alitalia o di new economy, lui la ritira fuori. Ai sicari non promette vendetta, non sta bene e non conviene, ma fa capire a tutti che si vendicherà eccome. Un politico è un lupo per gli altri politici, la sua idea è quella lì. Uguale a quella del dimissionario Luigino.

C’è però qualcosa che non funziona nella narrazione (parola idiota ma adesso si dice così) di Luigino e Matteo. E cioè: se uno che credevi un amico e sodale, uno del tuo campo, uno che vedi e con cui parli tutti i giorni, trama contro di te, se col favore dell’ombra sta affilando il suo pugnale, perché non te ne sei accorto?  Perché non l’hai smascherato, allontanato, denunciato? Perché non l’hai fatto fuori, prima che lui facesse fuori te? E c’è un’altra cosa che proprio non quadra. Se ti hanno pugnalato alle spalle, perché non sei morto?

Cesare Augusto – era un politico dell’Ultima Repubblica – dai 17 congiurati si prese 17 pugnalate in pieno Senato. Non sappiamo se tra loro ci fosse la presidente Casellati, ma c’era sicuramente Bruto, il figlioccio di Cesare. E’ improbabile che, con diciassette coltellate in corpo, il dittatore romano avesse ancora il fiato per pronunciare la celebre profezia all’indirizzo di Bruto. Quel che è certo è che Cesare stramazzò al suolo e tirò le cuoia.

E’ facile notare due plateali differenze tra il regicidio di Cesare e gli accoltellamenti di Renzi e Di Maio. Punto primo, Cesare è stato affrontato di petto, a viso aperto, in pieno Senato della Repubblica, mentre i due leaderini della nostra repubblica sarebbero stati assaliti da dietro. Seconda differenza, decisiva: il grande Cesare è perito nell’attentato delle Idi di marzo, mentre Luigino e Matteo non sono solo sopravvissuti, ma non hanno riportato nemmeno un graffio.

Caio Giulio Cesare è affidato ai libri di storia, di Maio e Renzi continuano a popolare quello che Berlusconi (un pugnale che funzioni con lui non l’hanno ancora inventato) ha definito genialmente il ‘teatrino della politica’. Generalmente fondano un nuovo partito con nuovi amici.

E Bruto? Il povero Bruto, che oltre ad essere “Un uomo d’onore”, era un sincero democratico e difensore della Repubblica, fu puntualmente sconfitto nella battaglia di Filippi e non gli rimase altro che suicidarsi. Invece i presunti congiurati di oggi – gli occulti e maldestri pugnalatori dentro il Pd e nei 5 Stelle – se la passano piuttosto bene. Gli capita anche di incontrare le loro presunte vittime alla buvette del Parlamento, fare uno spuntino e scambiare due chiacchiere.

Ferrara Film Corto al via il festival di cortometraggi dedicato al cambiamento climatico

Da: Ufficio Stampa di Ferrara Film Commission

Si inaugurerà martedì prossimo la 3^ edizione del FERRARA FILM CORTO 2020, Festival Nazionale di cortometraggi organizzato dalla Ferrara Film Commission – in collaborazione con Cineclub FEDIC, Ascom Confcommercio Ferrara, Apollo Cinepark e Hotel Torre della Vittoria, con il patrocinio del Comune di Ferrara – che avrà luogo dal 28 gennaio al 1 febbraio 2020 dalle ore 16.00 alle 19.00 e dalle 21.00 alle 24.00 presso la Sala Estense (Piazza Municipale 2, Ferrara).
Denso e articolato il programma di eventi del Festival intitolato #CLIMATECHANGE, in quanto dedicato interamente alle tematiche del Cambiamento Climatico, la cui direzione artistica è affidata al critico e storico del cinema Paolo Micalizzi.
Diciassette i cortometraggi in Concorso, rispondenti al tema proposto, che saranno premiati da una prestigiosa Giuria di esperti, con targhe e premi in denaro. Dopo ogni tranche di proiezioni, si terrà un Incontro con gli autori presenti coordinato da Cesare Bastelli (Regista e Direttore della fotografia di numerosi film di Pupi Avati a partire dagli anni ‘90) e da Giorgio Ricci (Filmmaker e Presidente Nazionale FEDIC).
Il Festival risulta arricchito di numerose nuove iniziative, oltre a quelle ormai consolidate come la collaborazione con il Festival Internazionale Roma Film Corto, del quale sarà proposta una selezione di cortometraggi, e con Apollo Cinepark, che proietterà il lungometraggio “Domani” di Cyril Dion e Mélanie Laurent. Da segnalare anche la collaborazione con l’Università IULM e il Festival CinemAmbiente.
Tra le novità, è prevista una Tavola Rotonda, che si terrà al Palazzo Roverella, sede dell’antico Circolo dei Negozianti, alle ore 10.30 di sabato 1 febbraio, intitolata “Essere filmmaker”, avente lo scopo di porre l’attenzione sugli autori di cortometraggi e di metterli in contatto con realtà che possano favorire la loro opera creativa e produttiva. Realtà quali il Cineclub FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub) e Ferrara Film Commission che ha tra le finalità quella di dar supporto alla realizzazione di opere cinematografiche in questa splendida città. La Tavola Rotonda, sarà coordinata dal critico e storico del cinema nonché Direttore artistico del Ferrara Film Corto, Paolo Micalizzi, interverranno: il Presidente del Cineclub FEDIC Ferrara, Maurizio Villani, e il Presidente della Ferrara Film Commission, Alberto Squarcia, ma anche un filmmaker storico e Presidente Nazionale FEDIC, Giorgio Ricci, alcuni ospiti del Festival e filmmaker ferraresi o di altre città partecipanti al Ferrara Film Corto.
Inoltre, saranno proiettati i lungometraggi “Baraka” di Ron Fricke, “The Human Element” di Matthew Testa e “Una gita a Roma” di Karin Proia (tra gli attori Claudia Cardinale e Philippe Leroy) in anteprima per Ferrara. Karin, madrina del Festival, ha recitato nella fortunata serie TV ”Boris”.

Addio a Emanuele Severino, maestro del pensiero e amico del festivalfilosofia

Da: Ufficio Stampa MediaMente

“Il Consorzio per il festivalfilosofia partecipa con cordoglio alla scomparsa di Emanuele Severino, maestro del pensiero e tante volte ospite della nostra manifestazione. Severino è stato un pensatore di livello europeo e grande protagonista dell’eredità classica della filosofia. Con la sua dottrina dell’Essere ha presentato anche al pubblico del festival l’esercizio del pensiero nella sua forma più pura”. Così Daniele Francesconi, direttore del festivalfilosofia, ricorda uno dei più grandi filosofi, scrittori e intellettuali del nostro tempo.

SFIDA A BERGOGLIO
Cosa c’è dietro lo scontro tra tradizionalisti e innovatori

C’è chi auspica, e sta facendo di tutto, perché il pontificato di Papa Francesco termini prima
possibile, inducendolo alle dimissioni.
Tanti o pochi che siano, non era mai accaduto, almeno da decenni a questa parte, che uscissero
allo scoperto con azioni così plateali, ben oltre il linguaggio felpato che contraddistingue
l’incedere curiale, spesso accompagnato con un gelido sorriso.
Curioso è che siano proprio i più tradizionalisti a mettere in aperta difficoltà Papa Bergoglio,
fino a non riconoscerne persino la legittimità della sua elezione. Gli stessi per i quali se c’è
una cosa che nella Chiesa non va mai messa in discussione è proprio l’autorità gerarchica,
pena la messa in discussione dell’unità universale della Chiesa di Roma.
L’ultimo caso è l’operazione editoriale ordita dal cardinale Robert Sarah, prefetto della
Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, cioè il ministro della Santa
Sede per la liturgia.
Il 74enne porporato originario della Guinea, ultraconservatore e ritenuto fra i punti di
riferimento dell’opposizione a Bergoglio, è autore di un libro intitolato “Dal profondo del
nostro cuore”, che contiene un saggio del Papa emerito Benedetto XVI.
Questo è Il tema che ha provocato un’autentica bufera sui media, come dentro le Sacre Stanze:
l’intoccabilità del celibato dei preti.
Quel “non posso tacere” di Ratzinger al termine di una frase nella quale il Papa emerito
ricorda che la scelta di non sposarsi per un prete è “indispensabile”, ha scatenato il putiferio.
Una vera e propria bomba a orologeria, fatta scoppiare mentre l’attuale pontefice sta pensando
come mettere nero su bianco la richiesta del Sinodo, svoltosi a Roma lo scorso ottobre, che ha
chiesto l’apertura al sacerdozio dei diaconi sposati in Amazzonia.
Emblematiche le concitate fasi successive all’uscita del libro. Prima le parole di padre Georg
Gaenswein, tuttora al servizio di Francesco e di Ratzinger, che il 14 gennaio dichiara: “Su
indicazione del Papa emerito ho chiesto al cardinale Robert Sarah di contattare gli editori del
libro pregandoli di togliere il nome di Benedetto XVI come coautore e di togliere anche la sua
firma dall’introduzione e dalle conclusioni”.
Una sconfessione dell’operazione, perché Ratzinger “non aveva approvato alcun progetto per
un libro a doppia firma – precisa Gaenswein – né aveva visto e autorizzato la copertina”.
Dichiarazioni che fanno a pugni con un comunicato diffuso in francese lo stesso giorno, nel
quale il cardinale guineano ribadisce che lo scorso 25 novembre il Papa emerito gli avrebbe
espresso il suo accordo alla pubblicazione.
Nel frattempo – così racconta la stampa – l’edizione francese a doppia firma del libro
(edizioni Fayard) sta andando a ruba, nonostante un twitter col quale il cardinale della Curia
romana avrebbe dichiarato che sarebbe uscito solo con la sua firma, mentre negli Usa – dove
l’opposizione cattolica a Bergoglio è particolarmente corazzata – l’editore Ignatius Press fa
sapere che la pubblicazione del libro rimane a due mani.
Al netto di una cronaca dai risvolti che sconfinano nell’intrigo, sono almeno due i motivi di
riflessione suscitati da questo scontro ecclesiale.
Canonisti, storici e teologi, richiamano l’attenzione sul fatto che la definizione di ‘Papa
emerito’ usata da Ratzinger per se stesso dopo la sua rinuncia nel febbraio 2013, sta
mostrando la corda. Meglio sarebbe stata la formula: ‘vescovo di Roma emerito’.
La questione è di sostanza più di quanto dicano le apparenze.
Se a esprimere il proprio parere, anche critico, è un vescovo è un conto, ma se a dire la
propria idea è un Papa – per quanto emerito – allora si pone un problema di autorevolezza per
il pontefice in carica. Tanto che già qualcuno definisce Roma la città dei due Papi.

A questo punto non ci vuole Einstein per capire che l’entourage attorno a Ratzinger, e che si
dice a lui fedele (anche se tutto da vedere), può usarne la sua figura per conferire autorevolezza e
spessore magisteriale alla propria battaglia contro chi, nel frattempo è stato eletto a guidare la
Barca di Pietro.
Un problema destinato a rimanere aperto nel corpo ecclesiale, perché – si dice – non pare
opportuno regolamentare la questione mentre è in vita l’attuale Papa emerito, con tutta la
delicatezza del caso sulla pienezza delle facoltà e sulla manipolabilità delle sue volontà, per le
condizioni fisiche e l’età avanzata. Quel ”Ingravescentem aetatem” che fu il motu proprio di
Paolo VI pubblicato nel novembre 1970, per stabilire l’età massima per l’esercizio delle
funzioni cardinalizie, è – allo stesso tempo – la medesima formula usata da Benedetto XVI nel 2013:
lascio per ingravescentem aetatem.
“Esiste il canone 332 del Codex – ricorda Pierluigi Consorti, ordinario di Diritto canonico
all’Università di Pisa – che regola la rinuncia del Papa. Quando studiavamo questa
disposizione, era solo un caso teorico – continua – figurarsi se si sarebbe mai potuto
prevedere una qualche discrasia tra un Papa emerito e uno regnante”.
Il caso Sarah, peraltro, fa il paio con quanto successo nell’aprile 2019, quando Ratzinger ha
affidato un suo scritto sulla pedofilia al periodico tedesco ultraconservatore Klerusblatt.
Una riflessione nella quale il Papa “orante” affermava che lo scandalo abusi non ha origini nel
clericalismo, come sostenuto dal Papa “regnante”, bensì dal collasso morale scaturito dal ’68.
“Non se ne capisce la genesi, non si comprende con chiarezza se sia stato compilato
esclusivamente da Benedetto”, è stato il commento sul testo dello storico Massimo Faggioli,
che ha ricordato come la pedofilia esista nella Chiesa prima del ’68 e non riguardi, quindi,
solo l’ala progressista.
Una seconda riflessione sull’accaduto porta diritto al merito della questione celibato dei preti.
Ci sono teologi che mettono in guardia dal caricare di enfasi eccessiva le formule: prevedere
la “ordinazione di uomini sposati” non sarebbe la catastrofe, né la soluzione di tutti i mali
della Chiesa.
Si tratterebbe di ‘spazi pastorali’ che possono aprirsi in luoghi, come espresso durante il
sinodo sull’Amazzonia, nei quali le ordinazioni scarseggiano e un prete può amministrare i
sacramenti in una comunità non più di una volta all’anno.
La questione non sarebbe dunque il superamento del celibato, ma la possibilità di affiancare a
una lettura teologica che vede ogni novità come una crepa inferta all’unità, e perciò fonte di
sicura rovina, una pluralità di risposte che diano forma alle diverse culture e forme di vita,
nell’unità sacramentale della Chiesa.
Se questo ha un senso, appare chiaro che il terreno di scontro è teologico, e segnatamente
ecclesiologico.
La sfida, cioè, è fra una Chiesa che si concepisce una e universale anche nelle sue immutabili
declinazioni dogmatico-organizzative, centralisticamente e romanamente governate e
presidiate, oppure come Chiesa di chiese, perché la sua cattolicità, cioè universalità, si compie
ovunque si celebrano i santi misteri (i sacramenti).
È la riproposizione dello scontro avvenuto in Concilio Vaticano II tra una concezione della
Chiesa gerarchico-istituzionale e misterico-sacramentale.
Perciò l’obiettivo di questo ennesimo attacco è Papa Bergoglio, che con la collegialità, la
sinodalità e la misericordia, ha deciso di continuare a camminare sulla strada aperta dal Concilio convocato nel 1962 da Papa Roncalli.

Oceano mare:
Bologna, piazza VIII Agosto, 19 gennaio 2020

Siamo d’accordo. La piazza è la piazza, e le elezioni sono un’altra cosa.

Ma oggi in piazza VIII Agosto ti senti davvero in altomare; raggiunto, travolto, cullato da onde di voci, canti, emozioni. Una piazza così non capita molte volte in tutta una vita. Quando? Quando finisce una guerra. Quando a San Siro cantava Bob Marley e tutto lo stadio ballava in una nuvola di fumo. Quando moriva un signore di nome Berlinguer. Quando – c’era questa usanza, ma tanto tempo fa – tutti i sindacati chiamavano tutti allo Sciopero Generale.

Altri tempi… ma la piazza di oggi, cosi giovane e colorata, così arrabbiata e sorridente, mi sembra avere quello stesso, strano e rarissimo sapore. Come quando senti che sta succedendo davvero qualcosa di nuovo. Domani, come al solito, i commentatori si divideranno: per alcuni sarà una piazza PRO, per altri una piazza CONTRO. Interrogativo capzioso, o interessato, e comunque un po’ stupido. Perché, se sono contro il nuovo fascismo, sono per una democrazia e una politica diversa. Se sono contro i Porti Chiusi, sono (automaticamente)  per i Porti Aperti, l’accoglienza, il dialogo, l’integrazione dei nuovi arrivati, i diritti per tutti, a partire da quello di Cittadinanza. Mentre canto in coro Bella ciao o leggo in piazza gli articoli della Costituzione, mando un messaggio preciso a una classe politica di Sinistra autoreferenziale, con pochissimo coraggio, inscatolata nei tatticismi.

Sono le 3 e mezza del pomeriggio e in piazza c’è già tanta gente. Ma è così enorme questa piazza… si riuscirà a riempirla? Sul palco si accordano gli strumenti, due schermi giganti rimandano l’immagine di una sardina azzurra tra le onde azzurre, insieme alla parola d’ordine di oggi:”Bentornati in mare aperto”. Tocca ai primi ospiti, tre brevi interventi di tre perfetti sconosciuti. Prima un signore di origine meridionale: “Sono arrivato trent’anni fa con la classica valigia di cartone e Bologna mi ha accolto”. Poi un ragazzo africano del Benin che racconta il suo viaggio della speranza. Infine una ricercatrice universitaria emigrata, tornata finalmente in Italia dopo 10 anni all’estero, l’unico modo per trovare da lavorare. Il tutto dura non più di un quarto d’ora, ma è un incipit che vale più di un biglietto da visita. E’ un altro messaggio: chiaro, preciso. efficace. Queste Sardine mi sembrano tutt’altro che ingenue, hanno in testa delle cose da dire. E le dicono.

Sono quasi sotto il palco, torno verso il fondo della piazza. Continua ad arrivare gente, moltissimi giovani, cartelli creativi con la firma di provenienza. Provo a scattare qualche foto con il cellulare, ma non è semplice, ho sempre qualche testa davanti che mi rovina lo scatto. Allora mi dirigo verso la Montagnola: da lì forse riesco a farmi un’idea di quanti sono, di quanti siamo. La Montagnola non offre una gran vista –  non è come affacciarsi dalla terrazza di Villa Borghese sopra Piazza del Popolo – ma tra alberi , transenne e lampioni vedo che ormai piazza 8 agosto è quasi piena. E molti, gruppi di studenti, famiglie con bambini al seguito, pensionati, hanno scelto di partecipare rimanendo sulle sponde della Montagnola.

Le 5 e un quarto. Decido di tornare verso la stazione. Voglio tornare a Ferrara per scrivere qualche riga su questa giornata. Cammino decisamente controcorrente, perché la corrente delle sardine mi viene incontro, continua a fluire dalla stazione ferroviaria verso la piazza. Mi inseguono le note del concerto; durerà fino a tarda notte. Gli ultimi che riesco a sentire sono gli storici Skiantos che attaccano duri con “Mi piaccion le sardine”. Applausi a scena aperta. Meritano fin d’ora il primo premio della giuria popolare.

In treno provo a fare un po’ di conti. Sento il radiogiornale dal cellulare. Sta parlando Mattia Santori, uno dei leader del movimento delle sardine bolognesi: “Siamo almeno 40.000”. Ma la festa è appena cominciata, quanti saranno fra un paio d’ore? Alla fine sarà impossibile fare un computo attendibile. Ogni giornale, ogni televisione, ogni partito sparerà il suo numero. Quello del manifesto sarà più o meno il doppio di quello denunciato da Libero. Quello della questura, come sempre: la metà esatta del numero dichiarato dagli organizzatori. Sprovvisto come sono di elicottero e di pallottoliere non azzardo cifre. Anzi, forse non sono neppure tanto importanti (infatti, come vedete, non ho scelto come copertina la solita foto panoramica della folla). Se mi chiedete in quanti eravamo, posso dirvi che eravamo un gran mare, anzi, un Oceano Mare..

Quanto alle elezioni regionali, staremo a vedere. Riempire le urne sarà ancora più difficile che riempire una grande piazza. Se c’è però la possibilità di vincere, di fermare al confine la marea leghista, non credo che dipenderà tanto da Bonaccini e dalle sue tante liste, ma dalla marea ostinata e contraria che oggi, 19 gennaio dell’anno del Signore 2020, è andata in scena a Bologna.  .

 

Biblioteca Rodari: chiusa per sopravvenuta influenza
(dell’incerto futuro delle bibloteche ferraresi)

Quando arriva il terremoto il Sindaco ordina la chiusura di scuole e biblioteche. Giusta precauzione contro probabili scosse di assestamento. Se muore un congiunto, una piccola bottega (ma ne esistono ancora?) mette in vetrina un cartello: chiuso per lutto. Tutto normale, almeno fin qui. Ma nella novella Ferrara a trazione leghista basta un’influenza per interrompere un servizio pubblico. E’ storia di questi giorni. Oggi (venerdì 19 gennaio) la Biblioteca Gianni Rodari è rimasta chiusa. Ieri è stata aperta, ma martedì e mercoledì era ancora chiusa. Domani è sabato e dovrebbe aprire (così mi dicono). Sperém ben! Ma non più di tanto: visto che l’annuale virus influenzale non ha ancora raggiunto il suo picco, possiamo aspettarci altre brutte sorprese e altre porte chiuse.

Giuro, non ho mai sentito di una biblioteca di una città (una città, come Ferrara, non un paesino sperduto sull’Appennino) che chiude al pubblico perché i bibliotecari hanno preso l’influenza. E dire che io di biblioteche ne ho davvero viste a centinaia. Libri e biblioteche sono una mia passione, un mio pallino – anzi,  qualche lettore si lamenterà per il mio battere e ribattere sul medesimo argomento – tanto che, in qualunque città-paese-borgo arrivi, visito subito (nell’ordine): la piazza del mercato, la biblioteca e il cimitero. Mi sono fatto l’idea che è in quei luoghi che si può capire qualcosa della vita di una città e di chi la abita. Vita e Cultura sono la stessa cosa: la lezione l’ho appresa leggendo Fernand Braudel.

Ok, la Biblioteca Rodari  ha dovuto chiudere per qualche giorno, ma è davvero il caso di farne un dramma? No, evidentemente. Ma se si scava un po’ sotto, si capiscono tante cose. Non tanto belle. Se il Sistema Bibliotecario di Ferrara – gestito da un dirigente competente e con in servizio alcune decine di operatori capaci e appassionati del loro lavoro – ‘va in tilt’ (cioè è costretto a chiudere una biblioteca pubblica) solamente perché è arrivata la solita, periodica epidemia influenzale, significa che siamo ormai arrivati al fondo del barile. Significa che non basta più spostare qualche bibliotecario da una sede all’altra, o richiamare in servizio qualcuno che ha preso ferie per tappare il buco. Significa che il personale è del tutto insufficiente per gestire decorosamente un servizio sociale e culturale di primaria importanza.

E mica è una novità. Non sono certo il solo a denunciarlo. Su iniziativa del sindacato, lo scorso dicembre sono state raccolte più di 2.000 firme per chiedere al Sindaco e alla  Amministrazione Comunale di assumere nuovo personale per rimpiazzare coloro che sono andati e andranno in pensione. La verità – la polvere che qualcuno vorrebbe mettere sotto il tappeto – è che in vent’anni il Comune di Ferrara ha perso centinaia di dipendenti: nel 1.999 erano oltre 1.400, oggi sono poco più di 1.000. Non è finita: nel 2020 andranno in pensione non meno di 60 dipendenti, mentre il Sindaco Fabbri si è impegnato (a voce) ad assumere solo 25 giovani.

Da parecchi anni è in atto (quindi il discorso non riguarda solo la nuova Giunta) una politica di svuotamento progressivo dei servizi pubblici. Tutti i servizi pubblici. Si appalta al privato. Si riducono gli orari di apertura. Si fanno salti mortali per sostituire il personale in malattia. Una cura dimagrante che alla fine (siamo arrivati ad oggi) ci presenta il conto. Si stringe la cinghia: un buco, due buchi, tre… e alla fine non rimane che chiudere la porta. Come alla biblioteca Rodari.

Il Sindaco  ha incontrato proprio ieri il sindacato. Alla richieste dei 2.000 firmatari della petizione popolare,  Alan Fabbri ha risposto con alcune promesse: faremo un concorso e 3 nuove assunzioni nelle biblioteche, decideremo entro il 2020 dove far sorgere la Nuova Rodari per dotare la Zona Sud di Ferrara di una grande biblioteca. Non solo: entro il 2024 la Grande Rodari sarà regolarmente in funzione.

Non so se crederci – di buone intenzioni eccetera eccetera – anche perché parliamo dello stesso Sindaco Fabbri che da mesi promette ( e non mantiene) di trovare una location di pari dignità e rilevanza allo striscione di Giulio Regeni rimosso nottetempo dallo Scalone del Municipio.

Resta un’ultima cosa cui almeno accennare – il discorso sarebbe un po’ lungo. Dobbiamo chiederci (Tutti: noi governati e chi ci governa) quale cultura vogliamo a Ferrara. A me, ad esempio, piace tanto andare alle mostre. Bene la mostra di De Nittis ai Diamanti (tanto bella, tanto emozionante che tornerò a vederla), bene la Collezlone Farina al Padiglione, benissimo il nostro grande Gaetano Previati al Castello e le altre meraviglie che ci promette il nuovo presidente di Ferrara Arte Vittorio Sgarbi. Ottimo per i turisti e ottimo per i ferraresi. Ma la Cultura di Ferrara non è fatta solo di pietre (Il compianto amico Carlo Bassi ci ha spiegato una volta per tutte “Perché Ferrara è bella”), e non è fatta solo di mostre, rassegne e festival. La Cultura è vera Cultura se è quotidiana, se parte dal basso, se è accessibile a tutti. E allora: scuole e biblioteche prima di tutto. Vogliamo o non vogliamo investire su questo?

 

Schlein su Stefano Solaroli Ferrara. Responsabilità morale chiedere le dimissioni di Solaroli. La lega locale accerti fatti garantendo trasparenza delle istituzioni

Da: ufficio Stampa di Emilia Romagna Coraggiosa

“È proprio vero che ci rubano il lavoro: certi leghisti con la retorica del “prima gli italiani” pare usino i posti nelle istituzioni di Ferrara per zittire chi non è gradito. Questi sono quelli che dicono che vogliono liberare l’Emilia-Romagna, ma sono prigionieri della loro fame di potere. Spero che sugli audio acquisiti e di cui ha dato notizia Piazza pulita, venga fatta piena luce dalle autorità competenti affinché si accertino eventuali responsabilità legali o meno, nell’ottica di una piena trasparenza delle istituzioni e in primis dell’immagine del Comune di Ferrara e del Sindaco. Ciò che risulta certo, al momento, è una grave responsabilità morale su cui la Lega locale dovrebbe prendere posizione chiedendo le immediate dimissioni di Stefano Solaroli ” – così Elly Schlein di Emilia-Romagna Coraggiosa, all’indomani dell’inchiesta di Alessio Lasta in onda ieri nella trasmissione di Piazza pulita.

Solaroli e quella “promessa” che fa tremare la Lega

Questa volta la faccenda sembra essere più seria delle altre volte: il vice-capogruppo della Lega in consiglio comunale, Stefano Solaroli, durante una conversazione con Anna Ferraresi, le ha promesso un posto a tempo indeterminato in comune, a patto che quest’ultima, che  è stata una ‘ribelle’ all’interno della maggioranza, citando letteralmente, si “togliesse dal c*zzo”.

Il consigliere in questione non è nuovo a situazioni imbarazzanti, ma andiamo con ordine per capire come si è arrivati a questa proposta.

    • La disssidente

Anna Ferraresi è stata la candidata ‘culturale’ della lista di Alan Fabbri. Molto attiva sui social, ha sempre denunciato il degrado che a suo parere attanaglia la città ed in particolare la zona dove vive, Pontelagoscuro. Con questo suo modo di fare, però, si è attirata le inimicizie di alcuni componenti della maggioranza. Infatti, nonostante la sua entrata in Consiglio Comunale dopo la vittoria alle elezioni, le sue lamentele sono continuate, e questo l’ha portata alla rottura finale del dicembre scorso.

    • Il litigio, l’uscita dal gruppo, la querela

Andare contro Nicola Lodi non sembra portar bene in Comune. A farne le spese sono stati Paolo Vezzani, il quale si è dimesso ad agosto, e Fausto Bertoncelli, stimato dirigente comunale, spesso in contrasto con l’attuale vicesindaco in passato, che si è visto allontanare dal proprio incarico senza troppi chiarimenti (e complimenti). Non sorprende, quindi, che la stessa ‘ribelle’ Ferraresi, rea di troppe lamentele, sia arrivata allo scontro proprio con Lodi. Ma non è stato uno scontro qualsiasi. La vicenda tra i due, infatti, è arrivata alle vie legali: Ferraresi ha querelato Lodi, colpevole a parer suo di averla offesa sul suo profilo Facebook, adducendo che la candidatura dell’ex veterinaria fosse stata mossa da motivi personali e non per tutelare la comunità di Pontelagoscuro e per delle dichiarazioni di Lodi su di un quotidiano locale. La consigliera, nel frattempo, era già uscita dal gruppo leghista ma è rimasta comunque in Consiglio Comunale, nel gruppo misto, perché, sempre secondo sue dichiarazioni, “ha preso un impegno di battersi su alcuni temi”.

    • Il 19 novembre

Prima di arrivare a questo, secondo lo scoop lanciato su La7, ci sarebbe stato un tentativo di sedare questa rivolta. Infatti, proprio il 19 novembre, c’è stato l’incontro tra Solaroli e Ferraresi, nel quale il primo proponeva alla seconda un lavoro a tempo indeterminato nella gestione dell’accoglienza turistica, occupandosi dei nuovi trenini inaugurati dall’amministrazione Fabbri. Tutto questo, naturalmente, in cambio delle sue dimissioni. Secondo Solaroli, poi, Vicesindaco (citato per primo) e Sindaco erano d’accordo. Ultimo, ma non meno importante argomento, il silenzio richiesto alla consigliera:“Se lo sputi fuori, mi brucio io”, ha infatti affermato il vice-capogruppo di maggioranza. Ferraresi ha però rifiutato questa proposta, che l’avrebbe appunto costretta a rinunciare al suo incarico di consigliera, e alla domanda del giornalista di Piazzapulita sul perché nell’audio sembrasse interessata, lei ha risposto: “L’ho fatto apposta, affinché lui non avesse timore a dirmi le cose”.

    • Il servizio di Piazzapulita e le repliche

Il 16 gennaio va in onda su La7 il servizio completo dedicato a Ferrara e questo caso in particolare, nel quale tutta la vicenda viene chiarita (la versione integrale la trovate qui). Oltre alle dichiarazioni di Ferraresi ci sono state quelle del presidente di City Red Bus Paolo Bonferroni, la società che gestisce il servizio di pullman turistici, che ha chiarito che il servizio al  Comune consta solo dell’autorizzazione e che è gestito dalla sua  società, quindi anche le assunzioni vengono vagliate solo da lui, in quanto presidente della City Red Bus Srl. Oltre a questi due interventi c’è stata la risposta del vicesindaco. Proprio così: ha risposto Lodi, non il  Sindaco. Secondo i giornalisti di La 7 sembra che dovesse essere inizialmente Alan Fabbri a chiarire la situazione, ma secondo Lodi, fin dall’inizio avevano avvisato che sarebbe stato lui a parlare. Poco importa. Quello che appare evidente è come la figura di Alan Fabbri sia sempre più messa in disparte dal sempre più ‘ingombrante’ Naomo, e come andare contro quest’ultimo possa portare conseguenze spiacevoli all’interno del Comune. La giustificazione data da Nicola Naomo Lodi è stata netta e chiara: “Prendiamo le distanze”, “non sapevamo nulla”, “sappiamo chi è Anna Ferraresi…”. Nonostante la gravità del fatto, comunque, non c’è stato – come ci si poteva aspettare –  un netto ‘calcio in c*lo’ nei confronti del suo collega di partito, anzi, oltre ad aver promesso solo delle ‘verifiche’, non ha perso l’occasione per un attacco al Pd e alla cooperativa Le Coccinelle, per presunte assunzioni di parenti ed amici del Partito Democratico.

    • Chi è Stefano Solaroli

Militante della Lega, è entrato alla ribalta, oltre che per quest’ultima vicenda, per due fatti che lo hanno visto protagonista. In una di queste, la prima, si vede Solaroli accarezzare un’arma disteso a letto dicendo “ho lei con me”, descrivendo le caratteristiche dell’arma, una Beretta 70 del 1969 [vedi qui l’ articolo su Ferraraitalia ]  e dove invitava tutti a condividere il suo video. Il filmato, reso pubblico durante la campagna elettorale, non piacque assolutamente, ma una nota del Viminale informava che proprio a causa di quel video, nel 2018 gli era stato vietato di possedere armi. (La pistola, comunque, non l’aveva più da tempo).
Un altro video, però, ha indignato l’opinione pubblica. In questo Solaroli, a Comacchio, si aspettava che i rom si “incazzasero”, così da poter montare su un suv un “trinciarom”.
Nonostante questi atteggiamenti e queste uscite, nonostante le prese di distanze, Stefano Solaroli ha trovato posto tra i candidati, è stato votato ed è stato nominato vice-capogruppo della Lega in Consiglio Comunale.

Possibili conclusioni
Da questa vicenda si capiscono almeno tre cose:
1. Che Solaroli non doveva essere candidato.
2. Che il danno d’immagine prodotto dal video è talmente grave che una presa di posizione netta e decisa da parte dell’Amministrazione Comunale dovrebbe essere la minima conseguenza, oltre che una sperabile espulsione diretta dal partito.
3. Che Naomo si conferma essere il reale detentore del potere a Ferrara. Con buona pace di Alan.

Come rendere un’abbazia la prima d’Italia (e farla rimanere tale per otto secoli)

Chiostri, torri, biblioteche, giardini, orti… A essere svanito nel nulla non è solo l’antico prestigio del “Monasterium in Italia princeps” – come amava definirla Guido il musico – , ma anche la maggior parte dell’intero complesso che un tempo mostrava un’Abbazia di Pomposa molto diversa da quella a cui abbiamo fatto l’abitudine.

Persino ciò che è rimasto appare in una configurazione differente rispetto a quella originale, a partire dalla chiesa. Quella attuale, dedicata a Maria, era già nel IX secolo di forma tipicamente basilicale: pianta rettangolare e tre navate con abside. Lo stile ravennate-bizantino, evidente nella struttura, era dato anche dall’utilizzo di materiale architettonico proveniente da Ravenna, caduta un secolo prima sotto i Longobardi. La facciata, tuttavia, non è più visibile totalmente, poiché fu inglobata da un atrio costruito in seguito, poi a sua volta demolito per mettere in piedi l’ampliamento che vediamo oggi. Spettò infatti all’abate Guido, un ravennate, la trasformazione dell’abbazia per renderla sempre più imponente e sontuosa, a cominciare proprio dall’aggiunta del nuovo atrio, opera del geniale architetto Mazulo. Egli, ornando l’esterno del nuovo corpo con bacini ceramici, stucchi, marmi, pietre e laterizi intagliati e incisi, consegnò all’abbazia quasi una nuova facciata dal lontano gusto orientale. Accanto all’edificio sacro, non è andato perduto il grandioso campanile, la cui costruzione fu avviata grazie a delle donazioni nel 1063, dopo l’atrio quindi, come ci mostra una lapide dedicatoria posta alla sua base. Simile ai suoi colleghi romanico-lombardi, risulta molto vicino alla chiesa e sembra riproporre il complesso sistema decorativo in laterizio dell’atrio, ma con importanti innovazioni figlie dei nuovi tempi. Prima di entrare, tuttavia, per stupirci delle maestose decorazioni ad affresco e dei pavimenti a tarsia e mosaico, è bene fermarsi ancora un attimo ad ammirare l’atrio addossato alla facciata, perché per la sua fattura è riconosciuto come uno degli artefatti più interessanti dell’arte medievale padana: anche se all’epoca non era il solo nell’area ravennate, è oggi rimasto come l’unico esempio di un insieme di forme a notevole prevalenza orientale. Eppure, anch’esso allora doveva mostrarsi ben diverso. Si è scoperto che la sua superficie era probabilmente intonacata, non si sa come, e allo stesso modo vari altri suoi elementi scultorei.

L’abbazia, che senza remore si fa notare dalla campagna circostante grazie al solenne campanile, è però scrigno e custode di un patrimonio artistico che ha fatto la storia del nostro territorio, e non solo. E se già il contenitore riveste questa importanza, figuriamoci il contenuto! Basta introdursi nell’edificio per notare che quasi non esistono vuoti: l’interno è completamente affrescato, ma non tutto risale allo stesso momento, e qualcosa sarebbe stato anche ricoperto da interventi successivi. Gli affreschi furono l’ultima testimonianza della grande arte pomposiana, e i loro committenti si succedettero nel corso di secoli. Dai tradizionali intenti moraleggianti e didascalici, le raffigurazioni mostrano, a chi è in grado di interpretarle, scene tratte dall’Antico, dal Nuovo Testamento e dalla Storia della Chiesa. Le botteghe che vi lavorarono furono diverse, e il tutto sembra innegabilmente confluire verso l’abside, fulcro del ciclo pittorico, che presenta il Cristo benedicente nella mandorla mistica. Ma un tempo c’era dell’altro. Ogni monastero medievale era sede di studio e cultura, a maggior ragione Pomposa: tra le altre cose, la sua biblioteca di centinaia di volumi è oramai perduta, né si sa dove si trovasse.

La poesia di Pomposa è però solo all’inizio. E’ dal vivo che l’impossibile dialogo tra esseri umani e opere d’arte di un tempo passato diventa realtà. E forse solo i versi di Giuseppe Ravegnani, poeta dimenticato, potrebbero descrivere, a chi non lo conosce, uno dei monumenti italiani più visitati: “In mezzo alla campagna sola stai, / o casa del Signore! / Arde sui tetti il sole; / e le campane / cantan lassù come gran guglie d’oro, / le cui voci, pregando, / un po’ di cielo / donano al cuore di chi va sognando… […]” (La Chiesa dell’Amore, I, 1923).

Nemico fuoco
una storia piena di incendi

L’Australia arde: Nuovo Galles del Sud, Queensland, Western Australia, Victoria, South Australia, l’1,4% dell’intero continente. 10,7 milioni di ettari raggiunti dal fuoco, 6.000 edifici distrutti, 100.000 sfollati e 28 vittime. Le stime riguardanti la fauna perita nelle fiamme è ancora approssimativa ma con numeri da brividi. Un bilancio ancora parziale, destinato a riservare dati tragici. Siberia, Artico, Amazzonia, California sono l’ultimo nefasto elenco di aree interessate recentemente da roghi violenti di proporzioni sconvolgenti.

Il fuoco fa paura tanto quanto l’acqua: due elementi primordiali vitali potenti che nel pieno della loro furia incontrollata travolgono e portano desolazione e morte. La storia ricorda incendi in insediamenti urbani, che lasciarono il segno per portata e conseguenze. D’obbligo citare la città di Roma del 64 d.C. che nella notte tra il 18 e il 19 luglio venne divorata dalle fiamme. Le vittime furono migliaia e 200.000 persone rimasero senza casa. Vittime furono anche i cristiani, accusati dall’imperatore Nerone d’aver appiccato il fuoco, martirizzati in gran numero. Nel 1212 un incendio devastò Londra e tra i 3000 scomparsi molti morirono bloccati sul ponte simbolo della città, accorsi là per aiutare a contrastare le fiamme. La stessa Londra, il 2 settembre 1666 fu invasa da un grandioso incendio partito in un forno di panettiere, la cui rapida divulgazione fu favorita dagli edifici in legno con tetti di paglia, la conservazione di polvere da sparo in molte case, il sovraffollamento urbano. Si creò una situazione di panico collettivo e per convincere la massa urlante a rimanere e collaborare allo spegnimento, vennero chiuse per ore le porte della città, imprigionando gli abitanti. 13.000 abitazioni scomparvero e sparirono 4 ponti sul Tamigi. Il fuoco mise anche fine alla grande peste di Londra perché i ratti perirono tra le fiamme.

Nel 1940 la città subì il cosiddetto ‘secondo grande incendio di Londra’: eravamo in piena guerra mondiale e la notte tra il 29 e il 30 dicembre, una delle più violente incursioni aeree della Luftwaffe tedesca – più di 100.000 bombe sganciate sulla città e i suoi dintorni – provocò 1.500 incendi che generarono una temperatura di 1000°C. I muretti si sbriciolavano, le travi di ferro si deformavano, il manto stradale era in fiamme. Le difficoltà nel reperire acqua per lo spegnimento rallentarono le operazioni e le vittime furono 40.000, altrettanti i feriti.

Era il settembre 1812 quando Mosca bruciò. Un fuoco che divampò velocemente a causa della tempesta di vento e durò cinque giorni. Truppe e cittadini erano scappati dalla città mentre Napoleone e il suo esercito entravano. Dietro quel fuoco c’era una  precisa strategia: l’ordine del governatore Rostopcĭn di far esplodere o incendiare edifici importanti, chiese e monasteri. Bruciò la Borsa e il Cremlino venne danneggiato solo in un’ala. Fu veramente responsabilità di Rostopcĭn oppure si tratta di incidente fortuito? La popolazione stessa volle questo? Mosca bruciò, scrive Tolstoj, perché era stata abbandonata.  Tutte valide ipotesi, forse concause che ridussero in tizzoni ardenti la città simbolo della Madre Russia zarista.

Negli annali statunitensi sono registrati tre grandi incendi tra il 1871 e il 1872: due di essi riguardano le città di Chicago (1871) e Boston (1872), il terzo, dimenticato e quasi rimosso, la cittadina di Peshtigo, Wisconsin. I primi due ricordati e citati per l’entità dei danni patrimoniali, l’altro per le circostanze e il numero di vittime. A Chicago, avvolta nelle fiamme, sparirono 120 km di strade, 17.500 edifici, 222 milioni di dollari di proprietà; a Boston si prospettò, l’anno successivo, una situazione analoga. Dell’incendio di Peshtigo si è sempre parlato troppo poco, quasi non meritasse la stessa attenzione di Chicago, seppure ambedue gli incendi fossero scoppiati stranamente lo stesso giorno. Un disastro dimenticato dalla storia, partito dalla foresta, abbattutosi nella cittadina nel giro di pochissimo come una grande tempesta di fuoco. I 2500 abitanti perirono consumati dalle fiamme o annegati nei pozzi in cui tentavano di salvarsi o, ancora, morti nelle acque del fiume per ipotermia, seppelliti successivamente in una grande fossa comune perché impossibile l’identificazione. Nacque in quell’epoca una teoria che mirava a giustificare l’incendio di Chicago e i diversi roghi scoppiati proprio in quei giorni nello Wisconsin e in Illinois, attribuendo i fenomeni all’impatto con la crosta terrestre di frammenti della cometa di Biela. Tutto da provare.

Nel 1917 ad Halifax, Nuova Scozia in Canada, il mercantile francese Mont Blanc, carico di esplosivo di ogni genere destinato al fronte europeo, si incendiò dopo collisione e andò a schiantarsi con la sua massa di fuoco nel porto della città. Nell’onda d’urto morirono all’istante 1600 persone presenti sul molo e in città, 9000 i feriti. La più grande esplosione pre-atomica che si conosca. Il fatto venne posto sotto censura militare per molto tempo. Molti altri disastri da fuoco riguardano San Francisco, in fiamme dopo il terribile terremoto del 1906 con ben 50 focolai che arsero per tre giorni distruggendo ogni cosa e Tokio, 1923, colpita da sisma e conseguente incendio. Molti rimasero intrappolati nell’asfalto incandescente senza possibilità di fuga e l’episodio più grave riguarda l’incenerimento di 38.000 persone in un vortice di fuoco a Rikung Honjo Hifukusho, dopo che si erano radunate in uno spazio aperto credendosi al sicuro. E come non ricordare l’incendio di Dresda nella Seconda guerra mondiale? Sulla città vennero scaricate bombe incendiarie pari a 2702 tonnellate, da parte dell’aeronautica inglese. Un inferno di fiamme, fumo, assenza di ossigeno, un bagliore avvistabile a 300 km, una temperatura di 200 gradi, 135.000 morti accertati ma molti non identificati perché irriconoscibili. Un macabro record di disumanità che non trova nessuna giustificazione militare.

Quel fuoco che nella mitologia è sacro, fonte di purificazione e trasformazione, attributo delle divinità più potenti e dei guerrieri più valorosi, diventa nemico, potenza distruttiva, portatore di morte, un incontrollabile temibile vendicatore delle nostre scellerate azioni.

Visit Comacchio protagonista al CMT di Stoccarda

Da: Organizzatori

Piacciono ai visitatori stranieri le proposte del territorio della Provincia di Ferrara, che spicca nel turismo internazionale. La fiera di Stoccarda è la più grande in Europa.

La Provincia di Ferrara sempre più sotto i riflettori del turismo internazionale. “Visit Comacchio” è protagonista del CMT di Stoccarda, la più grande fiera in Europa per il turismo e il tempo libero, dall’11 al 19 gennaio 2020. Una rassegna che accoglie circa 250mila visitatori e oltre 2mila espositori provenienti da 100 Paesi del mondo. Un’occasione per la città sull’acqua e per il suo territorio, sempre più apprezzati dai turisti stranieri, i quali prediligono la possibilità di coniugare la vita di mare, le visite nelle città d’arte, in particolare a Comacchio e a Ferrara, e l’autentica natura del Parco del Delta del Po. Presenti a Stoccarda con i rappresentanti di Visit Comacchio, anche alcuni operatori privati della costa.
«Per Comacchio è fondamentale partecipare alla CMT di Stoccarda, che rimane il più importante evento dedicato al tempo libero e alle vacanze ‘plein air’ – spiega Ted Tomasi, Presidente di Visit Ferrara -. C’è sempre grande attesa attorno a questa fiera e i numeri registrati durante il primo weekend lo dimostrano, visto che sono stati ben 90mila i visitatori nei primi due giorni, circa 10mila in più rispetto allo scorso anno. Un altro fattore che abbiamo riscontrato, poi, è il crescente interesse dei tedeschi nei confronti dell’Italia, dovuto anche ai recenti fatti in Medio Oriente che portano gli europei a prediligere mete vicine. Partecipare a questo evento rappresenta un’ottima opportunità per il turismo del nostro territorio».

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Da Capitale della Cultura a Capitale della Conoscenza

Pare che si considerino città della cultura quelle città che mettono sul mercato il loro patrimonio culturale, dai monumenti agli eventi, dai musei ai teatri. Ma non è detto che una città della cultura, capitale della cultura, sia anche una ‘città della conoscenza’.
In ogni città esistono cittadelle della conoscenza: le università, il sistema dei musei e delle biblioteche, le scuole, i conservatori, le accademie, le imprese, il mondo del lavoro, ma da qui a fare delle loro città delle città della conoscenza ne passa.
Perché manca la politica. Mancano le politiche, che anziché promuovere la città della cultura come fosse un prodotto confezionato da mettere sul mercato dell’economia turistica, come città vetrina, promuovano la città della conoscenza, ovvero della conoscenza diffusa, della conoscenza come investimento. In definitiva facciano della conoscenza il polo magnetico, capace di fornire energia vitale, non solo al sistema culturale e agli eventi, ma alle imprese, al mondo del lavoro e ai singoli cittadini.
Viviamo un’epoca in cui la cultura non può continuare ad essere coniugata al passato, perché abbiamo una enorme necessità di conoscenze come strumenti del pensiero per pensare.
La città della cultura è un libro che ognuno legge per sé, che non si tradurrà mai in conoscenza a vantaggio dello sviluppo e della crescita di una intera comunità, se non ha la forza di trasformarsi da cultura per pochi a crescita permanente della conoscenza per tutti.
Non è che le due cose si escludano. È che si può essere città della cultura, capitale europea della cultura e mancare della conoscenza. Cosa che non si può dire della città della conoscenza, a cui non mancherebbe il proprio patrimonio di cultura.
La città della cultura deve fare il salto di qualità e divenire compiutamente città della conoscenza; insomma, non si può continuare ad essere delle incompiute.
È ora che usciamo dalle nostre piccole miserie, dagli intrighi di bottega, dai respiri angusti.
Più che di idee innovative, abbiamo bisogno innanzitutto di un’idea nuova della città, perché la città è il nostro investimento sulle persone e sul futuro.
La buona amministrazione, se mai cercando la soddisfazione di questa o quella lobby, non è più sufficiente; il diffondersi sempre più della cultura del bene comune ne è la dimostrazione. Come è ormai da stupidi contendersi elettoralmente il governo della città, pensando che, una volta occupate le leve della gestione, la città sarà migliore di prima. Nessuna città sarà mai migliore se non sarà migliore a partire dai suoi abitanti, e se a loro non saranno state fornite tutte le opportunità possibili per essere migliori, in modo da poter disporre di intelligenze nuove e rinnovate.


Il Concetto di Città della Conoscenza. Fonte: Adattamento da Ergazakis et al., 2004

È ora che pratichiamo sguardi inediti per non ripeterci all’infinito passato. Sguardi che in tema di città della conoscenza poi tanto nuovi non sono.
Da oltre un ventennio esiste un’ampia letteratura mondiale in materia. Bisognerebbe studiare. Studiare è solitamente il modo per passare dalla cultura passiva a quella attiva, appunto, dalla cultura alla conoscenza.
Di solito si ’coltiva’ per raccogliere i frutti e di essi nutrirsi, e il frutto della cultura è la conoscenza che l’umanità da tempi immemorabili chiama ‘sapere’. Ci ha costruito sopra anche la storia dell’Eden e dei nostri progenitori.
Attualmente, la conoscenza è considerata una delle risorse più preziose, da gestire in modo efficiente ed efficace, così che ognuno ne possa ricavare il massimo profitto personale.
Per questo, oggi, sono tante le città a livello mondiale che rivendicano di essere città della conoscenza, mentre, nello stesso tempo, altre città stanno elaborando strategie e piani di azione per divenirlo.
Sarà la cultura della condivisione delle conoscenze a sconfiggere il sovranismo, come unico passaporto delle città per poter dialogare tra loro, sia nella rete europea che in quella mondiale.
Il concetto di città della conoscenza è molto ampio e si riferisce a tutti gli aspetti della vita sociale, economica e culturale di una città.
Si nutre della condivisione delle conoscenze tra cittadini, così come di un appropriato disegno di città, supportato dalle tecnologie dell’informazione, dai networks e dalle infrastrutture.
Di conseguenza, ogni sforzo per realizzare una città della conoscenza necessità della partecipazione attiva di tutte le componenti sociali, a partire dall’amministrazione locale, ai privati cittadini, alle organizzazioni, alle università.
Il punto di partenza però non può che essere una analisi approfondita della situazione da cui si muove, la definizione di una visione strategica e l’implementazione di un piano d’azione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PER CERTI VERSI
Nel tuo cuore

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

NEL TUO CUORE

Come si sta
Come si sta
nel tuo cuore
Una generazione
Di coccinelle
esce dall’atrio
di una mia nostalgia
E mi accompagna
alla fine del vento
Dove pulsa il tuo cuore
E apre la porta
Prepara un emomassaggio
E una canzone che parte
Si quella di Gesù
Che era un marinaio
Senza promesse
E sento il tuo calore
La tua ospitale danza
di globuli rossi
Come ribes alla panna
La tua memoria
che impreziosisce tutto
Poi i ricordi
Si imbarcano
Qualche volta
Guardano gli occhi
e fumano
È una grondaia
La tua aorta
Il resto è un fuoco
che alza la fiamma
Sui nostri baci
Ah che dolce
Che vago
Il tuo cuore.

DIARIO IN PUBBLICO
Alla Corte della Regina e in giro per l’Inghilterra

Certamente perdersi tra le vicende dei reali inglesi dona ancora un fremito che solo un certo tipo di giornali di cui mia mamma era ghiotta consumatrice sono capaci di provocare. Ma attenzione! Firme di grande rilievo aggiungono, in note stringate, il loro contributo alla storia regale che a me interessa solo per sapere – ma nessuno per ora dà notizia – quale è il grado di attaccamento dei pelosi reali, i Welsh corgi di Elisabetta, (tre ora in carica,) al principe ribelle.

Se anche la grande Natalia Aspesi, che fa arrabbiare l’amico Fiorenzo Baratelli per le sue non esaltanti recensioni filmiche – vedi quello a Tolo Tolo di Checco Zalone – traccia su La Repubblica un delizioso ritratto della coppia ingrata, e perfino il serio e a volte serioso Enrico Franceschini non si sottrae alla Megxit, bisogna davvero ammettere che il Regno Unito sta suscitando veri terremoti politici, sia con le azioni del furioso Primo Ministro dotato di una parrucchetta polendina notevole, sia per altri effetti più seri provocati dalla per me improvvida uscita dal concerto europeo. Non ultima risuona la minacciosa proposta di eliminare l’ Erasmus che garantiva, e ancora garantisce la possibilità di studiare in tutti gli stati europei – e non solo – attraverso questa provvidenziale regola d’accesso. Mi intristisce poi ricordare i frequentissimi viaggi e soste ad Oxford tra amici preziosi quali Federico Varese e Marco Dorigatti ormai lontani come s’allontana l’isola dei sogni intellettuali. Ma la zampata del leone britannico è sempre potente. Si veda l’ultima opera di Ken Loach, Sorry We Missed You, che considero uno dei più straordinari film prodotti negli ultimi anni.

E allora mi lascio trasportare tra i pettegolezzi di Corte che rafforzano l’idea presso i sudditi dell’importanza fondamentale della monarchia britannica, necessariamente scossa dai fatti che ne rinverdiscono il ruolo: da Lady Diana alla più antica vicenda di Wally Simpson, fino alle scelte di Harry il Rosso, di pelo ma non di idee, benché abbia sposato un’afroamericana.

Applaudo frattanto alla bellissima mise en scène proiettata sulla facciata della Cattedrale che dovrebbe, almeno perseguendo quell’idea, sostituire l’ormai insostenibile e noioso incendio del Castello che continuo a ritenere pericoloso e datato nella sua ipotetica ‘scandalosità’. S’annuncia un ricchissimo anno artistico sul quale sospendo il giudizio finché ne vedrò l’attuazione e i modi, mentre come il rintocco di un (piccolo) rimbombo beethoveniano s’avvicina il voto e la conseguente sorte dell’ un tempo rossa Emilia-Romagna. Ah la politica….

Ed ora, conclusa questa pausa diaristica concessa al mio amato Ferraraitalia ritorno ai seri lavori tra un d’Annunzio, di cui parlerò la settimana prossima nell’amatissima città a Cà Foscari, alle visite improrogabili a Milano, ormai capitale dell’arte, alle mostre di Canova e Thorvaldsen allestita dall’amico Mazzocca a quelle di de Chirico, de Pisis, e a quella della ‘ferrarese’ Francesca Cappelletti su Georges de la Tour .

E’ vero, però, che tenere in moto il cervello fa benissimo alla salute! Così è se vi/mi pare…

Vite semplici, luoghi straordinari

Tra ambienti perduti e spazi riqualificati, camminare oggi nel complesso dell’Abbazia di Pomposa ci riporta indietro nel tempo fino al Medioevo. Sembra quasi di poter vedere la vita quotidiana dei frati che qui vivevano, qui pregavano, qui cantavano.

Il chiostro rappresentava per loro tutti il centro dell’intera giornata, come nei classici monasteri benedettini. Grazie a delle carte d’archivio, le studiose e gli studiosi sono in grado di ricostruire l’antica conformazione dell’abbazia, mettendola a confronto con ciò che è rimasto. Ai nostri giorni è sopravvissuto il tracciato del chiostro maggiore, attorno al quale si estendono la chiesa di Santa Maria, la sala del Capitolo, la sala delle Stilate e il Refettorio. Sono invece scomparsi altri elementi, come la Torre Rossa o dell’abate e una piccola chiesa dedicata all’arcangelo Michele. Fu l’abate più cruciale per Pomposa, San Guido, ad aver voluto e immaginato il chiostro ora perduto, in occasione dei grandi lavori che portò avanti nell’XI secolo. Questo in seguito subì modifiche che lo dotarono di nuovi materiali architettonici e grazie a tracce scolpite nella pietra è ancora possibile stimare quanto grande dovesse essere. Lungo il lato meridionale corre dunque l’antico Refettorio dei frati, al cui interno esisteva anche un refettorio piccolo, che divenne poi abitazione del parroco. A inizio Trecento la struttura fu sopraelevata, ma con il trascorrere dei secoli l’incuria determinò, tra l’altro, il crollo della sua copertura, provocando la sua trasformazione in un cortile di servizio dell’abitazione parrocchiale. Fortunatamente una parete, quella orientale, venne salvata da una tettoia, ed è per questo che a noi è giunto lo spettacolo degli affreschi sopravvissuti, aventi come tema la situazione della mensa: l’Ultima Cena, narrata dai Vangeli, avviene attorno a una tavola rotonda ed è catturata proprio nell’istante in cui il traditore Giuda ha già iniziato a mangiare, ma vede come propria controparte un’altra cena, questa volta molto più vicina ai frati, perché accaduta realmente a Pomposa. Si tratta del miracolo della mutazione dell’acqua in vino da parte di San Guido, verificatosi al cospetto dell’arcivescovo di Ravenna Gebeardo, tra la meraviglia delle persone al suo seguito e la tranquillità dei monaci, ormai abituati alle sante gesta dell’abate. Accanto al Refettorio, ecco la sala delle Stilate, cioè i pilastri addetti a sorreggere qualcosa. E’ di forma rettangolare e risale ai cambiamenti architettonici del XIII e XIV secolo, tuttavia non è mai stata chiarita la sua effettiva funzionalità. Forse un magazzino, visto il suo aspetto rustico? Ma se un magazzino avrebbe avuto poco senso collocato nel chiostro maggiore di un monastero, sembra probabile che la funzione della sala variò con il tempo. Proseguendo lungo il lato orientale, si incappa nella suggestiva sala del Capitolo, la cui bellezza è segnalata già dalla porta di ingresso. Anch’essa nacque dalle innovazioni trecentesche ed era il luogo deputato alle riunioni dei monaci, intenti qui a meditare su un capitolo alla volta della Regola di San Benedetto. L’aula custodisce preziosi affreschi attribuiti alla scuola giottesca padovana, affreschi che mostrano una qualità talmente elevata che per molto tempo si pensò fossero mano dello stesso Giotto. Il cosiddetto Maestro del Capitolo fece sua la nuova concezione dell’arte impressa nella Cappella degli Scrovegni, facendola fiorire anche a Pomposa. E dopo aver lavorato, mangiato, letto e meditato, un buon riposo era d’obbligo per i monaci: il vasto e umile dormitorio, suddiviso in piccole celle e originariamente dipinto, era situato sopra il Capitolo, e lì oggi si trova il prestigioso Museo Pomposiano. A Occidente, fa infine mostra di sé il Palazzo della Ragione, dove l’abate esercitava la giustizia civile sui territori soggetti all’abbazia. Era in origine dentro le mura di cinta e collegato alle altre strutture da un loggiato e un cortile. Del suo iniziale aspetto quasi nulla rimane.

Il 1152 fu però un anno diverso dagli altri. Una crisi idrogeologica causò infatti la scomparsa dell’Insula pomposiana e diede così avvio a una progressiva decadenza, interrotta soltanto dalla sete di conoscenza e dal bisogno di valorizzare propri di questo tempo.

Haiti: l’orrore dopo il terremoto
Le colpe del colonialismo del terzo millennio

Non bastava quel tragico terremoto del 2010 con 230.000 morti e 300.000 feriti. ri: dieci anni di disordine, paura, precarietà, indigenza. Gli anni post catastrofe sono stati per Haiti altrettanto duri.
Era il 2004 quando prese avvio la missione di pace dei Caschi Blu, anche se la parola ‘pace’ è messa seriamente in discussione dai fatti di violenza emersi in tutta la loro gravità dopo il 2017, anno del rientro nei rispettivi Paesi dei contingenti dell’ONU. Il numero imprecisato (si parla di centinaia) ma comunque elevato di bambini nati da soldati della missione e madri haitiane, risultato di stupri e abusi, abbandonati dal padre una volta rientrato in patria e spesso anche dalla madre, è quanto si sono lasciati alle spalle coloro che erano arrivati per difendere, rassicurare, preservare.
La speranza di quella popolazione, trasformata in orrore puro. La missione doveva ripristinare ordine nel regime di anarchia, dopo che gli Stati Uniti avevano deportato il presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide ed era guidata dall’esercito brasiliano con 2366 soldati, 2533 poliziotti, un migliaio di impiegati civili di 19 Stati, tutti dislocati in 10 basi diverse dell’isola caraibica. Provenivano da Cile, Uruguay, Argentina, Brasile, affiancati anche da soldati di altra provenienza, come Sri Lanka, Pakistan, Canada. L’Ufficio delle Nazioni Unite per i servizi di sorveglianza interna (OIOS) ha indagato e concluso che “gli atti di sfruttamento e abuso sessuale (contro minori) erano frequenti e di solito avvenivano di notte e praticamente in tutti i luoghi in cui era stato dispiegato personale contingente”. Si tratta di violenze su bambine e giovani, per qualche spicciolo o un piatto di cibo.
Già nel novembre 2007, 114 appartenenti al contingente dello Sri Lanka furono accusati di comportamenti sessuali inappropriati e abuso di 9 bambini. Vennero allontanati ma non sottoposti a giudizio. Nel marzo 2012, tre ufficiali pakistani vennero condannati per lo stupro di un ragazzo di 14 anni con problemi mentali a Gonaïves. Molte donne, ragazze e bambine hanno contratto l’AIDS e, in moltissimi casi, una volta rimaste incinte sono state abbandonate o allontanate dalle loro famiglie. Giovani vite rovinate per sempre, lasciate al loro destino. Pochissimi ‘padri’ che hanno aiutato le madri dei loro figli, hanno smesso di farlo una volta rientrati in patria.
Le alte gerarchie militari e gli organi preposti degli Stati coinvolti si giustificano ammettendo come sia difficile il controllo dei comportamenti dei soldati e altrettanto difficoltoso sanzionare chi è coinvolto. Tutto ciò è un po’ troppo per una popolazione che paga da una vita le conseguenze di un colonialismo selvaggio: da sempre sballottati tra proprietari terrieri francesi, mercanti di schiavi spagnoli, flotte britanniche, con le interferenze degli Stati Uniti nella politica locale e un’opinione pubblica internazionale – anche la ‘civile’ Europa – che, passata l’emergenza e l’onda di aiuti umanitari, abbassa l’attenzione. Uragani, massacri, epidemie di vaiolo, guerre civili e disordini, barricate, rivolte, saccheggi e confisca di risorse da parte dei colonizzatori: ecco la storia di un popolo provato e tuttora in ginocchio.
Anche in questi giorni domina il caos nell’isola e la protesta contro il presidente Jovenel Moïse ha raggiunto toni drammatici. Atti vandalici, estrema insicurezza, manifestazioni, incendi dolosi rendono il clima pesante e nei centri abitati è pericoloso circolare a causa dei proiettili vaganti che hanno già mietuto parecchie vittime. Conseguenza dell’aumento vertiginoso della circolazione di armi e del loro uso indiscriminato. Una rivolta di proporzioni enormi contro disoccupazione, esclusione, impunità e criminalità, corruzione, eccessiva spesa pubblica ingiustificata, deterioramento del potere, repressione, enorme divario tra pochi ricchi e il resto della popolazione in grave indigenza, brogli elettorali e un’inflazione insostenibile.
A Port-au-Prince nessuno si sente al sicuro. Gli haitiani non possono accedere ai beni di prima necessità per la loro stessa sopravvivenza perché materie prime come riso, farina, mais, fagioli, zucchero e olio vegetale hanno avuto un rincaro sul prezzo del 34% solo nell’ultimo anno. Ad Haiti si muore di fame e le vittime sono prime fra tutti i bambini al di sotto dei 2 anni. Medici e staff sanitari denunciano l’alto livello di denutrizione e alto rischio di mortalità. Ignorare tutto ciò, girarsi dall’altra parte, osservare senza fare nulla sono i peccati capitali che ci affliggono ed evidenziano il lato peggiore di un’umanità che ha fatto dell’insensibilità e del cinismo la propria bandiera.

 

PER CERTI VERSI
Silenzio Alfa

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

SILENZIO ALFA

Ogni tanto vedevo spuntare tra le sedie
Il tuo sorriso
Di conferma
Che c’eri
Eri lì per me
Qualche volta
Da dietro le spalle dei convenuti
Lampeggiavano
I tuoi occhi notturni
Per guardarmi se fossi davvero io
La mia voce a diffondere parole amiche
Poi ci siamo persi tra le persone fino al suono di chiusura
Ci siamo rivisti
Nella sala ormai vuota
Ti ho presa da parte
Fino a un angolo
Dove le parole si sono interrotte
Sono rimasti gli occhi
E due silenzi
Cosi accordati
Da suonare un pezzo memorabile
Raccontando quanti sacchi fossero pieni
E che fuori
Ci aspettassero
Due treni

Il popolo che nascose un tesoro

Già per gli antichi era un interrogativo senza risposta. Si ritenevano etnicamente estranei rispetto a ogni altra popolazione italica preromana, ma la loro origine stimolò da sempre la fantasia di scrittori e intellettuali.
Erodoto, considerato il padre della storiografia, li ritraeva come eredi di un popolo anatolico, giunto in Italia al seguito di un mitico capostipite, Tirreno. Il retore Dionigi di Alicarnasso era invece pronto a giurare sulla loro autoctonia, mentre il romano Tito Livio era convinto di una provenienza dall’Europa centrale. Dai miti di Tagete e Tarchon si può intravvedere come gli stessi Etruschi immaginassero la questione. Il dio Tagete, indigeno perché nato dalle zolle, fu colui che trasmise loro le norme aruspicali, arte che sempre identificò gli Etruschi con la capacità di interpretare i segnali del divino. Tarchon, invece, sarebbe stato il fondatore di Tarquinia e altre città coeve. Forse in origine doveva trattarsi di una figura unica, ma quando sarebbe avvenuto tutto ciò? Gli eruditi etruschi calcolavano di essere comparsi nel X secolo a. C., eppure le loro considerazioni e convinzioni su se stessi non lasciavano indifferenti gli altri popoli. Furono i Greci a inventare nuove ipotesi sul loro conto. La teoria più antica li voleva come i discendenti più numerosi dei Pelasgi, abitanti dell’Ellade che si sarebbero diffusi in varie aree del Mediterraneo. In seguito, da omofonie casuali e accostate fra loro, nacque una ulteriore ipotesi, appoggiata da Livio, che prevedeva la provenienza etrusca dalla Lidia, ma in realtà spesso le due teorie finirono per sovrapporsi nei secoli seguenti. Nessuna di queste, tuttavia, viene oggi appoggiata in maniera esclusiva da chi si occupa di etruscologia, la scienza che li studia scientificamente. Prendendo in considerazione la loro lingua, è possibile mettere in conto, piuttosto che una provenienza antica dagli italici Villanoviani o dalle genti locali dell’Età del Bronzo, una tarda migrazione da Settentrione o per mare. Inoltre, la prima arte etrusca, di epoca recente, avrebbe una chiara ispirazione orientale, forse per rapporti commerciali in fase avanzata. Che siano, dunque, venuti da Nord o per mare, risulta fuor di dubbio che dal IX secolo, in questa zona della penisola, fiorì la civiltà del Ferro, che grazie a un processo di mescolanza e acculturazione diede vita a una koinḕ etrusco-italica. Dai territori primigeni della Toscana e del Lazio settentrionale, l’Etruria tirrenica, fin dai tempi più antichi vi fu un allargamento in più direzioni: la Campania e la Pianura Padana, dove sarebbero state fondate delle mitiche dodecapoli, ovverosia insiemi di dodici città, simili a quella presente sin dalle origini in Etruria. La terra bagnata dal Po sarebbe servita, lo si intuisce, per il rifornimento di nuove aree da adibire a campi agricoli, almeno agli inizi. Da metà VI secolo a. C., poi, la presenza urbana nella nuova Etruria padana si accrebbe sempre più, e questa terra fu teatro di una riorganizzazione generale, proprio mentre il predominio sul Tirreno iniziava a sfiorire. Le vie di scambio con i mercati d’Oltralpe subirono dei potenziamenti e nuove città legate da stretti contatti sorsero indisturbate. Spina, porto cosmopolita che vorrebbe non a caso significare “nave”, fu una di queste, e i suoi resti sono oggi custoditi nel Museo Archeologico di Ferrara, presso il Palazzo Costabili. Ma non tutto è stato ancora scoperto, e chi vive nei territori dell’antica Spina lo sa bene. Mancherebbe tuttora all’appello il magico talismano che avrebbe consentito alla città spinetica di divenire così famosa e prosperosa, un amuleto che persino il mare avrebbe invidiato, portandolo a tentare di invaderla, inutilmente. Non vi fu resa, tuttavia, e finalmente il mare, tentando e ritentando, prima o poi ce la fece: il ragno d’oro, posto sulla porta d’ingresso, non riuscì stavolta a difendere la sua ragnatela, che proteggeva Spina. E l’acqua la invase. Per ripicca, però, il ragno fece sprofondare la città nella palude, sotterrando persone e ricchezze.
E chissà, perché no, sotterrando anche se stesso, in attesa che il sogno, un giorno, diventi realtà. Come l’antica città di Spina.

 

Museo Archeologico Nazionale di Ferrara
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Quando il bambino era bambino…
In margine al Nobel assegnato a Peter Hanke

“Als das Kind Kind war…”. Il Cielo sopra Berlino, il film capolavoro di Wim Wenders, si apre con il primo piano di un foglio di carta, una mano con una biro scrive una riga sotto l’altra, fuori campo la voce di Bruno Ganz recita una poesia struggente e strepitosa, ‘la canzone dell’infanzia’ di Peter Handke.

Bruno Ganz è l’angelo Damiel che, con il compagno Cassiel, guarda dall’alto una brulicante Berlino in bianco e nero. Ma i due angeli si mischiano alla folla, entrano nella biblioteca verticale, sentono  i pensieri segreti degli umani, ascoltano impotenti il loro dolore. Ecco, ora è sul ponte sulla Sprea, appoggia la mano invisibile sulla spalla del suicida. L’angelo Damiel si innamora di una donna – e sempre più si innamora della debolezza degli umani –  decide di rimanere a terra, per sempre, senza ali.

A febbraio di quest’anno Bruno Ganz ha lasciato la terra degli uomini. E il 10 dicembre – tra molte polemiche – l’Accademia di Stoccolma ha consegnato il Nobel della Letteratura per l’anno 2019 a Peter Handke, per “la sua opera influente che ha esplorato con ingegnosità linguistica la periferia e la specificità dell’esperienza umana”. Confesso di essere un appassionato lettore del grande scrittore austriaco, di tutta la sua opera, dai primi romanzi sperimentali come ‘Prima del calcio di Rigore’, al terribile “infelicità senza desideri’, a “La donna mancina’, ai romanzi-saggio degli ultimi decenni. Ai diari di viaggio. Alle opere per il teatro. E naturalmente la poesia, su cui Handke continua ancora oggi la sua ricerca (sul senso e sul potere della scrittura) iniziata più di trent’anni fa.

Scelgo qualche verso dal suo ultimo poema ‘Il canto della durata’.

“Inutile forse dire
che la durata non nasce
dalle catastrofi di ogni giorno,
dal ripetersi delle contrarietà,
dal riaccendersi di nuovi conflitti,
dal conteggio delle vittime.
Il treno in ritardo come al solito,
l’auto che di nuovo ti schizza addosso
lo sporco di una pozzanghera,
il vigile che col dito ti fa cenno
dall’altro lato della strada, uno con i baffi
(non quello ben rasato di ieri),
la morchella che ogni anno rispunta
in un angolo diverso nel folto del giardino,
il cane del vicino che ogni mattina ti ringhia contro,
i geloni dei bambini che ogni inverno
tornano a pizzicare,
quel sogno terrorizzante sempre uguale
di perdere la donna amata,
l’eterno nostro sentirci improvvisamente estranei
fra un respiro e l’altro,
lo squallore del ritorno nel tuo paese
dopo i tuoi viaggi di esplorazione del mondo,
quelle miriadi di morti anticipate
di notte prima del canto degli uccelli,
ogni giorno la radio che racconta un attentato,
ogni giorno uno scolaro investito,
ogni giorno gli sguardi cattivi dello sconosciuto:
è vero che tutto questo non passa
– non passerà mai, non finirà mai –,
ma non ha la forza della durata,
non emana il calore della durata,
non dà il conforto della durata.”

Molti intellettuali (non tutti per fortuna), molti politici e uomini di stato (compreso il dittatore Erdogan), e i media – quasi senza distinzione – hanno vivacemente contestato la scelta dei giurati del Nobel. L’accusa a Peter Handke – parlo di chi si è almeno documentato, non degli ignoranti che gli hanno buttato addosso gli epiteti più ingiuriosi: revisionista, fascista, filonazista – è di essersi schierato dalla parte della Serbia durante il conflitto fratricida della ex Jugoslavia. Fino al punto di presenziare a Požarevac (senza lacrime, ma con “poche parole di debolezza”) ai funerali dell’ex presidente Milošević, condannato per crimini contro l’umanità dal tribunale dell’Aia.

Sono andato a leggermi quanto Handke ha detto e scritto durante e dopo la guerra jugoslava. Non ho trovato nessun indizio di quella indegnità morale di cui viene accusato il grande scrittore e poeta austriaco. Nessun panegirico del presidente e dittatore serbo, Nessuna parola di giustificazione per il massacro di Srebrenica  e degli altri atti di pulizia etnica. Handke contesta che la colpa ricada solo sul popolo serbo, e cita gli episodi di atrocità messi in atto dalle altre parti in lotta e in particolare dai croati. E mette sotto accusa l’Europa, la sua incapacità (non volontà) di evitare il conflitto (per interessi, anche economici, poco nobili, soprattutto della Germania), un Occidente (Nato in testa) che ha preferito lavarsi le mani, assistere alla disgregazione della Jugoslavia, prendere Milosevich e la Serbia come unico capro espiatorio e, dopo la guerra, raccogliere i cocci, annettendosi economicamente Slovenia e Croazia.

Conosco poco – come tutti del resto – della sanguinosa guerra della ex Jugoslavia, ho capito però che è stata qualcosa di molto più grande e complesso di quanto ci ha raccontato la storia ufficiale. Si può essere in disaccordo con Handke, rifiutare la sua nostalgia per la vecchia Jugoslavia che univa (sotto un unico tallone) popoli diversi, ma non lo si può accusare di indegnità. La sua è una voce fuori dal coro. Una voce intima e sofferta, una voce scomoda, interrogante. La stessa voce profonda che anima tutta la sua opera letteraria.

Forse, invece di criticare l’assegnazione del premio a Peter Hanke, andrebbe criticato (e abolito) lo stesso Premio Nobel. Un premio nato male – con il suo lascito il geniale plurimiliardario Alfred Bernhard Nobel intendeva ripulire il suo nome dalla dinamite e dalla nitroglicerina –  e gestito da una giuria paludata e poco credibile. Non si contano infatti le clamorose cantonate cui è andata incontro, soprattutto per quanto riguarda il controverso Nobel per la Pace.

Non abbiamo bisogno di premi – piccoli, medi o grandi – per apprezzare l’opera di un grande scrittore o di un grande scienziato. Non abbiamo bisogno di stupide classifiche. E non abbiamo bisogno del Nobel – il premio più danaroso, altro che ‘prestigioso’ – per valutare un grande narratore e poeta come Peter Handke. Basta aprire a caso una sua pagina. Tornare, ad esempio, alla voce di Bruno Ganz, al “bambino quando era bambino’ con cui Handke racconta la meraviglia di una infanzia lontana ma che mai ci abbandona.

“Quando il bambino era bambino,

se ne andava a braccia appese.

Voleva che il ruscello fosse un fiume,

il fiume un torrente;

e questa pozza, il mare.

Quando il bambino era bambino,

non sapeva d’essere un bambino.

Per lui tutto aveva un’anima, e tutte le anime erano tutt’uno.

Quando il bambino era bambino,

su niente aveva un’opinione.

Non aveva abitudini.

Sedeva spesso a gambe incrociate,

e di colpo sgusciava via.

Aveva un vortice tra i capelli,

e non faceva facce da fotografo.

Quando il bambino era bambino,

era l’epoca di queste domande.

Perché io sono io, e perché non sei tu?

Perché sono qui, e perché non sono lí?

Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?

La vita sotto il sole, è forse solo un sogno?

Non è solo l’apparenza di un mondo davanti a un mondo,

quello che vedo, sento e odoro?

C’è veramente il male e gente veramente cattiva?

Come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare?

E che un giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?

Quando il bambino era bambino,

per nutrirsi gli bastavano pane e mela,

ed è ancora cosí.

Quando il bambino era bambino,

le bacche gli cadevano in mano,

come solo le bacche sanno cadere, ed è ancora cosí.

Le noci fresche gli raspavano la lingua, ed è ancora cosí.

A ogni monte, sentiva nostalgia di una montagna ancora più alta,

e in ogni città, sentiva nostalgia di una città ancora più grande.

E questo, è ancora cosí.

Sulla cima di un albero,

prendeva le ciliegie tutto euforico, com’è ancora oggi.

Aveva timore davanti ad ogni estraneo, e continua ad averne.

Aspettava la prima neve, e continua ad aspettarla.

Quando il bambino era bambino,

lanciava contro l’albero un bastone, come fosse una lancia.

E ancora continua a vibrare.”

Peter Handke, dal film di Wim Wenders, Il cielo sopra a Berlino