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Moni Ovadia, perché Ferrara?

Arte e cultura da sole non fanno una Città della Conoscenza, almeno per come è intesa dalla letteratura in argomento. Si può essere città d’arte e cultura senza mai giungere ad essere compiutamente una Città della Conoscenza.
Una città della Conoscenza è tale nella misura in cui è in grado di attrarre, per le opportunità che offre, talenti nell’ambito dell’arte, della cultura, della ricerca e delle scienze.
Se questo accade, non lo si può che salutare con grande soddisfazione, l’avvento non può che essere carico di promesse e la cittadinanza tutta si arricchisce di una importante risorsa.

Se un artista, uno scienziato, un ricercatore eleggono una città come luogo del loro lavoro, come ambiente più idoneo ad esprimere se stessi, significa che in quella città hanno trovato condizioni, atmosfere, relazioni, strutture e clima confacenti con il proprio impegno artistico o scientifico.
Se questo è, benvenuto allora Moni Ovadia nuovo direttore del nostro Teatro Comunale.
Vuol dire che la città ha lavorato bene nel tempo, fino a giungere ad esercitare attrazione nei confronti di artisti della caratura di questo grande “ebreo errante”, non possiamo che esserne riconoscenti ed orgogliosi al contempo.

Non è più tempo di mecenati e protettori. Anzi i ruoli si sono invertiti, i mecenati e i protettori di oggi premono per poter accedere alla corte dell’artista.
Governo e amministrazione di Genova hanno dovuto chiedere accesso alla corte dell’archistar Renzo Piano per ricostruire il ponte Morandi.
Pensare che arte, cultura, ricerca e scienza possano essere ricondotte a una parte piuttosto che a un’altra, è un’idiozia dura a morire. Qualcuno di memoria corta ha dimenticato le lezioni apprese dal ventesimo secolo relativamente al rapporto tra arte, cultura, scienza e regimi.

L’espressione del genio umano non conosce biografie e confini. Sono tempi preoccupanti questi in cui si evocano tribunali dell’inquisizione nei confronti di uomini e donne che, a prescindere dal valore delle loro opere, dal contributo dato all’intera umanità, si vorrebbero condannare all’ostracismo per le eresie della loro biografia.
I prodotti del genio umano, se pure portano un nome e cognome, sono destinati ad essere resi impersonali dallo spazio e dal tempo che se ne impossessano per trasformarli in patrimonio universale a disposizione  di tutti.
Nella produzione del genio umano c’è il capolavoro della sorpresa, della meraviglia, del passo avanti rispetto a dove eravamo, dello sguardo che improvvisamente si accorge di non vedere e altrettanto improvvisamente, per un insight, riacquista la vista.

L’epoca dell’indottrinamento, dei Concili di Trento, delle culture di destra e di sinistra, dei regimi non dovrebbe appartenerci più, neppure sfiorarci il pensiero che l’opera del genio umano possa rientrare nelle categorie di destra e di sinistra, categorie che semmai appartengono al modo di vedere dello spettatore, che non è né artista né scienziato. Di questo spettatore dobbiamo sospettare, come dei ‘muttandari’ del Giudizio universale. L’arte e la scienza sono le vittime privilegiate di personaggi come il sapiente, a cui Brecht nel suo Galileo fa dire: “Aristotele è l’autorità riconosciuta non solo da tutta l’antica sapienza, ma anche dai grandi padri della chiesa”. È qui che nasce il cancro del rapporto tra potere e cultura, tra potere e conoscenza.

Ognuno è libero di interpretare la realtà come più gli aggrada, di accarezzare le ricette che ritiene più opportune per risolvere le contraddizioni e i conflitti del mondo. Può pure pensare che essere ‘mutandaro’ è moralmente più sano e formativo del lasciare che l’opera d’arte si esprima per quello che è, come atto creativo di libertà e di liberazione.
Ma tutto questo è ininfluente, perché la forza dell’arte e della scienza non ha confini, sopravvive e si trasforma in cultura e conoscenza per nuove sfide. È il motivo per cui possiamo ammirare tranquillamente il Giudizio Universale di Michelangelo, come le opere di De Pero, che certo non è ricordato per il suo libro A passo romano, così come il palazzo dei Congressi all’Eur.

Arte e scienza, la cultura, non hanno visioni del mondo a cui aderire, perché il loro compito, per fortuna è quello di nutrire il dubbio, di saper guardare oltre le visioni del mondo che condizionano i nostri occhiali e di offrirci lenti nuove. Poi ognuno è libero di usarle o meno, ma ormai quelle lenti sono state prodotte e nonostante le censure delle proprie visioni di destra o di sinistra, quelle lenti appartengono per sempre alla umanità e alla sua storia.
Se c’è ancora qualcuno che si dilania tra una cultura di destra e una di sinistra lasciamolo alle sue pratiche autolesioniste.
Noi crediamo nel valore dei valori, nell’etica del peso della responsabilità, dove portano a far pendere la bilancia le condotte di ciascuno di noi.

C’è una domanda che ancora è senza risposta, ed è quella da cui ha preso avvio il nostro articolo. Una domanda alla quale non si trova risposta nell’intervista che Moni Ovadia ha rilasciato al quotidiano Libero. Perché Ferrara. Perché la nostra città. In sostanza che cosa della città l’ha condotto tra noi.
Una domanda che ne suscita altre.
Il Moni Ovadia ‘intellettuale’ abiterà con noi, o sarà il ‘consulente’ pendolare pagato dall’amministrazione? Contribuirà a fare della nostra città una capitale della conoscenza che dialoga con le altre capitali? Il discorso si è concluso nel triangolo Fabbri, Sgarbi, Ovadia, o è solo l’inizio per la città di una nuova dialettica?

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Cover: Moni Ovadia a Siena, aprile 2010 (Wikicommons)

FATMA E I RAGAZZI DEL PD:
Come è rinata la politica in via Ortigara

“Il mio nome? Mio padre fece la guerra in Libia e mi raccontò che durante una giornata di riposo, una giornata caldissima, una ragazzina gli offrì una brocca di acqua. Dopo aver bevuto ed essersi così dissetato le chiese come si chiamasse. Fatma era il suo nome. Quando nacqui, il 27 aprile del 1949, volle chiamarmi così!”.

Ho incontrato Fatma per la prima volta alcuni mesi dopo le ultime disastrose elezioni comunali.
Di ritorno dalla mia abituale camminata serale, passando per via Ortigara, avevo notato infatti che la sede del Circolo del Pd era ancora aperta e dentro si trovava una distinta signora seduta dietro ad una scrivania.

Entro e dichiaro subito di non avere un bisogno particolare da soddisfare, ma di essere stato invogliato dal semplice fatto di aver visto la sede ancora aperta, spinto soprattutto dal desiderio di voler  scambiare qualche parola sull’esito della sconfitta elettorale nella competizione cittadina per il nuovo sindaco.
Fatma, questo il nome della signora dietro la scrivania, non si mostra per nulla sorpresa della mia richiesta, mi accoglie con un bel sorriso aperto e mi invita cordialmente  ad accomodarmi.

Cominciamo a parlare conversando amabilmente come se ci conoscessimo da tempo.
Dopo un veloce scambio di sarcastiche battute sull’attuale giunta e sulla consistenza dell’opposizione in consiglio comunale, il discorso si allarga fino ad arrivare alle ragioni della sua presenza lì, nel circolo del PD.

Ascolto la sua storia con grande interesse mentre racconta dell’inizio del suo impegno, a quando nel 2015 cioè il Circolo  era ancora chiuso. Mi spiega che abitando da queste parti si trovava infatti a passare qui di fronte praticamente tutti i giorni e vedere la sede del suo partito con la saracinesca perennemente abbassata proprio non riusciva ad accettarlo.
Mentre racconta, la luce dei suoi occhi mi comunicano una grande determinazione, una forza e una tenacia che le sono servite per riuscire da sola a convincere il partito a riaprire il Circolo!
Tanto fece che la sede di via Ortigara riapre i battenti nel 2015 con la sua presenza garantita inizialmente almeno per una volta alla settimana, poi per tre volte, fino ad oggi.

“Come sei venuto tu questa sera”, continua a raccontarmi, “in questi anni molte persone si sono avvicinate, hanno visto la luce accesa e sono entrate per chiedere informazioni, per scambiare opinioni o anche solo per un breve saluto.”
Nel frattempo il clima politico è cambiato, la zona GAD è diventata territorio di scontro ideologico nella città, a cui Fatma e la realtà del circolo hanno risposto con una porta aperta a tutti, compresa la comunità di extra comunitari che nel frattempo ha preso residenza negli appartamenti  intorno.

Fatma, una donna da sola, insomma è riuscita a rendere concreta una realtà che riposa nel cuore di tanti, quella della presenza continua, non urlata, che si mette a disposizione, che ascolta, facendolo col sorriso sulla bocca e con le maniche rimboccate.
Ci salutiamo promettendoci nuovi incontri.
Ieri sono ripassato.
Fatma mi presenta Maria Teresa vicino ad un lungo tavolo stracolmo di generi alimentari.

Mi spiega che grazie all’impegno di Maria Teresa e di una decina di giovani del PD  la sede di via Ortigare  ha aderito all’iniziativa Solidarietà in circolo lanciata ai primi di dicembre da Nicola Zingaretti per la raccolta di generi di prima necessità a favore di famiglie bisognose di un  aiuto in più.

Fatma ha quindi fatto trovare aperto il Circolo tutti i giorni dalle 15 alle 19 dando così la possibilità a molti cittadini di portare il proprio contributo di solidarietà. Maria Teresa e i suoi amici in queste ore stanno confezionando i pacchi che porteranno a diverse organizzazioni di volontariato della città per la distribuzione poi alle famiglie interessate.
Sarà il Natale, sarà che sto invecchiando ma vedere questi ragazzi lavorare insieme a Fatma mi ha allargato il cuore, mi riconcilia con la Politica, quella vera, quella fatta di semplici gesti  quotidiani ,concreti fatti senza secondi fini solo per ribadire che abitiamo tutti insieme la stessa Terra, giovani e vecchi, italiani e  stranieri.

Saluto, ma non so ancora che mi sta aspettando una ultima sorpresa.
Mi offro per scrivere un articolo sulla loro bella iniziativa per Ferraraitalia. Ci scambiamo i contatti. Chiedo a Maria Teresa il suo cognome per appuntarlo sullo smartphone.
“Mantovani, Maria Teresa Mantovani” mi risponde. La guardo meglio, è la figlia di due amici, vista l’ultima volta  quando era piccolissima.

Colto di sorpresa cerco di evitare in primo luogo di riportare frasi stupide del tipo “ti ho visto nascere” e, mentre penso come continuare, è lei che mi dice di aver cominciato non da molto con la politica attiva, a frequentare il Circolo, quasi a continuare l’impegno politico del padre,  un impegno seriamente e tenacemente portato avanti per tutta la vita, fino alla comparsa di un problema di salute affrontato con lo stesso spirito.

A Fatma, a Maria Teresa e ai ragazzi del Pd  un grosso…grazie!

Quattro curiosità sul Natale

Approfitto dell’uscita settimanale della rubrica “Immaginario” per fare i più sentiti auguri a tutti i lettori e per raccontare quattro curiosità sul Natale.

1)Le origini del panettone
La storia della nascita del celebre dolce natalizio sfuma con la leggenda; sono due le storie che godono di maggior credito:

–Messer Ulivo degli Atellani, falconiere, abitava nella Contrada delle Grazie a Milano. Innamorato di Algisa, bellissima figlia di un fornaio, si fece assumere dal padre di lei come garzone e provò a inventare un dolce: con la migliore farina del mulino impastò uova, burro, miele e uva sultanina, per infornare poi il tutto. Fu un grande successo e qualche tempo dopo i due giovani innamorati si sposarono e vissero felici e contenti.
–Il cuoco al servizio di Ludovico il Moro fu incaricato di preparare un sontuoso pranzo di Natale a cui erano stati invitati molti nobili, ma dimenticò il dolce nel forno e quasi si carbonizzò. Toni, uno sguattero, gli venne in aiuto e propose una soluzione: con quanto era rimasto in dispensa (farina, burro, uova, della scorza di cedro e qualche uvetta) quella mattina aveva preparato dolce. In assenza di altro, si poteva portare quello in tavola. Il cuoco acconsentì titubante e si mise dietro una tenda a spiare la reazione degli ospiti. Tutti furono entusiasti e al duca, che voleva conoscere il nome di quella prelibatezza, il cuoco rivelò il segreto: «L’è ‘l pan del Toni». Da allora è il “pane di Toni”, ossia il “panettone”.

2)Perché ci si bacia sotto il vischio
Rintracciamo le origini di questa usanza nel mondo dei Celti.
La dea Freya, protettrice dell’amore e degli innamorati, era una tra le spose di Odino. I due ebbero come figlio Baldr, il quale era bello, buono e amato fra le divinità. Sua madre decise di proteggerlo chiedendo aiuto agli agenti naturali (Aria, Terra, Acqua, Fuoco), alle piante e agli animali. Tuttavia si dimenticò di rivolgersi al vischio, proprio perché quella pianta non viveva né in cielo né in terra e non sembrava pericolosa.
Fu così che il dio maligno Loki costruì un dardo appuntito proprio con il vischio e lo usò come arma per uccidere Baldr. Freya si mise a piangere sul cadavere del figlio, le sue lacrime diventarono le bacche perlacee del vischio e Baldr tornò in vita. Da allora Freya ringrazia chiunque si scambi un bacio passando sotto al vischio, dandogli la sua protezione nella vita amorosa.
Questa storia è sopravvissuta nei secoli fino ad influenzare la tradizione natalizia, secondo la quale baciarsi sotto al vischio è simbolo di amore e fortuna. In effetti, uno dei significati del Natale è anche questo: ricordarsi che ciò che vale di più nella vita non sono tanto le cose, ma le persone che amiamo!

3)La prima canzone cantata dallo spazio
Il 16 dicembre 1965, i due astronauti Walter Schirra e Thomas Stafford partirono a bordo della Gemini VI per concludere il primo attracco della storia ad un’altra navicella, la Gemini VII. Una volta attraccati, presi dall’euforia, fecero uno scherzo alla stazione di comando, lasciando un messaggio secondo il quale avrebbero avvistato un UFO. Dopo aver svelato la verità, intonarono la celeberrima Jingle Bells con l’ausilio di un filo di campanellini. In questo modo, proprio il famoso motivetto natalizio divenne la prima canzone cantata al di fuori dell’atmosfera terrestre.

4)Il più grande regalo di Natale
Si tratta della Statua della Libertà. Ideata e realizzata tra il 1880 e il 1886 da Frédéric Auguste Bartholdi, con la collaborazione di Gustave Eiffel che ne progettò gli interni, fu donata dai Francesi agli Stati Uniti d’America nel periodo natalizio come segno di amicizia tra due popoli e di commemorazione della Dichiarazione d’Indipendenza avvenuta un secolo prima.

SCHEI
Bancari e clienti di tutto il mondo, unitevi

I pompieri di Chicago Fire, famosa serie televisiva, spengono incendi in mezzo a strade innevate, al punto che il fuoco sembra essere l’unica fonte di calore di una città altrimenti gelida. E’ curioso che le teorie monetariste, di cui Milton Friedman è la punta di diamante, e la McKinsey, principale agenzia di consulenza sui modelli di business finanziario del secolo appena trascorso, abbiano entrambe la loro origine a Chicago (James Mc Kinsey, il fondatore, insegnava all’Università cittadina). Non a caso il filone monetarista di Friedman è chiamato anche “scuola di Chicago”. Evidentemente il clima di questa città, famosa per il suoi inverni rigidi, ha influito sul carattere di alcuni dei suoi abitanti, rendendo la spietatezza un tratto antropologico distintivo di una certa concezione dei rapporti economici, che trovano un paradigma nella dinamica di certe banche. Nel testo Strategic Management: A Stakeholder Approach, Edward Freeman diede la prima definizione degli stakeholders, vocabolo che abbonda sulle bocche degli amministratori delegati e banchieri: “soggetti senza il cui supporto l’ impresa non è in grado di sopravvivere”. Si tratta di una definizione che risale ai primi anni sessanta, ampliata poi in “portatori di interessi” e successivamente oggetto di una divaricazione di senso tra estremi opposti. Ad uno degli estremi, una concezione “etica” per cui l’impresa deve tenere conto delle conseguenze che le sue scelte hanno su soggetti (persone e ambiente) che non sono direttamente coinvolti nel processo di produzione. All’estremo opposto, una concezione “privatistica” imperniata sulla società per azioni. Milton Friedman (che, ricordiamolo, nel 1976 vinse il premio Nobel per l’economia) rifiutò l’idea di una responsabilità sociale dell’impresa. Friedman affermava che i manager sono agenti per conto terzi e dipendenti dei proprietari-azionisti e che devono agire nell’interesse esclusivo di questi ultimi. Utilizzare il denaro degli azionisti per risolvere problemi sociali, anche se l’impresa ne fosse in parte la causa, significherebbe fare della beneficenza con i soldi degli altri, senza averne il permesso. In questa concezione, non solo i portatori di interessi sono tutti dentro l’impresa, ma c’è una rigida gerarchia di importanza: gli azionisti vengono al primo posto (i grandi azionisti, meglio precisare).

Non è difficile dire quale concezione abbia prevalso in questi decenni. Ha talmente prevalso che un altro Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, ha detto che se non si abbandonano le teorie di Friedman, che danno luogo ad una ossessione tossica per i risultati a breve termine, non sarà possibile combattere le crescenti disuguaglianze. Ma senza allargare troppo il campo, rimaniamo in banca. Più volte su queste pagine, nel periodo Covid, abbiamo ricordato (e in qualche modo evocato) esperienze meritorie fiorite nella disperazione, come la Bank of Italy di Amadeo Peter Giannini, nata sulle macerie del terremoto di San Francisco del 1906 come la banca che dava fiducia agli immigrati italiani rimasti senza un soldo. Lo abbiamo fatto perchè la situazione attuale è quella di una economia che ripartirà sulle macerie di un gigantesco terremoto planetario di origine biologica. Il sistema bancario, comprese le regole che ne governano i processi, procede in maniera schizofrenica, e anche questo lo abbiamo già scritto: da una parte, regole che introducono una più sensata e minore ponderazione dei rischi di credito garantiti da stipendi e pensioni (le c.d. cessioni del quinto); dall’altro un inasprimento insensato delle regole che, dopo soli 91 giorni di un modesto sconfino, rendono il debitore un “cattivo pagatore”. I banchieri italiani, dal canto loro, muovono a grandi passi le loro strutture verso aggregazioni progressive miranti alla creazione di due o tre grandi poli bancari (Intesa San Paolo che ha incorporato UBI, Bper-Bpm, forse Unicredit-Monte dei Paschi). Queste megalopoli del credito potrebbero in effetti rafforzare la solidità patrimoniale degli istituti, ma si tratta di una eterogenesi dei fini, l’effetto involontario di un’azione intenzionale. E in cosa consiste l’azione intenzionale?

L’intenzione originaria appare quella di rafforzare la posizione dominante, nella scala di interessi, degli stakeholders ai quali pensava con amorevole premura Milton Friedman: i grandi azionisti. Come se ce ne fosse bisogno. Come se non fosse già così, come se gli altri due portatori di interessi (clienti e dipendenti) non fossero già abbastanza sacrificati sull’altare dei profitti. Tutti gli indici di redditività degli ultimi tre anni delle principali banche italiane segnano un incremento importante, nonostante il basso costo del denaro ed il conseguente modesto differenziale tra tassi attivi e passivi (la tradizionale fonte di guadagno per le banche) sia un dato ormai strutturale. Come è stato possibile? Basta leggere i numeri, ma siccome è noioso, un ottimo succedaneo è il commento ai risultati di bilancio di qualche banca. Quella che citiamo è Intesa, ma potrebbe essere anche un’altra: “…miglioramento della qualità del credito, aumento dell’efficienza puntando sui ricavi commissionali come principale voce di entrata”. Canoni dei conti, commissioni di istruttoria e di incasso rata sui prestiti, costi di ingresso sugli investimenti, retrocessioni sulle polizze.

Sarebbe un prezzo che si paga anche volentieri, se garantisse in generale l’intoccabilità del capitale investito dai clienti; se fosse in generale la contropartita di un incremento dei rendimenti riconosciuti; in sostanza, se le commissioni in aumento fossero il costo che si paga per una prestazione più efficiente. Sfortunatamente, i costi sono certi, i benefici incerti. La pressione assurda, spesso vessatoria, che alcune strutture esercitano sui dipendenti per collocare ai clienti prodotti ad alto ritorno commissionale rende impossibile la vita di molti bancari, ma non migliora quella dei clienti. A questo vanno aggiunte le sempre più ricorrenti inefficienze del sistema, aggravate dal fatto che ormai si verifica una fusione all’anno, ed i problemi di allineamento tra sistemi operativi causano disservizi che si scaricano sulla clientela per settimane o per mesi. Le banche sono ormai delle strade con l’asfalto sempre in manutenzione: dei cantieri costantemente aperti. Il rapporto tra costo e qualità del servizio è spesso drammaticamente inadeguato, ed apre la strada a soluzioni mordi e fuggi, ma di maggiore efficienza e rapidità, almeno in termini di risposta iniziale, con cui molti giganti del web si apprestano a cannibalizzare parte della clientela. Poco importa se la customer care del dopo vendita sarà inesistente: purtroppo anche quella delle banche si sta pericolosamente degradando.

I dipendenti e i clienti al dettaglio delle banche, quelli più colpiti dalla crisi, quelli a volte turlupinati da prodotti opachi o da aumenti di capitale mirati a scaricare sul risparmiatore il rischio di insolvenza dell’istituto, prima o poi la dovranno smettere di guardarsi in cagnesco, di diffidare gli uni degli altri, e comprendere che devono fare un pezzo di strada insieme. Prima succede, meglio è. Prima le associazioni di tutela dei consumatori la smettono di dare dei ladri ai bancari, meglio è. Prima i sindacati dei lavoratori la smettono di considerare i consumatori e le loro associazioni come dei nemici, meglio è. Se non si troverà il modo di saldare gli interessi dei due stakeholders deboli, ovvero clienti al dettaglio (rappresentati dalle loro associazioni e anche dalle istituzioni del territorio) e dipendenti, contro lo strapotere dello stakeholder forte (il capitale di rischio), il futuro delle fusioni bancarie sarà fonte di progressive espulsioni dal mercato dei lavoratori, di ulteriori restrizioni nell’erogazione di credito e di nuovi scandali finanziari.

PER CERTI VERSI
Cappelletti e farfalle

La proposta poetica di questa domenica riguarda un piatto della tradizione culinaria natalizia emiliano romagnola, ed in particolare ferrarese. Un simbolo dell’opulenza e di remote radici racchiuso nei versi di Tonino Guerra ai quali segue una mia poesia che riprende un breve ricordo del poeta romagnolo reduce dai campi di sterminio. Due proposte in forte contrasto ma di cui sono intessute la nostra vita e la nostra storia.

I CAPPELLETTI

Per me il tortello
è una pasta piena di pensieri.

In fondo tutte le paste ripiene,
i tortelli come i cappelletti
sono i sapori principali
che continuiamo a tenere in bocca.

Del resto tutti noi amiamo
la cucina delle nostre mamme
e nessuno può eguagliarle.
Ho sempre affermato
che noi mangiamo l’infanzia.

TONINO GUERRA

Guerra
Usciva dalla guerra
Dal kappazeta
Aveva una fame
Da Eta Beta
Vide una farfalla
Era bella
Viola rossa e gialla
Ma lui aveva fame
Si leccava i baffi
Sporchi di morte
Malefica la sorte
Poi sorrise
Si fermò
Fu una carezza
Nel cielo delle divise
Vinse la bellezza
Non la mangiò

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

Il sasso di Gino Strada

Ho l’impressione che molti italiani si siano stancati di guardare il telegiornale. Anche io, lo confesso, non ne posso quasi più. Colpa, per dirla con Berlusconi, del solito e un po’ rivoltante “teatrino della politica”. Dopo le cifre dei contagi, ricoverati e morti del giorno, dopo l’elenco delle disposizioni per le zone gialle arancioni e rosse, tutti i notiziari  si dedicano  appassionatamente alla cosiddetta  ‘attualità politica’: con una sfilza di dichiarazioni (proclami, sfide, annunci, minacce, promesse) del premier Conte e degli esponenti dei vari partiti. Sullo sfondo di questo teatrino, ci informano i cronisti, ci sarebbero le domande fatali che assillano il Paese: ci sarà la crisi di governo? Magari un rimpasto? Una nuova maggioranza? E chi entra e chi esce?
Naturalmente il Paese, cioè noi, i governati (ora comandati), si stanno ponendo tutt’altre e drammatiche domande. Il morbo che continua a infuriare e a mietere vittime (dentro e fuori dagli ospedali), lo spettro della povertà che continua ad avanzare (fanno fede le ultime cifre del Censis e della Caritas), il lavoro non c’è. Eccetera.
Fateci caso, nessun altro paese europeo esibisce lo spettacolo di un mondo della politica così autoreferenziale, così avulso dalla società reale, così insensibile al dovere di proporre soluzioni per una situazione che si è fatta via via più drammatica.
La lettera, bellissima e durissima, inviata da Gino Strada al quotidiano La Stampa venerdì scorso, mette a nudo la ‘vera verità’ sulle cause del flagello della pandemia nel nostro Paese.
Scrive Gino Strada: “Le riflessioni che sembravano urgenti nei primi mesi della pandemia paiono evaporate. Eppure è ormai evidente che la pandemia ha disvelato le gravi fratture in cui abbiamo vissuto negli ultimi anni. L’ambiente, il sistema economico, la Sanità dovrebbero essere argomento di dibattito quotidiano”. Una riflessione seria, un dibattito informato che risultano invece completamente assenti; dalla scena politica come dal circo mediatico.
Sul Covid e sulla gestione dell’emergenza sanitaria e sociale abbiamo invece assistito (e assistiamo ogni nuovo giorno) a una continua zuffa iper-politica. Lo scontro e il gioco dello scaricabarile fra Regioni e Stato Centrale. La rissa furibonda tra Governo (e dentro il Governo) e Opposizioni. Su cosa si poteva fare e non si è fatto. Su chi e quando e dove e come ha sbagliato: “Ma io l’avevo detto!”. “Non è vero, l’avevo detto prima io!”…
Intanto – i dati Covid ci vengono raccontati quotidianamente – in Italia continuano a morire ogni giorno svariate centinaia di persone: a cominciare come sempre dai più vecchi e dai più deboli. L’Italia si avvicina ormai ai 70.000 decessi e può fregiarsi di un tristissimo primato: nessun paese in Europa conta tanti morti quanto noi. Un solo esempio: la Germania, 83 milioni di abitanti, registra ‘solo’ 25.000 vittime: ma da sempre la Germania ha speso in proporzione molto più di noi per il suo Sistema Sanitario, i suoi ospedali, il suo personale, le sue sale di rianimazione.
Sicuramente degli sbagli – a Roma come in periferia – sono stati commessi in questi 10 mesi, ma la vera grande causa dell’ecatombe che ha colpito l’Italia è nell’attuale e miserevole stato della nostra Sanità Pubblica. Scrive ancora Strada: “ Lo stato deve assicurare a ogni cittadino il diritto a essere curato. Al contrario, la pandemia ha messo in evidenza l’estrema fragilità del nostro sistema sanitario: nel mezzo della pandemia ci siamo resi conto che non avevamo materiali di protezione, che le terapie intensive non erano adeguate, che la sanità territoriale era inesistente, che al di fuori degli ospedali tanti malati non venivano curati ma semplicemente abbandonati al loro destino”.
Oggi (solo oggi?) ci accorgiamo che mancano medici, mancano infermieri, mancano attrezzature. La verità è che negli ultimi 10 anni – lo ricordava anche Corrado Oddi su questo giornale [Vedi qui] – la Sanità Pubblica, come la Scuola, come altri servizi essenziali, sono stati sistematicamente saccheggiati per decine e decine di miliardi di Euro. Questa sistematica e dissennata opera di spoliazione (in politichese si chiama “definanziamento”) ha messo l’Italia e gli italiani pancia a terra.
E’ dentro questa situazione – sempre più insostenibile per milioni di italiani – che si è abbattuta la tragedia Covid. Scrive ancora Gino Strada: “Siamo stati travolti da una emergenza incontestabile, ma non possiamo ignorare che si tratta perlopiù di problemi strutturali, non emergenziali”.
Di questi temi dovrebbe occuparsi la politica, e la Sinistra – se ancora esiste. Occorrerebbe uno sguardo lungo, un impegno concreto a invertire la rotta, un grande piano di rilancio dei servizi pubblici a partire dalla Scuola e dalla Sanità pubblica, una vera svolta nella politica ambientale e di difesa del territorio. Ripensare con coraggio un modello di sviluppo diverso da quello che continua a generare e moltiplicare ineguaglianza e povertà. Se non lo faremo, nemmeno il sospirato vaccino basterà a rimetterci in piedi.
Gino Strada ha buttato il suo sasso nello stagno della politica italiana. Probabilmente non lo ascolteranno. C’è da occuparsi della prossima, probabile o improbabile, crisi di governo.

Cover: Gino Strada con Maurizio Landini, 2013 (Wikimedia commons)

PRESTO DI MATTINA
La luce dell’Avvento

«Chiara una voce dal cielo/ si diffonde nella notte:/ fuggano i sogni e le angosce, splende la luce di Cristo./ Si desti il cuore dal sonno,/ non più turbato dal male; un astro nuovo rifulge,/ fra le tenebre del mondo». Inizia così l’inno mattutino delle lodi dell’Avvento. E, subito affiora il ricordo di un midrash, un dialogo tra un discepolo e il suo maestro: «Nelle pagine di Isaia, disse un giorno Ariel, al suo Rabbi, è scritto che il Santo Benedetto sia, così parlò al profeta: “Io creo la luce e creo le tenebre, io il Signore ho creato tutte le cose”. “Il mondo quale esso oggi si presenta, proseguì Ariel, è un mondo privo di luce”. Poi chiese: “quando cambierà tutto questo?”. Rispose il Rabbi: “sofferma il tuo pensiero su altre parole del Profeta Isaia, e troverai la risposta alla tua domanda”. E il Rabbi proseguì: “Disse il Profeta in nome del Signore: quando darai cibo all’affamato, quando concederai riposo alla angoscia dell’uomo, la luce splenderà nell’ora delle tenebre e nella notte, il cielo sarà luminoso come a mezzogiorno”».

La luce crea uno spazio, un milieu – direbbe Pierre Teilhard de Chardin (1988-1955) gesuita paleontologo, mistico dell’evoluzione – un “ambiente per la luce”, un luogo proprio nella materia stessa che rivela, ai suoi occhi, tutta la sua potenza spirituale. È quanto accade, per intendersi, nel processo di cristallizzazione, in cui affiora e poi si attua l’individualità di una forma. Nel cristallo infatti l’opposizione della materia alla luce viene annullata; ciò che è esterno è accolto al suo interno; in esso la luce arriva fino al suo centro e da lì, in un istante, fa vedere, rifrangendole, tutte le sue bellezze. Nella luce che si unisce alla materia – mantenendosene distinta senza venirne contaminata – sono simboleggiate le direzioni del futuro: la convergenza dell’ ‘in avanti’ (en avant) dell’evoluzione e l’ ‘in alto’ (en haut) della rivelazione cristiana. Quella stessa alleanza tra il cielo e la terra che fa della materia la culla dell’avvento dello spirito e della libertà. Entrambi prendono dimora nella carne del mondo, a guisa di un cristallo che nella sua materialità appare trasformato dalla luce. Così la nostra umanità, in tutte le sue fasi, va socializzandosi e spiritualizzandosi attraverso un processo di ‘complessità-coscienza’ che vede ‘il fenomeno umano’ proteso, pur nella complessità di tentativi, fallimenti, riprese, verso un vertice irreversibile di personalità, amabile e amante, intravisto da Teilhard nel lungo percorso temporale della storia e della fede: «la storia del passato mi ha rivelato il futuro».

Per Teilhard «ogni cosa conserva il volto suo proprio, il moto suo autonomo: la luce, infatti, non cancella i lineamenti di nulla, non altera nessuna natura, ma penetra nell’intimo degli oggetti, anche più profondamente della loro stessa vita». Come l’irrompere della luce che riempie tutti gli spazi manifestandone le forme senza occuparne il posto e sostituirsi ad esse, così è dello spirito nell’evoluzione del cosmo e di quel microcosmo che è il corpo umano. Lo spirito non si sostituisce alla mano, al piede e ad ogni altra parte, ma ne attua il loro dinamismo, li anima dall’interno, li orienta oltre se stessi; lo spirito come la luce non si lascia imprigionare dalle cose e dagli eventi, ma diviene con essi, in una relazione sempre più intima proprio passando oltre e attirando a sé nuovamente: «Misteriosa natura di ogni luce e della luce divina: noi abbiamo un bel cercare di afferrarla, in mille considerazioni, mille formule ammirabili… noi non possiamo imprigionarla… Essa può sempre sfuggire tra le nostre dita, e non lascia tra le nostre mani che un groviglio di parole oscure e inanimate, in cui non troviamo più né illuminazione, né calore», scrive in un Ritiro del 1922.

Il futuro di Dio diviene visibile agli occhi dell’uomo quando egli si affida e tiene aperto il suo destino alla incomprensibilità e oscurità di Dio nel mondo; quando tiene sgombro l’ingresso della sua esistenza dai continui detriti e grovigli che minacciano di ostruirlo ed imprigionarlo o, di fatto, gli sbarrano la strada tagliandolo fuori. Solo allora egli, così affidato alla fede che esiste come speranza, non si ritrova immerso e avvolto in un fallimento, né travolto e annullato nel gorgo oscuro dell’entropia, ma introdotto in un nuovo slancio, inondato da nuova luce ed energia, quella della fede che, sperando contro ogni speranza (Rm 4,18), trova una via di uscita sulle forze distruttive e sul suo destino di morte.

Teilhard de Chardin è stato un cristiano fedele alla terra. Le ragioni del cuore lo facevano certo dell’esistenza di una duplice fede in ciascuno di noi. Una fede nel Mondo, nella Terra, nella Vita. E una fede in Dio, nell’Assoluto, nel Trascendente. Una che scendeva dall’Alto, (foi en l’haut); l’altra, che nascendo dal basso si spingeva in Avanti, (foi en avant) e tutte e due, invece di porsi come antagoniste, insieme si coniugavano nel cuore dell’uomo.

Fu in ragione di Cristo che Teilhard invocò e affermò questa convergenza, che l’Incarnazione rendeva possibile nel cuore stesso di ciascuno di noi. La discesa del Verbo poneva nelle viscere della Terra il mistero dell’Eterno che si fa tempo, in modo tale che l’Universo stesso si scopriva capace di futuro: «Sin dall’Origine delle Cose ha avuto inizio un Avvento di raccoglimento e di fatica, un Avvento durante il quale i determinismi si flettevano e si orientavano, docilmente ed amorevolmente, verso la preparazione di un Futuro insperato eppure atteso. Adattate e manovrate in modo così armonioso che il Supremo Trascendente sembrerebbe essere germinato interamente dalla loro immanenza, le Energie e le Sostanze del Mondo concentrandosi e purificandosi nell’Albero di Jesse. E componevano con i loro tesori distillati e accumulati, la gemma scintillante della Materia, la Perla del Cosmo e suo punto di attacco con l’Assoluto personale incarnato, la Beata Vergine Maria, Regina e Madre di tutte le cose» (La Vita cosmica, 86-87).

Di qui il vivere nell’attesa di un Avvento, insieme al coinvolgersi nella costruzione di una «opera per sempre» diventano le note dominanti di tutta la sinfonia teilhardiana che, se muta di tonalità, lo fa solo per sottolineare che quella pienezza dei tempi che fu la venuta del Cristo è, a sua volta primizia di un nuovo Avvento, di una seconda e definitiva venuta. «E da quando Gesù è nato, è cresciuto, è morto, tutto ha continuato a muoversi perché il Cristo non ha finito di formarsi. Non si è ancora totalmente avvolto nelle pieghe del Manto di carne e di amore che Gli stanno tessendo i suoi fedeli… Il Cristo mistico non ha raggiunto ancora la pienezza, neppure quindi il Cristo cosmico. Entrambi, ad un tempo sono e divengono: e il prolungarsi di questa genesi rappresenta la molla ultima di ogni attività creata. Con l’Incarnazione che ha salvato gli uomini, lo stesso Divenire dell’Universo è stato trasformato, santificato», (ivi).

In questo divenire del tempo, in cui ogni traguardo e ogni termine viene aperto dal mistero di Cristo ad un nuovo inizio e spinto verso un futuro carico di un ulteriore e più profondo compimento, siamo posti pure noi, credenti e non credenti di oggi, chiamati ad un identico compito: attendere e al contempo edificare «l’opera per sempre» che, se per i non credenti rimane ancora ‘Qualcosa’ di non identificato, ma che tuttavia supera e va oltre il semplice orizzonte umano nella direzione di un qualche ultra-umano, per i cristiani assume i lineamenti di ‘Qualcuno’: il Cristo sempre più grande, il Cristo totale e universale.

Per Teilhard de Chardin la modestia della natività rappresenta molto più di un semplice esempio o una lezione di umiltà dataci dal Cristo. In essa si rivela il modo con cui l’essere unisce a sé ed ‘informa’ la materia. E il Natale dice il realismo con cui Dio affronta drammaticamente l’unificazione e la personalizzazione della creazione attraverso il suo Figlio fatto uomo. Per lui celebrare il Natale significa rilanciare la sfida dell’avvenire, anteporre ai propri interessi quelli comuni verso un ulteriore salto di complessità e coscienza nello sviluppo della vita.

«Storicamente – ci ricorda ancora Teilhard – l’attesa non ha mai cessato di guidare come una fiaccola i progressi della nostra fede. Il Natale che avrebbe dovuto far volgere indietro i nostri sguardi e focalizzarli verso il passato, non ha fatto altro che riportarli maggiormente in avanti, verso l’Avvenire. Apparso un istante tra noi, il Messia si è lasciato vedere e toccare solo per perdersi una volta ancora, più luminoso e ineffabile che mai, nelle profondità dell’avvenire. È venuto. Ma ora, dobbiamo ancora e di nuovo attenderlo più che mai (L’Ambiente divino, 122)… E da quando Gesù è nato, è cresciuto, è morto, tutto ha continuato a muoversi perché il Cristo non ha finito di formarsi. Non si è ancora totalmente avvolto nelle pieghe del Manto di carne e d’amore che Gli stanno tessendo i suoi fedeli… Il Cristo mistico non ha raggiunto ancora la pienezza, neppure quindi il Cristo cosmico. Entrambi, ad un tempo, sono e divengono; e il prolungarsi di questa genesi rappresenta la molla ultima di ogni attività creata» (La vita cosmica, 87).

«Un pesce è forte solo nell’acqua» dice un proverbio africano. Lo stesso si dovrebbe dire di un cristiano e di una comunità cristiana, che sono forti della forza del vangelo solo quando vivono il loro tempo come rinnovata attesa di qualcuno che viene.

 

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CONTRO VERSO
Filastrocca del padre invertebrato

Filastrocca del padre invertebrato

Ci sono lacrime che muovono il desiderio di consolare e altre che instillano un nervosismo brutto venato di compassione. Così è stato con questo padre che candidamente ha ammesso di avere picchiato la moglie, e di sentirsi del tutto estraneo e impotente dentro alla propria vita. Ammalato e incapace di curarsi, disoccupato e bloccato nella ricerca di un lavoro, manteneva un atteggiamento da parassita e succhiava energia dalle poche relazioni vitali che ancora aveva. Al figlio non intendeva dare niente e così è stato.

Esimio Magistrato,
la vedo preoccupato.
È giusto sia informato
di chi ha convocato.

Io sono invertebrato
da quando sono nato
non ho mai lavorato
studiato o immaginato.

Mi sento assai ferito
di essere tradito
Mia moglie l’ho picchiata
e poi l’ho venerata.

Il figlio che è venuto
io l’ho riconosciuto
e non ho mai appurato
se io l’ho generato.

Però sono malato,
malato nel profondo.
Sto raggomitolato
ad invidiare il mondo.

Perfino questo canto
io non lo so portare.
Mi sciolgo nel mio pianto
che non si vuol fermare.

Lo ammetto Vostro Onore,
sono un padre indecente.
Forse neppure un padre
Forse non sono niente.

Si tende a credere che la violenza sulle donne abbia tutta la medesima matrice e che i maschi violenti, in definitiva, si assomiglino. La mia esperienza di ascolto mi fa dubitare di questa semplificazione. Sono tante le strade che portano un uomo ad essere violento con la partner. Questo ad esempio picchiava senza sentirsi il padrone. La sua debolezza era sostanza.
La compagna a propria volta nutriva con questa relazione il desiderio di essere indispensabile a qualcuno, dopo essere stata una figlia rifiutata da entrambi i genitori. È occorso molto tempo e molto impegno personale perché riuscisse a staccarsi da lui.

Lettera Aperta a Moni Ovadia

Caro Moni Ovadia,
mi rivolgo a te con il ‘tu’ perché ti conosco da una vita. Non personalmente, ma attraverso la tua opera. Ti ho sempre stimato come uomo di teatro, come autore di testi e per il tuo coraggio nel sostenere valori e posizioni controcorrente. Insomma, nel campo dell’intellettualità di sinistra hai svolto una funzione di pungolo e anticonformismo che ho sempre apprezzato.
Questa che ti scrivo è una lettera difficile e schietta, come dovrebbe piacerti se ti ho giudicato bene nei decenni. Do per scontato il rispetto della libertà di scelta che è sacro per ciascuno. Forse, meno scontata è la libertà di dirsi apertamente come la pensiamo sulle scelte che hanno un evidente significato pubblico ed etico-culturale. Nella storia travagliata della sinistra (storica e non) si è sempre interpretato il dissenso in termini schematicamente drammatici: o come ‘tradimento’, o come l’anticipazione di una innovazione non capita dai più.
La tua decisione di accettare la proposta di nuovo direttore del teatro Comunale di Ferrara per me non è né l’una, né l’altra cosa. Semplicemente la considero un errore. Vedremo cosa ci riserverà  il futuro, ma già ho notato alcune contraddizioni nel muovere i tuoi primi passi pubblici che stridono rispetto alla tua storia pubblica di decenni. Partiamo dall’autore di questa mossa, indubbiamente intelligente dal suo punto di vista: Vittorio Sgarbi. Leggo queste righe in una tua intervista ad un quotidiano cittadino: “Spesso sono in disaccordo con le posizioni di Sgarbi, quasi un anarco-delirio libertario. Al contempo è un uomo d’eccezione di grandissima cultura, tanto libero quanto eccentrico, con amicizie trasversali. E’ un intellettuale spericolato e sperimentale, cosa che mi piace.” A parte la rituale e obsoleta formula retorica di denunciare dissensi avuti con una persona guardandosi bene dall’indicarne almeno uno preciso, ti rivolgo subito una domanda che riguarda un ‘dissenso’ che dovresti esprimere qui e ora. Il ‘libertario’ Sgarbi ti ha chiesto pubblicamente di muoverti in ambito teatrale e di evitare di fare politica. Non ho letto una tua pronta risposta contro questa intimazione.
E’ vero che la cultura deve aiutare a superare ogni steccato ideologico, ma non a cancellare un valore fondamentale scritto nel suo dna: la libertà di opinione. Di conseguenza ti rivolgo un’altra domanda. Se Sgarbi terrà fede nel portare avanti la sua opera di riabilitazione dello squadrista fascista Italo Balbo, fino a chiedere di intitolargli una via, tu sarai libero di dire pubblicamente forte e chiaro il tuo no come si ricava dalla tua coerente biografia di ebreo antifascista? Un’ultima osservazione su un dettaglio significativo. Ho letto che alla presentazione pubblica della tua nomina hai ringraziato il sindaco e il vicesindaco. Conosci qualcosa delle gesta e delle dichiarazioni fatte in varie circostanze dal vicesindaco Nicola Lodi? Se ti fossi informato, forse avresti ringraziato solo il sindaco. O ti interessa solo la parte che il vicesindaco ha avuto nella tua nomina? Bè, una visuale un po’ ristretta, non ti pare? Certamente bene in sintonia con lo ‘spirito del tempo’ di individualismo assoluto che, in tante occasioni, hai efficacemente criticato con una critica culturale efficace e corrosiva.
Insomma, caro Moni, il vice sindaco Lodi sta alla cultura come il sottoscritto alla conoscenza della fisica nucleare. E non mi riferisco alla cultura intesa come erudizione, ma nel suo profondo significato di rispetto, tolleranza, inclusione, apertura ed empatia verso l’altro.
Sinceramente ti auguro buon lavoro nel campo in cui sei stato nominato. E sono sicuro che le idee e le capacità non ti mancano. Sono meno sicuro che tu possa permetterti di comportarti da persona e cittadino libero di esprimere le proprie opinioni su tutto ciò che riguarda la vita della polis. Ma come insegnava il nostro Gramsci, che cosa diventa la cultura se la separi dalla vita della città e della comunità in cui operi? A cosa si riduce la cultura se, nel rispetto dell’avversario, si inibisce una funzione di civile conflitto aperto e acceso delle idee e delle visioni del mondo?
Lo so che sono considerazioni pesanti, ma conosco questa destra e non posso tacere i miei dubbi e le mie inquietudini.
Con immutata stima e affetto.
Fiorenzo Baratelli – Direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

Cover: Moni Ovadia al SoundMakers Festival 2013. Autore della foto Diego Panico (Shootalive) per conto di SoundMakers Festival (Wikicommons)

Al cantón fraréś
Luciana Guberti: “Nadàl e dialèt”

La vigilia è un giorno di aspettative. La vigilia di Natale è attesa, suono di campane, fede, rito e leggenda. Per rendere l’atmosfera nell’aria a Luciana Guberti non servono tante parole, l’invito è lasciarsi trasportare. In una seconda poesia l’autrice si interroga sul perchè pensa e parla in dialetto: i ricordi dell’infanzia, le espressioni dei familiari, il richiamo del focolare, gli angoli del paese sono le radici della sua esistenza.

La vźìlia ad Nadàl

La vźìlia ad Nadàl
l’è uη gióraη speciàl..!
T’al sént int la źént
chi’è tuti cuntént
i t’al diś ill campàη
che a festa li sóna
da vśin e luntàn.
I t’al diś i culór e tant lampadìη
che i s’impìza e i sa śmorza
su fnèstar e zardìη.
La vźìlia ad Nadàl
l’è uη gióraη speciàl…
parché a meźanòt i’ànźul dal ziél
i’arcòrda a la źént,
cmè cla nòt ai pastór,
che a nas nòstar Sgnór
int na stala, col fréd, seηza gnént!
Ma iη véta ala stala
agh’è granda na stéla
coη la cóa luśénta
c’la fa luś aηch par déntar,
e par chi vol capìr,
aη gh’è àltar da dir..!

La vigilia di Natale
La vigilia di Natale / è un giorno speciale..! / Lo senti nella gente / che è tutta contenta, / te lo dicono le campane / che suonano a festa / vicino e lontano. / Te lo dicono i colori e tante luminarie / che si accendono e si spengono / sulle finestre e nei giardini. / La vigilia di Natale / è un giorno speciale… / perché a mezzanotte gli angeli del cielo / ricordano alla gente, / come quella notte ai pastori, / che nasce il nostro Signore / in una stalla, col freddo, senza niente! / Ma in cima alla stalla / c’è grande una stella / con la coda lucente / che fa luce anche dentro, / e per chi vuol capire, / non c’è altro da dire..!

 

Parché al dialèt

“Parché iη dialèt?” al m’à dmandà uη profesór un dì.
Mi, lì par lì, ag ho rispòst: “Parché l’im vien acsì!”.
Ma la risposta giusta, da dar al profesór,
l’era lugàda déntar int al me cuór
e al n’è sta fàzil niaηch par mi, capìr par ben,
al parché acsì l’im vien.
Al me scrìvar in dialèt l’è turnàr int la cuna,
l’è la téta ad me mama,
l’è ciuciàr in sla tomàna
e acsì pulacìda, far aηch uη sunìη,
col me zié e me mama clì zcór piaη pianiη…
L’è al profum dill ciapeli iη sla piastra dla stùa,
l’è l’udór dla calìźna dal camin ad ca’ tóa,
l’è me fradèl, coη mi sóra ill spal,
ch’à rid e al cmand cmè s’al fuss uη cavàl.
L’è me babo c’al riva coη zastìn ad sfuracèl,
l’è me mama c’la sténd coη corda e furzèl.
L’è la Madona ad piazéta, coη set spad int al cuór,
c’l’at guarda int i oć seηza raηcór,
i’è ill radìś dla me vita, iηgumbiàdi int al pet,
che quand i fa uη fiór al zcór in dialèt.

Perché il dialetto
“Perché in dialetto?” mi ha chiesto un giorno un professore. / Lì per lì, gli ho risposto: “Perché mi vien così!”. / Ma la risposta giusta, da dare al professore, / era nascosta dentro al mio cuore / e non è stato facile neanche per me capire bene, / perché così mi viene. / Il mio scrivere in dialetto è tornare nella culla, / è la tetta di mia mamma, / è succhiare sull’ottomana / e così appollaiata, fare anche un sonnellino, / con mia zia e mia mamma che parlano pianino… / È il profumo di fette di frutta sulla piastra della stufa, / è l’odore di caligine del camino di casa tua, / è mio fratello, con me sulle spalle / che rido e lo comando come fosse un cavallo. / È mio babbo che arriva con un cestino di spugnole, / è mia mamma che stende con corda e forcella. / È la Madonna della piazzetta, con sette spade nel cuore, / che ti guarda negli occhi senza rancore; / sono le radici della mia vita, aggrovigliate nel petto, / che quando fanno un fiore parla in dialetto.

Tratte da: Luciana Guberti, La piazéta, poesie recitate dall’autrice, CD, Modena, Forte House, 2006.

Luciana Guberti
(Bondeno 1935) Orologiaia di Bondeno, con la famiglia ha condotto per anni lo storico negozio laboratorio avviato dal padre Leonello nel 1926 e ubicato int al Stracantón (angolo via Turati). Inizia scrivendo zirudele per gli amici e in parrocchia. Socia del Tréb dal Tridèl, ha ricevuto riconoscimenti e premi in concorsi provinciali e regionali.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Davanzale invernale, foto di Marco Chiarini

Il lungo racconto di Piazza Fontana

L’esercizio della memoria è un qualcosa che va coltivato giorno per giorno. Proprio da questa idea nasce l’esigenza di riportare oggi questo “racconto”: una conversazione avuta con una delle firme più autorevoli di questo giornale, Gian Pietro Testa, il 25 aprile del 2019, nell’anno del cinquantennale della strage di Piazza Fontana. A farlo siamo stati in due, lo scrivente, e Simone Buonomo, studente dell’Università di Bologna, con l’intento di recuperare la testimonianza di un giornalista che per primo raccontò la strage e che per primo si dichiarò contrario a percorrere la “pista anarchica”, cercando di capire anche quale fu il rapporto proprio della stampa con la narrazione della strage che avrebbe cambiato per sempre le sorti dell’Italia post bellica.

I fatti

12 dicembre 1969, ore 16.37. Una bomba esplode all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano uccidendo 17 persone, ferendone 105. Ciò segnerà per sempre la storia della Repubblica Italiana. Quello che poteva sembrare un gesto omicida isolato, rappresenterà una commistione di intenti che porteranno all’inizio di quel momento storico in cui si attuò la “Strategia della Tensione.” Anni dopo, in fase processuale, si proverà la partecipazione dei servizi segreti e di membri del Governo unitamente a gruppi di estrema destra nel compimento di alcuni attentati.
Tra i primi ad entrare come giornalista ci fu proprio Gian Pietro Testa.

“Un pomeriggio milanese”

Giampietro, come ricorda quel giorno?
“Era un pomeriggio alla milanese. Io avevo la febbre e avevo avvertito la redazione che non sarei uscito di casa. Casualmente abitavo nei pressi di Piazza Fontana. Mi chiamarono dal giornale parlandomi di un incidente nella Banca dell’Agricoltura e corsi a vedere cos’era successo. Arrivato sulla piazza incontrai un mio collega de “Il Giorno”, il quale mi disse che c’era stato uno scoppio, dovuto dalle caldaie. Riuscii ad entrare facendomi largo tra la polizia, ero il primo giornalista a introdurmi nel luogo della strage e capii subito che non potevano essere state le caldaie ed infatti, chiedendo ad un pompiere, costui mi disse ‘ma quali caldaie? È stata una bomba’. Sotto il tavolone in mezzo alla sala circolare c’era il buco, il cratere dov’era scoppiata. Il Prefetto di Milano, Libero Mazza, intervenne immediatamente addossando le responsabilità del gesto agli estremisti di sinistra e agli anarchici. La stampa iniziò a cucire sulla pelle degli anarchici la storia della strage a partire da quelle affermazioni. Insomma bisognava trovare un colpevole e subito, per tranquillizzare l’opinione pubblica, ed i media non ci misero molto a tessere queste tele che coinvolgevano gli anarchici: erano coloro che avevano, per le loro rivendicazioni ideologiche un identikit perfetto per essere i colpevoli che andavano bene a tutti”.

Probabilmente Piazza Fontana rappresenta lo spartiacque per la Repubblica italiana, ma come si arrivò a questo?
“La strage di Piazza Fontana non è arrivata improvvisamente, era nell’aria da tempo. C’erano stati attacchi furibondi all’Italia. Si è arrivati alla strage perché si voleva fare un’azione propedeutica ad un’azione politica. L’avanzata della sinistra, soprattutto con i giovani, aveva portato all’esasperazione le vecchie strutture mentali del paese. C’era questa situazione incredibile. Prima della strage, nel 1962, bisogna ricordare il primo attacco alla democrazia con la bomba che uccise Enrico Mattei, amministratore dell’Eni, vicenda mai del tutto chiarita. Sette anni lunghissimi, fino al ’69, di attesa, ma l’aria era satura. L’Italia era maciullata dagli scontri politici. Tra l’altro, nel 1969, a causa delle manifestazioni di piazza si era creato un aspro conflitto tra i giovani dell’università e le forze di polizia, e di attentati e crisi della democrazia si parlava spesso. Bisogna ricordare anche gli attacchi degli altoatesini che hanno creato molta confusione. La questione dell’Alto Adige, alla fine degli anni ’50, aveva visto un’escalation di violenza che vide protagonisti i gruppi secessionisti germanofoni. Questa situazione portò a numerosi attentati, come la strage di Cima Vallona il 25 Giugno del 1967. Ci fu una serie continuativa di attacchi che si protrassero addirittura fino al 1988.”

Si parlava spesso di stragi sui giornali?
“Si parlava di attentati tutti i giorni. Erano cominciate le stragi e quella di Piazza Fontana fu solo la prima di un periodo lungo cinque anni fino all’Italicus, in questo periodo nel quale fu attuata la cosiddetta “Strategia della Tensione” si viveva in uno stato di incertezza.”

La stampa e le “piste”

Prima di proseguire con le parole di Testa, bisogna ricordare come la stampa, per la gran parte, seguì la pista degli anarchici, i quali cercarono di difendersi dopo i primi arresti. Quest’ultimi fecero una conferenza stampa il 17 dicembre, in cui fornirono la loro versione dei fatti. Dicevano, sostanzialmente, di essere innocenti sia per quanto riguardava l’attentato alla Fiera Campionaria, avvenuto il 25 aprile dello stesso anno, sia per quanto riguardava la strage di Piazza Fontana.

Rispetto alla bomba alla Fiera Campionaria, poi, possiamo trovare ben due elementi di congiunzione con la strage di Piazza Fontana: in primis le indagini sull’attentato del 25 Aprile 1969 furono assegnate al Commissario Calabresi, lo stesso protagonista delle indagini sulla strage di Piazza Fontana, ed anche in questo caso, Calabresi, puntò sulla pista anarchica. Solo successivamente si scoprì che si era trattato di una strage ordinovista. Il secondo elemento di congiunzione è un articolo del “The Guardian”, pubblicato il 6 dicembre sempre del ’69, nel quale si preannunciavano una serie di eventi terroristici successivi alla fiera e denunciava rapporti tra i gruppi fascisti italiani e i Colonelli Greci. Questo articolo fu quasi del tutto ignorato in Italia, tranne che da pochissime testate, tra le quali proprio “Paese Sera” dove lo stesso Testa ha lavorato.
Tutta la stampa, comunque, iniziò a percorrere la pista anarchica. Anzi, quasi tutta tranne Idro Montanelli, il quale a poche ore dalla strage rilasciò un’intervista a Tv7 nella quale diceva che gli anarchici erano innocenti, e proprio Gian Pietro testa, il quale dopo essere stato sul luogo scrisse l’articolo “Un Infame provocazione” aprendo l’ipotesi della pista nera.

Perché scrisse quell’articolo?
“Ricordo la conferenza stampa che fece in Prefettura l’allora Presidente del Senato Amintore Fanfani, il quale ad un certo punto disse: ‘Come lor signori sanno, noi non smetteremo mai di cercare i colpevoli’. Io lo guardai e gli dissi ‘ma non si vergogna di dire una cosa del genere? Sono anni che abbiamo stragi e voi non avete fatto niente e non fate niente’. Lui voltò le spalle e se ne andò silenziosamente. Comunque io ero convinto che fossero stati i fascisti. Alcuni giornalisti seguirono immediatamente la pista anarchica e spesso si ritrovarono ad essere d’accordo con ciò che dicevano la polizia e le autorità. Io ho visto con i miei occhi l’attentato. Non mi tornava niente di quello che si diceva con le accuse agli anarchici e ho scritto un articolo come provocazione, che poi si è rivelata esatta. Il 13 Dicembre, all’indomani della strage, vennero fermati gli anarchici del gruppo ’22 Marzo’ che furono accusati per la strage. Nelle ore successive la Questura di Milano cercò le prove e interrogò i componenti del gruppo: tra questi c’era anche Giuseppe Pinelli, che poche ore dopo l’arresto morirà precipitando dal quarto piano della Questura. Caduta che non ha trovato mai un vero colpevole.”

Quale fu il ruolo della stampa nella costruzione della figura di colpevole addossata a Pietro Valpreda invece?
Pietro Valpreda era un anarchico che apparteneva al gruppo ‘22 Marzo’. Da anni veniva seguito come uomo socialmente pericoloso ed era in stato di massima sorveglianza, quindi si conoscevano tutti i suoi spostamenti e tutti sapevano che il 12 Dicembre era stato convocato in Tribunale a Milano e che l’11 dicembre aveva viaggiato in treno per recarsi in città. Hanno creato un mostro con Valpreda. Fu una creazione giornalistica, mediatica. Ed anche lui non aveva fatto assolutamente niente. Alcuni colpevoli sono stati costruiti sulla carta. Per esempio, mi viene in mente il caso del ‘Corriere della Sera’, il cui direttore Di Bella diceva, anche a distanza di qualche anno: ‘È stato lui, è stato Valpreda. È stato Pinelli’. E così buona parte della stampa italiana. Dovevano trovare un colpevole e così hanno fatto. Tanto è vero che Valpreda fu riconosciuto forzatamente dal tassista Cornelio Rolandi: in mezzo ad alcuni volti rassicuranti c’era anche Valpreda, riconoscibile nel suo stile anarchico. Rolandi disse ‘È lui’, al che gli chiesero ‘Sei sicuro?’. Rolandi disse: ‘Se non è lui, qui non c’è’. Una frase mai riportata dai verbali.”

Con gli appartenenti ad ordine nuovo va ricordato, a questo punto, che la stampa si comportò in maniera diversa rispetto a come descrisse Valpreda e gli anarchici. Attivò la macchina del fango contro i primi. Successivamente, con le svolte processuali, non si trova la stessa reazione nei confronti degli appartenenti ad ordine nuovo. Non si capisce se il motivo è da ricercare nel fattore temporale, e cioè nella non “mediaticità” della notizia, dopo molti anni dai fatti, o perché non si voleva ammettere che alcuni comparti dello Stato avevano partecipato attivamente alla costruzione di questo disegno stragista.

Giuseppe Pinelli

Va ricordato, ora, però, chi fu la “diciottesima” vittima della strage, gettato dalla finestra della Questura di Milano e come fu raccontato dalla stampa. Anarchico, ferroviere, tra i fondatori del Gruppo “Ponte della Ghisolfa”. Marcello Guida, il Questore di Milano all’epoca, organizzò una conferenza stampa il giorno della caduta di Giuseppe Pinelli dal quarto piano della Questura, alla quale parteciparono anche il dott. Antonino Allegra e il Commissario Luigi Calabresi. La prima versione che fu data alla stampa fu quella che raccontava di un Pinelli incapace di convivere con la responsabilità delle morti causate dalla bomba nella banca, una colpa così grande da decidere di suicidarsi. Fu una versione che la stampa accettò costruendo, sull’onda delle responsabilità degli anarchici nella strage, la personalità pericolosa di Pinelli. Solo a seguito delle contro-inchieste del gruppo anarchico di Pinelli e delle Brigate Rosse, fu riconosciuta la sua estraneità nella strage di Piazza Fontana. La sua morte segnò la storia delll’Italia, non solo per le circostanze misteriose, ma anche perché legata indissolubilmente all’omicidio di Luigi Calabresi e del presunto coinvolgimento dei servizi segreti.

Su tutto questo quale fu la sua idea?
“Io fui convinto da subito che Pinelli fosse stato buttato giù dalla finestra. Il racconto di Calabresi non era credibile. Ricordo la conferenza stampa che fece Calabresi. Venne su nell’ufficio del Questore e cominciò a parlare e dire che era stata tutta colpa di Pinelli ed è iniziata questa storia nella storia. Pinelli fu preso perché erano convinti che i colpevoli fossero gli anarchici, ma non c’entravano nulla in realtà. Bisognava, però, difendere la versione della Questura. Calabresi si tradì l’anno successivo, quando in un’intervista disse che Pinelli era innocente e che da lì a poco sarebbe stato mandato a casa perché non c’erano motivi per trattenerlo. Da questo momento si attivò una macchina del fango mediatica nei confronti di Calabresi che fu accusato, grazie all’intromissione dei servizi segreti, di avere rapporti con la Cia. Calabresi e Pinelli sono i figli della tragedia nella tragedia: entrambi innocenti, ma entrambi vittime di un sistema che stava crollando e che viveva una confusione nella costruzione politica. Mi è dispiaciuto ed è stato un errore uccidere Calabresi, un errore tragico. Calabresi sapeva come stavano le cose, ma non le ha dette e questa è la sua colpa. Gli anarchici lo hanno ammazzato, ma è stato sciocco farlo”.

Ordine nuovo

Arriva, così, il 27 febbraio del 1979. A distanza di dieci anni dalla strage, dopo che il processo fu spostato a Catanzaro per incompetenza territoriale di Milano, la corte d’Assise condanna all’ergastolo: Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini.

Quale fu la sua idea sullo spostamento del processo e sull’inserimento nello stesso degli ordinovisti?
“Farlo a Bologna e Milano sarebbe stato una provocazione che non si è voluta seguire. Erano momenti di assoluta confusione mentale, con le forze dello Stato particolarmente in difficoltà. Questa era la situazione e si optò, quindi, per il trasferimento a Catanzaro del processo. Le Br, unitamente ai gruppi anarchici, non si fermarono un minuto per trovare i veri responsabili e il Governo si cautelò istituendo la Commissione Stragi. Da lì fu scoperta la verità. La Commissione Parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi indagò e ha una durata di quattro legislature dal 1988 al 2001.”

La vicenda di Piazza Fontana, però, è difficile da analizzare dal punto di vista giuridico. Ci sono stati tanti risvolti e molti episodi successivi che appartengono alla strage, un evento che è iniziato nel 1969 e le ricerche non si sono mai fermate. Si può provare a riassumere così:

  • Prima l’arresto degli anarchici e la responsabilità data a Valpreda;
  • Poi la confusione delle dichiarazioni di Rolandi, il tassista, e la tesi che a mettere la bomba fosse stato Antonino Sottosanti, meglio conosciuto come “Nino il Fascista”, il quale era un infiltrato fascista nei gruppi anarchici, cosa molto diffusa in quegli anni. Ipotesi, però, mai riscontrata.
  • Nel 1974, a Catanzaro, ci fu il primo processo agli ordinovisti e furono condannati all’ergastolo dalla Corte d’Assise Giovanni Ventura, Franco Freda e Guido Giannettini.
  • Freda nel 1978 scappa durante il processo e inizia la sua latitanza in Costa Rica. Sarà trovato l’anno successivo. Per la prima volta Pietro Valpreda fu assolto dall’accusa di aver piazzato la bomba.
  • Nel 1987 la svolta: la Cassazione assolve tutti gli imputati per mancanza di prove. Nonostante varie riaperture delle indagini, le piste ipotizzate che portavano a Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, ci fu sempre un’assoluzione per mancanza di prove.
  • Il Processo si riaprì nel 2000 e si concluse nel 2005: questa volta le inchieste del Giudice Guido Salvini si incentrarono sulle dichiarazioni di Carlo Digilio, ex neofascista di ordine nuovo. Digilio sosteneva di aver ricevuto una confidenza in cui Delfo Zorzi, altro ordinovista, gli confidava di aver piazzato materialmente la bomba, ribadendo le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura nella costruzione della strage.
  • Nel processo del 2000 furono condannati all’ergastolo Delfo Zorzi, come esecutore della strage; Carlo Maria Maggi come organizzatore e Giancarlo Rognoni come basista.
  • Il 12 marzo 2004 furono cancellati gli ergastoli per mancanza di prove.
  • Franco Freda e Giovanni Ventura, insieme al gruppo fascista ordine nuovo, furono riconosciuti come ispiratori ideologici della strage di Piazza Fontana, ma non più processabili perché erano stati assolti definitivamente dalla Cassazione nel 1987 per lo stesso reato.

Come commenta la vicenda processuale sulla strage di Piazza Fontana?
“Le ricerche effettivamente sono state molto difficili. Ricordo che Giovanni Ventura mi telefonò più volte per un’intervista che non gli ho mai concesso perché in quegli anni era bene non fidarsi, in quanto c’era da credere a tutti e a nessuno e a mio avviso era un personaggio pericoloso, perché aveva le mani sporche di sangue. Alla fine nessun processo ha evidenziato la persona che materialmente posizionò la bomba. Si è evidenziata solo la cellula che aveva organizzato il tutto, ma sicuramente non da sola.”

Ricostruire la strage di Piazza Fontana, come si legge, è difficile. Alla fine a pagare con la propria vita sono state le vittime innocenti ed è proprio per loro, unitamente alla memoria dell’anarchico Pinelli, che deve essere continuato il racconto della strage del 12 dicembre del ’69 e di tutto quello che ne seguì.

Coloro i quali sono stati riconosciuti colpevoli dall’iter giudiziaro hanno avuto altri destini, invece. Tra questi c’è la storia particolare di Franco Freda, il quale, tra l’altro, nel 2012, nonostante non si fosse mai pentito del suo passato dove si era definito “nazimaoista”, fu chiamato dall’allora direttore Maurizio Belpietro a tenere una rubrica sul quotidiano Libero, chiamata, stranamente, “L’Inattuale”.

Cover: Diapositiva della strage piazza fontana (da: resistenzeintenzazionali.it)

QUALCOSA MANCA

Da Monaco di Baviera, una poesia del nostro collaboratore innamorato di Ferrara.

Qualcosa manca

(Per i miei amici ferraresi )

Manca la nebbia lattiginosa del mattino 
e della sera la fiacca oscurità, 
l’uscita mattutina dal giornalaio di Piazza Travaglio,
il tono familiare del primo suono in lingua straniera,
la camminata attraverso il cimitero ebraico,
il muto conversare coi defunti,
i giri in bicicletta sull’argine del Po,
lo scrutare il cielo oltre le mura cittadine, 
il ritrovarsi degli amici in Piazza Trento-Trieste,
le chiacchiere nel vicolo tra vicini, 
l’organo del maestro Lucarelli nella Chiesa di San Giorgio, 
la Trattoria accogliente.

Quant’è vicina la lontana Ferrara
in quest’anno dolente di distanze.

_________________________________

Carl Wilhelm Macke

(Trad. Antonella Romeo/ Piero Somaglino )

SCHEI
Banchieri, marchesi e plebei

Lo abbiamo già detto: dal primo gennaio 2021 le banche applicheranno le nuove (più restrittive) regole europee sulle “controparti inadempienti”, che in parole povere siamo noi che non riusciamo a rimanere dentro il fido, o sconfiniamo senza fido, o non riusciamo a onorare alla scadenza una rata del prestito. Se siamo un privato o una PMI, lo sconfino di oltre 100 euro per più di 90 giorni ci rende automaticamente inadempienti verso quella banca e segnalati sul sistema; se siamo un’impresa, idem se il nostro ritardo di oltre 90 giorni ci porta a sconfinare per più di 500 euro. L’ esposizione in mora deve anche superare l’1% del totale dell’esposizione verso la banca. Se poi sistemiamo le cose, in teoria la segnalazione viene cancellata. Dico in teoria, perchè la lista di coloro che, per misteriose ragioni, rimangono segnalati in Centrale Rischi per ritardi di mesi o anni prima, poi sistemati, è lunghissima ed è uno dei sintomi dell’inefficienza delle organizzazioni bancarie quando non si tratta di piazzare prodotti ai propri clienti, ma di occuparsene come utenti bisognosi di un servizio. La customer care in banca, purtroppo, somiglia sempre più a quella delle aziende con un numero verde unico per l’assistenza, in cui riesci a parlare con un operatore dopo aver attraversato un labirinto minato; con l’aggiunta che, in banca, se sconfini non sei più un cliente, ma un cattivo pagatore. E queste nuove regole autorizzano, implicitamente, la banca a trattarti come l’equivalente del paria induista, un reietto, un fuori casta.

Molti istituti in questi giorni hanno comunicato ai loro clienti che tra pochi giorni applicheranno le nuove regole. Scelta meritoria, almeno in termini di trasparenza: uomo avvisato, mezzo salvato. Continuo peraltro a chiedermi – per una volta, come fa il capo dei banchieri italiani, Patuelli – per quale ragione l’Europa non abbia ancora deciso di rinviare l’entrata in vigore di queste norme. Le ragioni della opportunità di un simile rinvio sono molteplici, ma si possono compendiare in un solo vocabolo: pandemia. Questa testardaggine è ancora più ottusa se consideriamo che si sta votando, in Europa, la possibilità che per evitare il fallimento di una banca il Fondo Unico di Risoluzione possa chiedere soldi al MES(Meccanismo Europeo di Stabilità). Inoltre, a partire dal 28 giugno 2021, cambia la ponderazione dei prestiti garantiti da una quota di stipendi e pensioni – la cosiddetta “cessione del quinto”: l’assorbimento di capitale associato a questa tipologia di finanziamenti sarà abbassato dall’attuale 75% al 35%.Questo perchè la rischiosità complessiva di tali finanziamenti è considerata più bassa delle altre tipologie di crediti al consumo, per due motivi: 1.esiste una polizza assicurativa che protegge il credito della banca in caso di morte o perdita del posto di lavoro; 2. il rimborso del prestito è direttamente trattenuto alla fonte (ovvero presso il datore di lavoro, pubblico o privato).

Per semplificare: da un lato abbiamo un sistema di regole che cambia “in meglio”, liberando capitale disponibile alle banche(che devono accantonare meno patrimonio per tutelarsi dal rischio dei crediti non pagati) e apprestando una rete di salvataggio (il MES, appunto) in caso di rischio di fallimento. Il combinato di queste due misure consente alle banche di avere più denaro da impiegare, e di poter ricorrere a soldi “pubblici” di fonte europea per evitare di saltare in aria. Questo “lato” è coerente con l’aggravarsi della situazione socio-economica, poichè consente, almeno in teoria, ad una banca di non chiudere il rubinetto del credito proprio quando c’è maggior bisogno che da quel rubinetto esca acqua fresca, risorsa fondamentale per un assetato. Dall’altro lato, invece, si inaspriscono le regole di rimborso, in modo tale da creare pressochè inevitabilmente, in periodo di pandemia, una nuova valanga di crediti inesigibili, che peseranno come un macigno sui bilanci bancari. Questo secondo “lato” appare quindi incoerente con l’aggravarsi della situazione socio-economica, e rischia di vanificare in buona parte l’effetto positivo delle misure espansive.

Tuttavia uno potrebbe dire che questo rigore è benvenuto, perchè gli impegni vanno rispettati e un debito è un impegno che va onorato nei tempi stabiliti. In linea teorica è un ragionamento sensato, introdotto però nel periodo più insensato: sono già milioni gli italiani che, a causa della paralisi dell’economia mondiale e locale, non sanno come sbarcare il lunario nei prossimi mesi, e che, una volta espulsi dal sistema del credito, non vi potranno più accedere per anni. Sarà un disastro per i territori, che vedranno trasformare il rapporto dei privati e delle piccole imprese col sistema del credito, fino ad una situazione (che già evolve, giorno per giorno, in questa direzione) nella quale saranno le agenzie criminali a finanziare l’economia “legale”, in quanto dotate di ingenti somme di denaro riveniente dal traffico di droga, di armi, di rifiuti e di esseri umani. Si realizzerà in questo modo una completa fusione tra economia legale e illegale(anzi, criminale): un salto di qualità da una economia ufficiale innervata da elementi criminali, ad un corpo socioeconomico nel quale non avrà nemmeno più senso distinguere tra economia legale e criminale, perchè la sola economia che sopravviverà sarà quella capitalizzata con o finanziata da soldi sporchi.

Ma se non bastasse questo, c’è anche una gigantesca ipocrisia dietro questo rigorismo di facciata, come si può agevolmente appurare da tutte le statistiche sul tema delle sofferenze bancarie. La Cgia di Mestre ha mostrato già nel 2016 chi sono i “cattivi pagatori” delle banche.  Le grandi imprese rappresentavano l’80% del credito complessivamente erogato alle società non finanziarie, nonostante esse siano appena l’1% del totale. Ebbene, esse erano responsabili del 78% dei crediti sofferenti, mentre il restante 99% delle imprese detiene il restante 22% dei debiti a rischio. Ripeto: l’ 1% dei finanziati ha causato il 78% dei debiti impagati. Le grandi imprese hanno ottenuto grande fiducia, ma dimostrano di averne fatto strame. Anche a Ferrara lo sappiamo molto bene: la Cassa di Risparmio è saltata per la sconsiderata mole di denaro prestata fuori dai nostri territori e a pochissimi debitori, non per i piccoli prestiti dei ferraresi (che però alla fine sono quelli che hanno pagato il prezzo della risoluzione, con buona pace dei professorini di economia che impartiscono lezioni su come si amministrano le banche). Li conosciamo, quelli che succhiano denaro dalle banche restituendolo a loro piacere. Sono la classe dirigente italiana, i Caltagirone, i De Benedetti, i Marcegaglia, i Marchini, gli alfieri di quel capitalismo relazionale che significa: siedo nel CdA di chi mi presta i soldi, quindi i soldi me li prendo e se non mi va non te li restituisco. Tanto a me, qualcuno che presta i soldi ci sarà sempre. Alberto Sordi – con la forza iconica che l’arte trasmette, molto meglio di un saggio di economia – ha mostrato il nocciolo della nostra classe padronale, condensandolo nella battuta del Marchese del Grillo: “io so’ io e voi non siete un cazzo”.

 

PRESTO DI MATTINA
Il richiamo della Parola di Dio: risacca e balbettio di onde

Come bambini che non parlano ancora, sommersi da suoni che non comprendono e tuttavia tentano e ritentano di imitare, così si sta, balbettanti, la domenica dopo l’ascolto del vangelo. Una mareggiata di parole, onda dopo onda, si riversa sull’assemblea, lasciando in ciascuno il suono e, forse, non sempre il senso. Il rintocco pare però sufficiente a risvegliare il desiderio e l’attesa che si manifesti, una volta o l’altra, pure il senso, così da consentire a Colui che nella calca della folla sentì qualcuno toccargli di nascosto il mantello di rivolgere anche a noi le parole dette a una donna da dodici anni malata: «Figlia, la tua fede ti ha salvata, va in pace!» (Luca 8,43-48).

A messa si sta allora fiduciosi come bambini, come infermi che in quel balbettare, rimuginando dentro e fuori, sanno che nascerà la parola, che sgorgherà la sua luce che guarisce. La parola di Dio, il vangelo restano sempre gli stessi, affidabili e compassionevoli come il mare: «Tutto viene a noia, solo a te [mare] non è dato abituarsi, passano i giorni, e gli anni, e mille, mille anni» (Boris Pasternak). Non c’è tempesta che non si calmi, non c’è mare su cui non ritorni la bonaccia per la parola del maestro risvegliato. Non c’è minaccia o guaio nel vangelo che non si muti in un “venite, ritornate a me, affaticati e stanchi, con tutto il cuore”. L’onda invece, direbbe Marina Cvetaeva, non è mai uguale a se stessa e ritorna sempre, ma diversa, quasi fosse la mia onda personale, venuta apposta per me, la parola di qualcuno rivolta solo a me, in intimità, cuore a cuore.

Penso a Pietro e ai suoi amici quella volta che ospitarono il maestro sulla loro barca, come un pulpito di chiesa, un ambone all’aperto sullo sconfinato mare. Parlava a tutti, alla gente sulla spiaggia. Ma poi la parola del maestro si rivolse diretta proprio a Pietro, senza lasciare spazio a una generica risposta. Egli lo chiamò per nome – Simone che poi cambierà in Pietro – fiaccato da una notte di pesca infruttuosa, reti e mani vuote. Ma quel giovane rabbi non si accontentò: voleva lui, e gli chiese di ritornare al mare. Penso che si sentì allora come onda che muore sulla spiaggia. Un uomo venuto dalle alture di Nazaret, falegname per giunta, gli chiedeva di riprendere il largo, di rinascere “onda nuova”. Decise di fidarsi; di affidarsi come al vento le vele in mare a quella parola: «duc in altum», prendi il largo; e avendolo fatto riempì le sue mani e le reti di pesci da non credere. Una sorte identica – ne sono convinto – a quella di coloro che la domenica, divenuti uditori della parola, proveranno a pescare nell’immenso mare del vangelo.

Non ci è dato comprendere del vangelo tutte le parole che ascoltiamo; ma di stare attenti e di intenderne qualcuna almeno, questo sì. Come quando lo sguardo dalla riva vede arrivare le onde e qualcuna più distesa e coraggiosa arriva a bagnarci i piedi. Sentendola tiepida e invitante si fa qualche passo incontro ad essa, aspettandone un’altra e così, onda dopo onda, cresce l’irresistibile richiamo del mare: risacca e balbettio d’onde. All’improvviso un tuffo, e si prende il largo senza sapere chi è abbracciato per primo, tu o l’onda. Così accade con le parole del vangelo.

O come quando da bambino passavo per i campi a giugno, e le spighe indorate e brunite al sole sembravano tutte ugualmente belle, tutte in una, una in tutte, e dopo uno sguardo grato passavo oltre. Poi, una volta, in un ondeggiare di messi alla brezza di terra – quella leggera aria che ritorna durante le ore del giorno fino a sera a sparpagliate un poco i ranghi delle spighe – mi accorsi spuntare tra le cime ondeggianti, sorpresa, i petali scarlatti di un papavero. Allora mi fermai, attendendo che il vento ne scoprisse un altro e poi un altro ancora. Ed insieme a quei piccoli rubini, si palesarono pure intensi lapislazzuli, i fiordalisi, coronati di un blu come il mare nel suo profondo di mistero che non puoi mai dire per intero. Così, allo stesso modo, non allo sguardo ma all’udito, capita talvolta di comprendere l’inesprimibile: il venire a te della Sua parola, inaspettata, ma pure attesa. Bernardo di Chiaravalle cistercense ricorda che il Padre, per farsi comprendere da noi, ha “abbreviato”, ristretto, riavvicinato a noi il suo Verbo (Verbum abbreviatum). Quella medesima Parola, che per la sua estensione riempie il cielo e la terra, nel suo farsi carne, la Parola indicibile del Padre, si è resa dicibile nelle nostre parole e voci umane: Gesù, la Parola “più breve” del Padre.

Come in ogni parola proferita abita lo spirito di colui che l’ha enunciata, così la brezza dello Spirito, la sua rugiada, che dimora tra le pagine del vangelo, trasforma la domenica mattina quelle parole scroscianti, balbettanti, quelle parole imperiture, vaganti per l’assemblea liturgica in una parola rivolta e risuonante in ognuno che ascolta: una parola anche per te.

E scopriamo così che anche Dio balbetta per amore nostro. Lo ricorda Gregorio Magno: «Egli ci viene incontro sempre nelle acque basse e in quelle profonde. Dio si è abbassato per elevarci e la Scrittura non ci innalza se non abbassandosi al nostro umile linguaggio. “La parola di Dio si proporziona alla nostra debolezza; come uno che parla al suo piccino e, per farsi capire, si adatta a balbettare come lui…Si può paragonare la Parola di Dio a un fiume, dalle acque basse e ora profonde: così basse che può attraversarle un agnello, così profonde che vi può nuotare un elefante»  (Commento a Giobbe A Leandro, 4 CCL 143,6). Scrive papa Francesco: «Servono persone che sappiano far emergere dagli sgrammaticati cuori odierni l’umile balbettare: «Parla, Signore» (1 Sam 3,9). Servono ancora di più coloro che sanno favorire il silenzio che rende questa parola ascoltabile» (Discorso, 16 settembre 2016).

E così anche tu, la domenica, ricominci a custodire il silenzio. E poi a balbettare quella parola ineffabile; parola inesprimibile, farfugliata, come quella dei bambini quando continuano a tartagliare cose incomprensibili, suoni indecifrabili, un “non so che”, e proseguono determinati e indefessi perché hanno intuito che in quel groviglio, nella inafferrabilità di quei suoni vi è una parola rivolta a loro, un seme di parola nascosto, una lontanissima e ancora invisibile stella, luce ancora in viaggio nello spazio siderale, che verrà presto come luce aurorale nella notte di Babele.

La notte non è vuota. Contiene il nostro desiderio che le parole vengano alla luce. Così la fede è quel balbettare notturno, in ascolto fiducioso del germinare della parola e del suo battito balbettante, del senso raccolto in essa: «nella notte del senso germina l’Aurora della parola» (Maria Zambrano). Prima della proclamazione del vangelo – che va ascoltata e non letta nel foglietto – mi rammento della preghiera di Anselmo di Aosta nel suo Proslogion (Colloquio): «Orsù dunque, Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti. Signore, se tu non sei qui, dove cercherò te assente? Se poi sei dappertutto, perché mai non ti vedo presente? Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti».

Poeti e mistici. Maria Zambrano si interroga sul balbettio: «Cos’è che chiamiamo balbettare? Cosa si intende per balbettio? Qualcosa che non arriva a dire nulla per insufficienza della parola, o qualcosa che dice tutto per l’immensità dell’amore e del timore, per la prossimità della presenza anche solo intravista? Ed esiste anche il balbettio che sbarra il passo al pianto, che ne interdice la nascita, che annuncia il pianto reprimendolo: allora è il singhiozzo. Il singhiozzo, il più profondo e ampio tra gli umani dire, quello che, nel migliore dei casi, li abbraccia tutti. Nell’interiorità più profonda del regno del singhiozzo, e del pianto, e del gemito, abita talvolta il nucleo, il seme indissolubile, della parola stessa… Il balbettio dell’appena nato si sofferma alla vista di questo che presentito già nello stato nascente, dentro lo stesso balbettare. Quel “un no se qué que quedan balbuciendo” (Giovanni della Croce). Quel “non so che” che resta sospeso, che si sprigiona tanto dai gemiti più profondi come dalle parole più nitide e trasparenti… L’Aurora stessa balbetta, come tutte le creature, un regno di luce e colore, di spazi non esistiti, di tempi popolati da non si sa cosa», (Dell’Aurora, 90-92).

Giovanni della Croce modulando il suo Cantico spirituale sul Cantico dei cantici pure lui allude a un «non so che», a un «balbettio». Sono le parole di coloro che parlano dell’Amato all’amata che lo cerca invano: «Dove ti sei nascosto, Amato? Sola qui, gemente, mi hai lasciata!». Ma queste parole risuonano come un presagio che accresce il suo soffrire; è un parlare che non fa capire: fa solo presentire e desiderare: «E quanti intorno a te vagando, di te infinite grazie raccontando, ravvivan così le mie ferite, e me spenta lascia non so cosa, ch’essi vanno appena balbettando», (strofa 7,9-10). L’amore resta così impaziente, desiderante e ferito per qualcosa che non c’è ancora. E non bastano certo quei frammenti incerti di parole per acquietare il cuore. È un “dire” che non è ancora un “dirsi”, faccia a faccia. Nel disvelarsi degli occhi e nell’udire il dischiudersi lieve delle labbra, solo allora sarà sanata la ferita dell’amata come da «fiamma che consuma, ma non da pena» (Strofa 38).

Di balbettio infine racconta pure Martin Buber in una storia: «Rabbi Levi Isacco arrivò un giorno a una locanda dove alloggiavano molti mercanti che andavano a un mercato. Il luogo era lontano da Berditschew e così nessuno conosceva lo zaddik. La mattina presto gli ospiti vollero pregare; ma poiché in tutta la casa si trovò un unico paio di tefillin, l’uno dopo l’altro se li cinsero e dissero in fretta la preghiera per passarli a un altro. Quando tutti ebbero finito, il Rabbi chiamò a sé due giovani; voleva chiedere loro qualcosa. Essi si avvicinarono, egli li guardò serio negli occhi e disse: “Ma, ma, ma, va, va, va”. “Che volete?” esclamarono i giovani, ma non ebbero altra risposta che i medesimi suoni confusi. Lo presero allora per un pazzo. Ma egli parlò loro: “Come, non capite questa lingua? Eppure poco fa avete parlato a Dio così”. Per un momento i giovani tacquero, turbati, poi uno disse: “Non avete visto un bambino nella culla, che ancora non sa articolare la voce? Non avete sentito come fa ogni genere di rumori con la bocca: Ma, ma, ma, va, va, va? Tutti i saggi e i dotti del mondo non lo possono comprendere. Ma quando arriva la sua mamma, essa sa subito che cosa vuoi dire”. Quando il Rabbi di Berditschew sentì questa risposa si mise a danzare dalla gioia. E quando negli anni seguenti, nei «Giorni terribili», in mezzo alla preghiera s’intratteneva, come era suo uso, con Dio, soleva raccontargli questa risposta» (I racconti dei Hassidim, 191 192).

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

PAROLE A CAPO
Franco Stefani: “Magia” e altre poesie

“La poesia è qualcosa di oscuro che fa luminosa la vita”.
(Pier Paolo Pasolini)

 

Magia

È di sera, quando le ombre
tagliano la vita come coltelli
e il silenzio è un macigno
che divento piccolo, piccolo
per nuotare tra le onde dei tuoi capelli
e addormentarmi sul tuo seno

 

Appennino

Alberi. Vento tra i rami.
Sinfonie. Assoli. Controcanti.
Crepitio di legni spezzati
da passi incauti.
Trilli, fischi, cinguettii.
Nel bosco più fitto
si smorzano i raggi del sole.
Pigolii. Semioscuro
silenzio di cattedrale.

 

Dell’isolamento

A Mark Strand

Passo ore al buio, questa stanza mi separa
dalla vita che fuori scorre in qualche modo.
Qui dentro si può fissare il nulla.
Non voglio preoccuparmi se arriveranno le ombre,
se il sole se ne andrà senza aloni dorati,
se il dolore mi tormenterà di nuovo,
se vedrò il futuro nella sua feroce verità.
Penso a quante illusioni mi restano,
a quanti artifici potrò ancora utilizzare,
a quali maschere indossare,
a quale flauto di Pan suonare
quando cadrà la neve. 

 

Languidamente

Languidamente
il tuo giovane corpo attende
lo scendere di questa sera ferrarese
che con movenze viola ci sorprende
lentamente

Nell’aria c’è musica
e un lieve profumo di tigli
tutto troppo perfetto, forse:
un ricordo o un’illusione

L’importante, bella dagli occhi neri
è che tutto scorra, che tutto accada
dolcemente.

Franco Stefani è nato e vive a Cento (Ferrara). Giornalista professionista, scrive versi da molti anni. Ha curato il volume “Io spero che non faccia più il terremoto” (Minerva, 2009) dedicato al sisma che ha colpito l’Abruzzo. Tra i suoi più recenti libri, “Tre sguardi in uno” (Pendragon, Bologna, 2015) e “Istanti” (Genesi Editrice, 2019), che comprendono testi poetici e racconti brevi.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

PANDEMIA E FANTASIA

Oggi 5 dicembre 2020 arrivo un po’ distratto in salotto, pronto a demolire l’imponente fascio di giornali che mi occupano parte della mattinata e che consumo tra letto e poltrona.
Mi accorgo che c’è qualcosa di nuovo nell’aria e il mio sguardo si dirige al tavolino, dove fa pompa di sé un grande mazzo di tulipani. Ma…. ecco che li vedo muoversi, assumere pose strane dentro il vaso verde; poi mi s’illumina la mente. Per forza! Sono tulipani GIALLI e la loro danza emblematizza una data: da domani siamo in ‘zona gialla’. In studio sento però un brontolio sommesso, che proviene a sua volta dal grande mazzo di gigli bianchi che profuma lo stanzone. E dicono “Sempre ai meno importanti è data l’occasione di gioire. Noi nobili mai siamo presi in considerazione”.

Freneticamente i giacinti, sparsi per tutta la casa, fanno il tifo: quello che si riserva a Maradona. Al proposito il mio silenzio su quella perdita va almeno spiegato. Il ‘Divo Diego’ e la sua scomparsa non mi producono in verità alcun significativo sussulto. Invano gli ‘intendenti’ con citazioni dotte – specie quelle che si riferiscono nell’antichità alla divinizzazione di atleti tramite la poesia –  cercano di farmi recedere da quella posizione, anche se suffragata dall’essere, e lo ripeto, da sempre forse l’unico che mai abbia assistito a una partita di calcio, o anche di averla vista integralmente in tv.

Mi distraggo tuttavia nei servizi televisivi a rivedere le immagini della mia adorata Napoli, perdendomi tra le botteghe di san Gregorio Armeno, ripercorrendo con la mente i luoghi di tanta felicità sperimentata: i Bassi, la Galleria, Piazza Dante, Spaccanapoli. E qui il ricordo si fa vivo e urgente. Per un tempo ragguardevole ho viaggiato con i miei cognati e, se la meta era ogni anno la Francia, andammo spesso anche nella mia amatissima Napoli. Qui, per caso, scoprimmo un hotel a Posillipo dal nome invitante: Paradiso. Ci demmo un appuntamento in quanto io ancora guidavo e loro ci raggiunsero il giorno dopo su una macchina appena comprata. La notte stessa il portiere ci avvisò che ‘purtroppo’ avevano tentato il furto, che era stato spaccato il finestrino posteriore e altre amenità, tanto che mio cognato fu obbligato a passare la notte in macchina. Ma il luogo era incantevole e in altre occasioni, quando ad esempio mi recavo a Lipari, era d’obbligo una sosta di un giorno o due nell’amata città. Ma ormai il Paradiso ci veniva negato. Scoprimmo che era diventato il quartier generale di Maradona e che c’era una fila ininterrotta di prenotazioni per recarsi in quell’hotel. A questo punto si sommi la mia indifferenza al calcio, l’essere tenuto lontano da un posto amato e potrete fare la somma di come il nome di quel potente era per me oggetto di stizza.

Frattanto notizie strane arrivano portate dalla stampa nel mio rifugio popolato di fiori. Finisco con sempre più entusiasmo la recensione al magnifico libro di Gigliola Fragnito La Sanseverino, che ancora mi riporta a Napoli, mi esibisco in conferenze on line che mi gettano nel panico per l’uso di questo strumento particolarmente inadatto alle mie capacità, anche se, non so per quale aiuto, forse del mio tecnico formidabile Saint–Laurent, sembra che sappia cavarmela abbastanza bene.

Oggi poi leggo sulla stampa che è indagato il vicesindaco della mia città a seguito di un esposto del rappresentante dei radicali ferraresi Mario Zamorani. Quello che però mi colpisce di più è il nome dell’avvocato che porta avanti l’esposto: Longobucco. Non mi sembra vero, eppure quel cognome è quello di un paese che ho visitato e che è lo stesso dove sono nati e vissuti amici carissimi. Mi attivo e – potenza della storia meravigliosa e affascinante della nostra nazione – mi si dice che nel tempo andato ai bimbi accolti in orfanotrofio veniva dato il cognome del paese da cui provenivano. Uno per tutti Cosenza. Così la storia dei cognomi si inserisce sulla ancor più complicata vicenda testimoniata dall’ebraismo, per il quale da zone ben precise di Marche, Emilia, parte della Lombardia e della Toscana, assumevano i nomi di città e paesi: pure della mia. E così Ferrara, Cosenza, Ravenna, Rimini, Pesaro e anche Longobucco indicano città e dinastie, luoghi e persone.

Mi si domanda come passerò il Natale, visto che è un dovere totale e irrinunciabile fare a meno della riunione familiare. Rispondo “noi due” tra caterve di piante, fiori e panettoni (ne ho scoperto uno fatto da un’azienda ferrarese che è un miracolo di bontà!) dischi, e film d’antan. Uno spasso. Ci siamo dati per le feste i nomi dei due cagnolini che sono entrati in famiglia da poco: zio Benny e zia Frida. I piccolini suoneranno i campanello e nell’androne troveranno una capanna, dove dentro ci sono i regali portati da babbo Natale. Nuovo suono di campanello e attraverso il microfono ci faremo gli auguri fra i ‘bau bau’ dello zio e della zia.

Se lo ricorderanno nel tempo e dalla pandemia sorgerà incantata la fantasia.

FERRARA SI CONFRONTA SUI NUOVI PAESAGGI MIGRATORI
Un convegno che diventa piazza dell’amicizia sociale

Meno male che il numero 19 è ancora possibile associarlo  a eventi straordinariamente belli come il Convegno Franco ArgentoCulture e letteratura dei mondi. Si è tenuto venerdì 4 dicembre grazie  all’impegno costante del CIES Ferrara e della Associazione Cittadini del mondo, con la collaborazione del Comune di Ferrara e dell’IT “V.Bachelet” e con il  patrocinio del MIUR. Il titolo: Nuovi paesaggi migratori.
Si è tenuto nella forma del collegamento su piattaforma Youtube, ma dico subito che è stato possibile percepirlo non come un evento “a distanza”, al contrario. Si sono avvicendati relatori di provenienza, età e formazione culturale diversa: tutti generosi nel far sentire la loro voce e le parole, tutti capaci di coinvolgere gli uditori come attirandoli dentro uno spazio comune, dematerializzato ma palpabile. Ho provato entusiasmo.

Ora vorrei andare con ordine e dare conto della impeccabile conduzione di Paolo Trabucco e degli interventi, anzi mi verrebbe la tentazione di scrivere gli atti del Convegno. Non ho qui lo spazio per farlo e non è detto che ne darei il resoconto più efficace. Alessandro Manzoni insegna: ha evitato di scrivere un secondo libro, pienissimo di ragionamenti, obiezioni e risposte alle obiezioni sul suo I Promessi Sposi, nella convinzione “che di libri basta uno per volta”.
Mi allineo e decido di riportare i momenti che mi hanno entusiasmata. Tanto, il convegno è stato una fucina di idee, di dati rigorosi e di scenari sulla contemporaneità, una rete di pensieri liberi che mi fanno muovere dentro a una piazza ideale. In qualunque punto avvenga il mio ingresso, qualunque sia il percorso che faccio dentro la piazza posso assorbirne le voci e portarle a mia volta in giro caricandole di altre conoscenze, di aspettative e di speranza. Potrebbe essere intitolata all’orizzonte semantico del Convegno e chiamarsi Piazza dell’amicizia sociale. Ci potrei incontrare due insegnanti che hanno, il primo creato, il secondo animato le precedenti edizioni del Convegno: Franco Argento e Alberto Melandri.

Ascolto l’intervento dell’antropologo britannico Iain Chambers, autore tra gli altri del testo Paesaggi migratori, uscito in Italia una prima volta nel 2003 e di nuovo nel 2018, a cui si ispira il titolo del Convegno. La parola migrazione è utilizzata da lui  in modo ampio e libero: la migrazione non riguarda solo il nostro presente, è fenomeno antico, allo sguardo esperto del relatore risulta essere un elemento centrale nella formazione della modernità. La migrazione non segue e non ha seguito soltanto le rotte dall’Africa verso l’Europa, ma linee di movimento diverse e direzioni di marcia opposte a quelle che ci dicono gli stereotipi da cui siamo bendati. L’esempio che fa Chambers riguarda l’Algeria,  dove nel secolo scorso si erano trasferiti circa un milione di stranieri, tra cui numerosi nostri connazionali.
Algeria, così come Tunisia e Libia,  significano Mediterraneo, quel Mare Nostrum che da due millenni almeno viene mappato sulla base di categorie culturali ed economiche eurocentriche. Chi ha diritto di definire, di narrare la storia del Mediterraneo? Perché non superare l’ottica del colonialismo e attivare punti di vista differenti, restituendo simmetria al potere della narrazione, e riconoscendo per esempio alla lingua araba la legittimità di leggere l’assetto attuale di questa area del mondo? E poi, insieme alle lingue e alle letterature, quali mondi e quali integrazioni possono mettere in luce le altre arti! Quale viatico per leggere la complessità del nostro presente. Scorrono sul video immagini di danze, ascoltiamo un brano musicale intenso.  Mentre avverto che la voce e la musica della cantautrice palestinese Kamilya Jubran non mi sono familiari, penso che lo possono diventare.

Intervengono alcuni studenti del Liceo Carducci e più tardi altri del Liceo Ariosto e dell’Istituto ITI Copernico. Scopro che ‘gli Ariosti’ sono di una classe meravigliosa che ho lasciato due anni fa. Ora sono in quarta e li ritrovo sempre sensibili e preparati. Sono commossa, ma questa è un’altra storia.
Qui tutti i ragazzi che parlano sono informati, intensi e propositivi. Riportano l’attenzione al mondo che ci è più vicino, alla nostra provincia, alla nostra città, al Quartiere Giardino sul quale sono stati pubblicati due testi: la Guida turistica e Il viaggio in un quartiere multietnico. Nei loro interventi  sondano le cause della integrazione difficile tra ferraresi e immigrati, forniscono dati ma soprattutto aprono nuovi scenari in cui le differenze sono fonte di ricchezza per la comunità. Espongono le tante attività svolte negli ultimi tre anni da classi di ogni ordine di scuola, da circa mille studenti del nostro territorio. Raccontano le loro esperienze di incontro e di scambio con giovani come loro, con giovani stranieri carichi di storie. Come Kelvin, che viene da una città del Brasile e a Ferrara ha frequentato i corsi del Centro per l’istruzione degli adulti. Kevin propone di rivalutare il Quartiere Giardino anche attraverso le attività artistiche; come lui i ragazzi dell’ITI Copernico sembrano essersi messi d’accordo con Chambers e si esprimono cantano un pezzo rap di cui hanno composto il testo, un intenso testo poetico.

Si alternano ai giovani altri relatori esperti. Resto colpita dal taglio che Federico Faloppa ha dato al suo progetto Beyond the border, dove il concetto di confine viene presentato come uno spazio complesso che non coincide con la linea di frontiera comunemente intesa, ma comprende le aree in cui sostano le persone che migrano, le condizioni in cui vivono nel momento del passaggio, le azioni di controllo su di loro, le sovrapposizioni di lingue e di culture in movimento. I confini sono inoltre di vario tipo: ci sono confini visibili, quelli tracciati sulle carte geografiche, e confini che non si vedono, come quelli interni alle società, segnati per esempio dalle isoipse socioeconomiche.
Ce ne sono nella stessa città di Ferrara, come è emerso dalle parole degli studenti, e separano non solo i ferraresi rispetto agli immigrati ma anche i ferraresi tra loro.
I confini sono altresì studiati da Faloppa  come luogo di interrelazione, come spazio sociolinguistico della intermediazione. Quante lingue parlano correntemente molti migranti, che andrebbero valorizzate e condivise; quanti cartelli scritti in più lingue nei punti di passaggio tra un paese e l’altro, sulle barriere che i migranti cercano di superare mentre sono in fuga da guerre e violenze. Osservo le immagini di individui aggrappati a grappoli alle reti che li separano dalla loro meta, dal paese a cui vorrebbero accedere. Sono senza individualità e senza nome.

Sono flussi, ci ricorda Tahar Lamri: un’altra parola tutt’altro che innocente con cui sono designati. Da chi? Dalla lingua corrente con il suo appiattimento lessicale, dalle testate di alcuni giornali e da altri media. Occhio ai media, allora. Ecco i contributi del gruppo che si è costituito a Ferrara  nel 2010 per costituire un osservatorio sulle discriminazioni verso gli stranieri  che appaiono sui giornali e sugli altri mezzi di comunicazione. Ritrovo Adam e Shazeb: quanta strada hanno fatto le loro indagini sugli stereotipi, sulle fake news, sui titoli dei quotidiani che demonizzano i migranti; quanti incontri nelle scuole, quante pubblicazioni. L’ultimo loro report si occupa di etnic profiling, cioè della tendenza delle forze dell’ordine a intensificare i controlli sulle persone che appartengono a minoranze etniche. In questo periodo Covid, i giornali si sono occupati spesso dei controlli effettuati a causa della emergenza sanitaria; spesso questi controlli sono  mirati sugli stranieri e finiscono per includere i loro documenti e i permessi di soggiorno, come evocando il binomio immigrato uguale contagio.

Eppure, come anche Ibrahim Kane Annour ribadisce col suo stile accorato, sono migranti anche gli svizzeri, i canadesi o gli statunitensi che vengono in Italia. La migrazione resta il sintomo inevitabile degli squilibri tra le aree del pianeta, smettiamola con lo stereotipo del migrante che viene dall’Africa e magari porta con sé il pericolo di malattie. I migranti portano altresì nuove risorse, contribuiscono alle economie dei paesi di arrivo, hanno diritto di esserne parte come cittadini a pieno titolo.

Poi parla Nader Gazvinizadeh: è graffiante come lo ricordavo e attorno alla sua voce il silenzio sembra rapprendersi in una concentrazione totale su di lui. Ha ascoltato con attenzione tutti i precedenti interventi e dice agli studenti e ai giovani di Occhio ai media: per ognuno di voi ci sono migliaia di schiavi che lavorano nelle campagne del sud. Va guardata in faccia la realtà: il problema non è il razzismo, lo sono i crimini fatti in nome del razzismo. Dice: ammetto di essere razzista e per questo devo conoscere e combattere il mio razzismo; a questo scopo devo usare il mio coraggio, non per sbandierare il principio di uguaglianza e fuggire con ciò la diversità.
Come ha detto Chambers, le differenze possono coesistere in uno spazio senza separazione. I confini nel progetto illustrato da Faloppa sono aperti, sono porous borders.

Non posso non riportare almeno le fonti seguenti:
SITO CIES Ferrara: comune.fe.it/vocidalsilenzio/index.htm
Ultimo report di Occhio Ai Media [Vedi qui]

  • Iain Chambers, Paesaggi migratori: cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi editore, 2003 e 2018
  • AAVV, Il giardino del mondo. Viaggio in un quartiere multietnico di Ferrara, Este Edition, 2020
  • AAVV, Il Quartiere Giardino di Ferrara. Guida turistica. Edizione multilingue, Este Edition, 2019

INCERTI TRA PASSATO E PRESENTE
Da Gutenberg a Galileo: la nostra eterna diffidenza verso il Nuovo

Ci racconta Socrate, nel Fedro di Platone, che per Thamus, sovrano dell’Egitto, la scrittura ideata dall’ingegnosa divinità Theuth, anziché sapienza, avrebbe inculcato nell’uomo il germe della dimenticanza. I segni estranei della scrittura erano destinati a produrre solo dei portatori di opinioni, anziché dei sapienti. Mito che riecheggia timori e pregiudizi nei confronti di tutto ciò che per l’uomo è nuovo, che l’uomo non ha ancora sperimentato. Di fronte alle tecnologie e alla scienza prende il sopravvento la parte più primitiva del nostro cervello, la diffidenza, come la repulsione innata verso i rettili.

Ma è che il nuovo, nel senso di modus, di moderno ci scuote nelle fondamenta. Paradigmi e strutture mentali vengono rivoluzionati, il pensiero di prima non è più quello di dopo, neppure le abitudini e le condotte. C’è sempre qualcuno che si affatica a tradere, a trascinarsi dietro la tradizione da consegnare ai tempi nuovi, perché il distacco da ieri non produca l’abbandono della sapienza consolidata, a prescindere dalla sua utilità.
Il nuovo produce accelerazioni, più avanza, più si genera rapidamente. Il secolo breve di Hobsbawm, tra catastrofi, frane e ideologie malate, ha assistito a rivoluzioni nel campo delle tecnologie e della ricerca scientifica mai così impensabili e numerose. Scienza e tecnologia hanno rivoluzionato i nostri paradigmi, le nostre modalità di ragionamento, i nostri approcci con la realtà e con il sapere.

In un secolo abbiamo assistito al sopravvento delle automobili e degli aerei, dei trasporti veloci, fino ai viaggi interplanetari, allo sviluppo della cinematografia, all’avvento della radio e della televisione, sino alle nuove tecnologie informatiche, alla scoperta di cure e vaccini che ci hanno consentito di sconfiggere malattie mai prime debellate, di migliorare la qualità della nostra vita e di prolungarne la durata. Siamo il prodotto di rivoluzioni culturali che hanno inciso sul nostro modo di essere e di pensare e tutto lo abbiamo vissuto come il risultato naturale del progresso, frutto delle ricerche e del genio umano. Una umanità avventurosa nei secoli passati, che ora pare aver paura di se stessa, che ha perduto l’entusiasmo della conquista, come se si fosse sconfitta da sola. La gara con la vita è sospesa, il mito prometeico relegato in soffitta. Diffidenti di noi e degli altri siamo precipitati nel sospetto che tecnologia e scienza siano alleate in un progetto di manipolazione biologica, di mutazione genetica, di controllo delle nostre esistenze, di sfruttamento degli individui, di limitazioni delle libertà personali.

L’uomo si ripete. Il mito di Theuth e Thamus ci racconta delle resistenze nel passare dall’oralità alla nuova tecnica della scrittura: farmaco del ricordo o inibitore della memoria? Così l’avvento della stampa: tecnologia di controllo o tecnologia di libertà? Sarà proprio la stampa della Bibbia che consentirà a Lutero di sperimentare la più grande forma di libertà che l’umanità abbia mai conosciuto: la libertà di pensiero.
Per non parlare della tecnologia del cannocchiale di Galileo che ha portato alla rivoluzione di tutto il sapere, affrancando la conoscenza dalla dittatura delle sacre scritture.

Siamo divenuti schizofrenici. Da frenetici compulsatori di telefonini e computer, al sospetto che le protesi delle nostre vite quotidiane ci si possano rivoltare contro. Abbiamo coniato i ‘nativi digitali’ e la ‘generazione zeta‘ per prenderne le distanze e nello stesso tempo nascondere i nostri sensi di inferiorità. Scordandoci che, noi figli della cultura libresca, dei testi, delle scritture e degli alfabeti, siamo stati gli dei creatori degli idoli di queste ragazze e ragazzi, noi che veniamo dal secolo passato. Pare quasi che misconosciamo le nostre creature, che vogliamo liberarci dalle nostre responsabilità, come se ci fossero sfuggite di mano, scatenando effetti che non avevamo conteggiato. E mentre crescono le cattedrali del digitale, noi ci ritiriamo nelle nostre antiche chiese a contemplare quanto era bello giocare a pallone in mezzo alla strada, anziché trascorrere le giornate a messaggiare col telefonino, o di fronte al desktop del personal computer.

Spendiamo parole di retorica sulla didattica in presenza per quanto manca, condanniamo la didattica a distanza, scordando che quella roba lì l’abbiamo inventata noi del secolo scorso. Non la chiamavamo didattica a distanza, la chiamavamo Telescuola. Un progetto formativo innovativo con quattro milioni di ascolti giornalieri, che dal 1958 al 1966 ha consentito il completamento del ciclo di istruzione obbligatoria ai ragazzi residenti in località prive di scuole secondarie.
Perché, non era forse didattica a distanza Non è mai troppo tardi? A fronte dell’elevato analfabetismo nell’Italia degli anni ’60, le quotidiane lezioni del maestro Manzi hanno permesso a un milione e mezzo di italiani di conseguire la licenza elementare.

Allora il problema non è la didattica a distanza che comunque è una soluzione, il problema invece siamo noi. Lo scriveva uno dei pensatori più originali del Novecento, Vilém Flusser, nel suo La cultura dei media. Viviamo in un mondo che non è più sinonimo di progresso, ormai non racconta più storie e vivere in esso significa smettere di agire.
È possibile che l’avvento della pandemia abbia dilatato questa sensazione, ma l’impressione è che a scomparire siano sempre più i pensieri, le intelligenze, le idee e le riflessioni. La capacità di immaginare domani possibili, un’impotenza a cui pare incatenato il nostro tempo.

La crisi di valori alla quale spesso ci appelliamo, non è una crisi etica, ma una crisi di significato, di significati condivisi. Non sappiamo deciderci a compiere il passo definitivo, incerti tra il nostro mondo di testi, di scrittura alfabetica, di logiche matematiche, ancora del secolo scorso, e il nuovo mondo della tecnologia e dei suoi valori, il mondo delle generazioni che non vengono dal nostro lontano, ma dal nostro vicino, quello a cui ancora guardiamo con dissimulato sospetto.
Da questo stallo dovrebbero liberarci la cultura, la scuola e le università, ma anche loro di fronte al nuovo non stanno dando il meglio di se stesse, prigioniere del passato faticano a scavallare il secolo.

Dalla parte del torto, un po’ di lato

Una donna speciale Lidia durante tutta la sua lunga vita. Ci mancherà: tanto. Pubblico con piacere e commozione questo ricordo dell’amico Piergiorgio Paterlini.
(Effe Emme)

di Piergiorgio Paterlini

Di lei, della carissima Lidia Menapace, portata via dal Covid-19 non importa a che età, sempre troppo presto e davvero tristemente, sentirete dire e leggerete, e avrete già sentito dire e letto, tutto il bene possibile.

So che non dovrei scriverlo, ma non ci riesco. Non solo eravamo molto amici, ma ci volevamo un bene dell’anima, un  affetto forte e più ancora allegro. E io tutta la vita, fin da ragazzino, da questo affetto senza compiacimento mi sono sentito scaldato (a partire da quel diventare ex-cattolici che non era poi una faccenda tanto semplice). E adesso ho più freddo di ieri.

Perché lei sapeva trasmettere affetto, ma era anche sempre tosta, e implacabilmente ironica, una cosa che io amavo infinitamente. Una di quelle rare persone che – non si sa bene come facciano – riusciva a non farti pesare il dolore nel momento stesso in cui te lo raccontava senza sconti e senza alcun falso pudore.

Non lo dovrei scrivere, che eravamo così amici, perché cosa ve ne importa, a voi lettori? Nulla. Giustamente. E non sto mica usando lei, e la sua morte, per parlare di me, tanto meno per vantarmi o crogiolarmi nell’anedottica. E perché lo diranno, lo hanno già detto, lo stanno dicendo a migliaia.

Mi fa piacere?

Sì e no.

Le manifestazioni d’affetto per una persona cara scomparsa commuovono sempre. E che lei avesse tantissimi amici e tantissime persone che le volevano bene è assolutamente vero.

Ma io ne ho già beccati tanti, in queste prime ore di lutto, falsi e bugiardi e ipocriti.

E questo mi fa male e mi fa incazzare e non ho voglia di farlo passare così.

Allora scriverò una sola cosa di lei, una soltanto ma che che sono sicuro – purtroppo – non leggerete mai, da nessun’altra parte.

Se c’era da far fuori qualcuno, in un partito, in un giornale, in un’organizzazione… lei state sicuri era la prima. Se c’era da scegliere fra lei e un altro/a, era l’altro/a che passava davanti e spesso che le passava proprio sopra. Più volte di quanto potreste immaginare, è successo.

Perché è scoprire l’acqua calda che c’è il potere e i ci sono i giochi di potere e le classi e i privilegi e chi frequenta e chi non frequenta anche nelle “sinistre”. Allora sappiate che lei, in questo nostro mondo, era una di quelle che non frequentava e non contava. Non era nata abbastanza bene. Né sposata abbastanza bene. Nonostante l’intelligenza, la cultura, la storia personale, il coraggio, la dedizione, non era mai stata ammessa nel salotto buono della rivoluzione. Poi non era vittimista e ha fatto, questo è vero, a dispetto di tutto e di tutti, una montagna di cose buone e belle nella sua pienissima vita.

Cento anni dalla parte del torto, cara Lidia, con allegria, con ironia, dalla parte del torto come molti di noi, orgogliosamente, ma… anche un po’ di lato, in terza fila, che gli altri posti erano già tutti occupati da persone più importanti di te. Scusa, cara compagna, sei brava, ma… fatti un po’ più in là, per favore.

Quelli che senza tante cerimonie l’hanno sempre scansata, abbiano un po’ di pudore, oggi, nella loro triste retorica, mentre la piangiamo con lacrime che non sono di coccodrillo.

Pubblicato su Nuvole, il blog di Piergiorgio Paterlini [Vedi qui]

LE PAROLE PROIBITE:
Tassa Patrimoniale

Ci sono alcuni temi, addirittura alcune parole, che in questo Paese, per il pensiero unico mainstream, sembra non si possano neanche pronunciare. Una è la parola tassa patrimoniale. E’ bastato che alcuni parlamentari, in testa Fratoianni e Orfini, presentassero un emendamento alla legge di bilancio su un’ipotesi di tassa patrimoniale, che peraltro si potrebbe discutere dal punto di vista tecnico e politico, per far venire giù l’ira di Dio.
Lasciamo stare le destre, per cui ogni imposizione fiscale è una bestemmia, ma qui non c’è da stupirsi, visto il blocco di interessi che rappresenta. Anche Renzi occhieggia a quel mondo, o perlomeno – diciamo così – è decisamente sensibile alle sirene confindustriali. Ma sentire Di Maio affermare che così si danneggia la classe media – esempio fulgido di ignoranza o di tentativo di intorbidire le acque – e il PD, che dice che loro non c’entrano niente con quest’estemporanea iniziativa, lascia un po’ interdetti. Comunque, almeno in questa fase, l’obbiettivo di bloccare il tutto non è riuscito, visto che dapprima la Commissione Bilancio della Camera dei Deputati aveva dichiarato l’emendamento inammissibile con una motivazione incredibile, “per carenza o inidoneità della compensazione”, ossia sostenendo che esso avrebbe prodotto una scopertura finanziaria, per poi doverlo riammettere.

Mi sono chiesto da dove deriva quest’accanimento pregiudiziale contrario anche solo a voler discutere dell’imposizione patrimoniale. Una prima risposta è che non si vuole neanche minimamente togliere il velo alle spaventose e crescenti disuguaglianze esistenti nel Paese. S
Sempre per stare alla ricchezza, che riguarda il patrimonio immobiliare e finanziario degli individui e non va confuso con il reddito degli stessi, al 1° semestre del 2019 essa ammontava a ben 9.279 miliardi di €.  Secondo i dati della Ong Oxfam, Il 20% più ricco degli italiani deteneva quasi il 70% della ricchezza nazionale, il successivo 20% era titolare del 16,9% del patrimonio nazionale, mentre il 60% più povero possedeva appena il 13,3% della ricchezza del paese. Il 10% più ricco della popolazione italiana (in termini patrimoniali) possiede oggi oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.
Guardando il vertice della piramide della ricchezza, il risultato è ancora più sconfortante: il patrimonio del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero.
E non è tutto: tra gli inizi dei primi anni 2000 e il primo semestre del 2019, le quote di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco degli italiani e dalla metà più povera della popolazione hanno mostrato un andamento divergente. La quota di ricchezza detenuta dal 10% più ricco è cresciuta del 7,6%, mentre la quota della metà più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa, riducendosi complessivamente negli ultimi 20 anni del 36,6 per cento. Ancora: nel 1995, nel nostro Paese, il 10% più ricco della popolazione concentrava nelle proprie mani circa la metà della ricchezza netta, mentre nel 2016 questa quota ha superato il 60 %.

La seconda ragione di quest’occultamento risiede nel fatto che il PD, peraltro in compagnia della gran parte dell’esperienza socialdemocratica europea, di fronte alla crisi del Welfare State, si è lasciato ammaliare ed egemonizzare dal pensiero neoliberista degli ultimi decenni, provando al massimo a temperarne i suoi eccessi più estremi. Che, in tema di tassazione, ha predicato con successo che il livello della tassazione era troppo alto, che ciò ingenerava inefficienze nel sistema economico, e che lasciare ai ricchi risorse importanti avrebbe comportato un suo ‘gocciolamento’ ( il famoso trickle-down) verso la popolazione più povera, per cui i benefici economici elargiti a vantaggio dei ceti abbienti avrebbero favorito l’intera società, comprese la classe media e le fasce di popolazione meno abbiente.

In realtà, per fortuna, in altri Paesi, si discute, eccome, dell’imposta patrimoniale. Il governo spagnolo, seppure con una modalità discutibile,  l’ha introdotta nella recente legge di bilancio, fissando un prelievo dell’1% sui patrimoni superiori a 10 milioni di €.
Persino negli Stati Uniti, si ragiona sulla proposta di Sanders. Essa è una proposta radicale: far pagare l’1% a chi possiede più di 32 milioni di dollari di patrimonio, con un’aliquota crescente fino all’8% per chi possiede più di 10 miliardi di dollari. Secondo le stime tratte dal sito di Sanders, la misura consentirebbe di accumulare oltre 4.000 miliardi di dollari in 10 anni, riducendo in modo sostanziale la concentrazione della ricchezza negli Stati Uniti.
Per stare all’Italia, un semplice e grezzo calcolo matematico ci dice che, applicando un prelievo con un’aliquota dell’1% sul 5% più ricco della popolazione ( altro che ceti medi!), si potrebbe arrivare ad un gettito molto consistente, superiore ai 30 miliardi di €. Un bel contributo per ridurre le disuguaglianze, ottenere risorse senza indebitarsi per finanziare un Piano straordinario per il lavoro, trainato da investimenti pubblici, provare a costruire una traiettoria positiva per uscire dalla crisi sanitaria ed economica che ci affligge, uscire dai politicismi e dagli interessi di bottega che sembrano essere la natura più profonda del dibattito politico in corso.
Ma forse è chiedere troppo: ci basterebbe, più modestamente, sviluppare una discussione trasparente, impegnata e capace di stare al merito delle questioni, senza demonizzazioni o silenzi imbarazzati.

Richiamo all’ordine!

Appena iniziato il lockdown di marzo, una mia amica mi invia un messaggio per invitarmi a seguire un webinar gratuito sul metodo di studio di Massimo De Donno (ideatore del corso Genio in 21 Giorni). Il primo punto che disse, lo step numero zero per uno studio efficace senza perdita di tempo, fu: metti in ordine la scrivania. Eh già, un ambiente ordinato significa molto per la nostra capacità di concentrazione. Allora mi è tornato in mente quando, da adolescente, ho reagito ai periodi più critici riordinando la mia camera; cercavo l’equilibrio interiore, ma quello esteriore poteva diventarne uno specchio, o aiutarmi a trovarlo. In effetti, scegliere la disposizione degli oggetti stimola il senso critico: questo mi serve o lo butto? E qual è il posto più funzionale per questo?…
Ho scoperto che per i monaci buddhisti mettere in ordine ha un grande valore ed è una forma di meditazione. Ordine significa anche scegliere di seguire una regola, di rivestire un ruolo (penso alla Chiesa cristiana quando dice “ordinare sacerdote”, “l’ordine dei frati”, ecc).
Per quel che mi riguarda, posso confermare che sistemare la scrivania mi ha aiutato a studiare meglio. Non solo: pormi degli obiettivi da appuntare su un’agenda la domenica per la settimana successiva, e la sera per il giorno dopo pure hanno aiutato molto la mia persona e formazione. Credo che l’importante sia non cadere al lato opposto del caos, ossia un formalismo troppo rigido: organizziamo sì le giornate, ma lasciamoci anche scombinare i piani se serve! A volte è molto meglio così!

Il Microfestival chiude l’edizione 2020 con Anna Martellato ed Heman Zed

Due incontri con l’autore concluderanno il Microfestival delle storie, edizione 2020. La scrittrice veronese Anna Martellato mercoledì 9 dicembre alle 21 presenterà Il nido delle cicale (Giunti), intervistata da Riccarda Dalbuoni. Giovedì 17 dicembre alle 21, lo scrittore padovano Heman Zed, autore di Zodiaco street food (Neo edizioni) dialogherà con il vicesindaco di Polesella Consuelo Pavani. Gli incontri del Microfestival riprenderanno a gennaio con nuovi autori e altrettante storie da raccontare.
Sinossi Il nido delle cicale di Anna Martellato. Che cosa faremmo se un giorno scoprissimo che la nostra vita è un castello di sabbia e che nulla di quello che abbiamo costruito è autentico? Succede a Mia, compagna di Alessio, architetto di successo a Stoccarda. Per seguirlo, lei ha rinunciato a tutto, anche ad avere figli. Finché un giorno scopre che Alessio le ha nascosto una verità impossibile da accettare. Mentre tutto precipita, Mia torna dopo vent’anni di assenza nella grande casa di famiglia, sulle sponde del lago di Garda, dove abita la madre Vittoria, una donna eccentrica e autoritaria che vive cristallizzata nel passato e che Mia ha allontanato da sé molto tempo prima, a causa di un grave trauma familiare. Ma qui rivede anche Luca, il ragazzo diventato uomo di cui era innamorata da adolescente.
Sinossi Zodiaco street food di Heman Zed. I tempi cambiano e anche la malavita è costretta a correre ai ripari. Romeo Marconato, ex affiliato alla Mala del Brenta, un dono di sicuro ce l’ha: capire l’aria che tira. Con una moglie che detesta, un figlio problematico e il villone padovano, ha costruito un business ai limiti della legalità con il suo Zodiaco, un franchising di furgoni per panini – uno per ogni segno zodiacale – lungo la statale tra Padova e Venezia. C’è poi il super chef Vitiello, star televisiva del programma “The Simple Cook”, e i suoi autori, in crisi creativa per il format della prossima stagione. E c’è una mina vagante: lavora come cameriera a “L’ultimo Doge”, e suo malgrado nasconde un’estrazione decisamente diversa. Ma è Romeo Marconato il perno centrale, il motore di tutto. A lui, re incontrastato dello street food a basso costo e dalla dubbia qualità, i vecchi trascorsi riserveranno una succulenta occasione, il punto è capire se sarà in grado di fronteggiare un intreccio di eventi ben oltre la sua portata.

Per informazioni: microfestivaldellestorie@gmail.com
messenger: microfestival delle storie.

PER CERTI VERSI
A te

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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A TE

Torre
Una giraffa
Golosa delle foglie
Nuvole grigie
Imbevute di luci
Forse i tuoi capelli
Erano sui ponti
Come lucchetti
Chiusi negli addii
Il foulard del colore di una
Una collana
Di silenzi
Gli occhi
Trafitti
Dallo spazio

Uno squarcio
Di topazio

SCHEI
Ci vorrebbe Arsenio Lupin

Qual è lo scopo della politica economica? Secondo alcuni economisti lo scopo è redistribuire reddito e opportunità di crescita togliendo a chi ha troppo e dando a chi ha poco. E’ un concetto talmente semplice che sembra appartenere al diritto naturale prima che all’economia. Eppure l’influenza che questi economisti esercitano sull’andamento dell’economia è largamente minoritaria, se guardiamo allo stato delle regole che governano il mercato dei capitali e l’imposizione fiscale nel mondo. E parliamo del nostro mondo, quello dove le persone si possono spostare da un paese all’altro ma entro certi limiti: ci sono paesi dove non puoi andare se non hai già un contratto di lavoro prefirmato, oppure al massimo se non hai una occupazione stabile ci resti con un permesso temporaneo, dopodichè o ti trovi un lavoro fisso o sciò. Se poi sei un “extracomunitario” e pretendi di venire a vivere in un paese comunitario senza che un datore di lavoro, senza averti mai visto in faccia, ti abbia già firmato un contratto, sei un irregolare o un clandestino. Quindi esiste la “libera circolazione degli esseri umani”? La risposta è: dipende. In generale, no.

Viceversa, se voglio spostare soldi da un paese all’altro dove le tasse che pago su quei soldi sono inferiori o inesistenti, lo posso fare (lo fanno anche i Presidenti di Regione, avete presente?). Se voglio intestare un patrimonio mio in modo che sia praticamente impossibile risalire al fatto che è mio, lo posso fare liberamente. Se voglio trasferire la sede legale e fiscale della mia azienda in un cosiddetto paradiso fiscale (ce ne sono anche in Europa), per pagare meno tasse (e sottrarre gettito al mio paese), lo posso fare. Quindi esiste la “libera circolazione dei capitali”? Eccome se esiste.

Un economista di nome James Tobin nel 1972 propose una tassazione sugli scambi internazionali al fine di diminuire le fluttuazioni dei tassi di cambio, prelevando una piccola aliquota (mezzo punto percentuale) ad ogni cambio da una valuta ad un’altra, e scoraggiando la speculazione.

In un articolo scritto nel 2001, lo stesso Tobin precisava che già John Maynard Keynes avanzò l’idea di un’imposta sul profitto. Tobin rilanciò nelle “Janeway Lectures” a Princeton l’idea di Keynes in una nuova veste, sotto forma di un’imposta volta a colpire in lieve misura le transazioni sui mercati valutari con l’obiettivo di stabilizzarli attraverso la penalizzazione delle speculazioni a breve termine: si era all’inizio degli anni ’70, all’indomani dell’abolizione degli accordi di Bretton Woods, accordi che fino a quel momento avevano garantito la parità dollaro/oro e limitate oscillazioni dei tassi di cambio. Tobin intendeva “gettare sabbia nel meccanismo della speculazione e del dominio dei mercati finanziari”.

Tobin fu insignito negli anni 80 del Premio Nobel per l’economia, che assomiglia sempre più ad una medaglietta da mettere all’occhiello dei perdenti di successo. L’ipotesi di adozione di una versione estesa della Tobin Tax, applicata anche alle transazioni azionarie, è fallita. In Svezia la tassa venne introdotta nel 1984 per poi essere abolita nel 1991. Nel 2011 la Commissione Europea presentò un progetto per l’introduzione della Tobin Tax al fine di armonizzare le diverse forme di tassazione sulle transazioni finanziarie presenti in alcuni stati membri dell’Unione: naturalmente non se ne è fatto nulla. In Italia una piccola tassazione è in vigore dal 2013: colpisce il trasferimento della proprietà di azioni e di altri strumenti finanziari, con un’aliquota dello 0,2%, ridotta allo 0,1% in caso di trasferimenti che avvengono in mercati regolamentati.
L’aliquota si applica al valore della transazione, inteso come “saldo netto delle transazioni regolate giornalmente relative al medesimo strumento finanziario e concluse nella stessa giornata operativa da un medesimo soggetto “: ne consegue che in caso di operazioni di acquisto e successiva vendita (e viceversa) chiuse in giornata la Tobin Tax non viene applicata. Peccato che ormai tantissima speculazione avvenga in questo modo(esempio: acquisto mille azioni della società xy e entro la fine della giornata le vendo tutte e mille; il saldo netto è zero, quindi niente imposta)

Regolamentare e tassare la speculazione sul denaro ricorda la lotta tra doping e antidoping: una volta che trovi il modo di individuare una sostanza proibita, il crimine al servizio della performance ha già trovato una sostanza nuova che i test scopriranno cinque anni dopo, e così via. Il male arriva sempre prima del bene. E il bene è anche poco furbo: annuncia la sua battaglia ben prima di combatterla, e così facendo la perde in partenza. E’ quello che succede ogni volta che in Italia qualcuno cerca di colpire le rendite di capitale(mobile o immobile): si agita la “patrimoniale” come se fosse una muleta, gli oppositori soffiano dal naso come il toro alla vista del panno rosso, solo che in questo caso non muore il toro, muoiono la muleta e il torero.

Quelli che osteggiano la cosiddetta “patrimoniale” sollevano le seguenti obiezioni: 1.prima andrebbe riformato il valore delle rendite catastali, che è vecchio e non attuale. 2.perderemmo gettito fiscale e liquidità preziosa, perchè con un click sul computer si possono spostare i soldi all’estero o con poche abili manovre creare un trust che renda oscuro il proprietario dei beni da tassare. 3.la proposta prevede di togliere l’IMU sugli immobili non di lusso, quindi non ha copertura finanziaria, e farebbe perdere entrate fiscali. Ebbene: 1.se venisse aggiornato il valore delle rendite catastali gli immobili ad essere tassati(che rimarrebbero comunque quelli di pregio) sarebbero molti di più, quindi il gettito fiscale aumenterebbe (ma sospetto che molte delle case degli “oppositori” verrebbero coinvolte,  e qui risiede la vera ragione dell’obiezione); 2. tutto vero, purtroppo. Ma chiedete agli obiettori se sarebbero favorevoli ad una tassa transnazionale sull’esportazione di capitali o sull’occultamento di patrimoni. Vi risponderebbero che sarebbero misure liberticide, che vanno contro la libera circolazione dei beni. Finchè sono i beni a circolare, la libertà deve essere totale; 3.infatti gli oppositori vogliono continuare a fare in modo che lo Stato possa incassare montagne di denaro dal cosiddetto “ceto medio” che loro dichiarano di difendere, lasciando una tassazione ridicola (in proporzione) per le proprietà di notevole valore.

La realtà è che una tassa sui grandi patrimoni, mobiliari e immobiliari, si scontra con una legislazione mondiale che difende i ricchi e tartassa i poveri e il ceto medio; laddove per ceto medio si intendono le persone oneste, o comunque quelle che, per amore o per forza, non possono nascondere nulla al fisco. Lì il fisco è spietato ed occhiuto, mentre è cieco quando si tratta di scovare i grandi trust o gli evasori totali – che, paradossalmente, potrebbero non pagare nulla sulle loro irrintracciabili ricchezze proprio mentre incassano un reddito di cittadinanza. La realtà è (anche) che un sistema di capitali liberamente trasferibili senza barriere, di transazioni speculative libere da ogni imposizione se chiuse entro la giornata, in effetti rischia di togliere molta base imponibile a misure del genere, che in sè sarebbero sacrosante.

E’ anche vero che per fare certe cose (nascondere i propri beni o spostarli in paradiso) ci vuole un po’ di tempo. Purtroppo, quando certe misure si annunciano, o compaiono sotto forma di emendamento, svanisce l’effetto sorpresa e si lascia a questa gente il tempo di organizzarsi. L’unico modo per farla funzionare è batterli sul tempo e prenderli alla sprovvista, con un bel provvedimento immediatamente in vigore che consideri i valori ad una certa data, e prenda ai ricchi per dare ai “poveri”, esattamente come faceva Robin Hood. Non sarebbe comunque una redistribuzione equanime, perchè il già nascosto e sommerso resterebbe intoccato. Del resto, nemmeno Arsenio Lupin pretendeva di cambiare il mondo, ma nel suo piccolo era un ladro gentiluomo.

PRESTO DI MATTINA
L’elogio dell’umiltà

Magnificat anima mea Dominum perché ha guardato all’umile sua serva, innalzandola con gli umili: «L’universo è il tuo stelo,/ fiore della poesia,/ profumo del creato, Maria/ e ravvivi nei cuori/ che disperavano di Dio,/ la fiamma dell’amore./ L’umile tua purezza/ ti rese madre di tutti,/ e volgesti ogni lacrima/ in nostalgia di bene» (Agostino V. Reali, Primavere, Ferrara 2002, 102).

Quella di Maria è l’umiltà dell’aurora, quella, «che se ne sta rannicchiata direbbe Maria Zambrano – nascosta in un grano di luce». Maria più dell’aurora «è il velo della bellezza senza lacerazione, dell’amore senza degrado della purezza, della purezza accesa». Anche Maria, come l’aurora, ha le sue notti: «Quelle notti in cui l’amore senza nome e senza figura avvolge e rigenera l’universo intero, che appare allora senza distanza, lucente, ma di una luce che non ferisce. Quando la luce ha smesso di essere una ferita e l’amore si rivela per ciò che è… Si direbbe la sorgente stessa da cui nasce l’Aurora e insieme il compimento della sua promessa, questa notte dell’Aurora: sorgente che lascia sempre, in chi l’ha gustata, una minima goccia di acqua luminosa, in qualche angolo oscuro della notte del cuore. Notte e fonte che fa sentire che tornerà, ormai per sempre», (Dell’Aurora, 18; 128 129).

Maria è donna dell’avvento, che ha nel cuore l’urgenza della venuta di Cristo e con gli occhi scruta negli orizzonti della propria vita il suo volto albeggiante. Salomone chiese a Dio la sapienza e gli fu concessa; Maria non chiese nulla è fu piena di grazia.

L’Immacolata dice l’integrità, l’interezza, la pienezza del dono che Dio fa di sé nel figlio. Dono incondizionato, grazia irreversibile che anticipa in Maria una smisuratezza di innocenza, quale condizione preveniente per poter ospitare l’Innocente: colui che non abbandona l’uomo in balia del male, che restituisce al colpevole l’innocenza, al nemico l’amicizia, tutto solleva e accoglie nelle proprie mani.

Smisuratezza di intimità è l’Immacolata: mistica aurora di colui che è intimo al Padre come la luce al sole; intimo a noi come un figlio nel grembo di una madre; come il vecchio padre sulle spalle del figlio, come un amico che muore per l’amico. L’intimità innaturale e mirabile di un raggio di luce che non va oltre pur trapassando il cristallo, che resta iridescente arcobaleno anche quando cala la notte.

Quella di Maria è l’umiltà dell’amore, scaturita da quell’eccesso di grazia e di fontale innocenza che l’ha preservata dal chiedere qualcosa. Ma l’ha custodita anche dal timore di quell’abisso di umiltà a cui Dio l’ha chiamata, di quel suo volere a tutti i costi farsi piccolo con i piccoli, umile con gli umili, povero con i poveri, uomo tra gli uomini. È l’angelo Gabriele a rassicurarla subito: «non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio». La tua umiltà ha trovato spazi larghi in quella di Dio, che l’ha fatta traboccare. È il suo santo Spirito, infatti, che l’ha cinta con l’intimità della sua ombra: umiltà d’amore. Lo stesso Spirito che discenderà sul Figlio nel battesimo, e si abbassò vivificante già nella creazione ed errante nel deserto con il popolo dell’alleanza. Lo Spirito di Pentecoste, che scende sul Vangelo dei dodici, sul pane e sul vino, per renderli vivi della vita del Signore. Colui che come unzione profumata consacra i battezzati; che si riversa su tutto ciò che è piccolo, fragile, oscuro, freddo, claudicante, piangente sudicio, sviato, per raddrizzare, lavare, consolare, fortificare, riscaldare, illuminare, rinfrancare, innalzare, e generare in lei, Maria, quella grazia singolare che è il Cristo, l’umiltà di Dio resa visibile in un volto, tangibile nelle sue mani e udibile nella sua Parola fatta carne, l’unigenito Figlio Gesù, l’amato, pieno di grazia e di verità (Gv 1, 18).

Ricordando le parole di Gesù (“Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”), Papa Leone Magno si domanda «Ma come potrà abbondare la giustizia se la misericordia non trionfa sul giudizio? A chi ama Dio è già sufficiente sapere di essere gradito a Dio, a colui che ama; e non brama ricompensa maggiore dell’amore stesso» (Discorso, 92). Ecco l’umiltà d’amore, in Maria. Quella di Dio precede sempre, e da essa scaturisce come da fonte cristallina, da immacolata neve, l’elezione di innocenza primigenia di Maria. E di qui poi la nostra, pure noi amati per primi, prima di ogni macchia ed ogni rovinosa caduta, scelti e amati da Dio: pre-destinati ad essere figli nel Figlio e dunque ad essere «santi e immacolati al suo cospetto nella carità» (Ef 1,4).

Anima innamorata è Maria. Immacolato cuore. Cuore a cuore con il Figlio suo. Una tale sovrabbondanza di intimità che Giovanni Eudes la descrive così: «Come dal cielo e dal seno del Padre, è uscito senza tuttavia uscirne (“Excessit, non recessit“), del pari il cuore di sua Madre è un cielo dal quale è uscito in modo tale che ci è sempre rimasto e ci rimarrà sempre».
L’umiltà di Gesù rivela dunque quello che c’è nel cuore di Dio.

Se infatti il Compassionevole non va in cerca della smarrita; se il Misericordioso non attende il prodigo; se il Giusto innocente non porta su di se l’ingiustizia; se il Fedele e il Verace (così l’Apocalisse chiama Gesù Cristo, «il testimone fedele, il primogenito dei he ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue») non riscatta l’infedeltà resistendo fedele, la menzogna rimanendo innocente e la cecità illuminandola; e se il Liberatore non affranca la libertà e il disamore come «un virgulto e come una radice in terra arida», facendosi servo, umiliando se stesso, obbediente fino alla morte e alla morte di croce, allora il Figlio non si è incarnato e non è nato da Maria. Il regno di Dio non è annunciato, la sua prossimità mai giunta, il perduto non è ritrovato, e colui che è morto non tornerà in vita. Così l’umiltà di Dio celata nel suo cuore si è manifestata nella carne umiliata di Gesù, prima nascosta nel grembo fecondo di Maria e venuta alla luce nella natività, poi tutta raccolta nel cuore già trafitto del Padre da cui è scaturita la grazia immensa della risurrezione dai morti: il crocifisso risorto nasce per sempre alla vita nel cuore di Dio Padre.

L’Immacolata, umiltà senza macchia, è così presenza che annuncia l’aurora di un mondo nuovo, quello nato dal sangue di Cristo. Così canta al modo di un preludio l’inno pasquale della liturgia delle ore: «Torna alla casa il prodigo, splende la luce al cieco; il buon ladrone graziato dissolve l’antica paura. Gli angeli guardano attoniti il supplizio della croce, da cui l’innocente e il reo salgono uniti al trionfo».

Una meditazione poetica di Gerard Manley Hopkins paragona Maria all’umile «aria che respiriamo». Un’aria che fa la differenza con l’aria soffocata e spenta di questo nostro faticoso tempo:

Selvatica aria, aria materna al mondo,
che d’ogni parte mi proteggi,
ricingi ogni ciglio e capello;
tu che penetri il Più soffice, morbido,
il più fragile ago di un fiocco di neve;
ben composta aria
che filtri, colmi la vita
di ogni più minuscola cosa;
necessario, inesausto,
almo elemento;
mio più che cibo e bevanda,
mia vivanda ad ogni istante;
tu mi rammenti
Colei che non soltanto
nel grembo raccolse e nel seno
l’infinità di Dio,
rimpicciolita nell’infanzia,
e diede nascita, latte e tutto il resto,
ma in ogni nuova grazia s’incinge:
Maria Immacolata,
che a noi discende:

In verità, la misericordia ci veste
come ci veste l’aria:
lo stesso è di Maria,
molto più per il nome.
Ella, ruvida tela, prezioso manto,
ammanta il colpevole globo,
dacché Iddio ha dato alle sue preghiere
di dispensare la provvidenza;
è più che dispensatrice, è la stessa elemosina
e gli uomini hanno parte della sua vita
come la vita ha parte dell’aria.

Nuove Betlem ove egli nasce
Sera, meriggio e mattino;
Betlern o Nazaret,
dove gli ordini attingano,
come respiro, più Cristo
a schernire la morte;
il quale, così nato, un nuovo sé
e un migliore me diviene
in ognuno e ognuno più rende
figlio, dove tutto è compiuto
nella pienezza del tempo
di Dio e di Maria.
Ma guarda di nuovo in alto,
come l’aria è azzurrata;
fermati là dove tu possa levare
la tua mano al cielo:
ricca l’aria, ricca lambisce,
empie la mano tra dito e dito.
Ma da un cielo così colmo, carico,
intriso di zaffiro,
la luce non ha macchia.
Vedi, non le reca offesa.
Sono giorni di cristallo azzurro,
quelli in cui ogni colore riarde,
ogni forma, ogni ombra si rivela.
È tutto un azzurro: ma l’azzurro
cielo ritrasmetterà perfetto
il sette volte e sette volte
colorato raggio, senza alterarlo.
E se un tenero fiore aliti
su cose remote sospese
nell’aria, più bella
sol per quel soffio è la terra.

Aria materna al mondo, selvatica aria,
in te raccolto, in te avvolto,
prendi il tuo figlio, chiudilo nelle tue braccia.

(Stonyhurst, maggio 1883)

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La grattugia gialla

— Non c’è, — disse Marco accucciato davanti all’armadietto aperto, ispezionando l’interno con lo sguardo.
— Guarda meglio. Vedrai che c’è, — lo esortò Alessandra, ritta dietro di lui, con le mani sui fianchi.
— Non c’è, non c’è… — ribadiva Marco, spostando appena e in punta di dita le prime cose sul davanti.
— Cerca bene, sono sicura che c’è.
— L’abbiamo buttata.
— Impossibile! Era funzionante! Non vedi nulla di giallo?
— L’abbiamo buttata, non c’è!
— E quella cosa gialla laggiù? — fece Alessandra arcuando lo sguardo e scorgendo uno spiraglio giallo dietro una moka senza manico e una caraffa thermos mai-usata-ma-non-si-sa-mai nella parte più recondita dell’armadietto, a destra.
— Una cosa gialla, una cosa gialla… ah, quella là dietro, dicevi? — esordì Marco che fino all’ultimo aveva finto di non vederla. Fu costretto ad estrarre tutti gli oggetti in prima e seconda fila, inutilizzati da almeno dieci anni, lasciati lì a prendere polvere, come ripeteva sovente a sua moglie, sperando di sollecitarla a liberarsene. Sul pavimento radunò riviste, manuali da cucina e foglietti sparsi, tazzine, bicchieri e piatti scompagnati, contenitori e coperchi di tutte le dimensioni, accessori di robot da cucina ormai smaltiti, e: — Questa, intendevi? — domandò traendo fuori una grattugia in plastica.
— Ecco! Te l’avevo detto che non l’avevamo buttata! — esultò Alessandra, prendendola in mano e esaminandola quasi fosse una ceramica preziosa. — Ma senti che plastica! Senti com’è resistente! Non ne fanno più di così spesse! Questa è plastica che dura nel tempo, non si deforma e non si spezza, non come quelle di adesso che sembrano di vetro! — esclamava la donna, dando colpetti sulle spalle del marito inginocchiato e intento a reintrodurre nell’armadietto tutto ciò che aveva estratto, nel vano tentativo di ripristinare l’originario incastro.
— Sì, sì, ho capito, — borbottava Marco, pentendosi di non aver dato aria anche a quella “cosa”, come aveva fatto con tanti oggetti inutili che intasavano gli armadietti e i cassetti e con diversi soprammobili accatastati sulla credenza in sala che la donna si ostinava a conservare, quasi la loro perdita fosse inconcepibile. Invece, della loro sparizione (che lui attuava sottraendo un oggetto alla volta, meticolosamente) lei neppure se ne accorgeva e aveva solo il vago sentore che lì, una volta, ci fosse “più pieno”… — Ormai, — continuò il marito, — sarà talmente appiccicosa che dovrai buttarla.
— Buttarla? Scherzi? Basterà lavarla e funzionerà a meraviglia!
— Ma a cosa ti serve? Non avevi già una grattugia? — chiese l’uomo, mentre prendeva mentalmente nota degli oggetti crepati o inservibili.
— Devo macinare delle fette biscottate sbriciolate.
Marco si voltò a guardarla. — Fammi capire. Tutta questa fatica per tre fette biscottate?
— Quattro fette, — precisò lei. — Stasera faccio le cotolette. Mi serve il pangrattato per l’impanatura.
— E questo cosa sarebbe? — fece Marco alzandosi in piedi e esibendo una confezione di pangrattato della Mulirosso, estratto dall’armadietto pensile.
— Sì, lo so che c’era. Mi servirà anche quello. Farò un misto, così non si avvertirà quella punta di zucchero. Non farai mica lo schizzinoso, vero? Lo sai che non bisogna buttare via niente! Non te l’ha insegnato la mamma? Si buttano via solo le cose vecchie e rotte.
— In questo caso… — concluse Marco, afferrando la moglie per i fianchi e trascinandola verso la pattumiera.
— Stupido! — strillò Alessandra, puntando i piedi e divincolandosi. Poi, mugugnando, andò verso l’acquaio e incominciò a smontare la vecchia grattugia di plastica gialla, continuando a magnificarla, ricordando a gran voce quante volte l’aveva usata per tritare il pane secco. E le tante cotolette preparate quando, in tempi di stipendio magro e con due bambini in crescita, da due fette di petto di pollo ne ricavava quattro che, passate nell’uovo e impanate più volte, sarebbero diventate delle “signore porzioni” per accontentare occhi e stomaco — una furbata.
Mentre la moglie era di schiena all’acquaio, Marco si accinse a spazzare la “polvere dei secoli” uscita dall’armadietto insieme alle carabattole. E intanto pregustava la soddisfazione di scartare quelle cianfrusaglie di cui aveva preso nota — una alla volta, meticolosamente — nascondendole in cantina, per poi un giorno, senza farsi vedere dalla donna, caricarle nel bagagliaio dell’auto e portarle alla stazione ecologica. Qui sarebbero state avviate all’inceneritore oppure riciclate per ritornare in commercio sotto chissà quale forma. E già s’immaginava lo stupore della moglie, la volta che le avrebbe cercate e non più trovate. E la sua faccia tosta quando, all’accorata domanda di lei, avrebbe giurato e spergiurato, mano sul cuore, di non sapere assolutamente che “fine” avessero fatto. Il che — si giustificava candido — non sarebbe stata una bugia…

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

CONTRO VERSO
Infinite doglie

Ho conosciuto donne capaci di mantenere un pensiero autonomo e di sviluppare azioni di resistenza subendo violenza da decenni. Non pensavano che il marito potesse cambiare e neppure immaginavano una vita diversa. La protezione dei bambini e la riduzione del dolore erano i loro obiettivi, perfino quando chiedevano aiuto dopo un fatto particolarmente grave.

Infinite doglie

Sento ancora le doglie
e son più di dieci anni
perché essendo sua moglie
sono tanti gli affanni.
Tutto ciò che pretende,
tutto ciò che m’impone
e poi quando mi prende
e picchia senza ragione.

Le menzogne le ho dette
ogni volta al dottore
perché chi ci rimette
porta ancora il mio nome.
Poi due figli son nati
per errore o per forza.
Qui viviamo nel rischio.
Gli preparo una scorza
per sentire di meno
tutto ciò che si dice,
perché lui sia sereno
perché lei sia felice.

La ragazza è vivace,
si ribella a suo padre.
Se lui picchia non tace
e difende sua madre.
Il ragazzo è diverso
non ci posso contare.
Segue il padre perverso
che lo sa indottrinare.

Per lui il mondo funziona
nel suo modo migliore:
“Devi essere buona
o ti posso ammazzare.
Io ti strozzo, ti gonfio,
ti sotterro in giardino.
Posso vivere tronfio
e dire al nostro bambino
che noi maschi, tesoro,
non facciamo peccato
se teniamo al decoro
e ad un mondo ordinato”.

Così vivo tremando
trattenendo il respiro
anzi forse mi sbaglio
e davvero non vivo
ma li tengo nel grembo
(sarà pura illusione)
come fiori sul gambo
di una vecchia stagione.

Li difendo a mio modo
però non mi separo
e sorrido di rado.
Non illudo e non baro.
Perforato un orecchio
tutto il volto ammaccato
me lo dice lo specchio
lo sussurra il marito:

se una donna si arrende
e il marito lo coglie
si può sempre sperare
di fermare le doglie.

Che cosa è forza e che cosa è debolezza per una donna che vive con un partner violento e non ha vie d’uscita, non famiglia d’origine né amiche accanto, non il lavoro né altre risorse personali che la aiutino a sottrarsi, e neppure una stampella culturale che la induca a imporre il proprio diritto di essere rispettata? Sono casi, questi, terribilmente simili a una tortura protratta per decenni. Anche i meccanismi psicologici della vittima sono gli stessi.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Alfio Finetti: “Ill fiér”

L’attaccamento per il proprio territorio di Alfio Finetti, il nostro più celebrato cantautore dialettale, si esprime nel tratteggiare con ironia e leggerezza le fiere paesane locali. Lo stupore per le giostre, la musica a tutto volume, la confusione in piazza e nelle vie intorno, lo zucchero filato, le luci…
Negli ultimi versi il buonumore si stempera in lieve dispiacere.

 

Ill fiér

La fiera ad Santa Lùzia, Setémbar e Saη Piér
ill porta a Cupàr uη muć ad furastiér,
tra giòstar ultra-mudérni e grandi nuità
i guarda a bóca avèrta, tutt’incantasmà.

Putìη che i smagnùca al zùcar bumbaśà,
ragazéti in auto-pista, da tuti bersaglià,
la ròda panoramica, iη su com’è l’Cumùη,
l’arìva tant in alt, c’agh féda i pizùη!

Maràja ad cuηfusión, in Piàza e sul listón,
i bar j’è cucunà, a m’intrigh int uη cantóη:
– Edoardo, uη cafè négar, am arcmànd e fàmal bón!
Am l’éva bvèst un àltar, quand a sóη rivà al bancón.

Ill fiér gli’è tuti beli, purtàrgh i ragazìt,
ma a quéi più staśunà… agh vién i cavì drit;
i sóna tut’iηsiém, i disch tut difarént:
o at gh’à dla resisteηza, o at vién un azidént!

Gli’è uη spetàcul ill nòstar fiér, unór dla mié zità,
ma quela ad Santa Lùzia, lè propria scalcagnà,
se ti t’aη gh’à al paltò, at móri congelà,
parché a mità dizémbar, dill volt a gh’è giazà.

 

Le fiere (traduzione dell’autore)

Le fiere di Santa Lucia, Settembre e San Pietro / portano a Copparo tantissimi forestieri, / tra giostre ultra-moderne e grandi novità / guardiamo a bocca aperta, tutti incantati. /
Bambini che mangiucchiano zucchero filato, / ragazze in autopista, di tutti il bersaglio, / la ruota panoramica, in su come il Comune, / arriva tanto in alto, vi fanno l’uovo i piccioni! /
Moltitudine di confusione, in Piazza e sul marciapiede, / i bar sono strapieni, mi rannicchio in un angolo: / – Edoardo, un caffè nero, mi raccomando, fammelo buono! – /Me l’aveva bevuto un altro, quando sono arrivato al bancone. /
Le sagre sono tutte belle, portarci i bambini, / ma a quelli più stagionati… vengono i capelli dritti; / suonano tutti insieme, dischi differenti: / o hai della resistenza, o ti viene un accidente! /
Sono uno spettacolo le nostre fiere, onore della mia città, / ma quella di Santa Lucia, è proprio disgraziata, / se tu non hai il paltò, muori congelato, / perchè a metà dicembre, a volte c’è ghiacciato.

Tratto da: Alfio Finetti, Liana Medici Pagnanelli, Cupar, i so’ paes e la so’ zent, Quarto Inferiore, Pàtron, 1984.

Alfio Finetti (Ambrogio 1933 – Ferrara 2018)
Cantautore, cabarettista, narratore di barzellette, poeta; un uomo di spettacolo che ha fatto cantare, ballare, ridere grandi e bambini. Cantore con nostalgia del lavoro dei nostri vecchi, ha proposto i suoi show in teatri, sale, feste all’aperto, radio private, dalla Val Padana all’America del Sud, fra i ferraresi nel mondo.Da Met źó cal pui degli anni ’50, a Cocanil Story, Al condominio, fino Al re dla miseria, ha inciso dischi, audio video cassette, CD, DVD.
Ha pubblicato inoltre poesie in Do sfurca ‘d nus! (1982), Am tuliv dentar? (1982), Conoscere un città: Ferrara (198?), Arìva al domìla (2000), Altri suoi testi in Nòz d’arzént col nòstar bèl dialèt (2007), Al nòstar bel dialèt (2012).

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Giostra, foto di Marco Chiarini