Skip to main content

Valeria e il negazionismo

“Ma zia Costanza, chi sono questi negazionisti? Perché in televisione dicono che ci sono i negazionisti del Covid-19?”
Mi giro verso Valeria che mi sta guardando con i suoi occhi furbi e la sua faccia da adolescente.
E’ seduta su una sedia della mia cucina e sta sfogliando una rivista che ho comprato sabato per sua nonna Anna. Indossa i jeans a zampa e una strana maglietta a righe verdi e grigie. Ha le calze nere corte, chissà dove sono le scarpe, saranno state scaraventate in qualche punto non precisato del corridoio.

Devo risponderle, le risposte degli adulti sono essenziali per la crescita degli adolescenti, per sviluppare il loro senso critico, per garantire loro un termine di confronto che li aiuti a discriminare, a raccapezzarsi nella selva di pensieri arruffati all’interno della quale si trovano. L’iper-informazione imperversa. Siamo circondati da una ridondanza di notizie e di “possibili” interpretazioni che devasta.  Il rumore dell’iper-informazione è ovunque. Canali ufficiali, meno ufficiali, ufficiosi, racconti di coetanei, di compaesani, di persone “autorevoli”. Tutto mescolato in un calderone mediatico che invade la nostra vita e la sovrasta, lasciando poco spazio all’autenticità del pensiero soggettivo e al rigore che il pensiero scientifico propone.
Non diciamo quasi mai: “Io penso che”, lo sostituiamo quasi sempre con: “Hanno detto che”, “Ha detto che”, “Dicono che”, “Dicevano che”. Ma chi sono tutte queste entità che dicono e che hanno detto e che diranno? Quanta autorevolezza hanno? Chi ha legittimato il loro esserci, credere, narrare e convincere?

Il discorso è molto importante e fondante. Devo rispondere a Valeria. Mi sta guardando con un’espressione interrogativa e con la bocca semi aperta, come un uccellino in attesa del cibo.
“Zia ma mi hai sentito? Perché non mi rispondi?”.
“Stavo pensando alla tua domanda”.
“Fai sempre così, dici che stai pensando. Ma a cosa pensi sempre? Non c’è bisogno di pensare, bisogna fare.”
“No, non è vero, io non potrei vivere senza pensare, cosa può fare una persona se prima non ha pensato alle conseguenze che potrebbero avere le sue azioni? Alla mille sfaccettature che un pensiero rigoroso si ostina ad avere?”.
“Bah. Io veramente ti avevo chiesto del negazionismo”.
“Negazionismo è un termine mutuato dalla seconda guerra mondiale, si riferiva in origine alla negazione della deportazione Ebraica e della Shoah.  E’ una corrente pseudo-storica  e revisionista che, utilizzando a fini ideologico-politici modalità di negazione dei fenomeni storici accertati, nega contro ogni evidenza il fatto storico stesso”.

Valeria mi guarda, sembra pensierosa, sposta un braccio, lo appoggia sulla testa, poi lo riappoggia sul tavolo, tira su una gamba, si gratta le dita di un piede. Guarda una delle sue calze, sembra volerla togliere, poi ci ripensa e si ferma.
“Mah. Mi sembra una cosa difficile, cosa centra questo negazionismo con il Covid-19?” dice.
“Diciamo che è stata una estensione dell’uso del termine. Adesso si chiamano negazionisti anche quelli che dicono che il Covid-19 non esiste, oppure che esiste ma che non è mortale, che esiste ma non servono a nulla le mascherine e la disinfezione delle mani, oppure che l’immunità di gregge non arriverà, che i vaccini se mai ci saranno non serviranno a niente, e così via.”
“Allora in Italia ci sono tanti negazionisti, io queste cose le ho già sentite. Le dicono anche in televisione, mescolate a tutto il resto.”

Questo “mescolate a tutto il resto” mi sembra azzeccato. Valeria ha appena messo in evidenza la pervasività del calderone mediatico all’interno del quale ci muoviamo. Ogni giorno siamo sottoposti a un bombardamento di informazioni con cui dobbiamo ricucire un senso e un sentire soggettivo sul quale appoggiare le nostre giornate, le lunghe ore della nostra quotidianità.
Provo a pensare a qualcosa da dire a Valeria che possa aiutarla. E’ un periodo difficile anche per lei. Lezioni on-line, stop alla sua attività sportiva, stop alle uscite con gli amici, alle pizzate ai giochi in oratorio, ai giri in bici. Stop a quasi tutto per la seconda volta in questo 2020. E lei ha solo 12 anni. Questa vicenda lascerà degli strascichi su questi adolescenti, sugli adulti e sui genitori che diventeranno.

“Credo che tra tutte le cose che vengono dette, le più attendibili siano quelle sostenute da coloro che stanno studiando questa malattia da quando è comparsa. Penso anche che  possa considerarsi autentica la testimonianza di chi lavora a diretto contatto con gli ammalati. Gli ospedali Lombardi sono stati la prima linea di questa esperienza di pandemia, lo sono ancora. Forse varrebbe la pena ascoltare quello che dicono i primari delle nostre rianimazioni. Per quanto possano narrare la stessa vicenda utilizzando termini un po’ diversi che dipendono dalla loro cultura e dalla loro interiorizzazione delle norme, della costruzione del linguaggio e della sua verbalizzazione, dagli accidenti che arrivano dal cos cosmico che ci garantisce la vita, alla fine ciò che uno vede tutti i giorni è comunque più attendibile di ciò che racconta chi ha sentito raccontare che ha sentito raccontare che ha sentito raccontare.”

Valeria mi sta guardando ma non mi sembra particolarmente soddisfatta delle risposta, forse voleva una semplificazione della questione che di fatto non sono riuscita a darle. Forse dipende dal fatto che non la si può semplificare, che un po’ di negazionismo sta da tutte le parti e dipende dal fatto che nessuno sa cogliere la complessità del fenomeno nella varietà delle sue sfaccettature ma ne coglie sono una parte, quella che riesce ad esperire e successivamente a verbalizzare utilizzando i codici di comunicazione che gli sono stati insegnati.

Direi che alla fine è così, siamo in un periodo di forte cambiamento sociale, di forti incognite per il futuro, di forte indeterminatezza da una parte, di fortissimo materialismo dall’altra (ogni sera contiamo i morti).
Il negazionismo in tutti questo brodo mediatico acquisisce molte sfaccettature diverse, si adatta a molte situazioni, si allontana dalla sua etimologia originaria per  assumere una nuova veste. Lo chiamerei in un altro modo.

Ad esempio chiamiamolo: “Rappresentazione fallace”.
Valeria sembra pensierosa, mi dice:
“A me questo negazionismo non piace”
“Nemmeno a me” le rispondo e spero che la risposta così com’è possa avere nel “mondo” di Valeria un senso, possa aiutarla a discriminare, le possa trasmettere l’idea di un fenomeno complesso all’interno del quale la società occidentale si sta  muovendo e che non sappiamo che effettive conseguenze avrà. Il negazionismo si sta ricucendo nuove vesti. Nessuno di noi sa esattamente come saranno.
“Posso dire a scuola che il negazionismo a me non piace?” mi chiede.
“Sicuramente sì” le rispondo e ho l’impressione che abbiamo esaurito il discorso.

DIARIO IN PUBBLICO
La fatica di vivere oggi

Poche cose mi hanno colpito in questo momento storico, dove vanno ripensati tutti – o quasi – i valori e i delitti che si compiono, quanto questo fatto apparentemente minore che si è svolto all’ospedale di Rimini e che inconsciamente auspico sia una bufala, sapendo già che non lo è.

Leggo in QN di lunedì 26 ottobre 2020, p. 12 che all’ospedale di Rimini nel parcheggio riservato agli operatori sanitari settanta macchine, tutte accuratamente scelte tra quelle in possesso di chi lavora all’ospedale, sono state sfregiate, colpite, prese di mira da qualcuno che le aveva accuratamente scelte. Non una di chi non operava all’interno dell’ospedale. L’indizio che si trattava di una miserabile vendetta contro chi opera nel campo medico consiste nel fatto che nulla è stato asportato all’interno dell’abitacolo.

Un gesto così talmente amorale e terribile può essere messo purtroppo in corrispondenza con le convinzioni di coloro che in regimi totalitari operano per la miserabile soddisfazione di una vendetta pericolosa. E i miei connazionali italioti TUTTI,  anche coloro che sono innocenti, portano sulle loro spalle la spaventosa pandemia dell’immoralità. Vergogna a tutti noi che non sappiamo scrollarci di dosso simili immondi esseri.

Mi rendo conto che la conclusione del discorso potrebbe e può colpire chi da sempre ha lottato e lotta contro il diritto del singolo a non essere chiamato in causa in quello che può parere un coinvolgimento totale nelle colpe di un’epoca pur restandone fuori. Penso ad esempio al giusto scatto reattivo dell’amico fraterno Fiorenzo Baratelli. Ma una lunga telefonata ha spiegato (in parte) la possibilità di una coincidenza tra i due pensieri. Non voglio certamente mettere in dubbio il generoso lavoro svolto da chi non vuole essere responsabilizzato in una generica e forse frettolosa sentenza di coinvolgimento. Guai se non ci fossero coloro che operano in quella direzione di distanziamento! Ma la mia provocatoria battuta riguardava chi, essendone venuto a conoscenza, non avesse potuto o voluto distaccarsene e condannarla.

Certo! Quante persone perbene nei paesi coinvolti nell’ideologia nazista ad esempio ignoravano la terribile realtà storica. Diventavano colpevoli solo quando, avendo saputo la verità, non avevano operato in conseguenza. Ecco in qual modo va inteso il giudizio che ho espresso e che si riferiva al fatto che in quanto  ‘a livello teorico’ tutti portiamo sulle spalle “la spaventosa pandemia dell’immoralità”.

Nel frattempo come diceva mia nonna “sono stato regalato” di un dono così prezioso che faccio ancor adesso fatica a rendermene conto: assistere al concerto di Riccardo Muti al Teatro Abbado di Ferrara. Lo attendevo, in quanto ancora una volta devo ribadire che Riccardo e Cristina Muti sono stati e sono tra gli amici più cari della mia lunga vita. La fraterna amicizia che ci lega non è stata mai scalfita da qualche fraintendimento, che nel mondo della cultura non è così difficile ad attuarsi. Il Maestro mi ha stretto in un abbraccio che tanto rivelava della gioia genuina di vedermi, mentre Cristina dagli splendidi capelli azzurri e avvolta in un manto di raso rosa degno (e probabilmente lo era) dell’inventore della moda, il proustiano Poiret, mi ricordava momenti straordinari del nostra giovinezza fiorentina.

A quel punto s’annuncia Vittorio Sgarbi che con la solita irruenza ricorda anche lui il comune tempo fiorentino. Rimango un po’ interdetto, ma gli amici Muti vogliono portare un modus vivendi tra le lontanissime convinzioni che si ergono tra la mia visione della cultura e quella del critico d’arte. Mi racconta di quello che intende fare per una mostra su Giorgio Bassani e l’arte; mi comunica che gli uffici di Ferrara Arte, l’organizzazione che presiede, si sistemeranno al primo piano di Casa Minerbi, lo splendido palazzo dove è situato anche il Centro Studi bassaniani. Chiede notizie di poter conoscere la curatrice del Centro, la professoressa Portia Prebys, che per un vezzo linguistico chiama Portìa e non Pòrtia; annuncia il progetto di una mostra canoviana da far assieme, tra me presidente dell’edizione nazionale delle opere di Canova e lui presidente della Fondazione Canova di Possagno. Si sa che ormai il giro culturale come da sempre si svolge tra presidenze e direzioni… E questo ritorno al passato, che non si spegne nel giro di un giorno o di un anno, ha la sua conclusione proprio in questi giorni, quando il Maestro indirizza una degnissima lettera al capo del Governo Conte, il cui senso è rinchiuso in queste parole:

Chiudere le sale dei concerti e i teatri è decisione grave. Definire come ‘superflua’ l’attività teatrale e musicale è espressione di ignoranza, incultura e mancanza di sensibilità.”
La riflessione di Muti non fa leva, o non solo, sul problema del lavoro, ma insiste su quel tesoro culturale che è il senso vero di ciò che la pandemia di corona virus non deve strappare alla nostra provata esistenza: la cultura come tesoro inalienabile della nostra vita.

Il presidente Conte ha saputo rispondere con altrettanta finezza alla richiesta del Maestro. Lo stesso incipit è diverso: “Gentile maestro Muti”; dove sottolineare la ‘gentilezza’ mi sembra un’ottima occasione d’incontro. Sottolineare poi la ‘gravità’ del problema ne dice il senso ed infine la necessità per ragioni di salute lo conclude. Termina Conte: ”Siamo costretti a fare questi ulteriori sacrifici. Ma non intendiamo affatto rinunciare alla bellezza, alla cultura, alla musica, all’arte, al cinema, al teatro” (Corriere della sera, 27 ottobre 2020, p. 1 e 17.)

E’ proprio leggendo questa corrispondenza che ancor più dolorose appaiono le proteste indubbiamente capibili che hanno sconvolto Napoli, Milano, Torino.
Ma non molliamo! Cerchiamo di essere degni della civiltà che ci ha generato.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PAROLE A CAPO
Franco Stefani: “Perdersi nella risacca” e altre poesie

“Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione.”
(G.B.Vico)

 

 Allegoria, 1

Un vecchio grida le sue verità in un vicolo cieco
nessuno lo ascolta, nemmeno il sole, che scalda troppo
anche se è quasi inverno. La gente si scambia banalità
e cerca qualcuno che dica cosa fare, dove andare.
Cani, qua e là, si annusano e abbaiano. I loro padroni
partecipano stupidamente  agli incontri tra animali:
anche questo è un modo di socializzare.

Qualcosa di più sensato non c’è, al momento.
Gli Dei si sono nascosti con le Muse
e hanno mandato nel visibile solo poche apparenze.

(4 ottobre, 2018)

 

Ferrara

È nel tepore dell’autunno, mia città
che più mostri le tue bellezze quiete.
Il rosso dei palazzi, le mura
possenti, gli antichi cortili silenziosi
la fresca penombra dei tuoi vicoli
i nobili affreschi rinascimentali.

Non dici altro: esibisci. La Storia
parla per te ai viaggiatori
di ogni parte del mondo. A loro
sussurri d’essere stata un tempo
modello urbano esemplare, teatro
consapevole del genio di Rossetti.

(Poi, quando finisce il giorno,
le tue mille voci volano sul Po
e vanno verso l’Adriatico.
Torneranno profumate di salsedine).

(26 settembre, 2020)

 

Cosa non si inventa

C’é
che sono un uomo solo
casco dentro al gioco
(Luca Carboni, Fabio Liberatori – C’è)

Mi sono innamorato
di una voce di donna
alla fine di una canzone

non so di chi sia la voce
con lei sogno per ore
dentro un arcobaleno

ad una certa età
cosa non si inventa
per un po’ di felicità

(13 febbraio, 2020)

 

Perdersi nella risacca

Perdersi nella risacca
di un mare solitario
in un tempo senza tempo

parole stropicciate
in vecchi giornali
volano sulla sabbia

le navi se ne vanno
e il mio cuore con loro

(24-28 luglio, 2020)

 

Franco Stefani è nato e vive a Cento (Ferrara). Giornalista professionista, scrive versi da molti anni. Ha curato il volume “Io spero che non faccia più il terremoto” (Minerva, 2009) dedicato al sisma che ha colpito l’Abruzzo. Tra i suoi più recenti libri, “Tre sguardi in uno” (Pendragon, Bologna, 2015) e “Istanti” (Genesi Editrice, 2019), che comprendono testi poetici e racconti brevi.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

C’è una alternativa alla didattica a distanza?

Per tutta l’estate abbiamo cercato sia a livello locale che regionale (ma anche nazionale con le proposte di Patrizio Bianchi e della task force al Ministero dell’Istruzione) di indicare quale poteva essere una via alternativa ed efficace alla didattica a distanza che è una forma “minore” (per essere eufemistici) di apprendimento.
Avevamo indicato per i “piccoli” delle elementari l’integrazione alla didattica in aula (da Istruzione) con la didattica all’aperto (da Sperimentazione), che avrebbe consentito di avere gruppi più piccoli di alunni e quindi accrescere la sicurezza e anche la qualità della didattica. Questo avrebbe comportato (almeno per un periodo) più docenti, ma se c’è una cosa che oggi non manca sono i precari della scuola e i soldi per ristorare. Per questo ci eravamo battuti perché già a giugno ci fossero delle sperimentazioni in alcune scuole (almeno del Sud che erano senza contagi) in cui accanto al personale della scuola pubblica lavorassero gli educatori dei campi estivi, i quali ultimi hanno sempre lavorato mentre il personale pubblico no. Misteri e soprattutto scarsa volontà di sperimentare, innovare e di fare (che è da sempre il problema dell’Italia).

Alle superiori avevamo indicato (almeno per gli ultimi 3 anni) il potenziamento dell’alternanza studio-lavoro (che è stata dimezzata come fondi e orari negli ultimi 2 anni) in modo che gli studenti potessero fare una esperienza di qualità nelle imprese seguiti però da una nuova figura che avevamo indicato come “docente di accompagnamento” che avrebbe avuto il compito di individuare le imprese, realizzare gli abbinamenti e accompagnare lo studente all’interno della comunità di pratiche lavorativa con un apprendimento da Sperimentazione. Soluzioni che non sono, peraltro, finalizzate nel periodo del Covid, ma primi passi per una scuola più efficace che innalza la sua qualità e quindi riforme strutturali in modo da coniugare la maggiore spesa pubblica con il rilancio del Paese.

Ciò avrebbe ridotto il problema degli assembramenti sui trasporti su cui il Cds ha lavorato sin dagli anni ’80 con una ricerca, commissionata da ACFT, su come sfalsare gli orari delle scuole in entrata ed uscita proprio per favorire la fluidità del traffico nella città e creare, a parità di studenti trasportati (e bus), un maggiore servizio che oggi sarebbe cruciale perché vedrebbe meno studenti sui bus. Ma nessuno allora considerò la cosa interessante.

Alessandro D’Avenia spiega su Il Corriere che oggi gli studenti sono “demoralizzati, ma la loro tristezza non è però sintomo di un disagio psichico o mancanza di speranza, ma semplice mancanza di ‘carattere’, cioè di scelte”. E oggi uno dei problemi drammatici del nostro Apprendimento da Istruzione è che gli studenti non scelgono mai (al massimo studiano, ripetono, riflettono, fanno dei “like”), mentre nell’Apprendimento da Sperimentazione, nelle pratiche all’interno delle imprese, nel curare un orto, nel bosco e nelle attività all’aperto scelgono in continuazione. “Quando non scegliamo la vita si spegne perché smettiamo di rispondere alla realtà, non siamo più padroni dei nostri atti, ma prigionieri delle circostanze o delle aspettative altrui” scrive D’Avenia. Nella pratica dei Pil (Percorsi di Inserimento al Lavoro dei laureandi) alla domanda su “cosa apprezzavano di più del percorso verso il lavoro” gli studenti universitari rispondevano che non era il lavoro raggiunto (!), ma il poter per la prima volta “scegliere”, che li aveva “fatti crescere”. Erano quindi le continue scelte a cui i ragazzi erano “costretti” (scegliere se fare questo percorso volontario, scegliere con quale impresa fare il colloquio, scegliere dove andare a fare il tirocinio o il lavoro,…) che apprezzavano in particolare.

Torniamo ad educare il carattere dei nostri giovani: cioè a far praticare la libertà, cioè a farli scegliere, dando loro la responsabilità delle scelte e questo si può fare se integriamo l’Apprendimento da Istruzione con quello da Sperimentazione, come dicono gran parte degli esperti di apprendimento di tutto il mondo.

Ah, dimenticavo: i luoghi più sicuri contro l’infezione sono la Scuola e le Imprese.

Il nido delle cicale
l’ultimo romanzo di Anna Martellato parla di rinascita

“Ho incontrato persone e mi sono chiesta perché continuassero a fare proprio quelle scelte, così ne ho scritto, facendo diventare romanzo certi temi che riguardano molti”. Raggiungo al telefono Anna Martellato, collega, conosciuta anni fa a Venezia, quando di lei mi colpì la propensione ad ascoltare e a familiarizzare. Anna Martellato ha pubblicato per Giunti Il nido delle cicale, un romanzo in cui si sentono i profumi e si vedono i colori, come a essere immersi in quella lingua di lago di Garda dove Mia, la protagonista, cresce e cambia pelle.
“Mia è una donna che spesso si gira dall’altra parte, scappa da una gabbia familiare a un nido che, in realtà, è un’altra gabbia ancora, si porta dietro blocchi che a un certo punto vanno affrontati, con non poco dolore, ma poi finalmente sciolti”, spiega Anna che nel romanzo ha voluto parlare di rinascita e mutamento, come quello delle cicale che dopo essere state dormienti sotto terra, escono alla luce in un corpo nuovo. “Le cicale aspettano il momento giusto per uscire, ho preso in mano il guscio e ho visto un taglio chirurgico, vengono fuori proprio da lì e da sole, anche Mia esce da sola da una situazione, affronta il dolore che è quello del rapporto col compagno e quello del passato e dei legami familiari, poi non torna più indietro”.
Nel romanzo, la protagonista si trova davanti a una scelta e prima ancora di decidere come fare, deve decidere se vuole sapere fino in fondo la verità. Una voce allora la guida, mostra, indirizza: come un daimon, un nucleo antico, la voce illumina una crepa, quella parte di vita sconosciuta che Mia può accettare o rifiutare del tutto. “Ognuno di noi ha una saggezza innata – spiega Anna – che a un certo punto si fa sentire, se stiamo in silenzio sappiamo sempre che direzione prendere”. Ed è con questa saggezza che Mia affronta una scoperta dopo l’altra, riprende i legami sospesi con il passato, primo fra tutti con la madre a cui prova a indicare una strada per uscire dal dolore: “Sono convinta che ciascuno abbia le chiavi della propria felicità che non vengono mai consegnate dagli altri e per questo Mia tenta di spiegare alla madre, da cui si era allontanata, che può ancora fare qualcosa di concreto per salvarsi da tutto quel buio, ma deve farlo da sola, come lo sta facendo Mia”.
È una famiglia smembrata dalla perdita, quella di Mia, ma è anche una famiglia da cui si può ricominciare perché c’è una madre che Mia può finalmente affrontare e un padre che l’aspetta sempre preparandone l’arrivo.

Un nuovo patto educativo costruito sulla “premura”

Oltre oceano, l’editorialista del New York Times David Brooks ha recentemente scritto che virtù come gentilezza, correttezza, onestà e rispetto sono sottovalutate e che nessuno si batte più per esse. Il rischio è vivere un futuro in cui leader, media e influencer ci abbiano convinto che tutte le persone sono intrinsecamente manipolatrici, egoiste e meschine. Gli atti di compassione sono per i perdenti. E peggio di tutto, i concittadini non si fidano l’uno dell’altro perché ci è stato insegnato che tutti sono bugiardi, senza scrupoli o imbroglioni e che si preoccupano solo di se stessi.

Si capisce perché negli Stati Uniti si diffondano organizzazioni come Character con l’obiettivo di promuovere nelle scuole l’educazione della personalità e del carattere.
Il suo presidente, Arthur Schwartz, in un articolo, pubblicato da Education Week, lamenta che il tema dell’educazione del carattere e della personalità non appaia nei programmi dei contendenti alle elezioni presidenziali.
La piattaforma dei Democratici, a proposito di scuola, menziona le esigenze di salute mentale degli studenti e il supporto all’apprendimento sociale ed emotivo, mentre quella dei Repubblicani sostiene che le scuole dovrebbero insegnare “l’eccezionalismo americano”, ispirato dalla descrizione di Alexis de Tocqueville della società americana negli anni ’30 dell’Ottocento.

Il papa, nel messaggio inviato al convegno promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali su “Educazione: il Patto Globale”, denuncia che si è rotto il cosiddetto “patto educativo”. Ad essere gravemente malato è il tessuto sociale, quello che la storia ha confezionato finora e all’interno del quale sempre più ci stiamo trasformando in tanti analfabeti della convivenza civile.

Qualcosa non funziona più correttamente nel rapporto tra scuola e società e riunire gli sforzi, ricomporre una alleanza educativa ampia richiede innanzitutto di comprendere, dove il tessuto si è lacerato e perché. Abbiamo fallito nel raggiungere l’obiettivo che il nostro sistema educativo di istruzione e di formazione si era dato: “la crescita e la valorizzazione della persona umana”.

Ora ci accorgiamo di individualismi e di solitudini esasperate, senza renderci conto di essere stati noi a coltivarle, spezzando il legame originale tra Io e Tu, con lo spersonalizzare e il reificare le persone a partire da quel tragitto che ci ostiniamo a chiamare educazione.
Il nostro rapporto con gli altri è un aspetto essenziale del nostro “essere”, ed è proprio questo rapporto ad essere sempre più minacciato. Il crescere esponenziale di una cultura della violenza tra i giovani, non solo nel nostro paese, è la conferma che qualcosa di molto importante si è spezzato.

L’epidemia in tutto il mondo ha riproposto la fragilità delle categorie su cui si fonda il rapporto tra la scuola e la società. Deciso il lockdown degli istituti scolastici, la preoccupazione prima non è stata per gli apprendimenti che bambine e bambini, ragazze e ragazzi avrebbero perduti, ma sul come poter gestire una vita che improvvisamente comprendeva a pieno tempo l’ingombro dei figli. L’incompatibilità tra il mondo quotidiano degli adulti, attivo e produttivo e il pianeta giovani, dall’infanzia all’adolescenza. È emerso con prepotenza lo spettro della scuola come luogo dell’isolamento, della distanza dalla vita degli adulti, della quarantena dei giovani dalla società. Non il luogo dello studio e dell’apprendimento, ma il contenitore della necessaria separazione tra generazioni distanti, dove altri adulti svolgono la funzione di mediare tra i due mondi differenti.

Nessuno ha avvertito che qualcosa di insensato prendeva corpo, come l’ostinarsi nel continuare a crescere i giovani lontani da sé, dagli altri e dal mondo. Divisi da se stessi e dalla loro identità, per assumere quella di scolari, alunni e allievi, in una sorta di schizofrenia istituzionalizzata. Perché è convinzione generale che sia normale procedere così, così si è sempre fatto. Si è sempre fatto di allevare una gioventù in conflitto con gli adulti, salvo poi scandalizzarsi se i conflitti degenerano nei comportamenti di devianza sociale.

Non abbiamo pensato mai che forse si potevano mescolare le vite, che la distanza tra mondo degli adulti e i ragazzi si sarebbe potuta accorciare, se non abbattere, con il vantaggio di farli sentire parte responsabile di quel mondo fin da piccoli, senza la stupida trafila dei riti di passaggio che ci siamo inventati. Non abbiamo bisogno di fare ritorno a lessici abbandonati da tempo come ‘carattere’ e ‘personalità’, forse la chiave per riscrivere quel patto educativo che si è rotto, sta in una parola sola: ‘premura’. Una società che non ha premura per i suoi giovani, finisce che poi li perde per strada, come sta sempre più avvenendo in modo allarmante.
‘Premura’ significa che i giovani devono crescere a fianco degli adulti, non distanti da loro, formarsi sentendo di condividere la medesima vita, ognuno con le proprie peculiarità, che non c’è una vita di serie A che seguirà a una vita di serie B.

Dall’esperienza del Covid dovremmo aver appreso che la premura per i nostri giovani, grandi e piccoli, è ben più complessa dei banchi di scuola da recuperare. Che dovremmo ripensare le nostre città, la loro organizzazione, il nostro modo di vivere tornando a farci carico dell’altro, che per crescere ha bisogno di tutti noi, non solo di insegnanti e scuole a cui delegare quello che non sappiamo più fare.

Non si può educare senza indurre alla bellezza” scrive il papa nel suo messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, e che “un’educazione non è efficace se non sa creare poeti”. Ma la bellezza o si vive od è puro estetismo, come non si possono formare poeti, se la vita non induce alla poesia. Sono apprendimenti sterili quelli che si ricevono sui banchi di scuola, se bellezza e poesia non scaturiscono dal viverle insieme, coinvolti dagli adulti, in un processo di formazione che non può che essere olistico, dalla cui responsabilità nessuno dei soggetti sociali può sottrarsi.

Per leggere tutti gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

LA SOCIETA’ FERITA DALLA CULTURA CAPITALISTA:
e ora si raccoglie ciò che si è seminato.

E’ sconcertante constatare come la dimensione culturale sia presa se non con leggerezza, quanto meno non considerata nella sua reale valenza nel determinare i comportamenti individuali, ma soprattutto comuni, per non dire di massa.

Dalla caduta del muro di Berlino la proposta storica del socialismo reale è risultata perdente di fronte alla sfida della storia lasciando dilagare il pensiero capitalista che ha come unica finalità, come senso e valore della vita, il denaro e il suo accumulo e la competitività come suo strumento per raggiungere il successo. Il profitto come riconoscimento del merito.

A questa prospettiva si è ridotta tutta la complessità della realtà, dall’ambiente produttivo al commercio, dal mondo della ricerca al linguaggio fino al pensiero, arrivando alla qualità relazionale delle persone a partire dall’educazione. La competitività, quindi il successo personale, è diventata l’obiettivo da raggiungere, a cui dedicare ogni sforzo.

Da almeno venticinque anni i governi, soprattutto di destra, hanno costruito il loro successo elettorale inneggiando alle due parole d’ordine: produttività e competitività, smantellando lo stato sociale e privatizzando. Ora che la produttività ha portato al disastro ecologico e la pandemia virale ha fatto emergere l’errore di prospettiva della scelta capitalistica, dall’opposizione si critica la lentezza delle proposte del governo a rispondere all’urgenza della ricostruzione di una società più equilibrata e democratica.
Non si ricostruisce in un momento ciò che si è smantellato in vent’anni. Dopo aver impoverito, con l’istituzione del numero chiuso all’università, la disponibilità dei professionisti di vario genere dai medici agli insegnanti e non solo, non si può pretendere di rispondere con tempestività per quel che è necessario, alle carenze del servizio sul territorio oggi.

Oggi l’importante è capire qual è la strada da percorrere per costruire una organizzazione sul territorio adeguata alle necessità determinate da probabili ma imprevedibili nuove criticità, dovute proprio alla complessità della civiltà in cui ci siamo evoluti. Questo momento richiede la capacità di correggere scelte non adeguate, se non totalmente sbagliate, per limiti di lungimiranza rispetto alla qualità della vita umana.

La cultura inizia dalla scuola di cui noi per primi determiniamo la qualità. Non si può accusare i giovani di mancanza di rispetto e responsabilità civile, dopo che si è insegnato loro, attraverso la competitività, il successo personale come obiettivo principale.
La qualità civile di una democrazia è l’esercizio della libertà personale in un ambito di relazioni che definiscono la libertà comune come progetto di una società pacifica. L’esperienza della libertà personale nel riconoscimento della medesima qualità nell’altro è frutto di una consapevolezza che ha la profondità della storia, dalle origini dell’umanità ad oggi. Costruire questa consapevolezza è il compito della scuola in una democrazia matura, degna del suo passato. Avere cultura democratica e sapere comportarsi civilmente è frutto di una scelta e di una educazione acquisita e personale.

La civiltà è la consapevolezza di sé e del proprio valore, perché si sa da dove vieni e quante scelte e quanta fatica ci sono volute per raggiungerne la qualità attuale. Quindi, c’è da augurarsi che questa drammatica esperienza conduca a considerare la cultura come un valore da tenere in massima considerazione, irrinunciabile addirittura, su cui investire il massimo delle risorse. Il vero valore di una società è la persona consapevole di sé che sa perciò indirizzare le proprie scelte al bene comune.

Al bar Ghepardi si gioca a scacchi

Oggi al bar Ghepardi c’è un torneo di Scala Quaranta. Si gioca con le carte francesi e viene eliminato chi paga centocinquantuno. Lo zio Giovanni è bravo, esperto di carte e vince spesso, anche se il gioco in cui eccelle è gli Scacchi. Anni fa ha vinto alcuni tornei importanti. Ora ha settantatre anni e dice che i suoi riflessi cominciano un po’ a rallentare, anche se continua ad essere un ottimo giocatore.
Il modo in cui lo zio Giovanni guarda gli scacchi mi ha sempre affascinato. Non so come faccia,  ma fissa la Torre (uno dei “pezzi” con cui si gioca)  con una tale intensità che sembra che stia osservando l’arrivo di Faramir, con il suo intero esercito, ad assediare la Torre per liberare la principessa. Faramir è un personaggio di Arda, l’universo immaginario fantasy, creato dallo scrittore inglese J.R.R.Tolkien nel  Signore degli Anelli.  E’ il figlio minore del sovrintendente di Gondor, Denethor nonché fratello di Boromir e Capitano dei Ramingho dell’ithilien.
Lo sguardo dello zio mentre guarda i “pezzi” degli scacchi  sembra proprio un tramite verso un mondo fantasy dove le pedine sulla scacchiera sono le assolute protagoniste della saga.

Altre volte, invece della Torre, guarda la Regina (altro “pezzo” del gioco) con molta devozione, oppure il Cavallo con curiosità e stupore visto che è il più bizzarro e maldestro dei personaggi degli scacchi. Quel gioco ha qualcosa di tremendo e difficile,  si va avanti per ore, si fanno continue ipotesi sulle mosse proprie e degli avversari e, chi ha una più acuta capacità previsionale e riesce ad intuire con anticipo quali saranno le mosse dell’avversario, vince. E’ un gioco complicato che prevede molta concentrazione, conoscenza di schemi logici, capacità di anticipare le mosse dell’avversario, un grande senso tattico e anche un po’ di fortuna. Davvero un gioco con la “G” maiuscola e davvero bravi i giocatori del bar Ghepardi che, istruiti dallo zio Giovanni, sono diventatati i migliori giocatori di Cremantello.
Quando si gioca tutti tacciono, non sono ammessi commenti, si può solo guardare la partita in assoluto silenzio. Come tutte le regole, anche quelle del Gioco degli scacchi del bar Ghepardi, hanno alcune eccezioni. Ad esempio ogni tanto Costantino può sospirare, oppure può sbarrare gli occhi quando non capisce cosa stia succedendo. Oppure può fare qualche flebile fischio, o spostare il peso da un gamba all’altra. Queste sono le uniche varianti concesse al mutismo e all’immobilità che regna nel bar degli zii durante le partite.

Spesso i bravi giocatori di scacchi sono molto giovani. Serve un cervello molto agile e veloce per fare “scacco matto”. Il più giovane “Grande Maestro” della storia degli scacchi, è stato l’ucraino Sergej Karjakin che all’età di dodici anni e sette mesi divenne, nel 2002, Gran Maestro. Ma anche i campioni che hanno detenuto lo stesso record precedentemente sono tutti giovanissimi: Bu Xiangzhi  (13 anni e 13 giorni), Ruslan Ponomarëv (14 anni e 17 giorni), Etienne Bacrot (14 anni  e  2  mesi), Pèter Léko (14 anni, 4 mesi e 22 giorni), Judit Polgàr (15 anni, 4 mesi e 28 giorni), Bobby Fischer (15 anni e 6 mesi). In campo femminile il primato spetta alla cinese Hou Yifan, che nel 2008 divenne “Grande Maestro assoluto” all’età di 14 anni e 6 mesi. L’età di questi eccellenti scacchisti stupisce. Si diventa  grandi giocatori giovanissimi, intorno ai quattordici  anni. Si vede la loro eccezionalità già durante l’adolescenza e poi li si vede proseguire sulla stessa strada stellata.

L’articolo “Developing Young Chess Masters: What are the Best Moves?” di Kiewra e O’Connor presenta un approfondito studio su questi giovani campioni confermando che il duro lavoro ed un ambiente favorevole sono requisiti necessari per formare un genio degli scacchi.
Riferendosi a giovani maestri, gli autori constatano che “Questi ragazzi, in media, giocano a scacchi circa venti ore a settimana per circa dieci anni per raggiungere il livello di maestro. Anche se sono naturalmente dotati, è comunque necessario un impegno di circa diecimila ore per realizzare questo talento“.
Praticare in solitaria non è sufficiente, occorre un ambiente favorevole per raggiungere ottimi risultati. L’articolo inoltre ipotizza che l’investimento finanziario, necessario per allevare piccoli geni della scacchiera a quadri, sia notevole: “Molti genitori hanno speso tra i $5000 e $10000 annuali per le lezioni, i tornei, i viaggi e i materiali“. Inoltre i giovani maestri hanno “lavorato” con giocatori “di livello elevato” per diversi anni.
Non credo che allo zio Giovanni piaccia tutto questo addestramento da “piccoli mostri”. Credo che continui a considerare gli Scacchi un gioco, un divertimento, un modo per passare del tempo impegnando in maniera costruttiva il cervello. Questi super allenamenti da enfant prodige fanno un po’ orrore, non sembrano adatti a dei bambini, non sembrano rispettosi della loro età e della loro cognizione del mondo,  del loro desiderio di divertirsi.

Una volta Bella, dopo molti tentativi, è riuscita a battere lo Zio, le ci sono voluti  anni di esercizi e centinaia di partite perse. Quando si è resa conto dell’impresa portata a termine,  è quasi svenuta dalla gioia. Le persone presenti si sono spaventate. La ragazza sembrava morta d’infarto dopo aver vinto la partita. In realtà, nel giro di poco tempo, Bella si è ripresa ed è apparsa stupefatta di quello che era riuscita a fare. Non le era mai successo di vincere una partita di scacchi con suo padre. Costantino, dal canto suo, saltava sulla sua unica gamba, e fischiava per la soddisfazione. Si sa che Costantino è un assiduo frequentatore  del bar Ghepardi e un grande estimatore delle mie cugine.
La zia Iris non ha commentato, ma era anche lei contenta dell’accaduto, insomma, in quel pomeriggio al bar Ghepardi, si consumò un vero evento. Lo zio Giovanni perse una delle sue rarissime partite e, tra l’atro, proprio con sua figlia.

Io non riesco a capire fino in fondo il fascino di quei pezzi che si muovono in maniera bizzarra sulla scacchiera a quadri.  Ogni volta che li guardo è come se il mio cervello cercasse un altro gioco, un altro modo di usarli, di farli muovere, suonare, danzare.  Oppure un modo per farne una piramide, un mucchio di mattoncini e, in maniera un po’ macabra e fantasiosa, un plotone di poveri soldati fucilati durante una guerra cruenta. A forza  di architettare soluzioni alternative all’uso di quei pezzi un po’ bianchi e un po’ neri,  a un certo punto ho cominciato a metterli in strane file che non stavano più sulla scacchiera ma che scendevano,  dal tavolo da gioco, come piccole formiche. Come insetti disciplinati si incamminavano lungo il piede del mobile e arrivavano fino a terra, mettendosi tutti in fila come tanti prigionieri appena liberati dal carcere che non sanno dove dirigersi, perché non si ricordano dov’è casa loro, non sanno nemmeno se ne posseggono una da qualche parte. Un’altra cosa che mi piace fare, quando non ci sono tornei in corso, è allineare i pedoni sul vetro del flipper del bar. Il vetro è un po’ in pendenza e luccica in maniera imprevedibile, a seconda dei raggi di luce che riescono a trafiggete la tenda che sta tra il flipper e la finestra.  Dopo averli sistemati a debita distanza, provo a spingere il primo della fila per vedere se riesco ad innescare una “reazione a catena” in modo che tutti i pedoni si rovescino e l’ultimo cada dal flipper. Ops! Uno spettacolo. Oppure mi è capitato di inventare dei giochi “optical”, mettendo in fila un  pedone nero, uno bianco, poi di novo uno nero e poi di nuovo uno bianco. Una regressione al look anni ’70 molto lontana dall’uso che si fa di solito dei pezzi di questo gioco.

Alla fine, dopo tutte le partite di scacchi viste giocare, dopo tutta quella concentrazione e dopo tutto quel silenzio, ho trovato un’alternativa alle regole consolidate e condivise e mi sono inventata nuovi stratagemmi eversivi. Un bravo giocatore, ligio alle regole, potrebbe inorridire. Ne avrebbe motivo. Comunque un gioco è un gioco, la creatività non va censurata e la possibilità di inventare, reinventare e cambiare il setting  fa parte del divertimento, del migliore dei divertimenti possibili. La  novità porta spesso con sé sorrisi e stupore. A volte, se le si guarda bene, le pedine degli scacchi sembrano tante persone un po’ bianche e un po’ nere. Non c’è razzismo in quel gioco e questo mi piace molto.

I veri giocatori di scacchi sono comunque dei grandi puristi, le regole ufficiali sono quelle scritte e tramandate e non si possono cambiare, la scacchiera è standard e non può essere toccata, il tavolo deve avere la misura giusta, il silenzio deve regnare sovrano.
Penso però che a 14 anni sia meglio correre in bicicletta, coi roller, andare a nuotare, a giocare a tennis e a vedere il cinema all’Oratorio. Gli scacchi stanno comunque là, sulla loro scacchiera  e aspettano. Sono molto pazienti, molto duraturi, immortali. Quando il tempo sarà passato e i ragazzini di oggi  avranno cinquant’anni, i pezzi del gioco  saranno ancora là uguali, in attesa. Un rompicapo intramontabile.
Ciò che invece tramonta in fretta è l’età.


N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

 

LA FAMIGLIA DI TUTTI?
Le ultime parole di Papa Francesco

Il Papa apre alle unioni civili e dice che tutti hanno diritto a una famiglia. Da tutte le parti si levano voci di gioia e si dice che questo Papa è visionario e coraggioso. Io credo che in parte lo sia, rompe è vero con certa tradizione cattolica, ma lo fa a metà e facendolo a metà crea dei grandi fraintendimenti.
Da cattolica e cristiana che ha curato, insieme a Cristina Guarnieri, il libro di Teresa Forcades Siamo tutti diversi: per una teologia queer edito da Castelvecchi, trovo che chi davvero teologicamente è stata rivoluzionaria è proprio suor Teresa. Lei nel suo libro argomenta con coraggio il sostegno alla battaglia dei gay e delle lesbiche cattoliche perché venga riconosciuto loro il diritto al sacramento del matrimonio. Non è una questione solamente politica, ma anche teologica, quando per teologia s’intende “l’esperienza umana di Dio”. Il matrimonio non è un sacramento perché la coppia porta in se la riproduzione della specie, ma è sacramento perché l’amore che lega due persone (etero o omosessuali, poco importa) rispecchia sulla terra l’amore di Dio, è un amore sacro dunque, in cui la partecipazione di Dio è intrinseca.
L’amore è creativo sempre, genera in tanti modi (non solo facendo figli) il seme del futuro dell’umanità. Ma, per potere dire forte e chiaro tutto ciò, è necessario rimettere in discussione tutta quella teologia della complementarità che accompagna l’esegesi del matrimonio. Il matrimonio non è sacro perché due, un uomo e una donna, avranno dei figli (non si spiegherebbe come mai una donna che è già in menopausa potrebbe sposarsi in chiesa, se questo fosse il fondamento cardine del matrimonio), ma appunto perché immagine dell’amore di Dio e immagine trinitario dell’amore. L’amore infatti è fecondo se trinitario, nel circolo dunque di una relazione non chiusa ma aperta. Due uno che si incontrano, non due metà che incontrandosi si completano. Questo è quello che io ho capito seguendo “la complessità molto semplice” (sembra un ossimoro ma non lo è: suor Teresa entra nella complessità della vita, ma la rende chiara con ragionamenti facili da seguire), delle sue argomentazioni che le permettono di andare alla radice delle questioni teologiche e antropologiche dei nostri tempi.

Dunque perché il Papa si rivolge alla politica e non dentro la stessa Chiesa, che in tal modo potrebbe davvero diventare evangelica nel suo senso più profondo? Certo facendo così sarebbe una rottura dirompente con le gerarchie ecclesiastiche e le rotture grandi preoccupano la tenuta delle istituzioni. Ma io mi chiedo: Gesù quando agiva si poneva questa questione? non mi pare. La sua azione è stata sempre rivoluzionaria, anche politicamente parlando. Se Gesù è il nostro modello, perché chiedersi sempre quale strategia usare per fare passi avanti, soprattutto quando si parla dell’evoluzione dei sentimenti umani? Perché non agire in conformità al sentire evangelico e avere fiducia nella provvidenza?

E infine il Papa si è spinto oltre e ha parlato di diritto alla famiglia di tutti. Cosa intende con famiglia? S’intende sempre e solo quella di una mamma un papà e dei bimbi, o di una comunità fondata sull’amore? Perché, se s’intende la prima, il diritto alla famiglia di qualsiasi coppia apre al diritto ai figli, che per me non è un diritto, e dunque a quell’abominio che è la pratica dell’utero in affitto, dove alle donne, come nella teologia della complementarità, viene riconosciuto valore solo in virtù della loro capacità riproduttiva e non in quanto esseri umani a pieno titolo.
Se invece si pensa alla seconda definizione (famiglia: comunità fondata sull’amore), allora il Papa è sì rivoluzionario e finalmente nuovo. Ma questo lo doveva specificare. Conoscendo lo sforzo che papa Francesco ha fatto per portare nel mondo il valore delle culture indigene dell’Amazzonia, credo che lui pensasse proprio a questa definizione, ma continuo a chiedermi, perché non lo ha specificato? Perché crede che questa definizione sia sottintesa in un Occidente che invece continua imperterrito la corsa verso gli interessi privati, dei singoli e disinteressandosi di un ben più ampio bene comune?

PER CERTI VERSI
A questa luna

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

A QUESTA LUNA

Come era
Come era bella
Iersera
Quell’unghia di luce
Nel vuoto universo
E le lentiggini
Del cielo emiliano
Senza bava di vento
Un artiglio di pace
Mi prende il bavero
Stretto tra le umide spalle
Non si vede più
Tutto tace
Tra sparse caligini
Si immagina
San Luca
Tu
La prima stella
Che sbuca
La piana sfuma
Non si ribella

BUONI SPESA AD OSTACOLI
Arriva il nuovo bando del Comune di Ferrara

Proviamo a ricapitolare.
Questa primavera, durante la durissima prima emergenza, la vicenda dei Buoni Spesa a Ferrara ha occupato la cronaca dei media locali e sbarcando anche su quelli nazionali. Da subito sono stati criticati i criteri, le modalità, le precedenze, le esclusioni, la non trasparenza con cui Il Comune di Ferrara aveva gestito l’assegnazione dei Buoni. Davanti a una vasta mobilitazione cittadina partita dal basso, la difesa della Giunta è apparsa capziosa, impacciata. Soprattutto non convincente. Da notare tra l’altro che dopo la chiusura dei termini erano avanzati 30.000 Euro e una lunga fila di esclusi.

Si arriva così all’ordinanza del 30 aprile 2020 – confermata anche in sede di reclamo – con la quale il Tribunale di Ferrara ha dichiarato discriminatoria la Delibera del Comune che limitava l’accesso ai Buoni Spesa destinati al sostegno delle famiglie colpite dall’emergenza COVID ai soli stranieri in possesso del permesso di soggiorno per lungo soggiornanti, escludendo quindi i titolari di un permesso ordinario per famiglia o lavoro, i titolari di protezione internazionale, i richiedenti asilo.

La stessa ordinanza  ordina al sindaco Alan Fabbri di “riformulare i criteri e le modalità di assegnazione”, rimuovendo le clausole relative alla durata del permesso di soggiorno e alla residenza e consentendo la presentazione di nuove domande per chi presentava (all’epoca del lockdown) “i requisiti relativi alla condizione di disagio economico e alla domiciliazione nel territorio comunale”.  Il Comune di Ferrara è anche tenuto a pagare le spese legali degli stranieri che avevano fatto ricorso. E veniamo ad oggi .

Il Comune di Ferrara ha dovuto avviare un nuovo bando. Si direbbe però molto di mala voglia

Provare per credere:
Il sito del Comune di Ferrara ha un banner blu in homepage che porta a una pagina dedicata ai Buoni Spesa. Chiunque cliccherebbe quello. Peccato che si arrivi alla pagina del vecchio bando per la distribuzione dei buoni, difatti c’è scritto che la scadenza è il 24 di aprile. https://servizi.comune.fe.it/9568/emergenza-coronavirus-buoni-spesa
Nonostante l’imponente servizio stampa del Comune, nessuno si è preso la briga di cancellarlo.

E il nuovo bando? Per trovarlo nel sito del Comune bisogna impegnarsi parecchio. Invece di metterlo in evidenza e renderlo facilmente raggiungibile, bisogna scorrere tutta la catena dalla homepage. Alla fine ne trovate notizia in un angolino. Ecco il link: https://servizi.comune.fe.it/9693/nuove-domande-buoni-spesa

Tutto a posto? Nemmeno per sogno. Nel nuovo bando si ritrovano alcuni vizi – chiamiamoli errori – del primo. Proprio come in primavera, anche questa volta la richiesta si potrà fare solo telefonicamente, senza possibilità di verificare ufficialmente la propria domanda. Tutti sanno quanti problemi e quante proteste aveva prodotto questa scelta. Eppure il Comune ha deciso di non tenerne conto.
Anche i tempi sono inspiegabilmente strettissimi. Si potrà chiamare solo dal 26 al 30 di ottobre.

PRESTO DI MATTINA
Risonanze

Risonanze di vangelo, parole antiche e sempre nuove, sono per me le poesie di Carlo Betocchi. Il suo è un vangelo vissuto a caro prezzo nel quotidiano; una scrittura incisa nel corpo delle cose, ferita per liberare il soffio d’anima prigioniero in esse. Ma al tempo stesso una scrittura seminata nel tempo ‒ «un passo, un altro passo» ‒ per ritrovare «tracce mutili», frammenti di senso dentro al muto silenzio del quotidiano. Eppure «col suo silenzio/ la mia anima benda le sue ferite./ E crede, infinitamente crede/ al mutamento. E vi scivola/ dentro. Tutto è compiuto/ e tutto è da compire./ Nel mio silenzio» (Tutte le poesie, Milano 1996, 578). Un vangelo compiuto e tutto da compiere ‒ dunque ‒ scevro da compromessi, spoglio da sicurezze, senza difese, né privilegi. Un vangelo al vivo, che rincuora la vita.

Quella di Betocchi è una fede che si consegna in abbandono all’altro che gli viene incontro; scaturita da ferita d’io che guarisce facendosi umiltà d’amore. Solo così ci si può convincere che la stoltezza del vangelo è più sapiente degli uomini e la debolezza del vangelo è più forte della forza degli uomini (1 Cor 1,25): «A me la fede/ non consente che un grido ed una voce:/ è quel poco che so, che sento vero/ dentro di me: ed in quel vero accendo/ l’essere a farsi un uomo che cammina/ solo e con tutti, innanzi a sé pregando» (Ivi, 545).

In particolare, una poesia di Carlo Betocchi mi accompagna da tanti anni, invitandomi all’umiltà d’amore. È un testo generativo di uno stile e di una pratica pastorali, che fanno partire alla ricerca del vangelo celato in qualunque frammento del creato, pure nel sasso, nell’albero, nel fuoco, nella sorgente in un fiato d’aria. Un vangelo tra la gente; un vangelo di vangeli, fuori dai recinti di coloro che si ritengono giusti. Presente pure nelle strade dove tendono agguati i briganti, ma percorse anche dal samaritano della parabola evangelica che, a motivo di quella debolezza forte e di quella stoltezza sapiente che promanano dalla compassione, non passa oltre, restando con l’altro, praticando così lo stesso operare di Dio nel rivelarsi a Mosè: “dì loro che io sono [l’altro], colui che sono accanto, che mi faccio prossimo a voi”.

Eccola: «No, non temere mai nulla da Dio…  Non temere il Signore Dio tuo. Ha detto: “Io sono quello che sono”/ e tu non temere mai nulla: poiché,/ se tu credi, non sarà tua l’esistenza,/ ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,/come tu speri e credi: anzi, gettata/ nelle fosse. Chi crede in Dio/ si appresti ad essere l’ultimo/ dei salvati, ma sulla croce, ed a bere/ tutta l’amarezza dell’abbandono./Poiché Dio è quello che è.
Ma si è già nel Vangelo quando/ non se ne può più uscire:/ e vi si è ancora quando,/ stanati dalle mura della sua Chiesa/ per impossibilità di restarvi,/ allora il Vangelo ci insegue/ come il veltro la preda agognata./ Fra te e la salvezza non/ altre vie che quelle segnate/ dal Vangelo; ma in quelle che vedi/ vanno, fra sciami d’innocenti,/ turbe d’ignavi e d’ipocriti./ E dunque fra te e il Vangelo /non c’è che il nasconderti/ dentro e sotto di lui come gramigna/ nel suolo, a far speco terroso/ in cui si realizza, come si può,/ quel che non esiste che nei fatti:/ qui in terra, e nella carità» (Ivi, 459-461).

Mario Luzi, in un’intervista (Biblia Notiziario 1996), ricordava che quel piccolo demiurgo che è un poeta, quando si accosta al vangelo, lo fa non tanto per la potenza e l’autorità di quella Parola, ma semmai, seguendo la singolarità che gli è propria, quella di smascherare le false parole, di scoperchiare quelle che, come sepolcri imbiancati appaiono all’esterno belle all’udirsi, ma dentro sono parole morte. E tuttavia quelle del poeta sono parole vere perché testimoniano non tanto il Creatore e il Padre nostro che è nei cieli, ma la sua creatura. In tutti i casi, in comune tra loro, la parola del vangelo e quella del poeta hanno l’amore per l’uomo. Talché il poeta, udendo la parola di Dio, ne coglie gli echi profondi e le risonanza che essa tesse con i silenzi degli uomini nel loro umano interrogare. «Il Vangelo – scrive Mario Luzi – è poesia esso stesso, nel senso di poiesis che crea l’esigenza di pensieri, crea pensieri nuovi, esalta l’esistente e l’assente nello stesso tempo. Fa sentire così vivo il mondo, così drammatico».

Ne La poetica dello spazio, Gaston Bachelard, per esprimere gli echi profondi generati nel lettore da un testo poetico, usa una parola francese intrigante: retentissement, da rententir, riempire di un suono forte o di un brusio, come refoli di vento a intervalli costanti in uno spazio che si dilata sempre più. Retentissement deriva dal latino tinnere, tintinnare, risuonare di suoni brevi o allungati, fievoli o rimbombanti; a volte è un bisbigliare da un orecchio all’altro, altre come un’ola nello stadio; un farsi intendere ripetutamente come un’eco, nello stesso perdurare di un’azione come l’andirivieni delle onde nel mare, l’espandersi di odori e profumi o il diffondersi di canti gioiosi, o di lamenti; rumori di officina, pesanti grida o il vagito di un neonato.

Retentissement possiede dunque una ricchezza semantica che non si coglie nella sua traduzione italiana con ‘risonanza’. Teniamo quindi a mente nel leggere quanto osservava al riguardo Bachelard: «Le risonanze si disperdono sui differenti piani della nostra vita nel mondo, il retentissement ci invita ad un approfondimento della nostra esistenza. Nella ‘risonanza’ non facciamo che intendere la poesia, nel retentissement la parliamo, è nostra. Il retentissement opera un cambiamento d’essere: l’essere del poeta sembra diventare il nostro… L’esuberanza è la profonda ricchezza di una poesia sono sempre fenomeni del doppione ‘risonanza-retentissement’: la poesia pare ridestare in noi echi profondi in virtù della sua esuberanza». Questo determina come un risveglio nel lettore, un divenire che lo trasforma: «La immagine che la lettura del poema ci offre, eccola diventare veramente nostra: essa si radica in noi stessi, e, sebbene noi non abbiamo fatto che accoglierla, nasciamo all’impressione che avremmo potuto crearla noi, che avremmo dovuto crearla noi. Essa diventa un essere nuovo del nostro linguaggio, ci esprime facendoci diventare quanto essa esprime, o, in altre parole, essa è al tempo stesso un divenire espressivo ed un divenire del nostro essere», (ivi, 12-13). Così il retentissement costituisce quel fenomeno che fa percepire al lettore ciò che il poeta ha scritto come fosse il proprio dire; lo fa cosciente che in lui abita la capacità linguistica ed espressiva dimorante nel poeta.

Nella traduzione francese della Bibbia ho trovato diverse ricorrenze testuali del nostro termine. In particolare, mi sono soffermato sul Salmo 19, che amplifica e diffonde le risonanze e le voci della creazione che narrano l’opera ‒ poetica anch’essa vien da dire ‒ uscita dalle mani di Dio. Il ritmo è incalzante, crescente, uno sparpagliarsi di suoni. Dai cieli si avvia la narrazione e, come una cascata, risuona sulla terra attraverso il distendersi dei giorni e delle notti, che traghettano nel tempo e lungo la storia quanto hanno udito e ricevuto. Le notizie trasmesse non sono discorsi chiaramente udibili e afferrabili, ma nell’intero spazio terrestre è ‘uscito il loro suono, se ne diffonde la voce’, tanto che fin all’estremità della terra ‘risuona la parola: «Leur retentissement parcourt toute la terre. Leurs accents vont aux extrémités du monde».

In questo ‘passa-parola’ di trasmissione e di recezione della vita, la creazione continua a muoversi, a ricrearsi, come quando in uno stagno d’acqua ferma si gettano sassi, che creano risonanze ondose a forma di cerchi, che vieppiù si espandono ingrandendosi. E incrociando il movimento ondoso provocato dagli altri sassi, essi creano trasformazioni e nuove armonie figurative rispetto alla forma iniziale. I cerchi che vengono così attraversati dalle onde degli altri ne sperimentano le risonanze come fossero le proprie, e forse qui, simbolicamente, ci viene rappresentato il fenomeno ricordato da Gaston Bachelard, che porta il lettore a sentirsi come il poeta, a percepire, almeno un poco, il testo come appartenente anche a lui.

La ricezione di un testo «è la capacità di fare azione, di fare passi incontro, anche quando il movimento sembra partire da altri, come i cerchi nell’acqua, non è ripetizione ma direi intensità nell’azione con cui anche chi riceve prende parte attiva nel far sua la cosa che riceve» (Luigi Sartori).

Padre Marcello dopo ogni colloquio o confessione diceva sempre a chi aveva di fronte: «avanti, avanti». Il mio congedo è simile: «un altro passo». Espressione che rivolgo spesso anche a me stesso la mattina, o quando sto per iniziare qualcosa di impegnativo o faticoso. Non fu allora solo meraviglia quella volta che, saltando qua e là tra le pagine dell’opera poetica di Carlo Betocchi, trovai il titolo di un testo che corrispondeva esattamente al mio quotidiano dire la speranza: Un passo, un altro passo

Un passo, un altro passo,
ivi del cielo il masso
azzurro, la vivente natura,
e l’inferma pietà
che se stessa conosce negli errori,
e la lieve follia, ivi la morte,
il rumore e il silenzio,
e il mio esistere anonimo;
e come dalla pietra sale il canto
di un colore che è muto,
un passo, un altro passo,
e inciampicando nel divino esistere
io giungo a riconoscermi nel sasso
che sospira all’eterno, in alto, in basso.”
(ivi, 286).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

Al cantón fraréś
Giorgio Alberto Finchi: “Al vin di nòstar cò”

L’autore, dopo aver scritto sul magnàr, su erb e piant delle nostre terre, ha compilato un repertorio in poesia dialettale sul mondo del vino nostrano: le pratiche nella vigna e in cantina, il bere all’osteria e la degustazione al ristorante, la selezione dei vitigni, gli abbinamenti gastronomici, le caratteristiche organolettiche delle varie denominazioni. Il tutto con umoristica leggerezza.
Di seguito proponiamo un compendio storico in rima, il ricordo di una antica uva bianca, un breve assaggio di vino rosso locale.

 

Pìcula storia dla vida e dal viη

Fin da la più luntàna antichità,
i m’à sémpar dit a scola,
al vin al jéra rinumà
e l’an è briśa na fòla
parché źa int l’era terziaria
dill piànt ad vida è sta’ truvà
int ill roć ad arenaria
e da alóra l’à “źarmujà”.
Qualcùn diś che la vida
l’as è misa iη salv coη l’arca,
e che Noè al l’à cargàda
iηsiém all besti, su cla barca.
La prima źént ch’là cultivàda,
sémpar stand a la storiografia,
dla Persia a par ch’la sié stada,
źa espert d’agronomia.
Int la penìśula italiana
prima dl’òm l’à mis ill radìś
e acsì iη val Padana,
sémpar stand a quél ch’i diś.
Rivà l’òm, int la preistoria
con di graη bucàj ad vin
al s’è mis a far baldoria
e a cantàr cmè i putìη.
Ma diéś sècul prima ad Crist
j’Etruschi, źént furèst
che da nu iη s’jéra mai vist,
i l’à difùśa in tut al rest,
iη zéntar e setentrióη
śgónd i źir dal so cuntèst
e in ogni altra direzióη.

Piccola storia della vite e del vino (traduzioni dell’autore)
Fin dalla più lontana antichità, / mi hanno sempre insegnato a scuola, / il vino era rinomato / e non è una favola, / perché già nell’era terziaria / piante di vite sono state ritrovate / nelle rocce di arenaria / e da allora ne hanno fatto di cammino. / Qualcuno dice che la vite / si è messa in salvo con l’arca / e che Noè l’ha caricata / insieme alle bestie, su quella barca. / I primi che l’hanno coltivata, / sempre stando alla storiografia, / sembra siano stati i Persiani, / già esperti di agronomia. / Nella penisola italiana / ha germogliato prima dell’uomo / soprattutto nella Valle Padana, / sempre stando a quanto hanno riferito. / Quando giunse l’uomo preistorico / con grandi boccali di vino / ha cominciato a fare baldoria / e a cantare come un bambino. / Ma dieci secoli avanti Cristo / gli Etruschi, popolo sconosciuto, / che ancora non si era visto, / l’hanno diffusa in tutti i territori, / del centro e del settentrione / e in base alla loro diffusione / anche in altre direzioni.

 

Liàdga

Agh jéra un temp
una pianta ad vida
che agh bastava póca cura:
ad sólfana na supiàda,
uη pó d’calzìna e sulfàt ad ram,
e la carséva seηza stòri
avśìn a ca’ o luηgh all tirèli.
La dava di grap cumpì
ad vó źala, bela e brilànta
tanta bòna da magnàr.
La bunéva purasà prest,
adritùra a la fin ad luj,
e par quést la gnéva ciamàda
‘la prima vó’ o ‘vó Liàdga’.

Lugliatica
C’era un tempo / una pianta di vite / che aveva bisogno di poche cure: / una soffiata di zolfo, / un po’ di calce col solfato di rame, / e cresceva senza tante storie / vicino a casa, lungo i filari. / Dava dei grappoli compiuti / d’uva gialla, bella brillante / e tanto buona da mangiare. / Maturava molto presto, / addirittura alla fine di luglio, / e per questo veniva chiamata / ‘prima uva’ oppure ‘uva Lugliatica’.

 

Rós dal Bosco Eliceo

Chì da nu agh è sémpar sta’
dal bóη viη par la vrità:
al teréη l’è ‘η pó sabióś
mò al viη l’è bel curpóś.
Vers al mar, vers a Vulàna
e più iη là, vers a Funtàna,
agh è uη vin da ‘giubilèo’,
al rós, apùnt, dal Bosch Elicèo.
Catàr l’origine ad chi’sta vida
l’è sicùr na bela sfida:
tant studióś i gh’à pruvà
e l’è finì int na bugà.
Fòrsi nata su ill mòt dal litoràl,
acsì salvàdga tal e qual
o cultivàda da quìi ad Spina
e dai Rumàη sira e matìna.
Zèrti i dscór d’Renata d’Francia,
d’j’àltar i diś con titubaηza
che la viéna dal meridióη
coη na bòna uservazióη
che al grap iη riva al mar,
e quést al par bèl ciàr,
al bunìs coη più vigór,
dat ach gh’è uη pó più ‘d calór
e ór ad luś aηch uη pó ad più,
al savévan aηca nu…
. . . . . . . . . . . . . . . .

Rosso del Bosco Eliceo
Qui da noi c’è sempre stato / del buon vino in verità: / il terreno è un po’ sabbioso / ma il prodotto è bello corposo. / Verso il mare, verso Volano / e più in là, verso la Fontana, / esiste un vino da ‘Giubilèo’, / il rosso del Bosco Elicèo. / Scoprire l’origine di codesta vite / non è molto facile, / tanti studiosi hanno tentato / e non ci sono riusciti. / Può essere nata spontaneamente / sulle dune del nostro litorale, / poi coltivata dagli Spineti / e dai Romani in ogni tempo. / Chi ricorda Renata di Francia, / altri dicono con incertezza / che provenga dal meridione / secondo la giusta osservazione / che il grappolo in riva al mare, / e questo è bello evidente, / matura con più vigore, / dato anche che c’è più caldo / e vi sono più ore di luce, / questo lo sappiamo anche noi… / . . . . . . . . . . / . . . . . . . . .

Tratte da: Giorgio Alberto Finchi, Al vin di nòstar cò : storia e poesia dei vini del Delta, Ferrara, Centro di Documentazione Storica, 2004.

Giorgio Alberto Finchi (Porotto 1929 – Ferrara 2008)
Medico condotto a Pontelangorino per 42 anni, socio del Gruppo Mandolinistico Codigorese, dell’Associazione Medici Scrittori Italiani, del Tréb dal Tridèl, del Moto Club Delta… Fra le sue pubblicazioni si ricordano: L’e tuta colpa dal prugress (1997), Al magnàr di nòstar cò (1998), Erb e piant di nòstar co’ (1999), con altri il Vocabolario del dialetto ferrarese (2004), Sanità fra satira e umorismo (2006). Ha composto sette commedie dialettali tutte rappresentate dalla compagnia “Straparót” di Porotto, per la regia di Mario Montano.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Vigneti sul Po. Foto di M. Chiarini 

“Riaprite la Biblioteca Rodari”:
una lettera dei cittadini ancora senza risposta

Come gruppo di “Cittadini in difesa della Biblioteca Rodari” nei giorni scorsi abbiamo inviato una lettera, che riproduciamo qui sotto, per chiedere un incontro sulle problematiche e le prospettive della Biblioteca Rodari, servizio del quale sentiamo gravemente difficoltà e necessità.
Purtroppo a tutt’oggi non abbiamo avuto alcuna risposta.
Speriamo ancora che le promesse di ascolto della società civile altre volte proclamate, trovino presto riscontro; certamente noi non desisteremo dall’occuparci del tema, sempre nel rispetto dei ruoli di ciascuno ma con la convinzione che anche la nostra voce abbia il diritto di essere ascoltata.
Con preghiera di pubblicazione.
Cordiali saluti
Luigi Rasetti
a nome e per conto del gruppo di cittadini a difesa della Rodari
testo della lettera inviata agli Amministratori:
Gentile Sindaco Fabbri,
Gentile Assessore Gulinelli, 

come sapete, il 3 ottobre scorso si è tenuta una pubblica manifestazione davanti alla Biblioteca G. Rodari, alla quale hanno partecipato numerosi cittadini (oltre 170 presenze registrate), che si sono uniti agli organizzatori per esprimere grave preoccupazione per la crisi della Rodari. 
Facendo seguito a tale iniziativa, siamo a chiedere ad entrambi di voler partecipare ad una pubblica assemblea nel quartiere Krasnodar allo scopo di dialogare con i cittadini su: 

1. Riapertura al pubblico della Biblioteca Rodari di v.le Krasnodar 102 ad orario pieno, il prima possibile.
2. Ripristino di personale bibliotecario specializzato (3 postazioni fisse, in presenza) in tempi brevi.
Inoltre, a seguito delle recenti dichiarazioni del sig. Sindaco sulla nuova biblioteca del Sud della città da collocare all’Ippodromo, vorremmo capire ed eventualmente avanzare richieste e proposte su:
3. Individuazione di una più idonea sede della Rodari sempre nel quartiere di V.le Krasnodar e nel contempo condividere una eventuale nuova destinazione d’uso dei locali di V.le Krasnodar102 che, per il vuoto di servizi di comunità che si creerebbe col trasferimento della biblioteca, potrebbe rappresentare un punto di riferimento di incontro a livello civico.

Chiediamo che tale assemblea pubblica possa aver luogo entro le prossime 2-3 settimane. Siamo fiduciosi che la nostra richiesta venga accolta favorevolmente e con spirito costruttivo. Da parte nostra, assicuriamo la massima disponibilità a collaborare ed operare nell’ottica del bene comune. Ringraziando per l’attenzione, restiamo in attesa di un riscontro e porgiamo cordiali saluti.

Cittadini a difesa della Biblioteca Rodari

GLI SPARI SOPRA
“Nessuno si salva da solo”: un ateo dalla parte di Bergoglio

Ci si salva se si agisce insieme e non solo uno per uno” (Enrico Berliguer)

“Nessuno si salva da solo” (Jorge Maria Bergoglio)

Io faccio davvero fatica a capire la religione, dice, per forza sei ateo. No, ma non è assolutamente quello il punto e nemmeno il motivo. La religione funziona per dogmi, funziona quando impone il fanatismo nel giudizio sugli altri. Nella storia gli esempi sono migliaia, parliamo solo della religione cattolica, la santa inquisizione, l’evangelizzazione delle Americhe, dell’Africa e dell’Oceania, e fermiamoci qua. Esistono degli esempi però altrettanto virtuosi, anzi le parole del Gesù fattosi uomo, parlano d’altro, molto spesso, nei secoli sono state modificate per convenienza. Lasciamo perdere le date dei vangeli, non apocrifi, e la storicità degli stessi, ma siamo davvero sicuri che i detrattori del attuale papa Francesco, che non a caso ha scelto il nome del Santo di Assisi, siano credenti?

Mi spiego meglio, la teologia della liberazione ha un grosso punto d’incontro tra cristianesimo e marxismo, ora immagino di far vibrare sulla sedia i bigotti di entrambe le correnti di pensiero, ma io da marxista curioso, gramsciano e non dogmatico, proseguo.
Ricordo male, oppure scavando nei miei lontanissimi anni di catechismo, che quel Ragazzo di Nazareth si schierava sempre e apertamente dalle parte degli ultimi? Vero, forse non era prettamente femminista, ma duemila anni fa, non ricordo che nessuno lo fosse.
Forse mi sogno quando, sempre Cristo, parlava dei ricchi e della cruna dell’ago?

La mia memoria vacilla, quando ricordo la storia dei mercanti e del tempio oppure della rivoluzione nei confronti del potere costituito, contro i soprusi degli oppressori romani in Palestina? Un po’ come l’imperialismo di oggi dello stato di Israele, ma non vorrei andare fuori tema.

Un amico mio scrittore dice che per scrivere occorre partire da un punto A per arrivare a un punto B. Ecco io generalmente, parto per una scrittura senza prima avere in mente quale sarà il mio punto d’arrivo. Ecco perché ho così tanti limiti e forse mai diverrò uno scrittore, rimanendo per l’eternità uno che scrive.

Ritorno alla mia analisi sul pensiero religioso e sul pensiero di papa Francesco, mi chiedo, perché Bergoglio sia più odiato dai credenti che dagli atei?
Continuo, perché è più vicino ai pensieri originari della sinistra, che ai pensieri originari della destra?
Nella mia piccola mente, la risposta pare scontata, forse perché il concetto di religione originario stava sempre e per dogma dalla pare degli ultimi, “ama il prossimo tuo come te stesso”, le parole non sono di Francesco ma del figlio del titolare.
Quando la religione per millenni è stata dalla parte del più forte, dalla parte dell’oppressore, dalla parte del re, della regina, dell’imperatore e dello zar, tutto andava bene. Difendiamo i confini, riprendiamoci il sacro sepolcro, combattiamo gli infedeli, sterminiamo gli adoratori di idoli. Fino qui andava bene a tutti.

Anche ora, secoli dopo, molti finti credenti (la maggioranza?) pensano che Gesù Cristo fosse dei loro, fosse dalla parte dei vincenti.
Ma non è così, fu il primo degli sconfitti, non rinnegò i fratelli o meglio quelli con cui Egli condivise il pane (cum panis), fino al massimo sacrificio.
Perché ora duemila anni dopo, quelle stesse parole, quello stesso verbo danno ancora così fastidio? Magari perché in molti credono in maniera bigotta, senza testa, fissi a testa in giù, continuando ad uccidere, con le armi o con le parole, tanto poi ci si pulisce l’anima con la confessione.
Siamo tutti peccatori, uccidiamo e poi ci pentiamo.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra, diceva Lui.

Credo che il pensiero ottuso, di chi pensa alla religione a proprio uso e consumo sia una dei grandi mali dell’umanità da sempre, gli uomini hanno sempre avuto bisogno di un Dio, fatto a propria immagine e somiglianza, al loro servizio, del colore della loro pelle, con gli stessi tratti somatici.
Molto meglio gli idolatri, che non volevano dominare gli dei, ma del sole e della luna ne seguivano i flussi, non pensavano che Dio fosse con loro, il mondo, la terra, il cielo non è di proprietà, ma è in prestito, da restituire migliore alle future generazioni, dicevano i selvaggi.

Avere paura delle parole di papa Bergoglio, criticandolo come blasfemo, solo perché riporta direttamente le parole del Rivoluzionario palestinese, mi sembra veramente una grandissima ipocrisia.
L’ipocrisia di che crede che Gesù Cristo sia bianco, biondo e con gli occhi azzurri.

Non credo di essere particolarmente credibile, da ateo, quando parlo di religione.
Io invidio chi crede in modo laico e ponendosi domande, disprezzo altamente chi ancora si alza il bavero e sostiene che dio sia con lui, e che lui sia come dio (le minuscole qui sono volute).
Credo che le parole siano sempre quelle, sta nell’interpretazione il problema. Quando un uomo, dalla pelle scura, dai tratti orientali e dai capelli lunghi, stando alle scritture e agli atti, un po’ sbiaditi essendo una storia di duemila anni fa, diceva parole rivoluzionarie, che ascoltate ora, dalla voce di un papa, a molti credenti, danno assai fastidio. Forse perché quell’uomo assomigliava molto all’uomo nero di cui hanno tremendamente paura?

PAROLE A CAPO
Marinella Giuni: “Il mio ritorno” e altre poesie

“Come c’è un poeta che canta le violette e i tramonti e un altro che canta i tuoni e le bufere, così ci sono, accanto a poeti che cantano raggelati amori astratti, poeti che cantano tumultuose tragedie sessuali. E a nessuno viene in mente che questo faccia qualche differenza.” (Fernanda Pivano)

 

Perla

Questa lacrima
è una piccola perla
gioiello di un tempo lontano
che scava ora
il tuo viso di marmo
Il sole rapido cala
e nell’ultimo raggio
mi offre la tua mano
Rinunciare
sarebbe follia pura

 

Ogni giorno

Ogni giorno
questo potere
di bloccarti
alla sbarra
mi piace.
Sotto il sole
infuocato
il convoglio rallenta
come sapesse
del nostro incontro.
Ed io
che ne sono certa
godo
del vento
dell’aria leggera
del tuo saluto
sconosciuto.

 

Il mio ritorno

C’è una sola luce
che accende
la mia sera.
La tua finestra
quando illumina
la casa buia.
Dimmi che anche tu
hai amato
il mio ritorno.

 

Marinella Giuni (1961) , abita a Voghera. Laureata in Psicologia Clinica e di Comunità all’Università di Torino, spazia tra diversi interessi sportivi e culturali. Vincitrice e segnalata in diversi concorsi, ha pubblicato “Racconti seri se_veri” con Placebook Publishing e la raccolta di poesie “Nella stanza del te” con Le Mezzelane. Il suo sogno è mollare tutto ed aprire una libreria con le sue amiche lettrici e scrittrici!

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. .\4
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

L’IMPRENDITORE CON LA PASSIONE PER L’ECOLOGIA:
ricordando Aurelio Peccei

In un recente articolo Repubblica ha ricordato Aurelio Peccei, imprenditore e manager con la passione per l’ecologia, che nel 1968 riunì a Roma, assieme allo scienziato scozzese Alexander King, alcuni studiosi presso la sede dell’Accademia dei Lincei dando origine al Club di Roma, associazione non governativa, non profit che da allora persegue “la missione di agire come catalizzatore dei cambiamenti globali, individuando i principali problemi che l’umanità si troverà ad affrontare, analizzandoli in un contesto mondiale e ricercando soluzioni alternative nei diversi scenari possibili” (Wikipedia). Uno dei primi atti dell’attività del gruppo fu la richiesta al Massachussets Institute of Technology di Boston (MIT) di stendere un rapporto sullo stato del pianeta e di prevedere cosa avrebbe provocato la crescita economica che dal dopoguerra ha caratterizzato i paesi sviluppati.
Il rapporto, pubblicato nel 1972, con il titolo I limiti dello sviluppo (The Limits to Growth, o rapporto Meadows, da due degli autori), giungeva alle conclusioni che la Terra nel giro di qualche generazione sarebbe andata incontro ad eventi catastrofici a causa del superamento delle capacità del pianeta di sopportare le attività industriali umane”.

È lo stesso Peccei a sintetizzarne le conclusioni in una intervista rilasciate nel 1973 a Piero Angela (disponibile su futuranetwork.eu, sito che presenta studi, articoli, interviste, segnalazioni di materiali focalizzati sulla necessità di esplorare i possibili scenari e di decidere oggi quale futuro vogliamo scegliere tra i tanti possibili). Per me quello studio fu una illuminazione”, racconta oggi Angela. “All’epoca c’era l’idea di una crescita continua, come l’avevamo conosciuta nel dopoguerra. Ma oggi la cultura di quel rapporto è finalmente stata rivalutata”.

Peccei, dopo esperienze lavorative in Italia e all’estero, in ambito FIAT, nel 1964 entrò come amministratore delegato in Olivetti, che già allora iniziava ad affrontare le prime difficoltà a causa dei profondi cambiamenti in atto nella produzione delle macchine da ufficio. In seguito, non soddisfatto dei risultati ottenuti con Italconsult (una joint-venture tra diversi marchi italiani, quali Innocenti, Montecatini e la stessa Fiat) e con la presidenza dell’Olivetti, concentrò i suoi sforzi anche su altre organizzazioni, come ADELA, un consorzio internazionale di banchieri di supporto allo sviluppo economico dell’America del Sud; inoltre partecipò alla fondazione dell’IIASA (The International Institute for Applied Systems Analysis) con sede a Vienna centro di ricerca per problemi globali come sovrappopolazione, cambiamenti climatici, fame.
Un personaggio straordinario, che, come ricorda Gianfranco Bologna (ambientalista, è stato segretario del Wwf italiano e della Fondazione Aurelio Peccei – Club di Roma Italia) nella sua frequentazione tra il 1976 e il 1984, “ha contribuito a cambiare il modo di intendere il nostro rapporto con il Pianeta che ci ospita”. E’ di quegli anni l’idea e poi la costituzione del Club di Roma.

Nel 1992 (con Peccei morto nel 1984) è stato pubblicato un primo aggiornamento del rapporto, intitolato Beyond the Limits (Oltre i limiti), nel quale si sosteneva che erano già stati superati i limiti della “capacità di carico” del pianeta.

Un secondo aggiornamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update è stato pubblicato nel giugno 2004. In questa versione Donella Meadows, Jørgen Randers e Dennis Meadows, alcuni degli autori del primo rapporto, hanno aggiornato e integrato la versione originale, spostando l’accento dall’esaurimento delle risorse alla degradazione dell’ambiente. Nel 2008 Graham Turner, del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO) Australiano, ha pubblicato una ricerca intitolata Un paragone tra I limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali, in cui ha messo a confronto i dati degli ultimi 30 anni con le previsioni effettuate nel 1972. La conclusione è stata che i mutamenti nella produzione industriale e agricola, nella popolazione e nell’inquinamento effettivamente avvenuti sono coerenti con le previsioni del 1972 di un collasso economico nel XXI secolo.

“Ma, continua l’articolo di Repubblica, come fece Peccei a capire con così grande anticipo? E perché non fu ascoltato?” “Capì, risponde Enrico Giovannini, membro del consiglio direttivo del Club di Roma, e portavoce di ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), perché adottò un modello basato su sistemi che interagiscono, a fronte di un approccio che invece privilegiava saperi segmentati: gli economisti si occupavano di economia, i geologi di geologia […] Fu la sua visione sistemica a permettergli di fare simulazioni sul futuro”.

È incredibile come quei modelli ci abbiano azzeccato. Nel 2014 uno studio australiano ha confrontato i grafici del Club di Roma con gli andamenti reali degli ultimi 50 anni: in molti campi (inquinamento, risorse, popolazione) i grafici sono praticamente sovrapponibili. Fa impressione la proiezione sugli abitanti della Terra: prevedeva un picco di 8 miliardi di abitanti nel 2020 che sarebbero scesi a 6 miliardi entro fine secolo: 2 miliardi di persone in meno nel giro di 80 anni. “Oggi, dice Giovannini, siamo drammaticamente vicini ai picchi previsti 50 anni fa dal Club di Roma”. Ma allora i potenti dell’epoca sottovalutarono l’allarme. “Risposero che la tecnologia avrebbe trovato le soluzioni e il mercato si sarebbe adattato”. “Ci fu anche chi accusò Peccei di catastrofismo”, aggiunge Gianfranco Bologna. “ll fronte di quelli che oggi chiameremmo negazionisti si unì contro il Club di Roma, da destra a sinistra”.

Fa poi impressione leggere nell’introduzione di un libro pubblicato negli ultimi anni del secolo scorso (Futuro sostenibile, ed. EMI, Bologna) a cura del Wuppertal Institut für Klima, “tutti i paesi ricchi nei prossimi anni e decenni dovranno affrontare questioni importanti. Come è possibile impedire una ulteriore divisione della società fra alto e basso, ricchi e poveri? Quali cambiamenti politici e quali riforme istituzionali sono necessari? Tutte queste domande attendono una risposta […] in rapporto con le esigenze dell’ecologia e della giustizia globale. […] A quanto pare attualmente l’ecologia ha ancora delle possibilità nel dibattito politico solamente se scende in campo alleata all’innovazione tecnica e alla possibilità di conquistare settori di mercato, altrimenti per lei non c’è nulla da fare”.

Mezzo secolo dopo i potenti ancora faticano ad agire. Ma, dice Giovannini, milioni di giovani in tutto il mondo scendono in strada per scuoterli. Cosa hanno in comune Peccei e Greta Thunberg? “Ascolta gli scienziati” dice oggi Greta come lo diceva 50 anni fa Peccei. Giusto quindi ricordarlo per quello che è stato, per i suoi appelli alla scienza e al costante invito a tutti a salvare la Terra.

Un addio

Ti prego vivamente di andartene. Di chiudere quella porta per sempre. Ti sei messo con un’altra a mia insaputa, ne bella  ne giovane. Era un tuo diritto? Forse sì, ma non lo dovevi fare così.  Hai tradito la mia fiducia. Hai voluto un’altra donna, altri pensieri. Ti prego di uscire da questa casa e non tornare più. Apri la porta, e guarda il mondo con occhi diversi, il sentiero è di sassi appuntiti e in fondo, vicino al cancello, ci sono le spine delle more. Il cancello è arrugginito, quando si apre cigola, fa un rumore sinistro, sembra si apra l’antro delle streghe. Il cielo è grigio, fa freddo. Sei invecchiato, hai poche idee e tanta presunzione. Fammi il favore di andartene. Addio”.

Tra le mie mani rigiro un pezzo di carta ingiallita che contiene questo messaggio d’addio. Forse una semplice nota personale, mai recapitata nella forma scritta che sta tra le mie mani, ma più semplicemente consegnata alla voce del mittente e volata dritta in faccia al traditore.  Chissà chi ha scritto quel biglietto. Chissà come è finito in una scatola di vecchie carte dimenticata dentro un baule che è nella vecchia casa di campagna della nonna Adelina. Mia nonna non è mai stata lasciata. Si è sposata tardi, è rimasta vedova presto, in tempo di guerra e con due figli piccoli. L’esperienza deve esserle bastata, non si è mai più risposata. Non le importava proprio più. Mia madre ha sposato mio padre ed è rimasta con lui fino alla sua morte. Ora anche le sta da sola, è diventata vecchia, gioca con i suoi nipoti ed è contenta così.

Di chi è quindi quel biglietto? Chi se n’è andato tanto tempo fa in una mattina grigia, uscendo da un cancello arrugginito e dalla vita di una donna della mia famiglia? Non so come indagare, dove trovare informazioni che mi aiutino a districare il  mistero, a collocare il biglietto in un tempo e in un luogo. Rigiro il foglio tra le mani, è giallo. Sembra vecchio, la carta è leggera, quasi trasparente. Non c’è intestazione, non ci sono segni o simboli rivelatori. La calligrafia è acuminata. Inclinata un po’ a destra, regolare. Il biglietto è stato scritto con una biro nera.

Chi l’ha scritto, chi ha vissuto quel dramma in quel giorno tetro in cui ha scoperto che il suo uomo aveva un’altra donna? Forse non ha importanza sapere da dove viene quel biglietto, di chi è. Forse ha senso il solo fatto di averlo trovato, mi sta portando un messaggio e un monito che viene da lontano. Ha un suo valore così com’è. L’ha portato a me il vento.

In quel biglietto c’è un tradimento, molta sofferenza, un buio all’orizzonte che impressione per la sua drammaticità. Mi chiedo cosa provi una donna tradita. Provo a immaginare. A proiettare su quel foglio un po’ di me, un po’ delle storie che ho sentito, un po’ di quel che ho visto, un po’ di quel che mi è stato raccontato e spiegato.

Credo che in ogni tradimento ci sia un grande dolore. Come scrive Anaïs Nin: “L’amore non muore mai di morte naturale. Muore perché noi non sappiamo come rifornire la sua sorgente. Muore di cecità, di errori e di tradimenti. Muore di malattia e di ferite, muore di stanchezza, per logorio o per opacità.”

Forse è vero, l’amore non muore mai di morte naturale, viene annientato da un tradimento fisico o mentale. In quel foglio giallo si è raddensato un dolore, una sofferenza inaudita, c’è del rancore.

Chi l’ha scritto e quando. Provo a immaginare.

Una donna giovane, con figli piccoli. Una vita di impegni, molta dedizione ai bambini. Poca attenzione alla forma fisica e alle richieste del marito. Esigenze non verbalizzate ma molto potenti che richiedono la vita nella sua essenza migliore. Richieste impegnative che vogliono leggerezza e riflessione, parole e consigli, viaggi raccontati e scoperte da fare insieme. Non c’è spazio per questo. Il marito cerca altrove e trova subito una riposta. C’è sempre qualcuno pronto a tradire, come c’è sempre qualcuno pronto a non farlo, a lasciar perdere per il bene di tutti. Data la situazione, il marito esce da quel maledetto cancello che stride e se ne va nel grigio per non tornare mai più. E’ l’inizio di un dramma, oppure la sua fine. E’ la parola che muore in bocca, il palato che si secca, il grido smorzato in gola, una lacrima che scende. Scende un po’ di pianto sul viso di quella donna. Una goccia che luccica, una goccia trasparente su un viso che sembra marmo. In quella lacrima ci sono molte lacrime, in quel tempo sospeso si raddensa il pianto. Pianto che sa di sale, di frustrazione di risentimento, di preoccupazione per il futuro. Lacrime che sono anche liberatorie. “Smettiamo di fingere, ora sappiamo come stanno le cose”. Il marito se ne va, esce dalla porta e non ritorna più. The end.

Oppure quel biglietto è stato scritto da una persona giovane, una convivenza iniziata da poco e subito difficile, delle abitudini diverse. Si cena alle diciannove, no si cena alle venti. Si esce con gli amici, no si gioca a carte. La domenica si va a sciare, no si fa un dolce per la zia. Si fa l’amore sul tappeto, no solo in camera da letto. Una quotidianità conflittuale, un senso di insofferenza e di oppressione che travolge subito tutto. E allora lui se ne va, trova un altra: non c’è matrimonio da sciogliere, non ci sono figli, ci sono solo i cocci di quel fugace amore, di quel futuro sognato e mai realizzato, di quella convivenza andata a pezzi prima ancora di acquisire una forma, una sua identità. Un vaso che va in mille pezzi, senza che nessuno provi ad aggiustarlo, una rottura di tutte quelle che erano le premesse di quell’unione. Una frattura secca, una comunione d’intenti che non si è mai realizzata, una favola incompiuta e mal scritta che non finisce bene. Una passione mancata, un sospiro frainteso, una silenzio doloroso, una partenza. Forse in quella partenza c’è stata l’inevitabilità di quella scelta. Il più forte ha rotto l’argine. Ha trovato un’altra storia. E’ uscito di scena portandosi via i cocci. Forse li avrà gettati appena varcato il cancello. In una grigia mattina avrà aperto quella porta cigolante.  Forse oltre il cancello c’era già qualcuno che lo aspettava. La fonte del tradimento era già là, l’origine e la conseguenza di quella partenza. Il dolore raddensa le lacrime di chi resta. Le rende sostanza che solidifica nel cuore. Ma non c’erano figli, né matrimoni, né promesse eterne. E’ rimasto solo quell’addio forse scritto e recapitato o forse solo pronunciato.

Rigiro il foglio giallo, scritto in nero. Lo guardo un ultima volta e lo rimetto nella scatola dove l’ho trovato. Ho rubato un briciolo di vita di qualcun’altro. Ho visto un dolore passato, un travaglio lontano e archiviato. A chi sarà appartenuto quel dramma non lo so. Richiudo la scatola e i miei occhi sono pieni di lacrime. Ho scoperto un addio e me ne ricorderò. Chissà quante scatole ci sono con contenuti così, con ricordi così. Con tanto dolore e un amore spezzato che non esiste più, che appartiene al passato e alla vita di chissà chi. Spero che l’autrice di quel biglietto ora stia bene, chiunque essa sia e qualunque sia il motivo che ha davvero mandato a pezzi quella storia. Almeno all’inizio un po’ di amore doveva esserci. E’ sui resti dell’amore che nasce l’odio, la rabbia e il risentimento. Non certo sull’indifferenza. Sull’indifferenza non nasce niente, non inizia e non finisce niente. L’indifferenza non da vita e porta via la vita. Con l’indifferenza si muore.

MICROFESTIVAL DELLE STORIE
Lo scrittore ferrarese Lorenzo Mazzoni dialoga con Consuelo Pavani su ‘Nero ferrarese’

Un libro e una proiezione concludono i primi due mesi di eventi gratuiti al Microfestival delle storie di Polesella. Venerdì 23 ottobre alle 21 in sala Agostiniani, Consuelo Pavani presenta Nero Ferrarese (Edizioni Pessime idee) di Lorenzo Mazzoni, collegato in streaming ma che il pubblico potrà vedere proiettato sul maxischermo della sala Agostiniani.

Con Mazzoni, scrittore ferrarese, autore della serie dell’ispettore Malatesta, si conclude la prima fase della programmazione letteraria del Microfestival, iniziata a settembre e che ha avuto come ospiti autori di carattere nazionale come Chiara Gamberale, Giulia Cuter e Giulia Perona, ma anche locali come Astrid Scaffo, per un totale di un centinaio di prenotazioni e presenze.

In calendario, inoltre, sabato 24 ottobre alle 21 sempre in sala Agostiniani, il film Visages villages di Agnès Varda e del fotografo JR rivolto ad adulti e bambini a cui il Microfestival ha dedicato, nei primi due mesi, e continuerà a dedicare laboratori e momenti in cui l’arte e la creatività possono esprimersi.

Entrambi gli appuntamenti si svolgono nel rispetto delle misure di sicurezza anti Covid, pertanto è prevista la prenotazione. Il programma di novembre e dicembre del Microfestival è in stesura e sarà comunicato alla stampa e al pubblico quanto prima.

Sinossi del libro Nero ferrarese di Lorenzo Mazzoni. Tre colpi d’arma da fuoco: mano sinistra, petto e spalla. Così si presenta il corpo del ragazzo di estrema destra trovato morto nell’auto. Una Ferrara ancora sotto shock per l’omicidio Aldrovandi piomba nella paura di attentati politici. Pietro Malatesta, ispettore di polizia e anarchico di natura, si troverà a indagare su un omicidio dalle dubbie motivazioni. Brigate rosse? Nar? Ferrara cerca la sua verità. Un giallo che rimane in perfetto equilibrio tra le indagini e la movimentata vita privata dell’ispettore, fatta di scarse amicizie poco raccomandabili, e di una passione per la Spal. Con a fianco Gavino Appuntato, l’unico poliziotto che riesce a lavorare con Malatesta, l’ispettore tenterà il tutto per tutto per risolvere il caso.

Prenotazioni evento Lorenzo Mazzoni:

https://www.eventbrite.it/e/biglietti-lorenzo-mazzoni-microfestival-delle-storie-121523047707?fbclid=IwAR28Z54D1jaPC7PoCBMXfrO5YILptEFghATrPEVu0bFT0j8ewOETvaky8cI

Sinossi del film Visages villages. Non è solo un film, è un viaggio alla ricerca di un’umanità nascosta nelle piccole realtà, nei borghi, nelle fabbriche, nelle case vecchie, dietro tende di pizzo bianco lavorate decenni prima. Un viaggio tra le comunità che resistono, tra piccole e grandi storie che vale la pena raccontare e immortalare, su pellicola cinematografica e fotografica. Registi e protagonisti: Agnès Varda e JR. Lei, famosa all’epoca della nouvelle vague e, nel film, ottantottenne curiosa, leggera e vivace come una bimba; lui, un giovane artista che usa la tecnica del collage fotografico su qualsiasi superficie. A bordo di un furgone, che altro non è che un’enorme macchina fotografica con le ruote, i due bizzarri compagni di giochi partono alla scoperta degli angoli più nascosti della Francia, quelli insospettabili e marginali, doppiamente carichi di meraviglia e storie. È questo un film nomade, pieno di immaginazione, commozione, ammirazione. Visage villages è grazia e tenerezza, è un piccolo promemoria per ricordarci che possiamo essere ancora in grado di sorprenderci, di ballare e di cantare.

Prenotazioni Visages villages:
https://www.eventbrite.it/e/biglietti-visages-villages 121525300445?fbclid=IwAR36vxvy7VMs385T7LbD0SD1Ane5sSA6_EQzBnIUVX2cM_578gvOUuAiz0

Il programma completo degli eventi del Microfestival su www.microfestivaldellestorie.it

Per informazioni: microfestivaldellestorie@gmail.com, messenger: microfestival delle storie.

RAZZA PADRONA:
quando il bicchiere è sempre più pieno

Per quanto indietro la storia risalga, trova una minoranza di uomini – ristretta o ristrettissima – padrona della ricchezza, delle sue fonti, delle vite di tutti gli altri.
Le forme cambiano e può essere diversamente raccontata, ma questa radicale diseguaglianza ne è una costante. Così pure l’atteggiamento nei confronti del resto dell’umanità, verso la quale nessun obbligo o vincolo è avvertito.

Fortebraccio – su un giornale che non c’è più: L’Unità – dedica uno dei suoi corsivi, Buon senso, a questo atteggiamento. È il 1968. Vi sono segni di possibili profondi cambiamenti, che non ci saranno. In Tribuna politica – viene da rimpiangerne la civiltà per le trasmissioni che ne hanno preso il posto – c’è Angelo Costa, presidente della Confindustria. A una domanda su la “contrattazione programmata”, non più che “un riguardoso faremo” proposto dal Governo, Costa appare meravigliato e infastidito. A Fortebraccio ricorda una commedia genovese dove il padrone Costa chiede al dipendente Parodi di guardare che tempo fa. Parodi si sporge dalla finestra e riferisce “Sciu baccan avremo acqua”, “Come avremo? Non siamo mica soci noi due”. Così il presidente Angelo Costa sembra dire “Come faremo? Non siamo mica soci noi”.

I padroni hanno una sola responsabilità – Milton Friedman, Nobel per l’economia rassicura – fare profitti, magari accompagnati da rendite. Da ciò deriverà vantaggio per l’intera società. Il tragico fallimento di un’esperienza, che si è detta addirittura comunista, ribadisce questa convinzione. Né i successi del modello cinese sembrano contrastare una diseguaglianza, di mezzi e potere, in crescita in quella società. Tra chi dubita che Friedman avesse proprio ragione c’è pure Martin Wolf, capo dei commentatori economici del Financial Times. Non basta “impegnarsi in una competizione aperta e libera senza inganni o frodi” se “lobbisti, donatori, finanziatori di ricerche accademiche” creano “le regole del gioco politico”.

Un gioco politico serio è quello “in cui le aziende non sponsorizzano spazzatura scientifica sul clima e l’ambiente, non uccidono centinaia di migliaia di persone incentivando la dipendenza da oppiacei, non fanno lobbying per ottenere regimi fiscali che permettono loro di nascondere i loro profitti nei paradisi fiscali, nel quale il copyright non viene esteso all’infinito, e nel quale non cercano di neutralizzare ogni forma di concorrenza e non si battono contro misure che proteggono i lavoratori dalla precarietà”. Ma un gioco fatto così non piace. Non garantisce gli stessi spropositati guadagni e poteri. Fortebraccio scriveva: “Si è padroni per grazia di Dio, un dio nel quale Costa e i suoi amici credono, anche perché scegliendoli ha mostrato, come dicono loro quando spiegano che non c’è nulla da cambiare, di avere buon senso”.

La grazia di Dio non c’entra nulla, sembra dire papa Francesco quando scrive: “Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del ‘traboccamento’ o del ‘gocciolamento’ — senza nominarla — come unica via per risolvere i problemi sociali…La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno”.

In un mio post su Azione nonviolenta,(Gli epuloni e i lazzari, 5 giugno 2017) mi sono occupato del tema, sul quale da subito il Papa è stato chiarissimo. Ricordo qui solo una sua espressione per me particolarmente efficace. “C’era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente s’ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri”. Viene piuttosto da chiedersi perché in tempi di suffragio universale “un pensiero povero e ripetitivo” continui ad avere successo. Vero che non si vedono alternative pronte, ma si vede pure, come nota Wolf, che le pratiche a quel pensiero ispirate “spingono le rendite e i profitti verso l’alto della scala sociale e la disperazione verso il basso”. È che i ricchi, a differenza dei poveri sanno essere uniti nel perseguimento dei loro interessi. “Per vincere devono impegnarsi in battaglie collaterali: guerre culturali, razzismo, misoginia, nativismo, xenofobia e nazionalismo”, annota ancora Wolf. Sono tutti campi nei quali occorre l’impegno di chi opera per il progresso. Questo invero consiste, lo scrive Condorcet, nel ridursi delle differenze tra gli Stati e al loro interno e nell’innalzamento dell’etica personale. Resta un buon programma di lavoro, collettivo e personale.

Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

SCHEI
Smart working: croce e delizia

In una delle sue riuscite caricature, Corrado Guzzanti impersonava un Walter Veltroni buonista e desideroso di comporre ogni contrasto nell’ecumenismo, appunto, veltroniano, che gli faceva ugualmente apprezzare una cosa e il suo contrario. Una cosa era bianca ma anche nera, ed erano entrambe buone e presenti sotto il grande ombrello del progressismo democratico.

Ecco, appunto.  Lo dice uno che lo fa da marzo: lo smart working è una delizia, ma anche una croce. Il primo mese è una croce subdola, della quale nemmeno ti accorgi. Te lo fa notare chi vive con te, quando vorrebbe apparecchiare per cena quel tavolo sul quale hai sparso documenti e stampante come se non ci fosse un domani. Il primo, istintivo effetto del lavorare a casa (che non è come lavorare in una sede decentrata: è un’altra cosa) è la scomparsa di un confine imposto tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, che è anzitutto l’assenza del confine spaziale. Intanto non devi fare una strada, un percorso che separi fisicamente il luogo dove lavori da casa tua. Al resto della croce provvede l’inconscio senso di colpa del privilegiato che lavora in poltrona, e che quindi deve espiare sgobbando senza un orario, tra la lavatrice da svuotare, i panni da stirare e i cani da portare a pisciare. Così arrivano le dieci di sera e il pc è ancora acceso. Se sei una donna, questa croce rischia di diventare un calvario, perchè nel frattempo col piffero che il lavoro di cura viene redistribuito tra i membri della famiglia: rimane, esattamente come prima, a carico della donna. E allora il pc può restare acceso alle due di notte, perchè svanisce anche il confine circadiano. Il diritto alla disconnessione va quindi imposto: gli strumenti e la rete intranet di accesso ai portali di lavoro devono essere disattivati ad una certa ora – oppure dopo un certo tempo di lavoro continuativo. Questa barriera tecnologica è un elemento di tutela primario, perchè in un tempo che sarà velocissimo qualcuno proporrà di incorporare gli strumenti aziendali dentro la persona del lavoratore, eliminando anche la distinzione fisica tra mezzo tecnico e essere umano. Three Square Market, una realtà tecnologica con sede nel Wisconsin, sta per espandere il suo programma che prevede l’inserimento di microchip sottopelle ai propri dipendenti. A quel punto la necessità di tutelare chi lavora dalla possibilità distopica di essere controllato a distanza in ogni istante diverrà la frontiera sindacale del terziario avanzato. Le aziende più lungimiranti, infatti, usciranno dalla logica del controllo a vista del dipendente, chiedendo in contropartita un salario sempre più legato ai risultati, agli obiettivi: lavora come e quando ti pare, ma ti pago in proporzione ai target che raggiungi. Le aziende più malefiche, invece, faranno entrambe le cose: controlleranno il dipendente stando dentro il suo corpo, e contemporaneamente vorranno retribuire i suoi risultati, non il suo tempo. Attenzione perchè rischia di realizzarsi una metamorfosi del sinallagma capitalista industriale: salario in cambio di tempo. La sfida non sarà più soltanto quella di liberare tempo, ma di rintuzzare l’affermarsi di un nuovo scambio: salario in cambio di risultato, di prodotto, di venduto. Chiunque lavori nei settori che spingono già in questa direzione(banche, assicurazioni, grande distribuzione, ma anche la sanità privata) capisce che questa modifica dello scambio rischia di trasformare tutti i lavoratori in venditori di prodotti, e tutti i clienti in vacche da mungere. E vince chi è più disinvolto, spregiudicato, privo di scrupoli. (NdA: introdurre un obiettivo – possibilmente non autodeterminato – di qualità ed efficienza nella Pubblica Amministrazione dei servizi documentali/amministrativi potrebbe invece essere un bene, anche se non legherei a questo obiettivo parte della retribuzione. Ma della carriera, sì).

E la delizia? La delizia è anzitutto il risparmio di tempo e denaro. Pensiamo all’enorme economia di risorse, anche energetiche, che si realizza organizzando video riunioni tra cinquanta o sessanta persone anzichè farle spostare tutte in giro per il mondo, su aerei o treni o mezzi privati. Non si viaggia, non si spende per mangiare fuori casa, si inquina meno, soprattutto nelle grandi città. Che poi questo sia una croce per gli esercizi commerciali che campano sui pasti dei pendolari non è affatto da sottovalutare. Che l’indotto commerciale in genere, che guadagna dall’attitudine a spendere di chi passa nove o dieci ore al giorno in città, ne soffra è indubbio – e anche questo è un settore che impiega migliaia di persone, che tra l’altro lo smart working se lo scordano. Tuttavia, succede quello che succede ogni volta che una trasformazione tecnologica è talmente potente da rendere illusorio qualunque tentativo di contrastarla. Per interi settori dei servizi, il lavoro da remoto diventerà una realtà stabile, perchè le aziende più accorte si sono già rese conto che il denaro da investire per dotare i dipendenti delle attrezzature tecniche e logistiche necessarie a lavorare in sicurezza ed ergonomia da casa, è inferiore al denaro che risparmiano potendo evitare di pagare canoni di affitto per i locali uso ufficio, potendo smobilizzare patrimonio immobiliare.

Quando la fase acuta dell’epidemia da Covid sarà superata, quando non si dovrà più dividere l’utilizzo del pc privato coi figli costretti alla didattica a distanza, lo smart working che conosciamo, abborracciato, senza tutele, emergenziale, dovrà essere sostituito da lavoro agile di qualità. L’unica direttrice da seguire per gestire questa transizione sarà quella dell’equilibrio. Come l’evoluzione tecnologica che ne costituisce la base, lo smart working non è nè buono nè cattivo. Dipende dall’utilizzo che se ne fa, e dal sistema di tutele che ne regolamenterà l’esercizio.

Breve e triste storia di un calciatore

La mia carriera calcistica, è presto detto, fu sicuramente tutt’altro che epica e avvincente, dai piccoli azzurri, agli under 18, ogni anno un campionato diverso, Etrusca, Porta Mare e Ugo Costa. Poi in quinta superiore smisi di giocare.
Troppo presto, avrei potuto divertirmi ancora. Ma la testa a quell’età non era il mio forte, neppure dopo a dire la verità.
Anni difficili introno ai venti, poi qualche campionato amatori, Confesercenti, Lo Scoglio e Sporting. Ennesima distorsione alla caviglia e basta col calcio a undici, senza nessun titolo sulla gazzetta.
Sei divertenti campionati di calcetto C.S.I., grezzo e rude libero anche in quello sport per piedi fini, rigorista, qualche goal su punizione, pochissimi su azione, un goal da metà, campo e uno dalla mia area, fino all’ultima partita ufficiale. Dieci minuti da subentrante, sul dieci a zero (per gli avversari), entrata alla vigliàcc al treno e mi rompo una spalla. Fine, the end, pronto soccorso e telefonata alla moglie in attesa delle gemelle e gioco finito.
Ma pure nella mediocrità della mia sedicente carriera agonistica ho avuto dei rimpianti, degli sliding doors che se avessi una bacchetta magica avrei voluto cambiare, sarebbero stati delle perle di memoria che oggi a cinquantuno anni mi avrebbero reso ancor più dolce il ricordo di quegli anni eroici.

  • Porta Mare – Laghese, partita di qualificazione del torneo Paolo Mazza sul campo della Libertas in via Canapa, categoria Giovanissimi. Risultato finale quattro a zero per noi, poi vincemmo pure il torneo, ma questo l’ho già raccontato mille volte. Non ricordo su quale punteggio, ma Paolino, il nostro portiere mi appoggia il pallone poco fuori dall’area, nessuno mi fronteggia mi allungo in eleganza sulla trequarti, come cervo che esce di foresta (cit.), la mediana avversaria, forse avvilita dal punteggio mi oppone poca resistenza, scarto e mi allungo scavallando la schiena d’asino del centro campo, i compagni sulla fascia mi insultano affinché io gli ceda il pallone. Ma no, proseguo. Sono sulla loro trequarti, mi fumo due centrocampisti che mi vogliono togliere il pallone, entro in area e via, anche il libero mi bacia le terga. Mi defilo un po’ sulla destra, non ho più fiato, non respiro, la vista mi si appanna, nella nebbia vedo uno con una casacca diversa dagli altri che mi viene incontro. Con le ultime cellule celebrali ancora non in apnea deduco sia il loro portiere, mi allargo ancora d’esterno alla sua sinistra, carico il destro e boom, tiro la bomba. Credo io. Ma calcio talmente male e talmente piano che lo sbruffo di terra colpita con la punta delle mie Benazzi si alza in un fungo nucleare di polvere, il Mitre rotola stanco e placido contro la rete. Di recinzione. A poco più di due metri dalla porta. A poco più di due metri dalla gloria e dalla gioia di avere francobollato, nel torneo più importante della mia vita, sotto lo sguardo di alcune decine di parenti tra cui mio nonno. Mi accascio a braccia aperte sull’erba. Forse qualcuno ride, forse qualcuno applaude, forse qualche compagno mi rincuora, dopo avermi nuovamente insultato per non avergli passato il pallone. Ma quel goal poteva entrare nella storia. La mia. Qualche anno dopo George Whea, attuale presidente della Liberia, mi copiò il gesto, con un risultato nettamente diverso. Ma pure io ho rischiato di segnare in un coast to coast in quella lontanissima primavera di metà degli anni ’80. Sarebbe stato bello, ma così non fu.
  • Categoria allievi credo, torneo notturno di Reno Centese, ancora col Porta Mare. Bellissimo impianto, fondo perfetto. Il torneo è a eliminazione diretta. Gran partita, dalle mie parti non passano neppure le mosche, anche grazie al mio compagno di reparto Fefo Rizzioli. Normalmente lui era la mente e io il braccio della coppia di centrali difensivi, un lusso per le giovanili dell’epoca, ma quella sera baciato dalla dea Eupalla, oltre ai mie compiti di marcatore puro azzecco pure diverse uscite e molti lanci sui piedi dei mie compagni più offensivi. Insomma sembro un ottimo regista difensivo, i miei piedi quella sera guadagnarono punti. La partita è tatticamente perfetta, le difese vincono nei confronti dei rispettivi attacchi avversari, 0 a 0 bello e combattuto sotto i fari. Praticamente da sempre sono stato un buon rigorista. Spesso nell’ultimo allenamento prima della partita finivo come rigorista designato, quella sera ero nei cinque. Non ricordo più l’ordine dei rigori, credo che prima di me avesse sbagliato Fefo, fatto sta che dal cerchio del centrocampo dove tutte e due le squadre sono assembrate (termine moderno e tristemente noto) mi accingo, tenendo a bada l’ansia (penso io), a percorrere i quaranta metri che mi separano dal dischetto del rigore. Chi non l’ha mai provato, non sa quanto pesa un cuoio a undici metri da un portiere, a me sembrava un macigno. Piccola nota di cronaca, io tutti i rigori che ho tirato, calcio a 11 (1) calcio a 7 (1) calcetto (tanti) amichevoli e partite tra amici (pure tanti) li ho tirati sempre tutti allo stesso modo, alla destra del portiere in basso cercando il palo e colpendo pallone di taglio interno. Quella volta invece cosa pensai, o così mi venne al momento del tiro, di tenere la sfera a mezza altezza. Il portiere mi guardava, io guardavo lui, c’erano le luci, c’era il pubblico, c’era mio padre e il Dottore suo amico e prof. di matematica, l’arbitro da l’assenso al tiro, il portiere si muove, io prendo la rincorsa saltello come Van Basten, il numero uno si tuffa alla sua sinistra, spiazzato, tiro a destra. Palla sopra l’incrocio di due dita, ma il quasi goal non esiste. Sbaglia poi anche Franchino, siamo fuori e per un terzo ne sono responsabile. Un rigore spagliato per un calciatore di quindici anni è un trauma, da cui non ci si riprende più.
  • Siamo in trasferta, anno forse 1986, forse l’anno prima categoria Giovanissimi o Allievi. Partita più che in discesa, San Bartolomeo – Porta Mare. Durante il match vedo la loro ala destra vomitare sulla linea laterale antistante le panchine. E non è una metafora, forse la tensione, più probabilmente la serataccia del sabato. Insomma per farla corta, dopo pochi minuti siamo uno a zero per noi, scorrono i secondi e due e tre e… la partita volge alla fine in un bagno di sangue per il San Bartolomeo, dieci a uno a pochi minuti dal 90°. In difesa abbiamo giocato con la sigaretta in bocca. Dimenticavo, la loro marcatura è  frutto di un autogoal del nostri libero. Il loro povero portierino non ne ha vista una sembra Sumbu Kalambay dopo dieci riprese contro Marvin (the Marvelus) Hagler è frastornato e quasi in lacrime. Beh io che decido di fare? Col mio 5 sulla schiena mi propongo in avanti, forse un calcio d’angolo, forte dei miei tre goal in quattro campionati. La palla dopo un rimpallo fuori area mi si ferma tra i piedi, nessuno mi fronteggia. E niente, carico il destro la rincorsa è perfetta, il piede d’appoggio si piazza a mezza spanna dal pallone, il collo pieno colpisce la valvola del Mitre. Mai calciato così bene e forte in tutta la trafila delle giovanili e neppure dopo. La palla tesa, ferma nell’aere saetta verso l’incrocio. E’ fatta vado a referto. Ma che succede, il portierino si flette sulle gambe e spicca il volo, con la mano di riporto sembra Clark Joseph Kent che si è appena dismesso la cravatta e l’abito elegante ed è rimasto con la tuta da supereroe. Vola il portierino, la madonnina della traversa lo prende per le spalle e con la punta del mignolino, dei sui bei guati Reusch la devia di millesimo di micron oltre l’incrocio. Allibiti i ventidue in campo, più le panchine, più il pubblico. Un boato fra i sui compagni, lo festeggiano come se avesse parato un rigore. Io allargo le braccia e sorrido. A fine partita sono andato ad abbracciare il portierino e gli ho detto: “Ma perché proprio a me? Come hai fatto?” e lui sorridendo mi disse. “Boh?.”
  • L’ultimo dei mie rimpianti risale sempre a tantissimo tempo fa, ma già oltre quindici anni dopo gli anni dell’adolescenza. Siamo agli inizi dell’ XXI° secolo, il mondo si è trasformato, l’irreversibile scorrere del tempo mi aveva già fatto diventare un ultra trentenne. Le scarpette chiodate erano già da mò relegate nel sotto tetto, ma il loro posto era stato preso dalle suole lisce idonee al calcetto in palestra. E lì, non eravamo neppure in palestra, era la Coppa don Bosco di calcio a sette, presso il campo di san Benedetto. Ero rigorista, come ricordavo primo, un killer implacabile da dodici goal su dodici tiri nelle portine piccole del calcio a 5. Il lavoro di suola del futsal non mi si addiceva, ma io continuavo a giocare da libero pure in un campo ridotto. Il calcio a sette è per atleti veri, il campo più lungo, le porte più grandi ma nella velocità del calcio a cinque, un massacro insomma. A bordo campo mia moglie, assieme ad amici e la mia bimba Valentina, le gemelline non erano ancora nate e sforzando la memoria la bimba avrà avuto forse tre o quattro anni. La squadra avversaria è più forte di noi, ma noi teniamo abbastanza bene. Sullo 0 a 0 l’arbitro fischia il rigore e io in qualità di vice capitano e killer dal dischetto strappo quasi il cuoio dalle mani di un compagno. D’altronde non ne sbaglio uno con la porta piccola. Peccato che quella fosse una porta grande. Sbaglio tutto dall’inizio, metto a terra il pallone troppo presto, non cerco la valvola, mi faccio intimorire dagli avversari che tra loro sussurrano: “tanto la sbaglia”, in più errore madornale, guardo l’arbitro e non il portiere. Il fischietto trilla, cambio lo sguardo dalla casacca nera a quella multicolor del portiere, dietro le luci, il pubblico, il rumore della gente sembra un frastuono. Portiere fermo immobile, una mummia, rincorsa, portiere ancora fermo, impatto, portiere fermo. La palla un po’ strozzata sfiora il palo, ma esce. E il portiere è ancora lì, maledettamente fermo. Avevo già sognato di correre ed abbracciare la mia bimba, ma il tutto sfuma in quella rincorsa e in quella profezia dei fottuti avversari che gufano e esultano: “te l’avevo detto io che lo sbagliava”. Delusione, amara e profonda delusione.

Il calcio passa come l’adolescenza, ma chiunque abbia indossato una maglia con un numero sulla schiena, chiunque abbia pestato l’acqua stagnante di uno spogliatoio ingorgato, si sia allacciato le scarpe coi tacchetti e utilizzato il nastro da pacchi come fasciatura è e rimarrà per sempre un calciatore. Tutta la vita, anche dopo i cinquanta anni e oltre.

PAROLE A CAPO
Seb Tennent: “Scambio” altre poesie

“La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita.”
(T. S. Eliot)

 

Ferrara bagnata 

D’autunno, è bagnata!
E così lucida, è Ferrara!
Pare già preparata
ad un ballo di corte.
Finito l’acquazzone,
è come una duchessa
dopo il trucco,
per l’acclamazione.
A vestirsi di nuovo,
a rimirarsi
in vie che sono specchi
di soave perfezione.

 

Autunno 

L’autunno, mai
ha spento sorrisi
L’autunno arriva
in punta di piedi
Senza preavvisi
in un batter di ciglia
Più introspettiva
diventi
e più riflessiva
lieve, è la caduta
foglia dopo foglia
Ti ricopre l’auto
che hai parcheggiato
come al solito, ai bordi
di un viale alberato
Ché solo è bastato
quel vento spirato
E le parole pronunciate
su fondente cioccolato
Li cerchi ancora, quei crepitii
di fuochi, ai quali t’avvicini?
La fantasia, la protezione
di una soffice maglia?
Aromi, tisane di poesia
lasciata in infusione?
Pagine di libri
che al ritmo della pioggia
fagociti sul letto?
Troverai in un abbraccio
tutte le risposte
e conferme
e germogli di vita
che già meditavi.

 

Perfetti sconosciuti

Capita poi in un giorno sereno,
dannato e inatteso, un intoppo,
quando vorresti far tabula rasa
di certi pensieri
e paranoie
di troppo.
Ti perdi tra campi
a due passi da casa,
e vai per sentieri
e per scorciatoie
che più son tortuose
e strette, più volentieri
tu ti ci immergi,
in incontri casuali,
gratificanti saluti,
perfetti sconosciuti
e si fa così veloce
e semplice il modo
in cui, poi, si vaporizza
ogni amarezza.

 

Scambio 

Cosa c’è fra di noi,
se non scambi
arteriosi e venosi,
se non una simbiosi
perenne,
totale,
densa emoglobina,
reciprocamente
a ossigenarci,
mutuamente
a condividere
e dentro, pulsarci
tutto, ogni cosa
nell’atrio e nel ventricolo?

 

Seb Tennent (Ferrara, 1969). Laureato in chimica. Ha lavorato per lunghi anni come analista di laboratorio nel settore agrario. La “quasi-distruzione” del comparto bieticolo-saccarifero avvenuta a partire dal 2005 ha causato la chiusura del laboratorio. Ora lavora in una cooperativa di servizi di vigilanza e, nel tempo libero, esplora in bici il territorio ferrarese  e, “nascosto” da uno pseudonimo, scrive poesie sulla sua pagina Facebook.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. .\4
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

RESTITUIRE IL MALTOLTO: DA BENI CONFISCATI A BENI COMUNI
Intervista a Donato La Muscatella di Libera

‘BeneItalia’, ‘Libera il bene’, ‘per il bene di tutti’, ma soprattutto bene comune: si parla dei beni confiscati alla criminalità organizzata che, grazie alla prima campagna promossa più di vent’anni fa da Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, tornano a essere patrimonio, e quindi corresponsabilità, di tutta la collettività.

Fin dalla sua nascita nel 1995, Libera – il coordinamento di associazioni fondato da Don Luigi Ciotti – evidenzia come l’attività di contrasto alle mafie deve colpire con priorità assoluta gli aspetti patrimoniali ed economici delle organizzazioni criminali, soprattutto con la confisca dei beni e il loro riutilizzo per finalità sociali. Lancia quindi una raccolta firme per un disegno di legge che possa aggiungere un pezzo importante alla legge Rognoni-La Torre: il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie.
Il 7 marzo 1996 viene pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 109, che rende finalmente la società civile protagonista della lotta alle mafie, attraverso la possibilità di riappropriarsi di spazi e crearne di nuovi in quei luoghi, sede o frutto di attività illecite, che prima erano il simbolo del potere dei boss.

Complessivamente, secondo i dati dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, (al 05 marzo 2020) sono 16.446 i beni immobili (particelle catastali) destinati ai sensi del Codice antimafia e sono invece in totale 17.376 gli immobili ancora in gestione ed in attesa di essere destinati. Una ricerca di Libera ha censito finora 865 soggetti diversi impegnati nella gestione di beni immobili confiscati alla criminalità organizzata, ottenuti in concessione dagli enti locali, in ben 17 regioni su 20. Questi numeri dimostrano come la restituzione alla collettività delle ricchezze e dei patrimoni sottratti alle organizzazioni criminali sia diventata un’opportunità di impegno responsabile per il bene comune. Il valore di questi beni si sposta dunque dalla sfera economica alla dimensione etica dei percorsi scaturiti dalle esperienze di riutilizzo per finalità sociali. Non ci sono quindi solo i numeri, ma soprattutto le tante storie: quelle delle persone cui i beni sono dedicati, spesso vittime innocenti delle mafie, e quelle delle persone che ogni giorno lavorano fra mille difficoltà per riaffermare il valore e la cultura della legalità democratica e dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione contro la cultura della sopraffazione, del privilegio e della violenza della criminalità organizzata.

Fonte: www.libera.it
Fonte: www.libera.it

La legge n. 109/96 per il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie ha compiuto ventiquattro anni e i beni tornati comuni e condivisi sono i protagonisti di ‘Consumo responsabile’, la rassegna organizzata dal Coordinamento di Ferrara di Libera, insieme al Presidio Barbara, Giuseppe e Salvatore Asta del Centopievese di Libera e alla Pro Loco Voghiera, all’interno del programma della Festa della Legalità e della Responsabilità 2020, che si tiene dal 15 al 17 ottobre a Factory Grisù. ‘Consumo responsabile’ viene ospitata da Hangar Birrerie, che per i tre giorni della festa dalle 19.00 preparerà un aperitivo con i prodotti di Libera Terra, coltivati con agricoltura biologica e provenienti da strutture produttive e terreni sottratti alla criminalità organizzata.
Ne abbiamo parlato con l’avvocato Donato La Muscatella, referente del Coordinamento di Ferrara di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.

Quella in partenza è l’undicesima edizione della Festa della Legalità e della Responsabilità. Da dove è nata questa iniziativa?
La Festa della Legalità e della Responsabilità – fu proprio su proposta di Luigi Ciotti che si integrò il nome della rassegna con questa seconda parte – nasce, oltre dieci anni fa, dalla volontà di mettere a fattor comune le competenze, in questa materia, di tutti gli attori presenti sul territorio ferrarese.
Istituzioni e associazioni messe in rete per proporre seminari, eventi culturali, laboratori e proposte di riflessione sul tema, accomunate dalla volontà di rispettare il rigore scientifico dei contenuti, in un contesto che, già all’epoca, proponeva troppe ‘suggestioni’.
Suggestioni che, più che con la legalità democratica, sembravano avere a che vedere con la xenofobia, perdendo di vista, da un lato, le peculiarità delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e, dall’altro, la necessità di leggere qualunque regola, doverosamente, nell’ottica della nostra Costituzione.
Perché si credeva – e noi tutt’ora crediamo – che la legalità, priva del connotato che le attribuisce la democrazia, resti un concetto vuoto, proprio non dell’educazione alla responsabilità, ma della propaganda.

Nel tempo la formula si è modificata. Quest’anno come si svolgerà e qual è il ruolo del Coordinamento di Ferrara di Libera?
La Festa si è evoluta nel corso degli anni, anche in relazione al succedersi al tavolo degli organizzatori di partner differenti, che hanno espresso il proprio contributo e chiesto, talvolta, di modificarne l’impostazione.
Quest’anno, anche per i tempi ristretti nei quali è stata organizzata, ciascuna istituzione e associazione presente si è concentrata su singoli eventi presenti nella rassegna, dei quali ha curato autonomamente i contenuti e le modalità di proposta al pubblico.

Il tema della rassegna ‘Consumo Responsabile’ sono i beni confiscati e il loro riutilizzo sociale. Perché avete scelto questa materia?
Come Libera, all’interno dello spazio che ci è stato concesso, abbiamo voluto approfondire ciò che i beni rappresentano oggi, perché troppo spesso se ne coglie unicamente la dimensione economica e non quella, fortissima, di carattere sociale.
I beni confiscati rappresentano una modalità concreta di impegno su territori che hanno visto imperversare l’arroganza di chi ritiene che le regole si possano trascurare quando si ha il potere, restituendo non solo prodotti di qualità, ma lavoro vero e ‘pulito’.
A nostro avviso, in altre parole, sono un ottimo modo per attivarsi in maniera concreta, tangibile, reagendo alle diverse forme di criminalità organizzata.
È anche per questo che abbiamo scelto di unire a questi prodotti una riflessione sugli anni delle stragi, assieme a Margherita Asta, Referente Settore Memoria di Libera Emilia-Romagna, legando, così, memoria e impegno.

Ci può illustrare, sinteticamente, quali sono i passaggi per restituire un bene delle criminalità organizzata alla collettività?
Si parte con il provvedimento di confisca che, secondo i casi, può intervenire al termine di un processo, quando la condanna diventa definitiva o come misura di prevenzione, allo scopo di ‘congelare’, in presenza di specifici requisiti, beni che si ritengano frutto di attività illecita.
Parlando di beni immobili (appartamenti, fabbricati, terreni), il bene che, a quel punto, può dirsi ‘confiscato’, entra così nel circuito di gestione, che coinvolge lo Stato, gli Enti Locali nel cui territorio si trovano i beni e, naturalmente, le associazioni, che potranno sottoporre agli enti, nell’ambito di procedure ad evidenza pubblica, il proprio progetto di utilizzo per finalità sociali.
Una volta concluso questo percorso – che purtroppo, talvolta, dura molti anni – il bene può cominciare a ri-vivere attraverso la sua nuova destinazione, divenendo accessibile alle comunità che, per tanto tempo, l’avevano percepito come simbolo di illegalità.

Ci sono beni anche nella nostra città e Regione?
Si, certamente.
I dati dell’ANSBC (Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) a oggi riportano, nella nostra Regione, 631 immobili in gestione e 144 già destinati; tra questi, 8 sono collocati tra la nostra città e la provincia.

Questa pandemia rappresenta una ‘opportunità’ per le mafie, che possono a loro favore la pandemia il coronavirus per infiltrarsi ancora di più nell’economia e nelle società. Quali sono i settori più a rischio e quali i segnali cui bisogna fare più attenzione?
I rischi principali sono collegati alla crisi economica che stiamo vivendo (molto forte nei settori della ristorazione, del turismo e dell’edilizia), che potrebbe portare alcune persone a far ricorso a forme di finanziamento illegali, e dall’inevitabile tendenza a snellire le procedure, per poter rispondere alle esigenze immediate della società.
Sotto questo profilo, la comprensibile necessità di semplificare, in una condizione d’urgenza, il rapporto di cittadini e aziende con la Pubblica amministrazione non può e non deve trasformarsi in una ‘ghiotta occasione’ di infiltrare l’economia legale e riciclare danaro generato dalla violenza e dal sangue. Penso all’ampliamento degli affidamenti senza gara o alle accelerazioni delle verifiche antimafia.
Dobbiamo sempre ricordarci, anche quando si risente parlare di vendere in asta pubblica i beni immobili confiscati, che le mafie hanno già dimostrato di saper leggere bene e in anticipo queste dinamiche, cambiando modalità di azione e scegliendo quella, di volta in volta, più efficace per i propri scopi criminali.

Una delle ultime iniziative di Libera è proprio un patto per la ripartenza dopo questa terribile crisi, che ha messo in luce tutte le criticità del nostro modello produttivo e sociale. La campagna si chiama #GiustaItalia, ce ne può parlare?
#GiustaItalia è un manifesto di 18 proposte politiche concrete, da sottoporre al Governo, lanciato da Libera, Avviso Pubblico e da tante altre associazioni e sindacati, per rimpiazzare la cultura dell’emergenza con un modello di rinascita del Paese che non si basi sull’adattamento al presente, ma sulla costruzione di un nuovo modo di fare le cose, aumentando la trasparenza e riducendo le diseguaglianze sociali.
Un vero e proprio Patto di Responsabilità collettivo, che vuole cogliere questo momento per migliorare e migliorarci, anziché accettare il ritorno a una normalità, della quale già prima del virus conoscevamo i molti limiti.

Clicca sull’immagine per leggere il programma giorno per giorno di Consumo Responsabile

Vite di carta /
Il cavaliere di Calvino alla Biblioteca Popolare Giardino

Vite di carta. Il cavaliere di Calvino alla Biblioteca Popolare Giardino

Giovedì 15 ottobre alla Biblioteca Popolare Giardino si terrà un reading in ricordo di Italo Calvino, nato in questo stesso giorno e mese anche se di lunedì nel 1923, e non a Ferrara ma a Santiago de las Vegas, presso L’Avana.

Mi è stato chiesto di partecipare a questa giornata delle lettrici e dei lettori, ho detto subito sì. Mi è stato indicato di scegliere una pagina che per me è speciale, ho scelto immediatamente un capitolo da Il Cavaliere inesistente, il numero quattro. Rido sempre nel rileggerlo, rido di gusto.

Perciò perché non condividerlo in una occasione tanto ghiotta: saremo tutti lì a ricordare la penna forse più straordinaria del nostro Novecento, proprio nel giorno del suo novantasettesimo compleanno (in realtà Calvino è mancato nel settembre del 1985, senza arrivare a compiere sessantadue anni) e forse suscitare ilarità con la lettura ad alta voce è un buon modo per toglierlo dall’imbarazzo, se ci sente da lassù.

Poche settimane prima di morire aveva ribadito a Claudio Romanini, uno dei curatori dei Meridiani Mondadori dedicati ai suoi romanzi e racconti, di avere un rapporto difficile, addirittura “nevrotico” con l’autobiografia; proviamo a sorridere allora. Farà bene a tutti.

Il Cavaliere, uscito nel 1959, è un romanzo breve e si compone di dodici brevi capitoli: insisto sulla brevità, perché come lettrice mi ha colpito la proporzionalità inversa tra quantità delle pagine scritte e qualità della narrazione. Il capitolo che ho scelto lo dimostra ampiamente, tanto che dovrò selezionarne solo alcune componenti, quelle che rivelano uno spassoso gioco letterario.

Siamo nell’Alto Medioevo, al tempo della guerra tra l’esercito di Carlo Magno e gli Infedeli, che sono risaliti dalla Spagna fino alle porte di Parigi. Rambaldo di Rossiglione è venuto apposta a combattere tra le fila cristiane per vendicare la morte del padre, il marchese Gherardo, caduto a Siviglia per mano di un pezzo grosso tra i mori, l’argalif Isoarre.

Ora mi concentro su questo giovane e impetuoso cavaliere, tralascio di scrutare chi è il narratore nel quarto capitolo, come sono i paladini che Rambaldo sta conoscendo nelle ore che precedono la battaglia, e in particolare il cavaliere Agilulfo, quello che ha già dato tante indicazioni al nostro giovane mostrando di sapere tutto sulla vita dell’accampamento cristiano.

Agilulfo però ha una caratteristica unica, non c’è. Dentro la sua armatura immacolata non c’è nessuno. A dargli consistenza sono stati inizialmente gli atti di coraggio e le gloriose imprese da paladino, ora sono le mansioni da lui svolte, con pignola perfezione, dentro al campo.

Ecco metto a fuoco Rambaldo, che è al suo primo combattimento e guardo con i suoi occhi cos’è la battaglia.  Il testo dice: ”Il segno che era cominciata la battaglia fu la tosse. Vide laggiù un polverone giallo che avanzava, e un altro polverone venne su da terra perché anche i cavalli cristiani s’erano lanciati avanti al galoppo.

Rambaldo incominciò a tossire; e tutto l’esercito imperiale tossiva intasato nelle sue armature, e così tossendo e scalpitando correva verso il polverone infedele e già udiva sempre più dappresso la tosse saracina. I due polveroni si congiunsero: tutta la pianura rintronò di colpi di tosse e di lancia”.

Non ho le parole per dire quanto sia comica questa scena, nel senso che dovrei usarne troppe, facendole accavallare le une sulle altre. Di sicuro questa descrizione della battaglia che comincia è uno straordinario esempio di straniamento e davvero tutti noi lettori la vediamo come fosse la prima volta.

Di sicuro fa ridere l’abbassamento repentino del racconto dalla dimensione epica del combattere a quella comica e quotidiana della tosse provocata dal polverone agitato da cavalli e uomini in movimento. Poi ci ritrovo figure retoriche a iosa, una meravigliosa tecnica della ripresa cinematografica in soggettiva alternata al campo lungo della veduta oggettiva finale.

Un’alternanza efficace dei canali sensoriali della vista e dell’udito, ma si direbbe anche del tatto attraverso il disagio fisico del tossire.
Potrei scovare anche altro in questo passo, ma mi chiama una altro punto del capitolo, collocato verso la fine.

La battaglia finisce per Rambaldo, che è provato dalla fatica e si allontana dal campo per cercare riposo e ristoro in un boschetto, il locus amoenus che non può mancare in un romanzo che parla di guerra e di battaglie. In realtà vuole rimanere sulle tracce di un cavaliere che lo ha appena aiutato a difendersi dall’imboscata che gli hanno teso due saracini, ma non ha voluto presentarsi.

Vorrei parlare del suo cavallo colpito a morte, di Rambaldo rimasto appiedato mentre continua a cercare il cavaliere dall’armatura color pervinca che, non svelando il proprio nome, gli ha recato una grave offesa, una delle tante del cavilloso codice cavalleresco.

Ma corro anch’io ad assistere alla scena che si verifica tra le fronde del bosco: finalmente Rambaldo scorge il cavaliere sconosciuto nei pressi del greto di un fiumicello, si apposta per osservarlo e lo vede correre scalzo sugli scogli. Sembra “un crostaceo”, con la corazza e l’elmo nella parte superiore del corpo e con la nudità del ventre e delle gambe.

Colpo di scena: “Rambaldo non credeva ai suoi occhi. Perché quella nudità era di donna: un liscio ventre piumato d’oro, e tonde natiche di rosa, e tese lunghe gambe di fanciulla”. E cosa fa la plastica fanciulla? “Si mise tranquilla e altera a far pipì. Era una donna di armoniose lune, di piuma tenera e di fiotto gentile. Rambaldo ne fu tosto innamorato”.

Noi che leggiamo e ci siamo appostati con Rambaldo per osservare la figura misteriosa siamo straniati per la seconda volta in poche pagine. La sorpresa di vedere una fanciulla e non un uomo è grande: ancora non lo sappiamo, ma anche chi ci racconta la storia non è un narratore univoco e alla fine dovrà svelarci il suo vero volto. La sorpresa che si tratta di una donna ci fa scattare il raffronto con altre donne guerriere della nostra tradizione epica.

Ma non basta: quando anche riprendessimo a leggere le imprese di Bradamante e di Clorinda nei poemi usciti dal nostro Rinascimento ferrarese potremmo delineare solo una parte di questa figura di donna. Perché la fanciulla che ha fatto innamorare Rambaldo e che ha appena smesso di combattere arditamente, ora fa una cosa inusuale, mai vista prima, fa pipì. Di conseguenza anche il fulmineo innamoramento di Rambaldo non si è mai visto prima.

Nella nostra tradizione letteraria “alta”, quella che si studia alla scuola superiore, nessuno si è mai innamorato di una donna senza vederla in volto. E che figure hanno le Donne che ci sono consegnate dai testi poetici dalla Scuola siciliana di metà XIII secolo in poi: hanno la pelle candida e i lineamenti angelici, i capelli sono lunghi e biondi, l’incedere regale e armonioso al tempo stesso, la voce soave e soprattutto il loro cuore è gentile.

Da Calvino ce lo potevamo aspettare, e infatti proprio lui che è stato un grande estimatore del nostro Ariosto e che nei suoi romanzi e racconti ha tracciato un denso filone di storie fantastiche, piene di parodia e di leggerezza nel giocare con la tradizione letteraria, proprio lui ci spiattella un innamoramento avvenuto così. Niente incedere elegante e pudico della Donna tra la gente, niente gioco di sguardi che incatena l’uomo alle gioie e alle pene d’Amore.

Sto parlando di gioco letterario e mentre scrivo conto le implicazioni che esso produce sulla organizzazione del testo del Cavaliere. Per non disperdermi in tanta ricchezza narrativa riprendo la figura di Rambaldo: dunque egli ha conosciuto i piani di battaglia, noiosissimi e ripetitivi: gli è stato detto di prendere posizione nell’esercito schierato e andare sempre dritto, fino al momento in cui la sua lancia cozzerà contro l’argalif Isoarre, che combatte sempre nello stesso punto.

Poi ha preso parte alla battaglia, che è quella dei due polveroni giallastri che si vanno incontro. Ancora, non ha incontrato subito Isoarre per un errore strategico, le fila dei soldati sono sfasate e i cavalieri così non si incontrano; ha intercettato invece l’argalif Abdul e solo grazie all’intervento di uno degli interpreti (indispensabili quando si affrontano eserciti che parlano lingue differenti) non lo ha infilzato; infine ha provocato l’uccisione di Isoarre solo indirettamente, avendogli mandato in frantumi gli occhiali. E’ proprio il caso di dire: “A Rambaldo successe tutto diverso da come gli avevano detto”.

E anche a noi lettori sono stati portati via i temi della guerra e dell’amore come li ha codificati la nostra narrazione epica medievale e moderna. Via l’immagine monumentale dell’eroe guerriero (i paladini che re Carlo passa in rassegna nel primo capitolo appaiono sudaticci e annoiati dentro le armature, sotto l’elmo nascondono principi di calvizie). Via soprattutto l’apparato concettuale e le forme dell’amore cortese, con gli amanti trepidanti e la donna angelicata.

Questo per quanto riguarda il rapporto che Calvino instaura con la tradizione. Manca ancora la parte del suo discorso rivolta all’uomo contemporaneo, a cui rimandano i tratti così inusuali di Agilulfo, un Cavaliere che non esiste se non per ciò che fa, un personaggio che si “cosifica” nel mansionario quotidiano dentro al campo cristiano.
Sarebbe intrigante parlarne, magari succederà un’altra volta.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]