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Niente di nuovo sul fronte della pandemia

Negazionisti, catastrofisti, complottisti, assertivi, sciacalli, profittatori, benefattori, assembramenti, dpcm, fake news, e tutto il restante glossario così familiare in questo momento: la descrizione di una fauna umana con le sue ferree e inamovibili convinzioni, ragionevoli o sballate che siano, i suoi comportamenti, i suoi orientamenti, che si destreggia nel mare impetuoso della pandemia, scatenando reazioni e affrontando conseguenze.
Non abbiamo inventato o scoperto niente di nuovo: è già tutto presente nei personaggi de I Promessi Sposi di Manzoni, tra le pagine dedicate alla peste del 1629-1630, da cui emergiamo tutti noi, umanità di allora e di adesso.
Ed ecco che don Rodrigo si fa beffe del morbo, pieno del suo ego e della sua convinzione di inattaccabilità, sbeffeggiando le vittime di sua conoscenza e dedicandosi ai bagordi, tra taverne e bevute, per poi inorridire e scendere dal suo piedistallo quando si scopre ammalato. Accusa strani malesseri, pesantezza di gambe, difficoltà respiratoria, caldo e arsura, “le coperte sembrano una montagna”. Il suo scagnozzo Griso, lo consegna ai monatti per derubarlo e portarlo al lazzaretto, e poi si ammala a sua volta, morendo.
Renzo, rifugiato nel Bergamasco, si ammala di peste e accetta la malattia con cristiana rassegnazione, in attesa di tempi migliori. Una volta guarito, l’epidemia diventa per lui, ricercato, l’occasione propizia per tornare nel Milanese in cerca di Lucia, eludendo la giustizia – era obbligatorio esibire la ‘bolletta di sanità’ per entrare in città – “perché essa ha altro di cui occuparsi”.
Fra Cristoforo vede nella peste motivo di sacrificarsi al servizio caritatevole del prossimo e muore nel lazzaretto in cui assiste i malati senza risparmiarsi.
Don Abbondio, che non si distingue sicuramente per coraggio e ardimento, considera la peste come una “scopa” che spazza via prepotenti e malvagi, perfettamente in linea con il suo comportamento gretto e meschino.
La madre di Cecilia è l’emblema della piena e consapevole accettazione del destino e della morte, alla quale consegna con compostezza e dignità Cecilia, se stessa e la figlioletta minore.
Per i monatti, che si aggirano con il campanello legato alla caviglia come lugubre avviso del loro passaggio, l’epidemia è solo un colossale affare su cui lucrare, una speculazione sul dolore e la sofferenza, sull’impotenza della popolazione, sulla debolezza della gente. Rubano, sottraggono, spremono, ricattano, estorcono, forti del potere che il ruolo conferisce loro, additati nella fantasia popolare come untori, propagatori del virus per prolungare l’epidemia e trarne vantaggio.
E poi c’è don Ferrante, nobiluomo milanese dal sapere enciclopedico cha va dalla letteratura alla storia e filosofia, passando anche attraverso la stregoneria, l’arte cavalleresca e l’astrologia. Nega che il contagio si propaghi da un corpo all’altro e attribuisce la pestilenza, agli influssi astrali, una congiunzione di Giove e Saturno, unita all’apparizione di comete. Dichiara inutili le indicazioni e istruzioni date ai cittadini, che considera fuorvianti dalla sua incrollabile posizione di intellettuale senza dubbi e tentennamenti. Rifiuta ogni precauzione e finisce per ammalarsi, morendo nel proprio letto prendendosela con le stelle.
La sua ricca biblioteca, che rappresenta tutto il suo sapere, verrà portata a vendere lungo i navigli.
Don Gonzalo Fernandez de Cordoba, governatore di Milano, minimizza la pandemia e afferma che le truppe tedesche dei Lanzichenecchi, a cui era attribuita la diffusione del contagio, dirette dalla Valtellina a Mantova, fossero indispensabili e le preoccupazioni della guerra apparissero più pressanti dell’aspetto sanitario. Arriva addirittura a tollerare quello che noi definiamo oggi ‘assembramento’, il 18 novembre 1629, in occasione dei festeggiamenti e celebrazioni di piazza per la nascita del primogenito di re Filippo IV, senza alcun cordone sanitario.

La storia è piena di don Ferrante, personaggi senza scrupoli, una pletora di pseudo esperti che vogliono emergere. Anche oggi come allora, gli epigoni del nobile milanese alimentano l’ignoranza e la rabbia, la saccenza più pericolosa esercitata attraverso il loro armamentario fatto di post, video, rubriche, inquinando e attaccando ogni forma di attendibilità scientifica.
C’è anche un medico, nei Promessi Sposi, Ludovico Settala, ptotofisico. La folla di Milano lo aggredisce e infama con accuse infondate di diffondere il contagio per dare lavoro alla Sanità, tacciato di ‘persona portatrice di malaugurio’ dalla superstizione popolare.
Una processione di personaggi letterari che copre tutto lo spettro dei comportamenti umani nell’evento tragico: una lunga serie che ci ricorda anche oggi le nostre limitatezze, gli istinti primordiali latenti, l’incapacità di cambiare radicalmente spogliandoci dalle zavorre che ci tengono ancorati agli aspetti meno edificanti del nostro essere uomini.

PAROLE A CAPO
Anna Maria Bolletta: “Ridere con te” e altre poesie

“La poesia non è un senso, ma uno stato, non un capire, ma un essere”
(Cesare Pavese)

  

RIDERE CON TE

Quando rido con te
io vivo.
Mi solletichi il cuore…
E penso che sì,
la vita è bella,
nonostante il dolore
che pesa sulle spalle,
il singhiozzo
che preme in gola
e il rumore
che esplode dentro
il mio silenzio.
Mi basta ridere con te…
E quell’elastico
che mi stringe i polsi
si allenta,
le mie vene
ricominciano a pulsare,
le mani a stringere,
toccare e amare.
Ogni carezza
l’annido sul tuo viso
mentre di baci
ti imbocco il sorriso.

 

TIMIDEZZA

Quanti argini deviano emozioni
trattengono il fiato,
mozzano parole,
impediscono sguardi.
Quanti desideri rimangono disseminati
in un tempo informe
che li lascia in balia del vento,
indefiniti.
Eppure vorrei
che t’arrivasse quel che sento.
Eppure vorrei che i miei occhi
fossero specchi
di tutti i sogni che ho paura di dirti,
perché ci sei tu.
Perché ho timore che t’accorga
di ciò che provo,
ma al tempo stesso lo vorrei.
Vorrei sentissi le carezze
che ho negli occhi quando ti guardo.
Vorrei sentissi le parole d’amore
che ho dentro,
quelle che ripeto
ogni volta che ti sogno,
le stesse che cadono a terra
come petali sfioriti
insieme ai miei occhi timidi.
Vorrei sentissi di quanta carne
è fatto il mio desiderio
quando t’immagino sulla pelle.
Guardami le labbra mentre ti parlo,
perché prima che io abbassi lo sguardo,
ti avrò già preso dentro di me.
Ed è lì che resterai,
nel mio respiro più profondo.

 

E POI BACIAMI

Parlami della tua tristezza…
Quella che leggi tu solo
nel fondo del bicchiere
che giri fra le dita.
Quel poco vino che rimane,
che mai si sbilancia,
che mai è incline alla speranza,
parla di te e dice la verità.
E allora bevila tutta d’un fiato
e poi baciami.
Mesci nella mia bocca le tue lacrime
intrise di malinconia.
Sarà più lieve il tuo tormento,
meno amara la tua tristezza,
diluita dalla dolcezza
delle mie labbra.

 

Anna Maria Bolletta (Perugia)
Ha pubblicato una prima silloge “Una piuma sul cuore” edita nel 2018 (Ed. Youcanprint) e poi una seconda dal titolo “Nuda come la pioggia” (Ed. Youcanprint, 2020).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Vite di carta /
Il carcere, il gorgo e la seconda voce dell’anima

Vite di carta. Il carcere, il gorgo e la seconda voce dell’anima

Di mercoledì ho fatto la spesa al mercato del mio paese, come sempre. Anche oggi ho avuto incontri brevi, saluti frettolosi, la visione istantanea di altri passanti: è il massimo della socialità nel periodo Covid color arancione in cui ci troviamo.

Tutti mascherati, tutti intenti a fare acquisti con le solite frasi fatte, pronte a scattare per tenere un po’ di conversazione: il virus di qua e di là, avete sentito quanti stavolta e via dicendo. Sono parole che dimentico in fretta, ormai le sento come abusate e consumo la minaccia che è in loro proprio ripetendole. Non so se accada anche agli altri, a me la paura così esternata e tante volte esibita fa meno effetto.

La novità è che oggi, tornando a casa con il grappolo delle sporte appeso alle mani, ho parlato per la prima volta con uno che il virus se l’è preso. La prima volta. Mentre lui nel giardino di casa sua, a cinquanta metri dal mio, camminava a zig zag per scaricare la tensione e doveva dirlo a qualcuno che l’esito del tampone era arrivato pochi minuti prima ed era finalmente negativo. Sono passata io e ho condiviso la sua gioia. Mi ha detto che non è stato male e che i sintomi sono stati pochi e leggeri, però si è sentito isolato dal mondo, bloccato e recalcitrante tra le mura di casa per dieci giorni.

Ho pensato al gorgo. Il male che il mio malcapitato vicino di casa percepiva come esteso in orizzontale, come una espulsione all’estrema periferia della sua vita, lontano dalla quotidianità e dal lavoro a cui è tanto attaccato, a me è sembrato esteso in verticale, come un gorgo che l’ha portato giù verso la solitudine e il buio. Ora, ha ragione nel dire che il virus gli ha ridotto lo spazio vitale e lo ha fatto rimanere in casa come in un carcere.

Credo tuttavia che lo svilupparsi del male e del bene lungo una linea verticale resti una dimensione costante nella percezione di ciò che ci accade: “Sono un po’ giù  in questo periodo” ti dice il tuo interlocutore e tu per dargli coraggio gli rispondi con un “Cerca di stare su, vedrai che le cose miglioreranno”, che è frase usuale, ma la dici con sbrigativa sincerità.

Alle spalle ci sono le coordinate dell’educazione che abbiamo ricevuto, di matrice cattolica per la stragrande maggioranza di noi; poi siamo andati  alla scuola superiore, abbiamo aperto la Divina Commedia e ci siamo messi a imparare a memoria le dieci parti in cui è diviso l’Inferno, una voragine a forma di cono, che sprofonda sotto il suolo di Gerusalemme, fino al centro della terra.

Le dieci parti che formano la montagna del Purgatorio, altissima e isolata nell’opposto emisfero delle acque; infine siamo saliti nei nove cieli che ruotano intorno alla terra, raggiungendo il decimo  infinito spazio dell’Empireo, che è pura luce divina. Dal basso verso l’alto. Dal buio alla luce.

Nel racconto Il gorgo di Beppe Fenoglio, apparso per la prima volta in rivista nel 1954, il male è nell’acqua del fiume Belbo in un punto preciso, “dietro un fitto di felci”, lucido come “la pelle di un serpente”. In quel punto il narratore, che ha nove anni ed è il più piccolo dei suoi fratelli, ha capito che il padre vuole andare a morire, per la disperazione di essere povero e disgraziato, con la penultima figlia morente. In quel punto l’acqua tira giù e annega.

Questo testo di Fenoglio l’ho cercato e letto di recente, con le aspettative al massimo. Perché? Perché lo ha ripreso Sandro Veronesi nel suo recente romanzo Il colibrì, che ha vinto il Premio Strega 2020. Lo ha ripreso in un toccante capitolo alla metà del libro, poi ha citato apertamente Fenoglio nei Debiti finali, le pagine in cui riporta i testi a cui ha fatto riferimento, quindi ringrazia le persone che lo hanno sostenuto.

Ora io cito lui e dei Debiti riporto proprio le righe iniziali: “Innanzitutto, il capitolo intitolato Ai mulinelli: non è semplicemente ispirato al racconto Il gorgo di Beppe Fenoglio, ne è una cover vera e propria. C’è una perfezione in quel racconto, probabilmente il più bello che sia mai stato scritto in lingua italiana, che sarebbe scomparsa limitandosi ad appropriarsi dell’idea che lo ha generato, senza riprodurne anche lo schema”.

Il più bel racconto che sia stato scritto nella nostra letteratura: meglio tardi che mai, me lo procuro e lo leggo. E’ piuttosto breve, non arriva a due pagine. Poi vado a cercare nel capitolo Ai mulinelli di Veronesi e scopro che è davvero stato fatto un calco.

Prima di tutto è stata ripresa l’idea: nel Gorgo il figlio più piccolo salva il proprio padre, che ha deciso di suicidarsi. Negli anni della guerra di Abissinia, anni di miseria, la famiglia del narratore aggiunge agli stenti la disgrazia della malattia della figlia:

“Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo più grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella”.

Quando il padre dice che scende al fiume Belbo per voltare le fascine che hanno preso la pioggia, solo il figlio piccolo capisce “che andava a finirsi nell’acqua” e allora lo segue, e la sua presenza cocciuta spinge il padre a mettersi al lavoro col forcone, abbandonando colpo dopo colpo il proposito di gettarsi nel fiume.

Nel romanzo di Veronesi è il protagonista a seguire la sorella, decisa a gettarsi in mare in una sera d’estate, e così a salvarla con la sua presenza piena di amore fraterno. In secondo luogo Veronesi ha mantenuto lo schema compositivo del racconto: un personaggio si avvia a piedi per andare a morire e uno della famiglia gli si attacca alle costole per impedirglielo.

Ci sono un’andata e un ritorno: all’andata l’aiutante viene scacciato più di una volta; al ritorno, quando il tentativo di suicidio è ormai fallito, la coppia ritrova il proprio atavico legame di affetto. “E’ la combinazione di candore e di disperazione che…rende così naturale” il racconto. L’immagine conclusiva in entrambi i testi è quella altrettanto naturale del pollice che gratta la testa al bambino salvatore “tra i due nervi che abbiamo dietro il collo”.

Anche le parole sono le stesse.
Dopo il cammino in discesa verso il gorgo della morte, ecco la risalita insieme verso casa.

Poi, aggiungo io, c’è la scrittura di Fenoglio. L’ho trovata ancora una volta di una bellezza! Così scabra, così piena di realismo e insieme vibrante di emozione. La concentrazione dei significati nelle frasi brevi, l’innocenza del parlato hanno superato ogni mia aspettativa. E’ un bambino che racconta col suo linguaggio ingenuo, così distillato da ricordare le poche parole che sa dire Rosso Malpelo. E’ una lingua tenace, che esprime la fatica della vita e insieme la sua comprensione. E’ compatta in modo totale: non una sola parola si potrebbe togliere dal testo, non ne occorre una in più.

Lo dico con le parole che ha usato Andrea Zerbini nel suo articolo La seconda voce dell’anima uscito su questo giornale il 21 novembre 2020: “la lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche un atto d’amore…Un libro può diventare così la seconda voce della propria anima”.

Comprendo leggendo Zerbini che “l’intera Bibbia può considerarsi allora una conversazione in itinere. L’invito permanente all’ascolto, all’incontro e al dialogo: per tentare alleanze; per formare amicizie; per ricercare quel santo Graal di quell’ultima cena, che ha visto nella condivisione del pane e del calice, un comunicare nell’agire e nel patire, il simbolo reale di quell’amore così grande da spingersi a dare la vita per gli amici”.

Comprendo che nella “biblioteca interiore” di cui parla Zerbini, i libri siano voci di un unico grande libro, in cui “Dio impiega diversi traduttori” per il dialogo con i suoi figli.
Accolgo queste bellissime parole nella mia visione laica della biblioteca del mondo e mi faccio piccola ancora di più. Ancora mi basta avere trovato le parole da dire sulla piazza, mi bastano quelle che il mio vicino di casa ha ricevuto da me e quelle che ho ascoltato da Fenoglio e da Veronesi per gioire insieme.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Luogo di conflitti o di soluzioni?

Che luogo sono le due piazze? Quello spazio intimo serve davvero a risolvere, avvicinare, abbandonare? Per Nickname è un campo dove gli istinti semplificano e mettono tutto a posto, Riccarda invece si chiede se ci sia poi così bisogno di risolvere.

N: Le due piazze sono il luogo in cui, spesso, i conflitti si risolvono. Mi ha sempre colpito come gli esseri umani riescano a complicarsi la vita con la loro parte razionale, che è ciò che dovrebbe elevarli dal resto delle specie animali, e riescano a semplificarsela tornando alle loro pulsioni istintuali, che sono ciò che li accomuna alle altre specie animali. Naturalmente la mia è una domanda, seppur implicita. Come (quasi) sempre, non riesco a dare una risposta.

R: Non so se nelle due piazze i conflitti si risolvano o solo si stemperino, alleggerendosi un po’. Non credo neanche i conflitti di coppia si risolvano con la razionalità, anzi, quella è ancora più dirimente, ciascuno mantiene le proprie ragioni anche solo per puntiglio. Le due piazze sono, credo, l’unico spazio fisico comune dove non si ha nulla addosso e la ragione per un momento tace. Sei così convinto che i conflitti vadano risolti? Forse lo scontro arriva quando c’è bisogno di allontanarsi un po’ e riprendersi in altri luoghi, con altre parole, magari senza parole.

N: Ci sono situazioni e persone con le quali il conflitto deve deflagrare, perché quella deflagrazione eviterà l’esplosione globale. Ci sono situazioni e persone con le quali il conflitto deve essere circuito, proprio come si farebbe con un incapace, perché si è troppo avanti e l’esplosione è stata assorbita da una implosione. Nel primo caso le due piazze sono una specie di sublimazione della lotta. La chimica animale trasforma il conflitto in gioco di ruolo. Nel secondo caso, le due piazze sono già in un altro luogo.

R: Conflitto, deflagrazione, esplosione…mi chiedo se questa lotta tu la stia facendo con qualcuno o contro te stesso.

E voi? Come considerate le due piazze? Spazio di gioco o terreno di scontro?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

LA CITTA’ VUOTA

La città è un palcoscenico vuoto, i suoi attori si sono ritirati. Sembra di vivere un film che credevamo appartenere solo alla fantascienza. Coprifuoco e sirene spiegate delle autoambulanze. Ognuno è solo, fuori dalla scena, perché la regola è la distanza tra noi e tra noi e i luoghi che eravamo soliti frequentare.
Era necessario fare l’esperienza della lotta alla contaminazione per scoprire l’evidenza che in tempi normali sta ogni giorno sotto i nostri occhi ma che non vediamo.

L’ha scritto Edward Glaeser, autore del Trionfo della città: “Dobbiamo liberarci dalla tendenza a considerare le città come l’insieme dei loro edifici, e ricordare che la città reale è fatta di carne, non di calcestruzzo”. Quella carne che il virus insidia e spaventa, quella carne il cui brulicare oggi ci manca.

Nel 2011 l’Unione Europea, con il documento Le città del futuro. Sfide, idee, anticipazioni, traguardava al 2020 scrivendo che: “Guardare avanti – a tutti i livelli – e sviluppare idee sulle città del futuro diventa sempre più importante. Sarà infatti lo sviluppo delle nostre città a determinare il futuro dell’Europa.”
L’Europa muoveva dalla convinzione che l’urbanizzazione dell’esperienza umana fosse il fenomeno dominante la realtà del nuovo millennio.

Del resto Francisco Javier Carrillo, presidente del World Capital Institute, introduceva il suo Knowledge cities, pubblicato nel 2006, con queste parole: “Nel 1980 meno del 30% della popolazione umana totale era urbanizzata, ora la popolazione mondiale che vive nelle città supera il 50% ed è destinata a diventare il 75% entro il 2025, una percentuale già raggiunta dalla maggior parte dei paesi sviluppati. Quindi, l’urbanizzazione definitiva dell’umanità sta avvenendo proprio ora, dopo 40 mila anni dalla comparsa della nostra specie.”

Ancora, nel 2018, solo due anni fa, il Revision of World Urbanization Prospects delle Nazioni Unite riportava che in Italia vivono in città sette persone su dieci e che la corsa verso le zone urbane era destinata a continuare, anzi ad accelerare, tanto da prevedere che entro il 2050 anche nel nostro Paese l’80% delle persone vivrà in città.

Poi arrivarono il Covid e lo smart working a sconvolgere statistiche e previsioni.
Siamo un popolo in decrescita, secondo i dati Istat del Rapporto sul territorio 2020, nel 2018 -2,1 per mille, mentre nell’insieme l’Unione europea è cresciuta del +2,1 per mille.
Non siamo neppure particolarmente amanti di urbanesimo e di urbanizzazione, nel nostro paese l’incidenza della popolazione urbana sul totale nazionale è inferiore di otto punti alla media dell’Ue e di oltre dieci punti rispetto a Francia, Spagna e regno Unito.

Le città si spopolano, ma contemporaneamente cresce il magnetismo degli ipermercati, come potenti poli di attrazione ai confini urbani. Cattedrali dei non luoghi dove celebrare i riti del consumo. Pure gli ospedali, come i grandi magazzini, sono divenuti a loro volta ‘non luoghi’ di cura, che includono ed escludono corpi anonimi, la cui unica identità è la malattia. Corpi da manipolare in sale ipertecnologiche da personale appositamente paludato.

Gli occhi stanno fotografando quello che non avevano mai fotografato prima. Una esistenza che ci sembra altra dalla nostra, sequenze che crediamo appartenere solo a questo tempo sospeso, che poi, pensiamo, scompariranno, saranno lontane dai nostri quotidiani, dalle nostre angosce, dal nostro dolore.

Eppure è questa la vera immagine della vita, non quella che fino a ieri non volevamo vedere.

Ma la minaccia della contaminazione ci consente anche di sottrarci a questo incubo, di fuggire portandoci appresso il nostro smart working, ci legittima a vivere l’immagine virtuale del nostro essere, quella che ci possiamo disegnare e che ci aiuta a schivare la vista di quella reale.

Si lascia la città, la sua spoliazione, i suoni acuti delle sirene, per disperdersi nei villaggi, in nome della distanza, del contatto salutare con la natura, della purificazione e depurazione. A scrivere il nostro ‘Decameron’ connessi a banda larga, a lavorare smart che fa molto smart, a intrecciare relazioni dalla nostra bolla rifugio chattando sui social.

E non ci rendiamo conto di cosa sta per accadere. Che la lotta contro il male ci lascerà cambiati, ma non come avremmo immaginato. Forse sconfiggeremo il nemico, ma non ne usciremo vittoriosi.

Lontano dalla città se possibile, dove star bene con se stessi e con la natura, con appresso il nostro lavoro, che ci chiede di lavorare ma non di partecipare, l’assenza anziché la presenza, di farci da parte, di ritirarci come tante monadi tra loro distanti. Essere attivi allo smart working, ma lasciare fare ad altri la predisposizione del nostro futuro, quello che sarà dopo il Covid.

Non ci rendiamo conto delle conseguenze di abbandonare il campo e che il campo potrà non essere più quello di prima, perché anziché presidiarlo abbiamo lasciato che altri lo potessero occupare.

Di fronte alla minaccia è forse umano il ‘ritorno al sé’, al grembo materno, al rassicurante focolare domestico. Ma l’illusione della fuga come liberazione, come ritorno al paradiso perduto,  lascia alle spalle la disgregazione sociale e umana, apre la strada ad ogni incognita. La politica viene meno, se abbandoniamo la polis e il suo agorà, se decidiamo di sottrarci al pubblico per privilegiare il nostro privato. Viene meno la civitas e la cittadinanza con i suoi diritti e doveri. Dal distanziamento potremmo uscire ritrovandoci senza città e senza territorio, abitanti un paese di luoghi, privati del cuore della vita politica, sociale, economica e culturale.

GOOGLE? IN GIRO C’E’ DI MEGLIO
Le piattaforme collaborative free/open source

Ghiotte piattaforme collaborative
L’anno in salsa Covid 2020 ha visto esplodere l’uso di piattaforme per il lavoro collaborativo (a fianco a servizi di posta elettronica, motori di ricerca, social networking, etc).
Tra di esse, un esempio non a caso è la serie di servizi Google suite, che si è fatta spazio in settori strategici di interesse nazionale come Educazione, Ricerca e Sviluppo. Questo, nonostante le criticità evidenti legate a fare ospitare dati di importanza strategica e commerciale a server di un paese straniero (e non uno qualunque, ma il gigante conclamato della sorveglianza di massa). Scelta per niente ovvia, se si osserva che paesi con tasso di alfabetizzazione informatica ben più elevato del nostro (vedi Francia, Germania, …) si sono orientati verso sistemi sviluppati a livello “nazionale”, o di tipo free1/opensource, con server sul proprio territorio.
In questo articolo non voglio scagliarmi contro sua maestà Google, ma dare qualche ragione ed evidenza che esiste di molto meglio. A maggior ragione, se abbiamo a cuore diritti fondamentali come quelli all’autodeterminazione, all’esistenza di una sfera privata, nonché la sicurezza e l’autonomia nazionali.

Più mondi possibili
Quando si parla di sviluppo ed uso di software free/open source, è importante rendersi conto che il mondo a cui è abituato tipicamente l’utente Microsoft-Google è solo uno di quelli esistenti. In esso: l’azienda prepara un software che mi vuole convincere a usare, io pago la mia copia (in denaro o scambiandola con dati che verranno usati per influenzare i miei comportamenti), ricevo una licenza del software/servizio, mi vengono imposti degli aggiornamenti fino al momento dell’obsolescenza programmata del software/hardware (e sottratti molti dati personali), fine dei giochi.

Quanto al prezzo. Nonostante il costo di duplicazione del software sia quasi zero, il costo associato a ogni licenza è costante e indipendente da quante ne siano state vendute. In sostanza si paga per avere il permesso di usare un software già esistente, sulla base della disponibilità a pagare degli utenti.

Free software, non caramelle
Esistono anche altri modi di sviluppare relazioni proficue tra produttori e utilizzatori di software.
Un esempio è quello del software free. I programmatori/l’azienda che sviluppano un software lasciano libero di accesso al suo codice. Così, i suoi (potenziali-) utenti/programmatori interessati a particolari funzionalità dello stesso software, ne testano alcune parti (per sicurezza informatica, comfort, funzionalità) e forniscono agli sviluppatori indicazioni preziose su come il software potrebbe essere modificato. Tale prolifica commistione arriva al punto che i due ruoli possono anche in parte scambiarsi. L’utente non acquista una licenza del software (che è a libero accesso) e non rinuncia alla propria privacy (avvallando quella sottile e impalpabile erosione dell’autodeterminazione che oggi domina internet). La dinamica collaborativa e di feedback permette all’azienda di risparmiare sui costi di sviluppo e agli utenti di procurarsi strumenti più adeguati ai loro veri bisogni.
Il business delle aziende/sviluppatori a tempo pieno è spesso basato sulla vendita del supporto tecnico (solitamente a grandi aziende ed amministrazioni pubbliche), oltre che  possibili donazioni. Oppure, nel caso di  piattaforme online, dagli abbonamenti ai server che ospitano il software in questione. In altre parole, si paga per l’uso dell’infrastruttura e il supporto tecnico ricevuto, cioè per il costo di produzione del bene.

Se vi chiedete quale sia la portata del fenomeno Free/Open Source, basti sapere che buona parte (se non la maggior parte) del software disponibile online è proprio di questo tipo.

Un esempio
Preambolo e ragioni a parte, vi presento una tra le più attive piattaforme sviluppo di software collaborativo a me note: Nextcloud.
Nextcloud è una piattaforma per il lavoro collaborativo Free Open Source, ospitata su oltre 250mila servers nel mondo, tra i quali, ad esempio, una parte del settore Ricerca e Sviluppo pubblico francese. Essa contiene decine di applicazioni diverse tra loro, che vanno dalla posta elettronica allo stoccaggio e sincronizzazione su cloud dei propri dati, agli applicativi per videoscrittura, chat, calendari, gestione economica, organizzazione del lavoro, ….
Nextcloud non vende istanze dei propri servizi (ma vi fornisce i nomi di aziende e servers referenziati che lo fanno al posto suo). D’altra parte, idea geniale, Nextcloud propone in vendita servers (anche di piccola taglia e costo) con tutti i servizi Nextcloud pre-installati, in modo da permettere il “self-hosting” dei propri dati (ospitarli su un proprio server), e di coloro che partecipano alla stessa piattaforma collaborativa.

Conclusione
Questo mostra, con uno tra tanti esempi possibili, che un altro modello di sviluppo non solo è possibile, ma sta là fuori ad aspettarvi.

Note:
free software non significa software “gratuito”. Da manuale, un software si dice free quando rispetta quattro “libertà essenziali”: 1) di essere usato nel modo e per gli scopi che l’utilizzatore desidera; 2) la libertà di studiare e modificare il funzionamento del programma, il che implica libero accesso al codice sorgente; 3) la libertà di ri-distribuire delle copie del programma; 4) la libertà di poter distribuire a terzi copie del programma modificato.

Cover: con licenza CC0 1.0 Universal (CC0 1.0) Public Domain Dedication

Guenda

Io sono Guenda. Sono la sorella più grande di Ines e Bella, le due sorelle biondissime che gestiscono il bar Ghepardi a Cremantello. I miei genitori, Giovanni e Ester Ghepardi, sono molto conosciuti a Cremantello perché hanno sempre abitato là, per un periodo nella vecchia casa di campagna della nonna Adelina e, più tardi, in una casa ristrutturata in centro al Pase.
Io non abito a Cremantello, come il resto della mia famiglia, ma abito in un convento a Carpino Solano, un piccolo borgo sulle colline Toscane.
Sono una suora Carlottina scalza. Suor Guenda. Le monache Carlottine scalze sono suore di clausura che hanno fatto voto solenne e costituiscono il second’ordine dei frati Carlottini scalzi. Si dedicano principalmente alla preghiera contemplativa, vivono sempre in convento e i contatti con le persone esterne sono rari e mai improvvisati.

L’ordine delle Carlottine scalze ha una lunga storia.
Nel clima di generale riforma  del mondo Cattolico sancito dal concilio di Trento (1515-1582) le monache Carlottine del monastero di San Ramondo diedero inizio ad una attività riformatrice tesa a restaurare il rigore della primitiva regola dell’ordine. Nel 1570 un gruppo di monache riunite a San Ramondo, ispirandosi alla riforma scalza introdotta da Pietro Talamone dell’ordine Ottoniano, decise di fondare un nuovo monastero di tipo eremitico.
Il ‘breve’ che autorizzò la fondazione fu firmato a Roma il 12 Febbraio del 1572 ed il convento, intitolato a San Leopoldo venne eretto a Carpino Solano il 26 Luglio dello stesso anno.

Arrivando ai nostri tempi nel 2010 le Carlottine scalze erano presenti in 78 nazioni. I monasteri dell’ordine erano 786. Le religiose erano complessivamente 10.679.
Io sono una Carlottina scalza che ha fatto i voti perenni da 15 anni. Porto sempre una lunga veste nera.  Anche il velo è nero, mentre il soggolo e il frontino sono bianchi candidi.  Passo le mie giornate in preghiere, partecipo alle funzioni religiose e vivo momenti di meditazione individuale nella mia cella. Oltre a questo io e le mie consorelle ci occupiamo del nostro convento, del giardino, dell’orto e lavoriamo alla preparazione di icone sacre che vendiamo e il cui ricavato serve per il sostentamento del convento e per opere di beneficienza.

Ricordo sempre i miei parenti nella preghiera: Mamma e papà Ghepardi, le mie sorelle Ines e Bella, le mie cugine Del Re e anche Albertino e Gina Canali, i bambini che abitavano in via Santoni Rosa a Pontalba, di fronte alla casa delle mie cugine.
Ogni tanto qualcuno di loro mi scrive perché vuole il parere di una suora su qualche questione che riguarda la sua vita, oppure per raccomandare le mie preghiere  per qualche buona causa di loro interesse, per la salute di qualche persona a loro cara. Qualche volta mi è anche capitato che qualcuno mi abbia scritto per chiedere una grazia di tipo più generale come la pace nel modo, la fine di qualche guerra o l’abolizione della pena di morte (devo dire che queste ultime richieste sono molto rare anche se molto gradite).

L’ultima lettera a cui ho risposto è stata quella di Gina Canali. Così mi ha scritto Gina.
Cara Suor Guenda, spero tu stia bene. Raccomando le tue preghiere per i miei cari e per la mia salute che non è delle migliori. Ti ricordo sempre nella preghiera e spero che la tua vocazione non incontri mai alcun momento di offuscamento. Ti scrivo perché ultimamente ho una pena nel cuore. Ho conosciuto un collega di Albertino che si chiama Luigi. Lui mi piace molto, ma io sono vecchia, ho cinquantasei anni e un figlio grande che però abita ancora con me. Luigi mi ha chiesto di uscire una sera con lui a mangiare una pizza. Ma io non ho accettato. Non si sa mai cosa può succedere dopo e io non ho ancora deciso se posso lascare che lui mi piaccia oppure no. Inoltre, come tu ricordi bene,  io vivo a Pontalba, un paese di duemilacinquecento abitanti  in cui tutti sanno ‘tutto di tutti’, questo sarebbe per me un’ulteriore problema. Finirei sulla bocca di molti pontalbesi per almeno qualche settimana. Le male-lingue del paese arricchirebbero quell’uscita in pizzeria di non so quali stranezze e misteri e, alla fine, io rischierei di trovarmi in uno stato di apprensione che rovinerebbe subito tutto. Ti prego quindi di darmi il tuo parere su cosa fare con Luigi, prometto che ascolterò i tuoi consigli e che mi comporterò di conseguenza”.

Beh, ho sorriso. Il problema di una cena con pizza è molto lontano dalla quotidianità di una suora di clausura. Eppure non è la prima volta che mi arrivano lettere di questo tipo. Mi torna in mente quando ero piccola. D’estate andavo a Pontalba con Bella e Ines. Stavamo a casa della zia Anna e giocavamo tutto il giorno con Costanza, Rachele e Cecilia. Eravamo una banda di sei bambine: tre bionde, due more e una rossa. Non passavamo inosservate. Oltre a noi sei, in via Santoni c’erano molti altri bambini: Tiberio, Camilla e Carlo Ragni. Alessandro, Libero, Giovanni, Vittoria ed Enrica Bartone. Gina, Albertino e Sergio Canali. Con tutti questi bambini giocavamo la sera a palla bollata, rialzo, nascondino, campana e a qualche altro gioco bizzarro inventato al momento.
Era bellissimo.
Via Santoni è una via in pendenza con delle rientranze e anche un vicolo che da lei diparte. C’erano molti posti in cui nascondersi, in cui aspettare la penombra per poi uscire improvvisamente dal rifugio temporaneo, correre alla tana, picchiare contro il muro e gridare a squarciagola: “Liberi tutti!”. Ora mi ha scritto Costanza che i bambini di via Santoni sono molti meno, stanno tutti su un carretto che Albertino ha ereditato da un suo amico. Li porta in giro per farli divertire. Alla sera nessuno esce nella via a giocare. Non si sentono più voci di bambini che gridano: “Rialzo!” “Tana libera per me!” “Tana libera per tutti” “Arimo” oppure le famose conte fatte per scegliere il malcapitato che poi doveva contare fino a cento prima di cercare tutti. “Pomodoro, larincia, larancia, quanti giorni me ne conta, me ne conta solo tre. Tocca tocca proprio a te!”. I pochi bambini che abitano adesso in via Santoni Rosa, stanno sempre in casa. I genitori non li fanno uscire di sera. Hanno paura che succeda loro qualcosa. Sono cambiate le regole di convivenza, non è più previsto che i bambini possano giocare da soli per strada, men che meno di sera. I genitori considerano questa modo di giocare che per noi era normale, pericoloso, “non si sa mai quel che può succedere a dei bambini che giocano per strada …

Torno al presente, alla mia cella e alla lettera di Gina. Prendo un foglio di carta e una penna nera. Mi metto a scrivere.
Cara Gina. Sono contenta di aver ricevuto la tua lettera. Prego sempre per te, per la tua salute e per la tua serenità. Io sono una suora e non posso uscire a mangiare la pizza con nessuno. Ma tu non sei una suora! Una pizza è una pizza, che male vuoi che faccia? Non ti devi preoccupare di quello che dicono i pettegoli. Anzi fai così: a chiunque si permetta di dirti qualcosa rispondi “Ho ascoltato un consiglio di Suor Guenda, è stata lei a scrivermi di andare ogni tanto a mangiare una pizza. Ve la ricordate la ragazzina bionda cugina delle Del Re? Ora è una suora di clausura, ma noi ogni tanto ci sentiamo.” Che divertimento! la prossima volta che mi scrivi mi devi descrivere che faccia hanno fatto i pettegoli di turno. Ti saluto cara Gina, ti auguro ogni bene e prego sempre per te, perché quando sarà il tuo momento il Signore ti possa accogliere nel più alto dei cieli. Amen.”

Piego a metà il foglio, lo metto nella busta e mi fermo un attimo a ripensare a Via Santoni. Ai bambini che siamo stati, alle diverse strade che abbiamo intrapreso. Poi mi avvio verso la cappella del convento per le preghiere comunitarie. Ritrovo subito la luce e di questa mi compiaccio.

 

SCHEI
L’oro di Diego

L'”oro di Dongo” è il tesoro, fatto di gioielli, lingotti e bigliettoni in valute diverse, sequestrato a Mussolini ed altri gerarchi dal convoglio in fuga fermato a Dongo, provincia di Como, il 27 aprile del 1945. Pare che il grosso del bottino, al quale anche la popolazione locale ha attinto al passaggio in una sorta di improvvisata espropriazione proletaria, sia finito nelle mani della brigata partigiana e poi dei comunisti comaschi e infine sia stato utilizzato per comprare la storica sede del PCI a Botteghe Oscure.

L'”oro di Napoli” è il titolo di un film a episodi del 1956 diretto da Vittorio De Sica. Si tratta prevalentemente di spaccati della vita napoletana, rappresentata attraverso i mattatori della tragicommedia partenopea, da Totò a Peppino De Filippo a Sophia Loren a Tina Pica.

Mi permetto di associare arbitrariamente le due definizioni, perchè la mescolanza dei temi inclusi in entrambe mi sembra attagliarsi come una facile profezia all’immediato futuro post mortem di Diego Armando Maradona da Lanus. Il prevedibile e pittoresco (ma non così superficiale come appare da fuori) psicodramma neopagano di Napoli, città d’adozione del Pibe, è già in corso. L’assalto alla diligenza del suo inquantificabile patrimonio è in realtà iniziato da tempo, mentre lui era in vita, ma da ora in poi si trasformerà in una sanguinosa faida tra parenti ufficiali e ufficiosi, consanguinei originari e riconosciuti, figli legittimi, legittimati e spuntati come funghi nel bosco dopo una notte di pioggia (sarei pronto a scommetterci). Per non parlare della corte dei miracoli che lo circonda da anni, professionisti para o pseudo della medicina e del diritto e della finanza e del fisco e della droga, destino che accomuna tutti i semidei tossici, da Elvis Presley a Michael Jackson a Prince a Whitney Houston. E’ impossibile per questa categoria di persone che ben presto, nella vita, escono dal mazzo dei normali esseri umani, sfuggire all’abbraccio mefitico e soffocante dei consulenti/portavoce/eccetera, ognuno dei quali ricava un reddito più che sufficiente a vivere bene dal proprio unico cliente, che quindi sarà molto difficile contraddire. Quando sei circondato da adulatori non riesci più a riconoscere la franchezza in un rapporto. Peggio: la vivi con fastidio. Quello che è onesto è il primo ad essere licenziato, perchè ti dice in faccia le cose che non vuoi sentirti dire. Alla fine chi ti vuole bene davvero lo allontani, e ti tieni i cattivi consiglieri, quelli che ti danno sempre ragione anche quando fai delle cazzate, che non ti dicono “stai lontano da quella merda” ma che la merda, alla bisogna, te la procurano.

Non ho conosciuto personalmente Maradona, come del resto tutti coloro che ne scrivono. Non comprendo chi dice che lo stiano facendo “santo”, perchè finora non ho letto un solo articolo che ne abbia oscurato i difetti e le mancanze. Comprendo ancora meno chi, non conoscendolo, si permette di dire che era una persona pessima. Sono andato a curiosare tra i moralizzatori da tastiera e, tra quelli più o meno noti, ho trovato chi mi aspettavo di trovare: gente che predica bene e razzola male. Mi limito a dire che vorrei vedere uno qualunque di loro, di noi, alle prese con un talento sovrumano, un dono che viene direttamente dal cielo, nel senso che il cielo o Dio sembra avere scelto proprio noi, per crudeli e imperscrutabili ragioni, per portare a termine un compito il più ambizioso – e noi sappiamo di essere i soli a poterlo compiere, perchè noi abbiamo quel dono, e nessun altro. Vorrei vedere uno qualunque di noi alle prese con un dono così prodigioso, un superpotere, che però vale solo in un campo della vita. In tutto il resto, ce la dobbiamo cavare con la nostra mediocrità, inadeguatezza, bassezza, dabbenaggine, fragilità. Stan Lee e la sua combriccola alla Marvel, su questa dicotomia del supereroe con superproblemi, ci hanno costruito sopra il profilo psicologico di tutti i più celebri personaggi della loro scuderia di carta.

Dentro di te convive questa divaricazione, mentre il resto del mondo pende dalle tue labbra anche se leggi la lista della spesa, sentenzia usando le tue parole e le rende aforismi sacri, anche se erano stronzate dette da ubriaco delle quali nemmeno ti ricordi. E soprattutto, il resto del mondo ti è costantemente addosso, ti alita addosso il suo amore e la sua invadenza. Sempre. Sempre.

Se qualcuno pensa che sia facile vivere così, vada a vedere come hanno vissuto, di chi si sono circondati e come sono morti artisti di enorme talento come quelli sopra citati. E’ chiaro che se hai un talento sovrumano in una di quelle discipline nelle quali si proiettano le aspettative di miliardi di umani, tutto si amplifica: la celebrità, il denaro e la pressione. Se invece ce l’hai in un campo che interessa a pochi, puoi cavartela. Se non interessa a nessuno, infine, sarai ignorato (condizione esistenziale fonte di una sofferenza acuta, uguale e contraria all’eccesso di pressione).

Se hai un talento sovrumano nel gioco del calcio, diventi più famoso di Gesù Cristo. Se sei anche nato in Sudamerica e ti porti dentro, e dietro, l’ ancestrale religiosità magica del tuo popolo, allora sei Gesù Cristo. Però tu sai chi sei. Lo sai, di non poter essere all’altezza di una cosa così enorme, che non è vincere il Mondiale di calcio con la tua Argentina, no: quello lo sai fare e lo puoi fare, perchè si trova dentro la tua zona di comfort. Sai anche di essere, spesso, capace di orribili bassezze, che ti rendono tragicamente umano e profondamente attrattivo per la letteratura, anche quella nobile, che intinge volentieri la penna nelle debolezze e nelle fragilità della superstar. Tu però intanto, ci sono giorni in cui ti abbruttisci fino a farti schifo. I buchi della tua anima li riempi con le opere d’arte che ti vengono facili, perchè hai un superpotere. Quando non lo puoi usare, devi coprire il buco con qualcos’altro.

Lui lo ha riempito con la cocaina. Credo abbia fatto del male prima di tutto a se stesso. Del resto non ha voluto essere un modello per nessuno, anche se il mondo lo ha innalzato al rango di semidio. E come spesso accade a questi semidei loro malgrado, ha tenuto il male per sè e per le persone cui voleva più bene, e al resto del mondo, al “pubblico”, ha donato quel bene, che nel suo caso è stata la bellezza. Non tanto la bellezza di un gesto atletico o tecnico, ché se si fosse fermato a questo sarebbe stato “solo” un grande campione. La bellezza di cui è stato capace ha molto più a che fare con l’arte che con lo sport. La differenza tra un grande gesto sportivo e un’opera d’arte sta nella sensazione di vertiginosa meraviglia che ti lascia addosso. Una sindrome di Stendhal, che lui stesso definiva “le sensazioni celesti date dalle arti”, al punto da perdere l’equilibrio mentre cammini, e per un istante rimanere preda di un capogiro mistico. E capita proprio a te, che nel resto dei tuoi giorni passi per essere un inguaribile, ateo, cinico materialista. Ecco, per me è questo l’oro di Diego.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
Altrove

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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ALTROVE

Ritira le tue labbra
Dalla spiaggia
Del mio sguardo
Uno di quelli
Al liquore
Che sai
Come granelli di sabbia
Muti nell’acqua
Bianca
Esangue
Eppure viva
Come mai
Viva è stata
Tra le rocce
Rosse
I massi sporgenti
I pini appesi ai fili
Le radici
Dell’avorio

Lasciami solo
Con i miei passi
I miei castelli
Nel refettorio
Del mio asilo
Sai che sono esule
Passami a trovare ogni tanto
Salutami con un gesto
Con un sorriso
E respira
Con la mia anima
All’unisono
Respira
Che io ti sento
Cosi vivo inaudito
Senza morire
Che io ti senta
Ti possa sentire
All’unisono

Respira

Spesa sexy a Detto Fatto:
come la Rai ha celebrato la Giornata contro la violenza sulle donne

Il canone lo paghiamo con la bolletta della luce. Così, per non rimanere al buio, siamo tutti abbonati alla Rai. Per decreto.
Che la Rai sia un servizio pubblico, non ci crede più nessuno. Ci siamo rassegnati (quelli che ancora lo accendono il televisore) a prendere quello che passa il convento. Che, tranne poche e rare eccezioni, è roba dozzinale, di seconda o terza mano, becchime e melassa. Pochissima intelligenza e zero fantasia. In quasi 70 anni di vita la Rai, grazie anche al corpo a corpo con i canali commerciali, invece di migliorare sembra peggiorata. (meglio togliere il sembra)..

A tutto questo ci siamo abituati da un pezzo. Eppure a volte succede che mamma Rai riesca ancora a stupirci. E a farci arrabbiare: parecchio.

Così, con un tempismo impressionante, capita che il 25 novembre, nella ricorrenza della Giornata Mondiale della lotta contro la violenza sulle donne (sappiamo dell’aumento impressionante dei femminicidi nel tempo del Covid) il popolare contenitore Detto Fatto su Rai 2, mandi in onda un lungo siparietto sulla spesa Sexy. Una “superpuntata” promette la conduttrice, dove siamo guidati (e guidate) da una modella in abiti super succinti e gambe al vento. I destinatari della lezioncina tacchi a spillo si suppone siano le moderne massaie italiane che vanno a fare la spesa al supermercato. Sottinteso: far la spesa è roba da donne, non da uomini.
La testimonial-istruttrice tacco 12 brandisce il carrello della spesa, sorride, ammicca, ancheggia, si avvicina allo scaffale, si esibisce in pose provocanti: “Ecco, fate così, non così”. Scelta tra il pubblico, un’allieva un po’ impacciata ripete con diligenza le mosse dell’insegnante, cerca di imparare come usare il corpo “per far girar la testa al maschio”.

Spesa sexy a Detto Fatto, si chiama proprio così. Mi hanno segnalato il video che sta girando con successo su Youtube e ho fatto fatica a crederci – chi ha voglia di indignarsi e arrabbiarsi lo trova [Qui]. Agghiacciante!  Per fortuna, sotto il video, fioccano i commenti che condannano il sessismo e l’esposizione della donna oggetto. Ma mi domando: possibile che nessuno ai piani alti intervenga per bloccare il programma? E perché Youtube e gli altri social non cancellano il video?
E mi rispondo, con tristezza: già, siamo in Italia, qui le donne son sempre mamme, mogli, amanti, massaie, belle fighe, femmine, angeli e puttane.

PRESTO DI MATTINA
In cammino per edificare la città dell’uomo

L’anno liturgico dispiega dentro l’anno civile, senza coincidere con esso né per l’inizio né nella fine, il cammino di un popolo che, di domenica in domenica, si raccoglie nell’ekklēsía, l’assemblea cristiana, convocata e radunata dalla Parola di Dio, per essere poi inviata a testimoniare quella Parola nella propria vita.

Riattualizzandolo nel presente, esso ripercorre lo stesso cammino di Gesù, il suo esodo verso la Pasqua generativa di operosa speranza e di corresponsabilità fruttuosa, con l’intento di edificare la città dell’uomo in assonanza con quella verso cui sono protesi lo sguardo e il cuore. È questo il senso profondo non solo dell’anno liturgico ma di ogni domenica, in cui siamo chiamati a partecipare al memoriale della Pasqua, lasciandoci orientare dalla forza dello Spirito del Risorto verso il compiersi dei giorni e la domenica senza tramonto. Al pari dei quarant’anni nel deserto, l’anno liturgico traccia dunque un cammino, percorrendo il quale ciascuno di noi riesce a conoscere ciò che ha nel cuore (Dt 8, 2), ma al tempo stesso gli è dato conoscere quello che Dio ha in serbo nel proprio cuore. Ricorda infatti Gregorio Magno: «Disce cor Dei in verbis Dei» («Impara il cuore di Dio nelle Parole di Dio» Lettera 31).

L’anno liturgico si è da poco concluso. Lo abbiamo lasciato alle spalle con la festa che celebra Il Pantocrator (colui che tiene tutto nelle proprie mani), figura tipica dell’arte bizantina che ben rappresenta Cristo, Re dell’universo, “tutto in tutti” (Col. 3,11). Il nuovo anno liturgico è così anticipato rispetto all’inizio dell’anno nuovo civile di quattro settimane, durante il quale siamo chiamati all’attesa. Come la nascita del sole è preceduta dall’aurora, così la nascita di Gesù è preannunciata, per i cristiani, dal tempo aurorale dell’Avvento che, sollevando a poco a poco il sudario della notte, disvela i significati nascosti.

Sotto questo profilo, la celebrazione del Cristo Re dell’universo è paragonabile ad un passante di valico, ad un confine, che trattiene e attira insieme, transito dal vecchio evo a un tempo nuovo, da una fine verso un nuovo inizio, perché ‒ come ci ricorda l’Apocalisse ‒ «Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”» (Ap 21,5). La novità, si badi, non scaturisce dal ciclo temporale, ma da un dispiegarsi lungo l’intero anno dagli eventi che hanno segnato la vita di Cristo, rivelando un rovesciamento di paradigma: «Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt 20,26). Siamo così chiamati a lasciarci istruire dalla logica del Vangelo e dalla vicenda storica di Gesù di Nazaret. A partire dallo stile del suo “regnare”, che in lui si esprime, non già come dominio, ma come servizio sino all’estremo della donazione della propria vita (Regnavit a ligno Deus): «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,1).

Il vangelo della scorsa domenica, l’ultima dell’anno appunto, riportava la parabola del giudizio universale. Più che descriverci l’evento inquietante del giudizio ultimo, spiegandoci come sarà, la parabola pone il cristiano di fronte a Cristo, qui ed ora, ricordandogli le sue responsabilità di ospitalità ed accoglienza verso gli altri, oggi. Un invito a vigilare, a scorgere quella regalità umile del Servo del Signore che riveste i panni degli “insignificanti”: uomini e donne del nostro tempo, nei quali è intriso, senza rendersi riconoscibile, il Cristo affamato, assetato, nudo, straniero, prigioniero, ammalato. Rivestito dell’umanità dei “marginali” e postosi nelle periferie geografiche, istituzionali, religiose, esistenziale del suo tempo, Egli è diventato un uomo di confine, lui stesso marginale, umiliato, estromesso dalla città. Ma così facendo, condividendo la sorte del più umile tra gli uomini, egli, per la sua compassione, ha attraversato la soglia della morte, ritrovando la propria vita perduta nelle mani del Padre. Non solo allora: ma di continuo anche oggi Egli ritorna ‒ prima della sua venuta definitiva ‒ nelle sembianze di uno sconosciuto, affinché la sua umanità presente e viva nella carne «dei suoi fratelli più piccoli» venga di nuovo accolta, sfamata, rivestita, visitata, ospitata. Così quel giorno, quando verrà nella sua gloria, mostrando il suo volto glorioso anche a coloro che non lo hanno riconosciuto e nondimeno hanno praticato il comandamento umanissimo del suo amore, egli li inviterà: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno» (Mt 25,34).

L’evangelista Matteo sviluppa il suo vangelo sullo sfondo di cinque grandi discorsi. Con essi Gesù maestro svela ai discepoli i misteri del Regno dei cieli. Nel primo discorso, quello in cui Gesù proclama le beatitudini sul monte, la sua prima parola è “Beati” (cap. 5). Nell’ultimo, con cui Gesù termina il suo insegnamento sul Regno, quello detto escatologico, sulle realtà ultime, la prima parola che il Figlio dell’uomo veniente nella sua gloria pronuncia è “Benedetti” (cap. 25). Matteo ha posto così la sua comunità alla scuola della Parola di Gesù, ricordandone l’efficacia generata nel praticarla. Chi non la pone a base della propria vita sarà come una casa senza fondamenta; mentre chi la vive, come una casa fondata sulla roccia, resisterà anche alla tempesta. Se con le beatitudini abbiamo la promessa e l’anticipo della prossimità di Dio al suo popolo ‒ mediante l’esserci di Gesù, con gli “insignificanti” i poveri, gli afflitti, i miti, i perseguitati, incontrati strada facendo ‒ nei “benedetti” si compie quella promessa che coinvolge tutti coloro che non si sono sottratti, anche solo in ragione della propria umanità, a farsi prossimo dell’altro. Promessa e compimento.

Un testo paolino può aiutarci a ripercorrere la parabola “contromano”, a cominciare cioè dalla fine. Scrive Paolo: «Nessuno di noi vive per se stesso». Chi vive per se stesso, praticando un’esistenza respingente ed escludente l’altro, si sentirà ripetere dal Figlio dell’uomo le sue stesse parole, quelle da lui pronunciate passando oltre, senza fermarsi davanti a chi lo supplicava: «Via, lontano da me». La parabola vuole pertanto risvegliare la coscienza di chi l’ascolta, il quale si sente giudicato dalle sue stesse parole, al fine di provocare un cambiamento di atteggiamento e una presa di responsabilità in ordine al fatto che ci si salva solo insieme: chi trattiene la vita per sè la perde, chi la perde la ritrova dice Gesù. Possibile che non comprendiamo? Se paragoniamo la vita all’aria, l’essere cristiani impone di seguire la dinamica della respirazione: per inspirare di nuovo devi espirare, lasciar andare, perdere l’aria che trattieni. All’apparenza sembra che si perda qualcosa di vitale come l’aria, ma è la sola condizione per poter vivere. Trattenendo il fiato, non c’è speranza di vita: si muore.

Le altre parole di Gesù, «Venite benedetti», ricalcano invece quelle pronunciate da coloro che si sono fatti ospitali verso i fratelli più piccoli e, sentendoli come una benedizione, hanno detto loro: “venite avanti, entrate, c’è posto anche per voi”. Una ospitalità che suscita stupore e meraviglia in coloro che sono abituati ad essere respinti ai margini; la stessa gioiosa meraviglia che pervaderà coloro che alla fine scopriranno di aver accolto in quei piccoli il Figlio dell’uomo.

L’apostolo Paolo fa seguire alle parole «nessuno vive per se stesso» queste altre: «Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14,8). L’appartenenza al Signore consiste nell’aver preso parte alla sua vita nascosta nei più piccoli, a prescindere dall’averlo incontrato e riconosciuto nella fede oppure no. Tale appartenenza si attua ogni volta che la nostra umanità prende la forma di una “pro-esistenza”, espressione coniata dal teologo Heinz Schürmann per indicare l’apertura della vita di Gesù agli altri, che nella morte ‒ con il suo affidarsi al Padre e il perdono rivolto ai suoi uccisori ‒ raggiunge il culmine della sua ampiezza. In questa sconfinatezza ed eccedenza di amore egli rivela l’unità profonda di destino dell’uomo e di Dio, dell’infinito nel finito: il Dio con noi, chiamato nel Natale, l’Emmanuele.

E da domani, inizio dell’Avvento, proveremo a cercarlo sul quel confine incipiente che non è limite ma porta ‒ un “vado” ‒ lo stesso dell’aurora che chiama al senso e ne è l’accesso, quello del suo originarsi e del suo compiersi come amore, praticando il quale si potranno ritrovare i nomi dei luoghi, dei volti e delle cose: il lontano vicino, l’estraneo fratello. Scrive Maria Zambrano: «L’Aurora appare distesa, seminata come un germe che irrompe nell’oscurità. Appare, a colui che la attende o la spia, innanzi tutto come una linea, come un confine che divide; linea che separa offrendo, creando insieme abisso e continuità. La linea dell’Aurora tanto attesa non è già l’Alba. L’alba comincia a fondersi a fuggire quasi, offrendo l’immagine lieve di tutto un regno, di qualcosa di ineccepibile; mentre l’Aurora, che ha risvegliato il germe dell’illimitato e dell’ardente, ci appare come un limite, un confine che ci arresta e ci chiama in modo ineludibile. L’apparizione dell’Aurora unifica i sentire trasformandoli in senso, reca il senso la sua origine e la sua finalità» (Dell’Aurora, 27).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]  

 

CONTRO VERSO
Filastrocca delle lacrime e dei naufragi

Poche volte mi sono discostata dalle storie di bambini e famiglie conosciuti in udienza oppure attraverso la cronaca. Questa è una di quelle volte.
Scritta dopo il naufragio del 18 aprile 2015 nel quale hanno perso la vita tra le 700 e le 7000 persone, la filastrocca resta attuale e il punto non è il numero di vite uccise.

Filastrocca delle lacrime e dei naufragi

Son gocce dentro al mare.
I sorsi più salati
li voglio dedicare
a quelli mai arrivati.

Al bimbo che cercava
un posto per studiare,
all’uomo che sognava
un luogo per campare.

Piango per 700,
per 7 o 7000
piango per ogni uomo
stipato in quella fila

di volti martoriati
di corpi ormai perduti
di sogni naufragati
di figli sconosciuti.

Piango per il più orrendo
di tutti i bastimenti,
un barcone tremendo
di compaesani deficienti

perché chi si separa
anche dalla pietà
mi sta rubando l’aria
e non lo voglio qua.

Portatemelo via
in Libia o in Tunisia,
costretto su un barcone
d’incerta destinazione.

In gita in mare aperto
o a spasso nel deserto
di giorno, e notte e giorno
col dubbio del ritorno.

Adesso chiedo scusa
dei versi esagerati
ma non mi sembra un merito
se è qui che siamo nati.

O forse ve l’ho detto
sommersa dal disagio
di constatare l’uomo
perduto nel naufragio.

Scartare la paura
affondare l’odio
Rifiutare la paura
bombardare l’odio
Fermare la paura
Navigare l’odio
Annichilire la paura
Trasformare l’odio

Chi perde la vita nel Mediterraneo fa naufragio, ma non è il solo

PAROLE A CAPO
Monica Zanon: “Ritorno” e altre poesie

“Una poesia ragionevole è lo stesso che dire una bestia ragionevole.”
(Giacomo Leopardi)

  

Ritorno

Hai ricominciato ad abitare i miei pensieri
con le chiavi in tasca
hai bussato alla mia porta,
l’uscio s’è aperto da solo
(non è mai stato chiuso)
in un chiacchiericcio di idee libere
al tuo ritorno.

Dalla silloge “Un tempo assente” – Le Mezzelane CE (Ancona, 2019)

 

In fondo alla radice dei tuoi occhi

Ti vengo a prendere con quel camper
coperto di foglie e nuvole:
dammi la mano e le paranoie.
In fondo alla radice dei tuoi sogni,
dove si nasconde la tigre,
là, nei tuoi occhi io ti vedo.

Dalla silloge “Nella mia selva sgomenta la tigre” – Le Mezzelane CE (Ancona, 2018)

 

Come foglia e albero

Non mi sono fermata per il timore
di perdere per strada quei pezzi
che, dentro me, s’erano rotti.
Come foglia d’autunno intrepida,
mi sono lanciata alla ricerca
dello sconosciuto che mi abita.
A tratti
sento l’aria umida
a tratti il nulla,
senza il calore e la linfa del mio albero.
Ma io sono quell’albero e
la mia corteccia è scavata già,
segnata dalle sconfitte e dalle rinascite.

Dalla silloge poetica fotografica “Difettosa” – YCP (2015)

 

Monica Zanon, in arte Moka (1982). Il Lago Maggiore è la chiave di lettura dei suoi umori. Durante gli studi tecnici ha incontrato la Poesia e grazie a lei ha trovato il suo modo di comunicare. La parola poetica è necessaria per comprendere se stessa e il mondo. Vita e Poesia sono inscindibili. Nel 2014 ha fondato l’Associazione Licenza Poetica, insieme ad alcuni amici. Crea e collabora all’organizzazione di eventi letterari. Ha diverse pubblicazioni all’attivo, sia personali che collettive. Cura il suo sito personale (www.mokaend.com) e la collana digitale di poesia de Il Babi Editore che uscirà nel 2021.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

NELL’ARIA C’E’ UN’ALTRA PANDEMIA:
L’indifferenza e l’isolamento socio-culturale

Ho letto con interesse su Ferraraitalia l’articolo di Francesco Monini  Biblioteche al tempo della pandemia”,  [Vedi qui] anche perché si tratta davvero di un problema, per così dire, all’ordine del giorno…
Proprio in questi mesi ,infatti, ci sono state a Ferrara diverse e importanti  manifestazioni  di tanti cittadini e cittadine nei diversi territori decentrati della nostra città, in occasione delle forti restrizioni di servizio o addirittura  ‘simil-chiusure’ delle biblioteche di quartiere, per difendere non solo il valore culturale di quello che si ritiene un bene pubblico, ma anche un vero e proprio patrimonio di esperienze e di attività socio culturali, educative e pedagogiche, che appartengono alla storia di tante persone e che per decenni hanno rappresentato un vero punto di riferimento della vita sociale del  territorio.

Il caso di Pistoia, che ritrovo citato nell’articolo di Francesco Monini, rappresenta davvero il valore che noi intendiamo quando parliamo di biblioteche e che vorremmo continuare ad offrire alla città: un esempio ci viene dalla direttrice delle Biblioteche e Archivi della città di Pistoia, Maria Stella Rasetti,  quando richiama un principio fondamentale nella gestione di questo bene pubblico, perché identifica la funzione della  biblioteca, come “Cittadella della democrazia”, ad un modo di stare insieme che crea comunità nella condivisione della conversazione, dello scambio di  informazioni, parole, idee e pensieri. Davvero un alto segno di cultura sociale e politica della condivisione di un bene! Ho avuto modo di vedere e seguire direttamente anche i servizi educativi rivolti a bambini e famiglie di Pistoia, che sono in rete col territorio come le biblioteche e verificare quanto siano valorizzate e davvero importanti per la vita della  città.

Se devo dire la verità, mi commuove  il fatto che altrove si continui a pensare, e si stia lavorando in rete, per mantenere un importante e composito modello di formazione socioculturale della comunità anche attraverso  la presenza delle biblioteche territoriali. Un modello che passa senza dubbio attraverso il lavoro dei bibliotecari, che gestiscono professionalmente tante attività insieme a tanti volontari. In questi luoghi ci si incontra e si costruiscono delle relazioni, bambini e adolescenti possono avvicinarsi a quel fascino che sta dentro le parole di un libro narrato, drammatizzato, che poi va letto con curiosità, o sulle riflessioni che tanti adulti anche anziani, possono ritrovare, facendosi  consigliare o scambiandosi esperienze e memorie lontane. L’avvicinamento alla lettura, all’arte, all’ascolto va fatta anche con l’utilizzo di strumentazione multimediale, così come la presentazione di spettacoli, o altri tipi di manifestazioni, sempre con la collaborazione delle scuole, delle Istituzioni e del territorio per “mantenere forti i legami”.

Anche nella nostra città c’è tutta una storia di esperienze analoghe, che hanno creato una bella rete nei diversi territori, perché, quasi sempre, le biblioteche decentrate hanno rappresentato quasi gli unici punti di riferimento per la vita della comunità.
Da un po’ di tempo però a Ferrara abbiamo assistito ad una forte riduzione dei servizi offerti dalle biblioteche, per la mancata sostituzione del personale che è andato in pensione; l’unico provvedimento del Comune essenzialmente è stato quello della restrizione dei tempi di apertura  al limite della reale possibilità per gli utenti di fruire del servizio per mesi interi, con la conseguente impossibilità di costrure una seria programmazione delle diverse attività rivolte alle scuole, alle famiglie, all’intera cittadinanza.

Ora poi, con le restrizioni dovute alla pandemia, che hanno condotto ad una chiusura completa dei servizi le persone sono davvero disorientate. E’ vero che esistono disposizioni ministeriali e regionali, ma è preoccupante che ciò avvenga senza che vi sia stata alcuna proposta alternativa che tenesse conto del profondo disagio che si sarebbe creato per  la comunità, soprattutto per un servizio culturale essenziale come quello di una possibile lettura indicata dall’amico bibliotecario in un momento di isolamento pressochè completo. Sappiamo che in tante altre realtà c’è, per esempio, la possibilità di prenotare libri e di avere la consegna a domicilio, o che le scuole dell’infanzia, e non solo, possono a gruppi ancora operare in biblioteca, fare esperienze attive.

Nel nostro territorio fortissime sono state le limitazioni di questi mesi; penso in particolare alla storica Biblioteca Rodari, sita nel popoloso quartiere di Via Bologna, rispetto alla quale l’Amministrazione Comunale ha provveduto già molti mesi fa a deliberare un piano, senza minimamente preoccuparsi di consultare i cittadini, né tantomeno di approfondirne l’organizzazione in occasione della situazione pandemica. Ciò che sconcerta la gente è il fatto di non venire coinvolta, di non contare come comunità e la lettura che se ne fa è quella di una profonda noncuranza della vita di cittadini da parte  dell’Amministrazione. Un segno molto diverso sarebbe stato probabilmente quello di essere coinvolti nelle decisioni rispetto ad un servizio loro offerto da decenni, almeno per conoscere e poter discutere eventuali ulteriori soluzioni, che si badi, anche altre città hanno adottato.

Il fatto di “mantenere legami” anche attraverso le biblioteche, in situazioni come quelle che stiamo vivendo, ha infatti un significato profondo, perché l’assenza di ascolto, il poco spazio alla parola dei bambini e dei ragazzi, in particolare, provoca distanza emotiva, isolamento.
Ritengo che la responsabilità educativa abbia radici in una realtà politica e sociale che accoglie su di sé soprattutto la difesa dei diritti di tutti i minori, sostituendo alla “grammatica dei bisogni”, che riconduce chi amministra all’unica voce dei costi dei servizi, anche la “grammatica dei diritti”, come ci ricorda la Convenzione Internazionale dei diritti dell’infanzia celebrata proprio in questi giorni.

Il valore culturale e politico di molte scelte coraggiose fatte dai Comuni che hanno attivato comunque servizi di “vicinanza” anche attraverso le biblioteche, ha significato in fondo misurarsi con la realtà che ci circonda, porre attenzione a prevenire nuove povertà e nuove disuguaglianze, continuando ad aiutare soprattutto i minori, a ricercare il significato di ciò che sta accadendo.
Credo quindi che l’Amministrazione dovrebbe tener conto che le biblioteche non sono un’appendice opzionale di un servizio da gestire solo sul piano gestionale e contabile, ma rappresentano una delle possibili sfide alla mediocrità e ai disvalori di questo tempo, che ha già dimostrato, purtroppo di offrire incertezza e isolamento socio culturale.

DIARIO IN PUBBLICO
Sui rimedi alle tremende (e istruttive) volgarità televisive

Mentre con estrema cura mi leggo la vagonata di note che illustrano il libro di Gigliola Fragnito, La Sanseverina, ripasso il dialogo che intreccerò lunedì sera al Libraccio con Francesca Boari sul suo romanzo Animula blandula poi, in sosta, comincio la ricerca di cosa vedere in tv.
Ritrovo un bellissimo film Lettere da Berlino che già mi aveva commosso; ma purtroppo a un’ora assai presta era finito. Così ho deciso di vedermi la finale di un furoreggiante programma di esibizioni danzanti, a cui partecipavano nomi noti e un poco imbarazzanti, quali quelli di una Mussolini e di un Peron (quest’ultimo non parente con il famoso statista), o anche di un Della Gherardesca. Basito, non tanto per le performances, quanto per il livello, a cui davano un impulso fondamentale pubblico in sala, commentatori, giudici, conduttrice e votazione via social.
Riproporre i commenti di vincitori e vinti farebbe la gioia di qualsiasi analista della lingua e del comportamento, ma ciò che mi lasciava a bocca aperta erano le decorazioni tatuate di molti partecipanti – alcune in testa -, i costumi, i vestiti, le acconciature e…baci, baci, baci.
Il giorno dopo una signora imponente, signora che tutti, lei per prima, si ostinano a chiamare ‘zia’ (si vede rivolti ai non conoscitori di cosa quel termine significasse qualche decennio fa), invita tra singultanti interiezioni a base di ‘amore’ e ‘tesoro’ a intervistare i giudici della gara danzante e i vincitori, tra cui una celebre parlamentare dal nome ancor più sfolgorante, che esibisce parentele illustri non ultima quella con la più famosa attrice italiana. Le cose precipitano allorché si richiede un giudizio, una presa di posizione, un commento che fosse almeno conseguente allo show. Solo una tra il gruppo dei giudici, dal nome un po’ selvatico, osa raccontare parte della verità che riversa sul pubblico indubbiamente italiota meriti e demeriti delle scelte.

Ma, per tornare al mio ruolo di radical chic, penso con una certa preoccupazione a quale fine sia destinata la politica, se tra gli illustri che compongono il parlamento nei suoi due rami troviamo i più assidui frequentatori di questi spettacoli, con e senza mascherine.

Mi domandano assai preoccupati gli amici per le scelte che ho imboccato nello scrivere questi ‘pezzulli’, se il cervello mi è andato in fumo o se anche io, nel bene e nel male, aspiro a frequentare ‘in minore’ questi personaggi. Un tempo non facevo parte forse delle accademie? Non mi ero cimentato in quasi trecento lavori, non tutti inutili o disprezzabili? Non avevo raggiunto, anche se in campi non del tutto miei, una certa rispettabilità? Rispondo con altrettanta franchezza che a non conoscere le scelte degli italioti poi si cade nelle frane politiche e si vive questo tempo angoscioso e angosciato come un remedium proprio dei tempi inutili.

Che cosa fanno allora tutti ordinati per benino i miei dodicimila ‘bambini-libri’, che invadono la mia casa, la rendono viva e ora esplodono in un sonoro sbadiglio. Da soli. Senza rapporto con gli altri. Da Firenze mi arrivano notizie allucinanti su come ottenere libri in prestito dalle più famose biblioteche a cominciare dalla Nazionale. Nel nostro piccolo non si può frequentare il Centro studi bassaniani di Casa Minerbi perché ambienti, libri e oggetti non sono sanitizzati. Ma come? E’ chiuso da quasi tre mesi! Cosa vuoi ‘sanitizzare’?

Per trovar conforto lento pede mi dirigo al luogo del piacere estremo: la libreria. E’ sabato. La trovo chiusa. Disperato per dover rimandare gli acquisti (la nuova edizione del Dizionario degli dèi di Mircea Eliade, dello stesso quello sui luoghi sacri,  l’ultimo volume di Vaccaneo sulla Torino pavesiana) in quanto molti sanno cosa sia per un frequentatore di librerie dover rimandare l’acquisto! Telefono alla direttrice del Libraccio di Ferrara che con voce funerea mi spiega che il  Bonaccini nostro governatore ha emesso per l’Emilia–Romagna una ingiunzione alle librerie di più di 250 metri di restare chiuse il sabato e la domenica. Se non avessi più radicato dell’amore dei libri la scelta politica mi rifiuterei di votarlo, per questa enorme c….ta. Ecco a cosa ci riduce il coronavirus.

Ma oggi lunedì mi rifaccio. Usciamo e ci facciamo depositare in piazza (come si diceva una volta) dal taxi. Fendiamo le folle del mercato e ci dirigiamo verso un celebre negozio che vende cachemire, poi nella (vuota) libreria e giù giù per la via delle compere, dove i negozi offrono e ri-offrono a compratori latitanti la loro merce pregiata ed infine ennesimo taxi per il ritorno nella deserta e soleggiata via dove, incurante del silenzio e del sole, occhieggiano le finestre della mia casa.

E’ e rimarrà indubitabile: il coronavirus nel bene e nel male ci ha abituato e ulteriormente ci abituerà a una vita diversa da quella che per lunghissimi decenni aveva formato il senso della nostra vita.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Le cose da salvare di Ilaria Rossetti

Salvare cose, memoria, segreti, se stessi. Frana un ponte, il Ponte, e Gabriele Maestrale non se ne va da quel che rimane di un palazzo pericolante e di una vita ormai blindata e sola. Le cose da salvare (edizioni Neri Pozza) di Ilaria Rossetti arriva là dove non si vede quando un uomo sceglie di lasciare il mondo fuori dalla porta e dall’esistenza. Ma il mondo bussa, ha la voce e la determinazione di una giovane giornalista, Petra, che vuole capire perché quell’uomo non ce la faccia a uscire, a salvarsi. Il moncone del ponte è la vita mozzata anche di chi è sopravvissuto, come Gabriele, che non va oltre a quello che gli è rimasto: casa e vita in bilico.
Cosa avranno salvato gli altri abitanti del palazzo scappando di casa quando il ponte è crollato? Cosa si sacrifica alla salvezza fra tutto ciò che ci è appartenuto fino a un minuto prima? Da salvare, nelle pagine di questo libro, ci sono anche i legami che né il ponte né gli anni passati in mezzo ai matrimoni finiti e ai lutti, hanno buttato giù. Da salvare c’è la volontà della mamma di Petra che progetta una ricostruzione della vita di chi è rimasto: un testamento d’amore alla sua famiglia, tutta da rifare, come il ponte. Il crollo che si è inghiottito persone e ha spezzato la città, diventa occasione di contatto e prossimità: fra Petra e Gabriele, fra Gabriele e due ospiti nascoste nel palazzo, fra il padre di Petra e Vanda che custodisce un segreto per sempre. Vecchi e nuovi legami sono la vera ricostruzione dentro le vite interrotte, ma che si ritrovano come se si fossero sempre aspettate. Tra l’amore che non se ne è mai andato e il tempo diventato vecchiaia, ci sta il riscoprirsi: dopo il crollo, dopo i lutti arriva il momento di non farsi più da parte perché “si salva quello che vuole essere salvato”.
Ilaria Rosetti presenterà Le cose da salvare venerdì 27 novembre alle 21 in diretta sulla pagina di Ferraraitalia e del Microfestival delle storie.
A dialogare con l’autrice Riccarda Dalbuoni.

COSA C’E’ DENTRO UN SOgNO?
Un esercizio per scaldare la mente

La mattina, prima di cominciare la giornata scolastica, nella classe prima che sto frequentando facciamo il “riscalda… mente”; come gli atleti che prima di fare una gara fanno il riscaldamento dei muscoli, noi proviamo a riscaldare i pensieri.
Può essere una conversazione, un gioco, una storia da ascoltare o da raccontare.
Qualche giorno fa un bambino ha voluto iniziare il “riscalda…mente” raccontando un suo sogno in cui c’erano tutti. Dopo averlo ascoltato, ho chiesto ai bambini e alle bambine che cos’è un sogno.

Queste le loro risposte:

  • Il sogno è una bella cosa che si immagina quando si dorme.
  • È una cosa senza forma.
  • È una cosa che vorresti fare o un posto dove vorresti andare.
  • È una cosa che vivi nella mente.
  • È qualcosa che ti immagini nella testa.
  • Può essere bello o brutto ma se tu stai facendo un sogno brutto, basta che giri il cuscino e dopo diventa bello).
  • È quando dormi che pensi a una cosa ma non la puoi fare davvero.
  • Quando immagini una cosa bella ma dopo non la puoi fare.
  • È come se tu, nella tua mente, pensi a qualcosa.
  • È un viaggio nella tua mente.
  • È come se nella tua mente ti porti dei pensieri.
  • È una cosa che ti viene nella testa di notte e sembra vera.
  • Il sogno è quando ti immagini una cosa e poi la fai dentro la notte.
  • Un sogno te lo immagini e fai finta di esserci dentro.
  • I sogni brutti si chiamano “incubi”; i sogni belli si chiamano “gioia”.

Nel frattempo, avevo scritto alla lavagna la parola “SOGNO” e qualcuno si è accorto subito che dentro un “SOGNO” ci sono le lettere che formano la parola “SONO”, che loro sanno leggere. Allora ho colorato la G di rosso e ho detto: “È vero ed è una bellissima osservazione. Sembra che per fare un sogno ci sia bisogno di aggiungere una G in mezzo a SONO. La G di cosa?

Qualcuno ha detto la G di Gatto, un altro la G di Gelato; poi qualcuno ha aggiunto la G di Grande.
Ho preso la palla al balzo e ho chiesto: “Qualcuno di voi ha un grande sogno?” Tutte le mani si sono alzate senza esitazione.

Queste le loro risposte:

  • Io vorrei tuffarmi in una cascata di cioccolato.
  • Io vorrei volare su un unicorno.
  • Io vorrei nuotare in una piscina di caramelle.
  • Io vorrei avere tantissimi lego da coprire il mondo.
  • Io vorrei svegliarmi la mattina di Natale col papà e trovare un regalo.
  • Io vorrei cavalcare un cavallo.
  • Io vorrei incontrare i miei amici.
  • Io vorrei tuffarmi da una cascata.
  • Io vorrei essere un falco.
  • Io vorrei salire su un drago.
  • Io vorrei essere un cavaliere.
  • Io vorrei incontrare un’amica.
  • Io vorrei nuotare coi delfini.
  • Io vorrei volare su un pappagallo gigante.
  • Io vorrei volare.
  • Io vorrei essere Spider Man.
  • Io vorrei conoscere Luì e Sofì di “Me contro Te”.
  • Io vorrei nuotare con uno squalo.
  • Io vorrei avere un pony
  • Io vorrei leggere tanti libri.
  • Io vorrei essere un pennarello per colorare il mondo.

Ho chiesto: “Secondo voi, quello che si immagina nei sogni può realizzarsi, può diventare una cosa vera?”
La classe si è divisa: sì e no erano, più o meno, lo stesso numero.
Allora ho scelto qualcuno dei loro sogni e ho chiesto: “Un bambino può diventare un falco?”
Tutti hanno risposto di no.
Ancora: “Si può cavalcare un cavallo?”
La maggioranza ha risposto di sì e qualcuno di no. I sostenitori del sì ci hanno messo poco a far capire che si può andare a cavalcare perché una loro compagna ci va.
Ho fatto un ultimo esempio: “Si può nuotare in una piscina di caramelle?”
La classe si è divisa fra i no e i sì.

Allora ho chiesto che le due parti designassero un rappresentante del no ed uno del sì per esprimere le ragioni dei “realisti” e dei “sognatori”.
Chi ha sostenuto che non si può nuotare in una piscina di caramelle ha detto: “Non si può nuotare in una piscina di caramelle perché se mettiamo le caramelle in una piscina poi si sciolgono”.
La logica sembrava inattaccabile ma il rappresentante del sì ha replicato: “Bisogna prima togliere l’acqua dalla piscina e dopo riempirla di caramelle… Così si può nuotare”.

Pur ascoltando con attenzione i realisti, parteggiavo segretamente per i sognatori quindi ho nascosto la soddisfazione e ho concluso dicendo loro che ci sono sogni che sembrano impossibili e sogni che sembrano possibili. Entrambi rimarranno sogni se non facciamo niente per realizzarli. Sta a noi far diventare possibile l’impossibile e far diventare il sogno realtà, sta a noi cominciare a cambiare le cose nel nostro piccolo, a partire dal nostro IO… anche a partire da una scritta alla lavagna che poi tutti scriviamo sul quaderno, maestro compreso: “IO SONO. IO SOGNO”.

Comunque la pensiate, IO SOGNO perché SONO ma, allo stesso tempo, IO SONO perché SOGNO.

Melania

Melania Trump: l’avevamo lasciata preda dei commenti del gossip, del pour parler della cronaca più disimpegnata, protagonista di apparizioni e look che non potevano sfuggire all’attenzione dei media. Abbiamo seguito le polemiche e le interpretazioni più fantasiose su quel parka indossato in occasione della visita alla struttura Upbring New Hope Children’s Center a Mc Allen in Texas, a ridosso del discusso confine tra USA e Messico, con quella appariscente scritta sulla schiena “I really don’t care, do u?”  (“A me non importa davvero, e a te?”). L’abbiamo criticata di recente sulle pagine di ogni magazine, ripresa mentre in Florida si recava al voto in un esclusivo abito di Gucci e la rara borsa Kelly Toile di Hermés, un outfit complessivo da 20.000 dollari sonanti. Una donna che ci aveva per un attimo fatti sognare quando, all’alba della vittoria presidenziale del marito Donald nel 2016, aveva dichiarato pubblicamente “I don’t always agree with his way of saying things” – Non concordo sempre con il suo modo di dire le cose – promettendo presenza, incisività e determinazione a fianco di chi era appena diventato uno dei potenti al mondo.
E i segnali di quel suo dissociarsi lo si è intravisto in numerose occasioni, rifiutando di prendere posto alla Casa Bianca per i primi cinque mesi del mandato, trascorsi a New York con il figlio Barron, sfilando visibilmente e in più occasioni la mano da quella del marito, nelle visite ufficiali e negli spostamenti, assumendo una mimica espressiva più che eloquente nei momenti pubblici significativi e cruciali, che non è sicuramente sfuggita ad occhio attento.

Nella realtà dei fatti, la sua partecipazione alla vita politica del tycoon non è stata così sollecita e di spessore: Melania Trump forse non ha mai voluto fino in fondo il ruolo di first lady che le spettava. E’ scivolata nella storia degli Stati Uniti d’America, con il suo elegante e inconfondibile passo felpato, lo sguardo felino che tutto coglie senza scomporsi, senza concedersi, se non a piccole parentesi indispensabili, a telecamere e media. Statuaria icona di bellezza e stile, eredità dei suoi trascorsi di modella sulle passerelle di Milano e di molte altre capitali della moda, si è sempre posta con discrezione a fianco del marito Donald, a volte quasi restia o imbarazzata, ricordando quello che dev’essere stata nel passato: una bella e intelligente ragazza di Novo Mesto, cittadina della Slovenia Sudorientale, padre rappresentante di auto e madre disegnatrice di cartamodelli per le creazioni di moda, la vita in condominio dopo il trasferimento con la famiglia a Sevnica, studi di design e architettura a Lubiana mai portati a termine, a 16 anni già modella e a 18 il suo primo contratto importante in tasca.
Una vita in crescendo, fino a diventare la 45^ first lady americana. In un’intervista del New York Times del 2016, sul ruolo che avrebbe assunto nel caso di vittoria del marito, rispose: “Sarei molto tradizionale, come Betty Ford o Jackie Kennedy. Lo sosterrei.”
Forse il peso del ruolo, la predominanza della figura presidenziale, le dinamiche familiari e i rispettivi incarichi rappresentativi non hanno facilitato fino in fondo le intenzioni, rendendo il mandato una vera prova di forza per lei, affrontata con il sorriso, la discrezione, a volte le lacrime. Con la sconfitta di Donald Trump, ha luogo l’ultimo atto di quello che la CNN ha definito lo ‘psicodramma’ alla Casa Bianca, prima che il sipario cali definitivamente su questo mandato: il Presidente uscente continua a rifiutare ogni contatto con tutti i capi di Stato e le sue fantasmagoriche battaglie legali per dimostrare brogli e irregolarità si protrarranno ancora per poco.
In quanto a Melania, le cronache riferiscono che si sta alacremente occupando degli addobbi natalizi alla White House, fedele alla decisione di rimanere in silenzio. E in questo caso il silenzio parla.

 

I FINZI-CONTINI E L’ANTIFASCISMO A FERRARA
Storia di una famiglia

È morto in questi giorni Leo Contini (1939-2020). Qui di seguito il cugino Piero Cividalli ricorda, in un testo inedito, alcuni aspetti salienti della famiglia Finzi-Contini. Come vedrete, ricorrono cognomi familiari per chi conosce Ferrara, da quello mitico dei Finzi-Contini, a Lampronti, Mayer, Hanau, nomi che si intrecciano con la storia delle persecuzioni razziali, il regime fascista, l’eccidio del Castello, l’esilio, il campo di concentramento, la morte e ovviamente con l’opera di Giorgio Bassani, il quale utilizza quel nome, Finzi-Contini, per creare una storia che si ispira  molto liberamente a quella di un’altra famiglia ebrea ferrarese e con una forte dose di invenzione.
A me preme soprattutto ricordare che Leo Contini, insieme al fratello Bruno, curò i diari del padre pubblicati da Giuntina nel 2012: Nino Contini (1906-1944). Quel ragazzo in gamba di nostro padre, con scritti di Alessandra Minerbi, Gloria Chianese e Clotilde Pontecorvo. I diari di Nino Contini meritano di essere letti e riletti oggi per la profonda umanità, perché raccontano la vita, i dolori e gli affetti di una persona alle prese con scelte difficili, in un tempo che è bene ricordare per quello che fu, per la scia di dolore, discriminazione e morte che si lasciò dietro.
Laureato in legge, avvocato giovanissimo presso lo studio Ravenna poi in proprio, alpinista, pilota provetto, padre e marito devoto, Nino negli anni venti si diletta di poesia ed è un lettore vorace. I genitori gestiscono un emporio nella Piazza della Cattedrale, mentre lo zio Ciro Contini firma il piano regolatore di Ferrara nel 1926, insomma una famiglia integrata, benestante e aperta, delle professioni, che vive appena fuori dalle mura del ghetto, ma allo stesso tempo endogamica e osservante della propria religione. Questo mondo si incrina negli anni trenta, quando Nino ed altri si impegnano ad accogliere gli ebrei tedeschi in fuga dalla Germania nazista (arrivano una dozzina di giovani). Quell’esperienza di accoglienza lo porta ad avvicinarsi al movimento sionista laico e socialista HeHalutz (Il Pioniere) e man mano a maturare una chiara scelta antifascista. La polizia del regime definisce Nino il “noto ebreo antifascista Contini avvocato Nino” (1° aprile 1939) e lo fa pedinare e sorvegliare da “un abile sottoufficiale”. Radiato dall’ordine degli avvocati, lui “individuo dotato … di una spiccata avversione per la politica dei Governi Autoritari” (Prefettura di Ferrara, 1940), rifiuta di iscriversi all’albo speciale degli avvocati ebrei. La situazione precipita nel 1940, quando viene arrestato e poi internato. Quella che sarebbe stata la vita di un borghese come tanti altri assume un valore emblematico e diventa un dramma umano.

I diari coprono un periodo di cinque anni, dal 1939 al 1944, iniziati quando Nino è ancora a Ferrara e continuati quando si ritrova internato a Urbisaglia, e poi alle Tremiti e a Pizzoferrato.
In salvo ma gravemente malato, muore a 37 anni a Napoli. I testi assolutamente privati e umani come pochi altri contengono momenti di introspezione, scoraggiamento e dialogo serrato con la famiglia insieme a riflessioni sulle vicende politiche e sociali del tempo. Le pagine scritte nella sua città natale ci restituiscono il clima di isolamento in cui si trovano gli ebrei, un ghetto sociale costruito dal fascismo almeno due anni prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali, come ricorda Alessandra Minerbi nel suo saggio introduttivo.
Nino annota i piccoli gesti di discriminazione quotidiana, come ad esempio quello di un tal Navarra che Nino incontra e saluta e il quale, invece, finge di non conoscerlo. “Tanto meglio,” scrive Contini. Nel giugno del 1941, Nino viene trasferito a Pizzoferrato, vicino a Chieti, dove lo raggiunge la famiglia e vive alcuni momenti di serenità. Mentre lo zio e il cugino, Vittorio e Mario Hanau, vengono assassinati nell’eccidio del Castello Estense, Nino riesce a raggiungere con la famiglia Napoli e si getta nell’impegno politico, militando nelle file del Partito d’Azione nell’Italia liberata, in stretta collaborazione con Ugo La Malfa. “Era felice”, scrive il fratello che lo incontra pochi giorni prima della morte nel 1944.

Nel 2000, in occasione della giornata della memoria, il Comune di Pizzoferrato ha dedicato una strada a Nino Contini. La targa recita:
Via Nino Contini
1906-1944
Internato
Antifascita Ebreo

Poche ed efficaci parole. Propongo che la città di Ferrara non sia da meno. Dedichi una strada a questo concittadino, antifascita e vittima della odiosa discriminazione religiosa introdotta dal regime liberticida di Benito Mussolini e di Italo Balbo. Un ferrarese quest’ultimo a cui, ça va sans dire, dedicherei non una strada ma, per usare le parole di Piero Calamandrei, un monumento costruito “soltanto col silenzio dei torturati, più duro d’ogni macigno, soltanto con la roccia di questo patto, giurato fra uomini liberi, che volontari si adunarono, per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo.”

Piero Cividali
STORIA DELLA FAMIGLIA CONTINI E DI LEO, UN CUGINO E CARISSIMO AMICO

Talvolta, mia nonna Gilda Contini Cividalli, mi raccontava delle origini della sua famiglia. Era nata a Ferrara  nella seconda metà dell’ottocento e in questa città aveva passato la sua vita di bambina e di giovane donna. Ferrara contava allora una fiorente comunità ebraica e suo padre, Beniamino Finzi Contini, possedeva un importante emporio vicino al Duomo della città.
I Finzi Contini stavano bene. Beniamino aveva sposato una giovane che gli aveva dato una figlia, Emilia, ma ben presto rimase vedovo. Si  risposò e dal secondo matrimonio nacquero tre figli, mia nonna Gilda, Nello e Ciro. Ma anni prima il vero cognome della famiglia era soltanto Finzi. Pare però che questi Finzi fossero tutti di bellissimo aspetto  e quando passavano per la strada questi giovani aitanti, la gente, ammirata, sussurrava: “avete visto questi bei contini?”. In breve tempo questo nomignolo divenne parte del loro nome e divennero Finzi- Contini. Ma a un certo momento, il mio bisnonno Beniamino, non so per quale ragione, abolì il Finzi e diventò Contini. I suoi figli, nascendo, ebbero soltanto il cognome Contini.
Un parente di cui non conosco il nome, sposò una contessa Bonacossi e prese il nome di Contini Bonacossi. Così inizio la storia della famiglia dei conti Contini – Bonacossi. Mia nonna, dopo sposata, venne ad abitare a Firenze. Suo fratello Ciro, valente architetto, andò a Roma ma con le leggi razziali emigrò in America con i due figli. L’altro fratello di mia nonna, Nello, era rimasto a Ferrara , si era sposato e aveva quattro figli maschi. Purtroppo morì giovane, subito dopo la prima guerra mondiale. Bruno, uno dei suoi figli, lo seguì nella tomba ancora giovanissimo.
Rimasero altri tre figli di Nello Contini. Uno di questi, Nino, sposò Laura Lampronti, pianista. Ma con le leggi razziali, essendo un noto antifascista ebreo, fu internato in un piccolo borgo vicino a Chieti.Là crebbero i suoi due figli Bruno e Leo. Recentemente questo piccolo paese ha voluto onorare la memoria di Nino Contini mettendo a suo nome una delle strade.

Verso la fine della seconda guerra mondiale, con l’avanzare delle truppe alleate, Nino e la sua famiglia riuscirono a passare le linee  e, liberati, si stabilirono a Napoli. Ma Nino si ammalò e in breve tempo morì. Dopo la guerra Laura si stabilì a Roma con i due bambini ma pochi anni dopo morì anche lei. Leo fu accolto a Milano dai nonni Lampronti, e là finì i suoi studi di ingegneria nucleare. Conobbe Marcella Mayer e la sposò.
Pareva che tutto andasse bene invece, poco dopo la nascita, il loro primo bambino fu trovato morto nella culla. Marcella, era incinta del suo secondo figlio e, traumatizzata, perse anche quello.  Dopo nacquero altri tre figli che oggi vivono tutti in Israel. Leo, fervente sionista e forse scontento della sua vita in Italia, nei primi anni 70 fece l’Alià e si stabilì a Tel-Aviv.
Poco più di un anno fa, ci fu nel cimitero ebraico di Ferrara una bella riunione dei discendenti di Beniamino Finzi Contini. Credo che fossimo una cinquantina venuti da tutte le parti del mondo. Molti neanche li conoscevo. Ma fu bello lo stesso e Leo, che stava ancora abbastanza bene, volle leggere i nomi dei discendenti di Beniamino Contini oramai defunti anche loro. Il suo  matrimonio con Marcella era in crisi da molti anni e si erano separati.
Anni dopo trovò una nuova compagna e si risposò. Da anni aveva rinunciato a lavorare nel campo dei suoi studi universitari e si era dedicato alla pittura. Aveva pochi mezzi e per mantenersi faceva lavoretti saltuari che poco lo soddisfacevano. Ma ebbe sempre il coraggio di essere se stesso, senza tentennamenti. È proprio in questi anni per lui non facili che divenimmo sempre più amici. Siccome abitava a Giaffa non potevamo incontrarci spesso. Ma le nostre chiacchierate per telefono non finivano mai e la nostra amicizia si rinforzò sempre più. Caro Leo, la sua vitalità mi mancherà molto e il suo coraggio nelle avversità mi resterà di esempio per sempre.
Piero Cividalli

Nota: La redazione di FerraraItalia è grata a Piero Cividalli per aver acconsentito alla pubblicazione del suo testo. Piero (n.1926), a sua volta vittima delle leggi razziali, raggiunse con la famiglia la Palestina nel 1939 e si arruolò nella Brigata Ebraica dell’Esercito britannico a 18 anni. Rimase in servizio per due anni. Pittore ed insegnante di storia dell’arte in pensione, vive a Tel Aviv.

Cover: Comune di Pizzoferrato (Chieti), la via intestata a Nino Contini nell’anno 2000

PER CERTI VERSI
Il deserto che abbiamo attraversato

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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IL DESERTO CHE ABBIAMO ATTRAVERSATO

Ti ricordi
Il deserto che abbiamo attraversato
Il mare di silenzio
Sulle gobbe
Della luce
Striata
Una tigre
Maramalda
Assente
Tu ricordi
Il muro di nebbia
Chiaro
Come se non ci fosse
Altro che niente
E poi il rosa
Che si posa
Sulle foglie
Crolla il muro
Ceruleo mondo
Aperto
Ai tuoi colori
Al tuo fascino etrusco
Il nero
Una specie di giallo
Indefinibile
Il mistero
Della vita e della morte
Che cambiano sempre
Come la nostra luce
Tornata
Corrente

PRESTO DI MATTINA
La seconda voce dell’anima

«Se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore». È un versetto del salmo 95,8: un ‘vocale’ convertito in testo nelle pagine del salterio, che ridiventa suono nella proclamazione a voce alta. Fa parte di una salmodia liturgica, del canto che, quale grande invitatorio alla preghiera, apre il culto giudaico e cristiano. Ma questo versetto rispecchia pure l’esperienza che ognuno sperimenta ogni volta che legge un libro. Dalle pagine aperte risuona infatti l’invito non già alla lettura ma all’ascolto, a seguire la voce che prende forma e si traduce in un corpo, nell’espressione di un viso. Lo sguardo di un volto che attende anche solo una risposta silenziosa. È un volto, segnato da sillabe e vocali, che viene risagomato ogni volta, di nuovo, come sequenze cinematografiche, sotto gli occhi di chi legge.

Ci si stupisce sempre come la prima volta, aprendo un libro, che basti così poco, poco più di un niente per dire e udire cose nuove. Una manciata di lettere combinate ai suoni e tenute insieme da noi, fin da piccoli, chini sul sillabario – «l’alfabeto il modello d’ogni combinatoria d’unità minime» direbbe Italo Calvino – poi seguendo la rubrica dei nomi nuovi, per imparare il mistero della vita che porti dentro e si congiunge con quella di fuori.
Sillaba dal greco syllabḗ, “prendo, riunisco insieme” suoni a lettere unite in un’unica emissione. Congiunge insieme vocali (“lettera dotata di voce”) e consonanti (che “suona con” o “suona insieme” alla vocale). E il lemma ne è come la premessa, il titolo, l’argomento, l’invitatorio che viene prima come porta d’ingresso al dire.

È il miracolo del linguaggio vocale e scritto: segni e suoni amalgamati assieme, lettere come nel gioco di dame e cavalieri che si allontanano e si lasciano, si cambiano di posto rincorrendosi dentro alla parola stessa o nella frase o nella pagina passando poi da una all’altra, da un libro a quello successivo, sino a formare in ciascuno una biblioteca interiore. Un’immagine che ritroviamo nella lettera inviata a Eliodoro da san Girolamo nella quale, riferendosi alla prematura scomparsa di Nepoziano, suo figlio spirituale, ricorda: «l’assidua lettura, e prolungate meditazioni avevano reso il suo cuore come una biblioteca di Cristo» (Lettera LX a Eliodoro).
È il linguaggio come un prodigio, simile a quello del caleidoscopio che punta l’oscurità luminosa del mistero e, ruotando, le tessere come lettere disegna figure e sensi nuovi al nostro vivere, traduce e interpreta l’esistenza, e quanto più inserisci vetri colorati quanto più nel caleidoscopio prendono forma parole nuove, frammenti di un infinito comprendere e interpretare.

Ogni volta che si apre un libro, la lettura ci pone in un’attualità di ascolto di un passato altrimenti muto, con effetti prodigiosi ricordati da un versetto del salmo 62 [61]: «Una cosa ha detto il Signore, due ne ho ascoltate». La voce non rimane infatti prigioniera dell’evento passato che l’ha suscitata una prima volta; ma attraverso la scrittura ri-parla una seconda volta anche oggi. È come se la voce diventasse testo e questo, quando è compreso, ridiventasse voce interiore, risveglio e chiamata al senso.

In una prima occasione la voce si è udita nella sua enunciazione originaria. Poi infinite volte è stata mediata e tradotta dal testo che la rende ri-udibile nel segno della scrittura. È allora anche una questione di traduzione, insieme testuale ed esistenziale, elaborata da colui – l’interprete –, che è chiamato a vivere una prossimità così intensa con l’altrui scrittura da generare un processo di assimilazione e comprensione, che lo spinge a riversare se stesso nel testo, se non a incontrare se stesso in colui che con altre lingue lo scrisse.

Così, l’abbiamo imparato per esperienza, «la lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche un atto d’amore. E qui forse, tra il lettore e lo scrittore, si producono lo sguardo, la coscienza, il faccia a faccia di una vera e propria relazione etica» (E. Raimondi, Un’etica del lettore, Bologna 2007, 13-14).

L’intera Bibbia può considerarsi allora come una conversazione in itinere. L’invito permanente all’ascolto, all’incontro e al dialogo: per tentare alleanze; per formare amicizie; per ricercare quel santo Graal di quell’ultima cena, che ha visto nella condivisione del pane e del calice, un comunicare nell’agire e nel patire, il simbolo reale di quell’amore così grande da spingersi a dare la vita per gli amici. Il calice della vivificante vita del Figlio dell’uomo, che sarà in grado di trovare solo chi saprà rivolgere all’altro – ecco l’istanza etica – raffigurato al cavaliere che lo custodisce, ormai malato e vecchio di millenni, la domanda giusta: «qual è il tuo dolore, la tua ferita?».
La Torah e i Vangeli, formati in diversi momenti e tempi della storia, sono ancora una narrazione in corso, che continua anche oggi a cercare e a trasformare i suoi lettori. Leggendola, infatti, la loro vita verrà ridefinita e interpretata in un modo nuovo.

Suggestiva appare dunque l’immagine del poeta e saggista inglese John Donne che scrive: «Tutta l’umanità deriva da un unico autore, e costituisce un unico volume. Quando un uomo, muore, non viene strappato via un capitolo dal libro, bensì viene tradotto in una lingua più alta; ed ogni capitolo deve essere così tradotto. Dio impiega diversi traduttori; alcuni pezzi sono tradotti dalla vecchiaia, alcuni dalla malattia, alcuni dalla guerra, alcuni dalla giustizia, ma la mano di Dio è in ciascuna traduzione, e la sua mano rilegherà di nuovo tutti i nostri sparsi fogli per quella biblioteca nella quale tutti i libri saranno aperti l’uno all’altro» (J. Rosen, Il Talmud e internet, Einaudi, 2001, 11).

Com’è umile e solenne aprire un libro. Ne nasce un’intimità che cresce a poco a poco, una familiarità che soppianta l’in-conoscenza. Lo si apre bensì con le mani, ma come in punta di piedi, sospesi, in attesa di qualcosa, di qualcuno, come si fosse a Natale, anche in pieno agosto. Girare pagina è poi un’altra, come vedere un bambino fare un passo, e poi un altro, un poco più sicuro, e poi via via più spedito e allegro, quando egli si scopre nel libro e prende confidenza, sino a che, voltando le pagine del libro, questo dischiude le pagine del lettore, come fossero “aperti l’uno nell’altro”.

Un libro può diventare così la seconda voce della propria anima. L’ho imparato leggendo un racconto chassidico in cui si narra di un vecchio libro di preghiere, del rabbino suo lettore e dei suoi nipoti: «I suoi nipoti dissero, un giorno, al Rabbi:nostro nonno e nostro maestro: il tuo libro di preghiere è vecchio, le pagine sono ingiallite, alcune di esse sono quasi illeggibili e noi abbiamo deciso di regalartene uno nuovo, in segno del nostro affetto e della devozione che abbiamo per te”. Rispose il Rabbi: “da innumerevoli anni io prego da questo libro: ogni mattina, ogni pomeriggio ed ogni sera. Esso è diventato vecchio insieme a me. Le sue pagine mi sono familiari, così come io sono divenuto familiare a loro. Esse sono una testimonianza della mia vita; esse hanno conosciuto i momenti di gioia e di serenità che il Santo dei Santi ha voluto concedermi, ed anche i momenti di dolore e di sofferenza. Le lettere di ogni riga, di ogni pagina di questo vecchio libro mi hanno aiutato a esprimere al Creatore, tutto l’amore e tutta la fiducia che io sento per Lui. Ogni lettera, ogni parola del vecchio libro, sono entrati nella mia persona. Così come la mia persona, sembra entrata in ogni sua lettera ed in ogni sua parola. Io ed il vecchio libro siamo divenuti una sola cosa. A volte, quando tutto quello che esiste intorno a me sembra crollare, quando io, con dolore, vedo il male prevalere sul bene, e l’ingiustizia prevaricare il senso della giustizia, e sento il mio corpo farsi privo di forze, in tal maniera, da non poter dar voce alle sante preghiere che in antico i Maestri composero, allora basta che io passi il mio indice sulle parole stampate del Libro, perché avvenga in me qualcosa di strano, di misterioso. A me sembra che da quelle pagine esca una voce, che non è la mia, ma che alla mia molto assomiglia. Miei cari nipoti, questo vecchio libro dalle pagine ingiallite, dopo così lungo tempo, di vita in comune, sembra aver appreso a pregare per me. Esso è insostituibile, perché rappresenta la seconda voce della mia anima”» (A. Sonnino, Racconti chassidici dei nostri tempi, Assisi/Roma 1978, 110).

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GLI SPARI SOPRA
La ricerca di un futuro

In Italia, ora più che mai servirebbe una partito che si richiamasse ai valori di Enrico Berlinguer, alla modernità della sua opera e del suo pensiero. Concetti e parole inserite profondamente nel Comunismo Italiano, fonte di democrazia e di ideali per quattro generazioni di persone. Andato disperso e abiurato dalla fine del secolo breve fino a questo secondo decennio del ventunesimo secolo. In molti lo decantano, addirittura gli avversari politici ne tessono le lodi, ma la sua figura fa ancora tremendamente paura perché davvero dei dirigenti di una qualche sigla politica si ispirino a lui per il futuro, per il prosieguo del tempo che scorre rapido. Non esiste una avanguardia in Italia, che nel suo nome cerchi di aggregare dei compagni per realizzare davvero qualche cosa di nuovo. Esistono sigle politiche che espongono la sua effige nelle sedi, come ricordo o come santino, ma non ripercorrono le sue idee, le hanno abbandonate da decenni. Almeno quattro altri partiti espongono l’effige della falce e del martello non come elemento aggregante o come i simboli del lavoro, motivo per cui nacquero un paio di secoli orsono, ma come medaglie di purezza esclusive e non inclusive. La bandiera rossa è stata gettata nel fosso da tanto, troppo tempo, sotto l’immagine di Enrico nessuno mai ha voluto costruire unità e forza del progresso e popolo.

La parola democrazia deriva dal greco, ed è composta dai termini demos (che significa “popolo”) e kratos (che significa “potere”), Potere al Popolo, queste sono le basi del Marxismo. Questo concetto pone le idee di Berlinguer sul piedistallo della modernità, senza bisogno di ricordare le deviazioni che molti governi Comunisti presero dalla rivoluzione d’ottobre in poi.

Sommossa popolare, appunto per portare al potere gli ultimi, gli sfruttati, i braccianti, gli operai, quelli che nei millenni mai ebbero diritti e voce in capitolo, sfruttati e vilipesi dalla notte dei tempi. Tale rivoluzione avvenne però nella nazione meno preparata ad accoglierla, quella grande madre Russia che non aveva una classe operai forte e consapevole, ma era per lo più composta da braccianti che solo pochi decenni prima erano ancora servi della gleba, la nazione che mai Marx individuò come avanguardia per le masse popolari.

Dico questo perché il pensiero comune continua ad additare il Comunismo realizzato col Comunismo reale. L’Euro comunismo di Berlinguer, e ancor di più l’anomalia italiano porsero il più grande partito dei lavorati del mondo libero a traino di una terza via, mai davvero cercata e né tantomeno seguita dai referenti delle sinistre dopo il giugno del 1984.

Ora che non esiste più un mondo diviso in blocchi, dove l’Est ha superato l’Ovest nella ricerca del profitto per pochi a discapito degli ultimi, le idee di Berlinguer diventano una necessità.

Io credo che in tanti, troppi vedano Enrico come una foglia di fico, dietro cui nascondere la propria lontananza dai suoi ideali.

Un mondo raggrinzito e ammalato intorno al concetto di capitale, bolso e senza respiro, in questi tempi di pandemia, dove esiste solo una classe sociale che continua ad aumentare i profitti a discapito di tutti gli altri, dipendenti, artigiani, commercianti, operai, tutti in lotta tra loro per in dicare chi più di altri è fonte di privilegio. Accomunati da un unico nemico, che viene dall’Africa, quella massa di diseredati che servono ai partiti, quasi tutti, per sottolineare le differenze e per conservare quelle briciole di pane che i padroni del vapore spargono alle masse intrise di cattiveria e con la bava alla bocca, con la paura che l’ultima scaglia di pane duro venga utilizzata per nutrire chi sta peggio di noi.

Una grossa parte della classe operaia che non è più classe, che non ha più coscienza di se si è imbruttita nelle idee, instillate goccia a goccia da anni di propaganda revisionista. L’analfabetismo funzionale ha superato quello di ritorno, un popolo senza età che si informa sui social media, che posta e riposta immagini di pensieri altrui. Un solo piccolo e maledetto virus sta squassando il mondo conosciuto, portando alla luce decenni di sfruttamento della natura in maniera malevola e senza criterio, sistemi all’apparenza democratici dove chi ha i soldi si cura, mentre gli altri vengono lasciati annegare, non solo in maniera figurativa. Un sistema agli sgoccioli dove privato e privatizzazioni, ricercate da schieramenti centripeti hanno portato all’evaporazione del Welfare, dove la sanità pubblica è diventata azienda e la sanità privata si arricchisce con i soldi dei contribuenti, oltre che dei pochi privilegiati che ne possono disporre.

Un mondo dove la scuola è sempre ai margini dei programmi di partiti sempre più simili, dove nemmeno Lombroso riuscirebbe a riconoscere gli uni dagli altri.

Sono ripetitivo e limitato nei miei grezzi concetti, forse perché alle volte spero che qualcuno, migliore di me riprenda da terra quella bandiera rossa e la sventoli, come una guida turistica sulla piana di Ghiza e dove un popolo, davvero unito la segua, nella ricerca di una utopia necessaria e non più procrastinabile.

Dolce Enrico, mi piacerebbe che ti staccassero dalle cornici entro le quali sei stato relegato in questi trentasei anni, mi piacerebbe che tu stesso potessi togliere la polvere della tua dignità troppo spesso usata come paravento.

Si lo vorrei davvero un partito di ispirazione Berligueriana, dove potermi sentire a casa, dove poter credere che il mio piccolo contributo possa essere una briciola di sabbia, per costruire un argine contro l’abbruttimento di questi tempi. Dove le mie idee possano confrontarsi e confondersi con quelle di tante compagne e compagni, senza l’assurda ricerca della purezza, senza lucidare troppo la falce, senza dibattere sul tipo di martello (da carpentiere, da muratore, da montatore meccanico, ecc.).

Berlinguer non solo come oggetto di ricerca o peggio di culto (lui lontano anni luce dal culto della personalità) ma come pensiero critico, vivo, da ritrovare, da ripercorrere, una ricerca di un futuro migliore, radicale, non moderato, ma inclusivo, alla ricerca della diversità e dell’impurezza.

Io credo che solo in questo modo, solo avendo ben chiaro il passato si possa sperare in una rinascita, una luce in un futuro che ora a me sembra troppo cupo, anche solo per ricercare la speranza.

Il telepate

Nell’enorme sala, la luce filtrava debolissima dagli schermi posti intorno alle plafoniere sul soffitto. L’uomo era seduto a terra, accanto a una parete. La postura del corpo e l’aspetto del viso tradivano lo sforzo che andava compiendo per concentrarsi.
L’aria nella sala cominciò a fremere, impercettibilmente, e una vibrazione attraversò le spesse pareti di cemento. Trascorsero alcuni minuti di silenzio e di immobilità. Poi il viso dell’uomo si rasserenò, quando cominciò a vedere con gli occhi dell’essere che andava cercando.
– La bellezza, la vista, l’udito. Erano come elfi che cercavano qualcosa nel mio cervello. Uno di loro si avvicinò a me e disse: “Signore, nella tua mano leggo la sofferenza di un animo tormentato, leggo la follia di vivere inseguendo un sogno, la voglia di trovare un padre. Signore, vorrei accompagnarti”.
Io non vi conosco. Chi siete? Cos’è quell’aura intorno ai vostri corpi, ai vostri cavalli?
“Il segno della nostra nobiltà, che riconosciamo in te, Signore”.
Mia madre tornava dal mercato della città sul vecchio trenino a scartamento ridotto. Intorno donne giovani e vecchie, bambini urlanti. Mia madre era contenta, aveva trovato un po’ di carne e di uova, si accarezzava la pancia, dove io ancora per poco sarei stato rintanato. Un’ondata di calore mi attraversò, lo ricordo, e poi ancora una. Le ondate si susseguirono sempre più velocemente, il caldo diventò insopportabile. Sentii mia madre urlare, il mio corpo urlò attraverso il liquido amniotico. Divenni un tizzone che gemeva senza poter fuggire.
La notte per addormentarmi mia madre mi cantava una canzone che parlava degli Elfi del bosco, delle loro spade fiammeggianti. Mentre ascoltavo il suo cervello ripensavo sempre a quel momento sul treno, quando per la prima volta sentii i suoi pensieri, il caldo passò e i suoni divennero elettricità. Fu il momento nel quale tutto accadde. Non vedevo. Ma sentivo, udivo.
Poi gli altri videro me. E i loro pensieri furono pieni d’angoscia, di compassione, di odio per me. Di ribrezzo.
Crebbi da solo. La mia famiglia fu allontanata dalla propria casa perché la zona era altamente contaminata. Fummo destinati a un piccolo villaggio di montagna dove la gente ci accolse come lebbrosi. I miei genitori e tutti gli altri del mio villaggio morirono nei cinque anni successivi. I bimbi dei montanari non erano cattivi, si avvicinavano per giocare con me che ero sotto la tutela del capo villaggio, ma i loro genitori li picchiavano e imponevano loro di starmi lontano. Non ero certo un bello spettacolo. Le mie corde vocali erano incapaci di vibrare ed emettevo solo fischi terrificanti, le palpebre erano cresciute come escrescenze e mi impedivano di aprire gli occhi, il naso era quasi inesistente, respiravo rantolando. Ogni giorno il capo villaggio mi apriva gli occhi con una specie di rudimentale bisturi, con il quale tagliava le croste che si formavano durante la notte tra le palpebre e il viso. Allora io potevo alzare quelle escrescenze con le mani e vedere finalmente le cose del mondo. Jordi – mi dicevano – tu sei fortunato, non dovrai lavorare. A te ci penserà lo Stato. Sei fortunato Jordi. I loro pensieri dicevano: “Speriamo che muoia presto, il sussidio che ci danno non ripaga nemmeno un minuto di questa vita d’inferno che ci tocca fare per colpa sua. Maledetto Stato, maledetta vita che ci impone queste sofferenze. Maledetto, orrendo Jordi che sei sopravvissuto a qualche cosa che non sappiamo. Maledetto bambino venuto al mondo per uccidere i tuoi genitori. Possa tu morire presto.”
Non morii.
Certo a me la situazione appariva in un modo del tutto diverso. Voglio dire che non mi pesava il mio essere, perché non ero conscio della mia diversità o mostruosità. Ero grato a quegli uomini che mi pulivano gli occhi e mi mostravano il mondo. Ero grato: ma non mi era necessario vedere, per capire il loro mondo. Infatti, c’era qualcosa di più. Nelle giornate, nelle notti che si susseguivano io non ero solo. Ogni essere, vicino o lontano, mi parlava. “Perché questo bambino non è mai infelice?”. Ero pieno di vita, mi permeava. Stavo imparando. Da mille vite, da mille forme traevo forza e linguaggio. Tante verità e la bellezza di quel coro inusitato. Erano voci senza significato, all’inizio. Poi cominciai a discernere le forme più semplici della struttura, le vibrazioni comuni, le imperfezioni, i balbettii. E con loro i significati presero forma. Ascoltavo i cervelli produrre sforzi, consumare energia, distruggere la maggior parte di ciò che costruivano. Con quel ronzio incessante comune a uomini ed animali, che si spegne solo con la morte e che finisce sempre in un ululato lontano che scuote la mia mente, ma che ho imparato ad ignorare.
Mi limitavo ad ascoltare, ma ascoltare non è il verbo giusto. Non per ciò che si intende tra gli umani, e nemmeno voce, o una qualsiasi altra parola legata all’udire, rende ciò che provavo. Non ci sono parole, perché non c’era suono. Io ero sordo, completamente. Quando mi tagliavano la pelle delle palpebre vedevo tra nuvole rossastre i volti delle persone, le loro labbra muoversi. Sentivo il ribrezzo che si manifestava nei loro cervelli in scariche potenti, dal ritmo accelerato a cui si associava un odore dolciastro. Quando mi picchiavano, per farmi tornare in casa o per farmi mangiare, i loro cervelli producevano esiti che ora definisco infantili: tanta energia bruciata per la formulazione di poche scariche dirette, potenti, ma brevissime. Da tempo avevo imparato a schivare i loro colpi, spostandomi un attimo prima che i loro pensieri si formassero completamente e facessero funzionare i muscoli. Questa mia capacità li sconcertava. Capii così che il mio potere non era una cosa normale, che per loro il mio spostamento era inspiegabile. Magico, come dicevano. Allora mi facevo colpire, per non sconvolgerli e per poter imparare.
Imparare dalle botte. In quei momenti le mie palpebre sbattevano, i miei occhi vedevano la luce e io cercavo di posizionarmi verso il viso di colui che mi colpiva, orientandomi con i primi colpi. Se ero fortunato potevo vederne le labbra e associare le scariche neuroniche ai loro movimenti. In breve entrai nel loro gioco e ne imparai le regole. Da quel momento potevo sentirli parlare. Fino a quando non impiantammo i giocatori cerebrali lo sforzo del tradurre fu sempre molto grande: dopo un po’, associare scariche e parole mi stancava e lasciavo fluttuare l’elettricità, riposandomi nel suo ronzio.
Ormai potevo ascoltare le persone intorno a me esprimersi in quello che, per loro, era l’unico linguaggio possibile. Le persone del villaggio erano tutte molto semplici, il loro dialetto era costruito per il lavoro della terra, con mille termini per identificare le qualità di un campo, di un raccolto, di un seme. I loro pensieri erano tranquilli, partecipavo al loro dolore per la morte di un parente, alla gioia per una nascita. Insomma l’unica nota stonata ero io.
Una notte, quando avevo ormai dieci anni, fui svegliato da una scarica che mi riempì la mente per la sua potenza. Un urlo che conteneva un codice che non avevo mai percepito, un gioco al quale non avevo mai giocato. Era il profumo, il colore di una radiazione nuova, eppure conosciuta. Dopo qualche minuto tutto tornò ad essere permeato solo dai sogni del villaggio. Nei giorni seguenti pensai a lungo a quello strano rumore. Arrivai alla conclusione che doveva essere stato generato da una mente non umana, oppure da un’altra mente come la mia. Questo pensiero mi arrivò inaspettato, come una folgorazione. Fino a quel momento non avevo mai pensato di poter far parte di un gruppo. Ero sempre stato l’unico. L’unico a salvarsi, l’unico deforme, l’unico a sopravvivere oltre l’infanzia. Insomma l’Unico, senza storia e senza possibilità di costruire un futuro.
Essere considerato un vegetale può essere vantaggioso, a volte. Restavo al sole o all’ombra, non importava. Avevo tutto il tempo per cercare di comprendere l’evento che era accaduto. Il primo squarcio nella mia vita, a parte quelli che mi venivano inferti quotidianamente alle palpebre.
Alla fine decisi che fosse un segnale. Mi concentrai su questo fatto, e su di esso scommisi il mio futuro. Mi allenai per mesi, per cercare di imitare quella sequenza che si era scolpita nella mia corteccia cerebrale. La analizzai scomponendola nelle sue frequenze elementari e, man mano che la elaboravo, mi sembrava sempre più qualcosa di famigliare. Erano solo quattro segnali trasmessi in sequenza, ma con un livello di potenza tale da rendere il messaggio completamente distorto. Lo ripulii dalle frequenze spurie, ogni sinusoide divenne perfettamente leggibile. Erano solo lettere del linguaggio umano: N – I – K – E. Era il mio nome. Era il nome che gli Elfi avevano voluto darmi e da quel momento la mia vita ebbe uno scopo. Io sarei divenuto uno di loro.
Subito dopo li cercai. Li cercai come potevo cercarli nelle mie condizioni, concentrandomi sulle frequenze del mio nome e lanciando energia nello spazio intorno a me. Non sapevo nulla di loro e non sapevo quasi niente di me. Il mio sistema di trasmissione mentale era rudimentale, ma era anche l’unico che conoscessi e potessi usare. Dopo mesi di tentativi il mio cervello si riempì di colori, di suoni, di immagini che si sovrapponevano velocissime. Sotto le mie palpebre martoriate, fasci di fosfeni si inseguivano ininterrottamente. Il mio cervello riceveva senza capire, stordito da giorni di bombardamento. Mi accorsi alla fine che nessun filtro si confaceva a quel frastuono. Smisi di cercare un significato in quell’abisso di informazioni. Mi lasciai trasportare dal flusso che mi attraversava. Cominciai a capire che il senso stava nel tutto. Ciò che mi veniva trasmesso era la summa dello scibile, della natura e della scienza, dell’arte e dell’istinto animale. Ciò che ne risultava erano emozioni allo stato primigenio, erano i talenti dell’universo che per me, intrappolato in quella forma pseudo-umana, prendevano il nome di: amore, terrore, odio, bellezza, stupore. Il terrore era essere dentro l’ignoto e dentro la sua bellezza cangiante che mi abbagliava. La bellezza era tutto ciò che era stato e che chiedeva di essere ancora.
Era ciò che era stato e che chiedeva di essere ancora. Era la presunzione dell’esistere, non dell’uomo, ma dell’universo intero.
Mi chiamarono o fui io a immaginarmi i loro messaggi? Il cambiamento era comunque alle porte, prese la forma dell’ufficiale sanitario e del suo computer portatile con il quale trasmetteva i miei dati vitali direttamente al laboratorio di ricerca. Per anni ero stato controllato periodicamente, ma per la prima volta i risultati dei miei esami venivano trasferiti, in tempo reale, al laboratorio. Posarono i sensori sul mio cranio e immediatamente fui nell’altro sistema, dove le leggi della fisica e della chimica sono talmente presenti da sembrare inesistenti. Nei pochi minuti durante i quali rimasi collegato ai sensori il mio corpo esplose nella rete, lasciai tracce elettroniche di me ovunque. Non solo, la mia capacità di interpretare i giochi linguistici mi permise in quei pochi minuti di svelare il gioco del computer e della rete. Da quel momento mi bastò concentrarmi su quel gioco, scoprire il giocatore a me più vicino e attraverso di lui proiettarmi nella rete.
Il giocatore più vicino era un pluviometro, installato sopra il tetto della casa del capo villaggio. Proprio sopra la mia testa. Quell’oggetto fino a quel momento muto divenne allora il mio ponte verso l’universo. Viaggiai insieme alle gocce di pioggia in modo altrettanto virtuale, sospinto dall’energia fornita da un piccolo generatore fotovoltaico.
Il resto è conosciuto. E se io sono qui oggi è perché in voi ho rivisto la mia storia. Allora io ero solo, oggi i Mastodonti possono aiutarvi.
Nella sala spoglia ogni suono si interruppe. L’uomo seduto nella posizione di meditazione mantenne il capo chino, accanto a lui un cane. Dietro, due Mastodonti con il volto nascosto dal casco.
La voce riprese.
– Il mio nome è Nike e questi sono i Mastodonti. Erano bambini come voi, e come me erano stati colpiti dalle radiazioni e abbandonati al loro destino di dolore e di morte. Dentro di loro, però, ardeva una forza vitale inusitata. Volevano competere, sognavano di vincere. Ho fatto di loro dei combattenti, ho creato una stirpe invincibile, ho reso me e loro bellissimi e immortali. Ciò che non esisteva, ora è: gli Elfi sono tra noi.
Così dicendo si alzò in piedi e mostrò alla telecamera il suo corpo e il suo volto. A un suo cenno i due Mastodonti si tolsero il casco.
I ragazzi rimasero senza parole. Avevano seguito il lungo discorso di quell’uomo, apparso all’improvviso all’interno del monitor tra una mossa e l’altra di Tragonbell 2, e ora videro i volti dei tre uomini irradiare una luce azzurrina, che rendeva impossibile distinguerne esattamente i lineamenti: ma ai loro occhi, questi sembrarono perfetti. Il corpo dell’uomo chiamato Nike appariva come scolpito nella quercia e i suoi movimenti senza sforzo, con una coordinazione perfetta.
– Chi sei? – fu l’unica cosa che riuscirono a pensare, in un silenzio scandito dai loro battiti.
– Un giorno un uomo fece un esperimento: prese un pezzo di corda lungo un metro, lo tese orizzontalmente all’altezza di un metro e lo fece cadere una, due, cento volte. Ogni volta la corda cadeva in modi diversi, pur partendo da condizioni iniziali apparentemente simili. L’uomo concluse che una variazione impercettibile di una qualsiasi delle variabili che governavano la caduta influenzava irrimediabilmente il volo della corda e la posizione che avrebbe assunto al suolo. Era impossibile misurare le variazioni, era impossibile addirittura elencare tutte le variabili. Ciò che accadeva non poteva essere spiegato dalla scienza, ciò che accadeva era Arte. Ebbene, io sono colui che sa dove cadrà il metro.
Ora voi sarete come me.
Nella stanza si materializzarono i due Mastodonti, accompagnati dal cane. Uno dei due scese dalla moto e, accarezzando il cane, disse gentilmente: – Dovete seguirci.
Amed e il suo compagno presero posto sul sedile posteriore e le moto attaccarono rombando la strada.
Intorno il deserto stringeva d’assedio la città, ma si avvertiva nel vento un lontano profumo di mare.

SCHEI
La morte in banca, parte seconda

“Cambiava umore con facilità estrema, i giudizi e i commenti degli altri lo trovavano più indifeso e contribuivano ad aumentare il suo smarrimento. Tutto era forse accaduto troppo in fretta e bisognava ricominciare da capo. Ma ora che erano cadute tante premesse, non aveva più una meta e niente che ne colmasse l’assenza; adattarsi gli sembrava una resa, la sua crisi non poteva finire così. Trovava assurda la sua vita, ritornava su certe constatazioni con una fissità che lo stancava e gli faceva talvolta desiderare di evadere, di tornare a muovere, di distrarsi”. Questo estratto, tratto da “La morte in banca” di Giuseppe Pontiggia, primo romanzo aziendale italiano, potrebbe attagliarsi allo stato d’animo di un neo assunto di studi classici alle prese con un mondo calcolante e meschino, abbracciato per necessità; ma anche di un piccolo neo ristoratore che, causa epidemia, vede il suo sogno imprenditoriale ucciso sul nascere, e la banca trasformarsi da assistente a spietata, indifferente matrigna.

Per una volta Antonio Patuelli, presidente dell’ABI(Associazione Banche Italiane), non parla solo pro domo sua quando dice: “Il primo meccanismo che con l’arrivo del Coronavirus non può funzionare è quello che tecnicamente viene definito ‘calendar provisioning‘, insieme alla nuova definizione che è stata proposta per il ‘default’. Un combinato disposto micidiale per l’economia e i cittadini. Le regole pensate prima della pandemia non possono essere fatte valere adesso, come se tutto fosse normale. Ne va della salute non tanto delle banche quanto dell’economia in generale, della vita di tutti noi. Dei cittadini che investono, delle aziende, piccole o grandi che siano. Secondo la definizione in vigore tra un mese e mezzo, cade in default chi ha un debito arretrato di 90 giorni, anche per soli cento euro. Se si tratta di aziende il limite sale a 500 euro, in ogni caso bassissimo. È un meccanismo micidiale soprattutto in epoca di pandemia perché chi accusa quel ritardo finisce per essere inserito nella lista dei cattivi pagatori, con tutto quello che ne consegue. È evidente che tutto ciò in periodo di pandemia finirebbe per strangolare l’economia”.

E’ la vigilanza BCE il fulcro del sistema, ed è quella che può far partire la macchina che cambi le regole e le adatti alla guerra pandemica in corso. Dal 2018 a capo dell’organo c’è Andrea Enria, economista italiano, proveniente dall’Autorità Bancaria Europea (EBA). L’AD di Mediobanca, Alberto Nagel, conferma che le norme che impongono accantonamenti piu’ rapidi sui crediti deteriorati, eliminando la discrezionalita’ e portando a svalutare i NPL di un terzo ogni anno, comprese le inadempienze probabili, i cosiddetti UTP(unlikely to pay), sono “… applicate alla situazione post-covid, come una bomba atomica”.  Poi aggiunge che ha fiducia in Enria, che è uno con cui si può parlare. Lo speriamo tutti, e non perchè le silhouettes di Nagel e Enria siano particolarmente rassicuranti: anzi, vedere le loro foto mi fa correre un brivido lungo la schiena, perchè mostra la siderale distanza tra loro, la loro vita, e la nostra. Tuttavia esistono, a volte, top managers e massimi decisori economici che risultano all’altezza dei momenti storici, e questo lo è, senza ombra di dubbio. La nostra fiducia in loro non può riporsi nel fatto che possano in qualche modo “mettersi nei nostri panni”. Questo non è possibile. La nostra fiducia in loro (Andrea Enria, Christine Lagarde) deve riporsi nel fatto che siano ben consapevoli che la montagna di denaro e privilegi e, per carità, responsabilità sulla quale sono seduti sta già smottando. Se questa montagna franasse, loro sarebbero gli ultimi a fallire in senso economico, essendo in cima alla scala, ma i primi a fallire in senso storico, e questo potrebbe essere un colpo mortale per il loro ego. Dobbiamo confidare nella loro egocentrica e disperata capacità di non passare alla storia come i più ricchi del cimitero: quel cimitero sociale che non sarebbero stati in grado di scongiurare.

 

Al cantón fraréś: Dó màdar, dó fiòli…
La figura materna vista da due autrici

La figura materna vista da due autrici ferraresi.

La prima, Graziella Vezzelli, rivede la mamma indaffarata e sporca di bianco o di nero; ne rivede le mani premurose nelle faccende di casa, negli affetti, nel lavoro. E riassapora nel ricordo carezze e baci.
La seconda, Graziella Rossi, pur consapevole della difficile vita della madre vissuta tra patimenti, fame e guerra, confessa in un canto dolente il proprio bisogno di tenerezza, mai appagato.

Ill to maη
Am li arcòrd ill to maη, mama,
sémpar svelti e alźiéri,
come sparpài sóra ‘η źardìη
mai stufi ‘d vulàr.
Sémpar sicuri, int ill caréz
e int al lavór.
Am li arcòrd, impgnà,
con gùcia e fil par arpźàr
pagn unèst e puvrìt,
o intrigà int la tié dla roca a filàr
par tèsar tela ‘d burazìna
ruvida come la vita d’i to temp.
A li rivéd iηfarinà
par impastàr pan o gratìn,
e tinti ad calìźan,
tra i cavdùn dal camìη,
par atizàr al zòch
quand al calàva ‘d vampa.

Ill to maη, mama,
am par ad sentirli aηcora
tramèz ai mié cavì
par farm ill tréz,
o sóra la mié front
par misuràr la fiévra,
e ill to dida freschi
sóta al mié barbùz ad putìna
par alzàram la faza
e darm uη baś.


Le tue mani
(traduzione dell’autrice)
Rammento le tue mani, mamma, / sempre svelte e leggere, / come farfalle in un giardino / mai stanche di volare. / Sempre sicure, nelle carezze / e nel lavoro. / Le ricordo, alacri, / con ago e filo rappezzare / abiti poveri e onesti, / o alle prese con la rocca, / tessere, filando, tela grezza, / ruvida come la tua vita vissuta. / Le rivedo bianche di farina / lavorare pane o pasta, / e nere di fuliggine, / tra gli alari del camino, / per attizzare il ciocco / di legno che s’andava spegnendo. /

Le tue mani, mamma, / mi pare ancora di sentirle / tra i miei capelli / per farne trecce / o sulla mia fronte / se scottava, / e le tue dita fresche / sotto il mio mento di bimba, / a sollevarmi il volto / per darmi un bacio.

Tratto da: Nuove voci della mia terra, premio letterario nazionale “Bruno Pasini”, Ferrara, Festina Lente, 2014.

Graziella Vezzelli (Portomagggiore 1936 – 2012)
Commerciante di abbigliamento intimo, conduceva il negozio “Graziella” a Portomaggiore. Ha pubblicato la raccolta poetica Grap ad Stéll (2007). Altre sue poesie sono inoltre presenti nelle antologie  dei concorsi dialettali nei quali ha ricevuto numerosi premi e segnalazioni.

 

 

 

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At jér dura
At jér dura
mai ‘n abràz,
surìś póchi e mai uη baś…
che mi ‘m arcòrda.

At jér dura
parché la vita niént l’at ha sparamià:
fam, miseria, guèra e smaηgaηlà;
t’jé rastàda seηza mama a nóv ann
e a diéś, sùbit a zarcàrt al pan,
iη meź ai spròch a spigàr,
a sédaś iη fabrica a lavuràr.

At jér dura
A źnóv ann t’ha pèrs al prim putìn
e, al témp dal “fàssio” e dl’oli ad rizìη,
con mié pàdar su iη muntagna,
t’andàvi, ad nòt, a rubàr iη campagna
ill patàch e al furmantón d’i fituàri
e al zùcar dl’”Eridania” sui binari.

At jér dura
La par ‘na fòla, la par… fantasciéηza
ma ‘na fòla indóv ti, mama, at iéri al león
ach difendéva la so tana co’ i uηgióη;
‘na dòna ch’ha fat la “Resisteηza”
e, al gióran dla vitòria,
lè córsa in piazza a far la stòria.

At jér dura
Al benèsser l’è rivà
coi cavì griś e la traηquilità;
ma i ann int ha briśa viηcà,
la scòrza la t’è vaηzada
e, sol coη la bóca, at fasévi qualch ridàda.

At jér dura
Adès che t’aη gh’jé più, purtròp,
adès che più al témp al pasa
e più am vién al gróp,
adès ch’a jò capì tut, finalmènt,
an pós più dìrat quél ch’a sént
e a spandrév tut i mié baiòch
par védar al surìś int i tò òć.
At jér dura!

Eri dura (traduzione dell’autrice)
Eri dura / mai un abbraccio, / sorrisi pochi e mai un bacio… / che mi ricordi. /
Eri dura / perché la vita niente ti ha risparmiato: / fame, miseria, guerra e manganellate; / sei restata senza mamma a nove anni /e a dieci, subito a cercarti il pane, / in mezzo ai campi a spigolare, / a sedici in fabbrica a lavorare. /
Eri dura / A diciannove anni hai perso il tuo primo figlio / e ai tempi del fascismo e dell’olio di ricino, / con mio padre su in montagna, / andavi, di notte, a rubare in campagna / le patate e il frumento degli affittuari / e lo zucchero dell’Eridania sui binari. /
Eri dura / Sembra una fiaba, pare… fantascienza / ma una favola dove tu, mamma, eri il leone / che difendeva la sua tana con le unghie; / una donna che ha fatto la “Resistenza” / e, il giorno della vittoria, / è corsa in piazza a fare la storia. /
Eri dura / Il benessere è arrivato / coi capelli grigi e la tranquillità; / ma gli anni non ti hanno piegata, / la scorza ti è rimasta / e, solo con la bocca facevi qualche risata. /
Eri dura / Adesso che non ci sei più, purtroppo, / adesso che più il tempo passa / e più mi viene il magone, / adesso che ho capito tutto, finalmente, / non posso più dirti quello che sento / e spenderei tutti i miei soldi / per vedere il sorriso nei tuoi occhi. / Eri dura!

Tratto da: Scrittori dialettali di casa nostra : terzo concorso letterario “Mario Roffi” in vernacoli provinciali, a cura  della Circoscrizione via Bologna, Ferrara, Comune di Ferrara, 1999.

Graziella Rossi (Ferrara 1940 – 2012)
Capufficio al Comune di Ferrara, appassionata lettrice di gialli e di fantascienza, componeva rime e zirudele in occasioni conviviali. Partecipando a concorsi dialettali ha ottenuto lunsinghieri riconoscimenti. Autrice di Piera, autobiografia romanzata stampata in proprio.

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: Maternità (particolare), pastello di Laura Govoni.

PAROLE A CAPO
Giovanna Panzolini: “Lo specchio di Luna” e altre poesie

“La libertà è come la poesia: non deve avere aggettivi, è libertà”
(Enzo Biagi)

 Lo specchio di Luna

Persa in una magica luna che lascia i riflessi ondeggiare nel lago.
Sembra cullata dal debole vento, così come il tempo culla il cerchio dei miei lontani ricordi di te.
Si sfumano, e quando penso di poterli afferrare si perdono, senza toccare la riva.
Nei riflessi, la luna si specchia.
Illumina le notti più scure e sussurra: ”Continua a brillare, nonostante tutto”.

 

Quel soffio

Non sapevi volare leggera,
ma passavi le tue giornate a tentare il volo.
Non riuscivi a dipingere il mondo,
ma ne coloravi gli angoli oltre i confini.
Non potevi cantare la gioia,
ma continuamente la spargevi.
Non fuggivi dalla tristezza,
anzi, la abbracciavi.
E tra le nuvole, avvolta dalla nebbia,
aspettavi paziente quel Soffio
che ti avrebbe fatto atterrare
tra le braccia aperte della Vita.

 

Sono vivo

In un morbido calar del sole,
fiducioso attendo il respiro della notte.
Un tetto di stelle a cullare i miei sogni,
la mente decisa a soccombere al cuore.
Nel giorno combatto una battaglia tra mille disfatte,
nel buio mi arrendo ai ricordi d’amore.
E scende una lacrima in questo vuoto di te,
che corri sulla tua vita mentre ti seguo in disparte.
Lontana sorridi e questo mi basta:
io sono vivo, il cuore batte.

Giovanna Panzolini (Viterbo, 1972)
Ha partecipato a diversi concorsi letterari e corali, tra i quali si menziona: “Scrivendo 2020” (Kubera Edizioni) ottenendo il riconoscimento di merito e l’inserimento di una breve silloge poetica nell’antologia del concorso. Ha recente pubblicato una raccolta dei suoi scritti dal titolo “Nei passi dell’Anima”, PAV Edizioni.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

BIBLIOTECHE AL TEMPO DELLA PANDEMIA
A ogni lettore il suo libro, a ogni libro il suo lettore

Ci voleva forse il Covid per rendersi conto fino in fondo quanto le biblioteche siano realtà trascurate, forse addirittura sconosciute alla classe politica italiana.
Non è un caso che nella serie dei dpcm che dettano via via le disposizioni per zone gialle, arancio e rosse, le biblioteche non sono mai chiamate con il loro nome, ma messe in fondo alla lista, dopo i musei, tra “gli altri istituti di cultura di cui all’articolo…”.
Da dove viene questa incultura, questa ignoranza, questa indifferenza verso le biblioteche? Probabilmente i nostri politici (ed ahimè, su questo risulta difficile distinguere la destra dalla sinistra) non frequentano punto qualcuna delle migliaia di biblioteche sparse per tutto il territorio nazionale. Non hanno cioè nemmeno un’idea di che patrimonio rappresentino.

A volte anche i numeri sono importanti. Il sito dell’ICCU (Istituto Centrale per il Catalogo Unico) [Vedi qui]  riporta l’anagrafe ufficiale delle biblioteche italiane: 11.920 le biblioteche censite (ma il totale generale supera le 18.000 unità), 6.246 sono le biblioteche di enti territoriali (quelle che chiamiamo biblioteche di pubblica lettura) e oltre 1.000 quelle universitarie.
La maggioranza dei Comuni italiani dispone di una o più biblioteche pubbliche. Certo, più al Nord e al Centro rispetto al Sud Italia, ma a guardar bene la presenza delle biblioteche ha un carattere capillare. Una rete diffusa e interconnessa che negli ultimi cinquant’anni non ha smesso di crescere. Credo di più delle stazioni dei Carabinieri che ultimamente hanno pensato (male) di chiudere in tante realtà periferiche.

Solo le scuole sono più numerose delle biblioteche. E, sia detto per inciso, le scuole hanno storicamente condiviso con le biblioteche la medesima disattenzione e indifferenza da parte dei nostri governanti.
Rimane il fatto – per questo i numeri sono importanti – che le biblioteche rappresentano un presidio culturale davvero diffuso, nelle metropoli come nelle città e nei piccoli borghi, nei centri storici come nelle periferie urbane e nei piccoli comuni montani.

Cosa fare di questo grande patrimonio? Come utilizzarlo al meglio? Forse occorrerebbe capire meglio cosa già sono in tanti casi e cosa dovrebbero essere, a cosa e a chi dovrebbero servire  le biblioteche. Cominciando dal nome. Alcuni (io non sono tra questi) suggeriscono un nome ‘aggiornato’ ai tempi, di chiamarle ‘mediateche’, visto che i supporti su cui viaggiano informazioni e cultura si sono moltiplicati. Occorre però scavare più a fondo, raggiungere ed esprimere la vera anima delle biblioteche. Maria Stella Rasetti, direttrice Biblioteche e Archivi della città di Pistoia (sul quotidiano il manifesto dello scorso 8 novembre) chiama le biblioteche “Cittadelle della democrazia”. E scrive della sua realtà: “in una biblioteca del genere (e per fortuna non solo in questa) il «miracolo» va oltre il tradizionale ambito della lettura, per estendersi a uno stare insieme che crea comunità: una comunità che non fonda i suoi legami sulla comunanza delle radici, ma che trova il senso di sé nel voler condividere il futuro. La biblioteca è per definizione luogo del meticciato, della condivisione, della «conversazione», per usare una espressione cara a David Lankes, professore di biblioteconomia americano, che ha sviluppato una specifica teoria sulle biblioteche innovative”.
Non tutte, ma molte delle biblioteche pubbliche italiane hanno ormai fatto proprio questo DNA. Tranne alcune a questo preciso compito preposte, le biblioteche non sono un luogo di conservazione, ma un luogo di incontro (una agora) e un terminale assistito dove si cercano e si scambiano informazioni: Per le biblioteche – per quello che sono e per quello che potrebbero essere – ricordo una bella definizione di Everardo Minardi: “agenzie della democrazia informativa”.

Se è vero che la pandemia non può sospendere l’esercizio della democrazia, la chiusura delle biblioteche pubbliche che i vari dpcm stanno generalmente imponendo, risulta un fatto grave.  Le biblioteche non producono Pil, ma garantiscono l’esercizio della democrazia. Per questa ragione, dal mondo dei bibliotecari – loro sì conoscono la natura e le potenzialità dei presidi bibliotecari – si sono levate da più parti contestazioni e proteste.

La stessa presidente dell’AIB (Associazione Nazionale Biblioteche) Rosa Maiello così scrive il 6 di novembre ai ministri della Repubblica: “Se le biblioteche sono risultate essere – come noi crediamo di poter affermare – tra i luoghi pubblici più sicuri e raccomandabili dove recarsi, potremmo capire l’utilità di una indicazione prudenziale a non consentire il servizio di consultazione in sede, o a effettuare una valutazione caso per caso secondo le caratteristiche della sede e l’entità prevista dell’affluenza. Ma non comprendiamo perché impedire anche il prestito dei volumi, gestito con tutte le dovute cautele a tutela della salute degli operatori e del pubblico e ferma l’ovvia condizione che la biblioteca sia in grado di assicurarle. In questo modo si privano non solo studenti e ricercatori delle fonti necessari per progredire nei loro studi (perché le biblioteche sono strumenti essenziali per l’effettività del diritto allo studio e del diritto alla ricerca), ma tutti i cittadini e in particolare quelli socialmente ed economicamente più svantaggiati di un servizio essenziale, e il tutto proprio in una delle fasi più dure e difficili della loro esistenza.”

Ma tant’è, oggi dobbiamo registrare che, da Aosta a Ragusa, le biblioteche hanno dovuto chiudere le porte al pubblico. Rimane allora da usare bene fantasia e creatività (e tanti bibliotecari e lettori sono già impegnati in questo senso) e sviluppare servizi alternativi per non lasciare i cittadini utenti privi del servizio. Leggo di tante iniziative in tante regioni e città d’Italia: non solo ‘libri su prenotazione’, ma anche ‘libri d’asporto’, ‘libri nel cortile’, ‘libri a domicilio’ e altre virtuose invenzioni.
Se l’utente non va (non può andare) in biblioteca, la biblioteca può e deve andare a casa dell’utente. Secondo il celebre adagio: “ad ogni lettore il suo libro, ad ogni libro il suo lettore”.

DIARIO IN PUBBLICO
Il problema della problematica

Tra le ferree catene del covid-19 alcune sembrano particolarmente salde.
Ecco allora che con moto sinuoso e strisciante le nostre vite vengono invischiate in una serie di problemi che un sciagurato travolgimento delle parole e l’assoluta incuria rivolta verso la lingua italiana assume agli onori del dire questa parola, ora in assoluto la più usata, che trionfalmente si è incastrata come espressione della vita di tutti i giorni assumendo la forma particolarmente odiosa di problematiche. Nessuno se ne salva; perfino illustri italianisti e storici della lingua. Chi l’esprime con la perfezione assoluta è il comico Maurizio Crozza quando imita il dottor Luigi Locatelli e naturalmente il professor Alberto Granzillo. Non è che questa sia una questione di poco conto. Se ne veda la spiegazione nell’Accademia della Crusca:

“Molte persone, della più varia provenienza geografica (da Gamalero a Udine, da Padova a Ragusa, passando per Perugia, Firenze, Ancona), si sono rivolte alla redazione per segnalare l’uso sempre più frequente e indiscriminato della parola ‘problematica’ come sostituto di ‘problema’. La percezione di chi scrive è che si tratti di un ‘abuso’, di un uso ‘scorretto’, ‘arbitrario’; il ‘nuovo  lemma’ viene giudicato ‘inutile e bruttino’: ‘disturba’ e ‘sa molto di politichese’. Ci viene chiesto di esprimere un parere in proposito e di illustrare se le due parole ‘problema’ e ‘problematica’ siano effettivamente sinonimi, quale sia il significato proprio di problematica, se questa parola possa essere usata e in che senso.”

Risposta

“….In tutti questi casi, l’occorrenza di ‘problematica’ si caratterizza non come scelta denotativa, in relazione al significato che si vuole veicolare, ma come scelta di registro: la parola ‘problematica’ viene selezionata al posto di ‘problema’ non perché sia più precisa o più adatta al contesto, ma perché, per chi la usa, assume una connotazione ‘alta’, ‘formale’, che consente una presa di distanza dall’italiano comune e sembra quindi garantire un innalzamento di livello rispetto alla lingua d’uso quotidiano.”

La stessa cosa potrebbe essere applicata a tema-tematica e ancora ad una serie di aggettivi-sostantivi come fragile/i da riferirsi a persone anziane e/o malate seriamente.
Ricordo in tempi lontani come l’accoppiata temi/problemi fosse di uso frequente ma sicuramente l’uso tecnicamente e scientificamente più alto di problematica ha reso il lemma particolarmente indicato in tempi di corona-virus.

Nelle lunghe giornate che trascorro talvolta a scorrazzare tra programmi televisivi che mi promuovono indignazione e sconforto e altre che appaiono, almeno nell’informazione corrette, alcune mi prendono alla gola, come impensabili modi d’essere e di esprimersi di persone che non mi paiono far parte della mia educazione culturale o etica. Per non far nomi le terrificanti vicende esposte in un programma in cui dopo aver sentito incredibili casi polemici un ‘vero’ giudice’ assolve o punisce gli imputati; un’altra dove personaggi (forse) famosi si lanciano in danze fantasiose giudicate da una serie di personaggi il cui tacere è (sarebbe) bello che li rendono celebri l’espace d’un matin.

Naturalmente alcune reti televisive e programmi di attualità ti riportano alla consapevolezza di una dignità dell’informazione pubblica degna di un tale nome. Poi ecco apparire la chioma slavata del perdente Trump tra inni e tripudi dei non rassegnati, o il bel viso di Kamala Harris tra altrettanti balli e contorcimenti poiché gli USA storicamente sono così.
Allora per un momento mi rendo conto che loro potranno sì essere il paese più potente del mondo, ma il contesto storico di chi scrive queste note può scegliere di applicarsi a produrre recensioni di libri colti, o addirittura vedersi affidata l’analisi di un libro che narra le avventure di una straordinaria figura: Barbara Sanseverina, ava di una mia cara amica che ne ha scritto la storia e poi ricordare che a pochi chilometri di distanza, o addirittura dietro l’angolo di casa mia a Ferrara, la sapiente organizzatrice di giochi erotici dirigeva feste per nobili e potenti per poi perdere la vita su di un palco, decapitata non dalla mannaia che si usa per gli umani, ma con il ‘mannarino’ che si usa per gli animali mentre il boia la sculaccia, lei 64enne, a sedere nudo per attirare l’entusiasmo della folla. E di questa signora bella e lasciva Gigliola Fragnito ha scritto la storia, ricordando anche l’innamoramento che di quella donna ebbe Stendhal che la elevò a figura ideale nella Chartreuse de Parme.

Devo ammetterlo. Essere considerato sprezzantemente radical-chic mi riempie di entusiasmo, anche se questa dizione e (forse) il conseguente atteggiamento elitario-culturale sempre più tramonta in una città, la mia Ferrara, che inesorabilmente scivola nella banalità e nella noiosità. Eppure solo pochi anni fa, precisamente nel 2003, questa città fu assunta in Europa a modello di una Renaissance singulière. E non è stato di poco conto .
Ora ci si limita a presentare una rassegna di pittori mediocri che fanno audience, i cui frequentatori possono apparire gli scafati che hanno trovato-ben coadiuvati-il modo di ‘tirarsela’ e di essere à la page. Si gira ansiosamente per il centro vuoto inseguito da colori che virano al rosso, quel colore da evitare, che ricorda un altro rosso, quando chi lo indossava come divisa era indicato qual mangiatore di bambini.

E il compulsare numeri, morti, ricoveri produce la famosa ‘ansia’ che non ci dà pace che in una intelligente nota Aldo Grasso sul Corriere della sera del 15 novembre così commenta, invocando rimedio alla depressione e situando la situazione in “una via di mezzo tra chi suggerisce di non drammatizzare e chi ti getta nell’angoscia! Spingono alla depressione perché con il lockdown non si potrà nemmeno uscire a prendere una boccata d’ansia”.
Questo timore lo trovo irreprensibile!!!

E mentre ancora una volta la divina Martha Argerich, assieme a Seiji Ozawa, mi porta nell’iperuranio suonando il piano concerto 2 di Beethoven, penso con tristezza alle così limitate esigenze dei miei concittadini, connazionali, umani tutti, che si accontentano di piccole sfide, di egoistiche esigenze, di soddisfare soprattutto la ‘panza’ non solo per ricevere cibo. E mi convinco a resistere, a mettere in atto ciò che mi si chiede dalle mascherine al distanziamento, al limitare le uscite. Poi mi affretto alla piazza e trovo la libreria chiusa. Attimi di sconcerto. E’ chiusa perché troppo grande e potrebbe produrre assembramenti…. Non commento, ma nel triste ritorno a casa trovo una scatola nascosta dietro il computer. Piena di libri comprati e non letti. E’ una festa tra la mai letta Principessa Casamassima di Henri JamesIl Ghetto interiore di Santiago Amigorena.

Resta solo così di concludere con un titolo di un capitolo del libro di Francesca Boari Animula blandula, che presenterò in videoconferenza al Libraccio il 23 novembre alle 18.30, che mi coinvolge e a cui per ora non so rispondere: Gli asini preferiscono la paglia all’oro“. E’ un frammento di Eraclito.
Dovremmo anche noi creature laboriose preferire alla movida il raccoglimento nelle nostre case? Penso di sì.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]