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Era ancora notte, una notte d’estate, e fra un paio d’ore il sole sarebbe spuntato dietro il palazzo di fronte, quello rivolto a oriente. Roberto, detto Bobby, era ancora in piedi con la testa appoggiata ai vetri della finestra: magro, in mutande, un po’ curvo sotto il peso degli ultimi bagordi. Provato, sì, ma sempre indomito. Aveva dormito per quasi tre ore e adesso era pronto per partire. Documenti, occhiali da sole, zaino con tutto il necessario per il viaggio, anche se non sapeva quanto il viaggio sarebbe durato: forse una settimana, forse un giorno, forse più. È così, al buio, che gli uomini liberi affrontano il futuro, si disse, perché a volte la vita non è altro che una mano di poker. Nella sua testa la libertà, il rischio e la disperazione erano sogni fatti della stessa sostanza, e spesso la sostanza era di natura chimica. Questa volta si trattava di LSD. Era pronto a tutto, tranne che al viaggio senza ritorno che stava per inaugurare.

Jeans bermuda, cappello NY, maglietta dei Metallica con su scritto fade to black, barba di tre giorni. Non si era nemmeno lavato i denti perché aveva calcolato che si sarebbe sciacquato la bocca con l’acqua di mare. Così fanno gli uomini liberi, si disse, anche se a volte la libertà si confondeva con le inquietudini dell’adolescenza e i trentadue anni che ogni tanto si dimenticava di avere compiuto poche sere prima. Aveva festeggiato al solito pub di Primavalle con un gruppo di vecchi amici, quelli che frequentavano la sua officina, e poi, verso mezzanotte, a casa sua insieme a Sara. Ma la vera festa, quella doveva ancora incominciare.

Sara era dolce, piena di attenzioni, non faceva troppe domande e lo ammirava in silenzio, non interferiva col suo bisogno di solitudine e con le sue divagazioni filosofiche, ma era anche la donna che non gli poteva più bastare. Lei lo considerava una specie di mago, un romantico capace di irretire chi lo stava ad ascoltare con i suoi racconti, i suoi aforismi sulla vita e i suoi sogni, ma ne era affascinata senza capirlo davvero. E questo era un problema.

Molti, oltre che Bobby, lo chiamavano Golden Boy, e poi, dopo i trenta, il Golden e basta. Lo chiamavano così per le sue mani da mago, perché nessuno amava, capiva e riparava le motociclette come sapeva fare lui, soprattutto quelle d’epoca. Quando metteva mano a un motore, a un cambio o a una marmitta, lo faceva con delicatezza sapiente, lo sapevano tutti, e mentre molte officine della zona chiudevano i battenti lui continuava ad accumulare clienti e guadagni. Ma anche se amava le motociclette non era uno di quei fanatici che si radunano in branco coi loro cavalli cromati e le giacche di pelle e i tatuaggi e i capelli lunghi e le donne da sellino posteriore, che pensano solo ad esibirsi perché nella vita non hanno altro di bello in cui credere. Lui era un cavaliere solitario, disprezzava quei pagliacci da circo rombanti, capaci solo di sbronzarsi e fare i buffoni gonfi di birra, di film americani e musica country o metal da due soldi. Gente come suo padre, che da ridicolo vecchio patetico motociclista che si atteggiava a Hell’s Angel con la sua coda di cavallo, i tatuaggi rossi col drago e il volto da caprone del demonio stampigliato sul serbatoio della moto, i muscoli da palestra fuori tempo massimo e i capelli bianchi, si era schiantato a sessanta anni come un coglione contro un albero della Braccianense. No, lui aveva una sua filosofia, non aveva bisogno di dimostrare agli altri quanto fosse speciale. Parlava poco e con pochi, era autosufficiente, e non una vittima di mode idiote. Tatuaggi sì, ma poco visibili, discreti, come anche i muscoli da palestra. Perché l’eleganza non è ostentazione, ma allusione discreta. Lo sapevano in pochi, e lui faceva parte di quei pochi.

Nessuno, né gli amici dell’officina né Sara, potevano capire di che stoffa era intessuta la sua anima. Lui era il Golden, era di un’altra razza. Solo lui e pochi altri sconosciuti, che in questa vita prima o poi avrebbe incontrato, erano iniziati alla vera conoscenza: solo loro sapevano che i sogni sono la realtà mentre il mondo intorno a noi è solo una trappola infida e senza sostanza, qualcosa che non ha nulla a che fare con la vita vera. Sua madre era una di quei pochi, lei sì che lo sapeva. Era una semplice parrucchiera, ma anche una donna romantica e intelligente, aveva letto tanti romanzi e certe cose gliele aveva fatte capire fin da quando era bambino. Gliele ripeteva con la sua voce dolce e un po’ malinconica, gli raccontava favole e aneddoti, lo faceva viaggiare con l’immaginazione in luoghi dove non erano mai stati, né lei né lui, fino a quando non si era suicidata dopo essere stata abbandonata da quel coglione di suo padre che si era innamorato di una ragazzina viziata che a sua volta si era innamorata della sua Honda 500. La stessa Honda sulla quale, gonfi di birra, erano crepati entrambi.

Roberto scese i gradini di casa caracollando fino al garage, sollevò la saracinesca, accese la luce al neon e rimase lì fermo a rimirare la Aermacchi-Harley Davidson 250 color amaranto, un gioiellino che il padre non aveva fatto in tempo a distruggere e lui aveva rimesso a nuovo. Poi, con movenze lente da dominatore, la inforcò e la spostò fuori dal garage. Spinse il pulsante di accensione e con un rombo al rallentatore attraversò in quella notte poco illuminata da vecchi lampioni e da stelle sempre più pallide tutto Montespaccato fino a Via Boccea. Da lì, da quell’incrocio a quattro semafori, il viaggio verso il mare avrebbe spalancato i suoi cancelli.

L’LSD è roba per gente cattiva, in cerca di vendetta, aveva detto qualcuno che se ne intendeva più di lui, qualcuno di cui non ricordava il nome. Ma lui non era cattivo né vendicativo, era solo stufo della solita vita, delle solite facce degli amici del pub, della solita Sara con cui divideva a volte le notti e il letto, quel corpo di donna che solleticava la sua vanità, che lo assecondava ma non riusciva a farlo sognare. E soprattutto non aveva nulla da insegnargli, mentre lui proprio di quello aveva bisogno: di imparare da chi sapeva sognare, perché i pochi sogni notturni che la sua insonnia crudele gli concedeva non bastavano più.

Il vento notturno era ancora fresco, niente casco, niente polizia in giro, niente di niente. ‘Me ne frego della polizia’, si disse godendosi l’aria della notte, il rombo profondo della Harley Davidson, l’asfalto deserto. Dagli auricolari gli si diffondeva nel cervello la musica degli Angry Mothers e degli Autofficina, la colonna sonora che da sempre lo accompagnava nei viaggi fuori città.

Dopo le ciminiere di Civitavecchia, con quelle luci strane da stazione spaziale che ricordavano un’astronave atterrata da un altro pianeta, percorse ancora un po’ di chilometri quasi senza accorgersene e si fermò all’area di sosta subito prima di Talamone. Parcheggiò la moto e si accovacciò su un’aiuola ancora umida di rugiada. Sfilò dallo zaino la busta di plastica dove custodiva il francobollo: dopo la hawaiiana e il bambulè rosa, dagli effetti per lui ormai scontati, era giunta l’ora del superhoffman, il francobollo con le gocce di LSD pura. Lo svolse dall’involucro di carta stagnola e per un po’ rimase a rimirarlo. Poi, dopo un attimo di esitazione, aprì la bocca e se lo infilò delicatamente sotto la lingua.

Aspettò che si sciogliesse lentamente tra le papille gustative e rimase lì un paio di minuti. Poi risalì in moto e in una volata rapida raggiunse il bivio per Talamone, mentre l’alba di un rosa livido incominciava a scivolare lenta sulla spiaggia, sulle dune di sabbia ancora fragranti di quella notte di inizio estate.

Era stato altre volte lì, tra quelle dune, ma in quel momento il paesaggio gli parve trasformato in una campagna sconosciuta che sconfinava nel mare con alberi, orti e cespugli che si mescolavano alle onde del mare e a quelle della spiaggia. Sentiva le gambe un po’ molli, così si sdraiò sulla sabbia e rimase a contemplare le nuvole i cui bordi cominciavano ad assumere forme geometriche, mentre si vestivano di colori sempre più cangianti, vividi, e il suo corpo si allungava e si sollevava lievemente da terra. Un poco alla volta prese a trasferirsi tra quelle nuvole che pulsavano e respiravano e somigliavano sempre più a una metropoli illuminata da luci verdi e porpora. Sensazioni già provate, ma questa volta più intense, accompagnate da una crescente beatitudine, mentre si faceva strada la strana sensazione di essere non solo lì, ma anche altrove.

‘Onnipresente. Ubiquo. Come il Padreterno’ pensò, e si mise a ridere. ‘Sono giovane, ma adesso sono vecchio come lui e non importa se e quando mi capiterà di morire. E chi lo dice che non sono eterno?’ Gli giunse da lontana l’eco della sua risata. Provò a canticchiare qualcosa e gli sembrò che la sua voce provenisse da un luogo lontano, forse da un’altra persona nascosta dietro una duna. Il mare emanava un profumo che si diffondeva nell’aria attraverso una nebbiolina purpurea dal sapore di cioccolato.

Era lo sregolamento dei sensi, quello annunciato dai Pinkfloyd e prima ancora dagli indiani mescaleros, quelli di cui aveva letto sui libri di Castaneda, e ancora prima annunciato da Rimbaud. Ne aveva già sentito parlare, ma ora finalmente, per la prima volta, lo stava sperimentando. Sì, il viaggio procedeva sui binari giusti e probabilmente sarebbe durato tutto il giorno. A volte un giorno vale una vita, tutti lo sanno, e a volte ci sono vite che valgono meno di un giorno e lui aveva bisogno di un jet supersonico, di un superhoffman, per vedere in poche ore tutto quello che in una sola vita non si fa in tempo a vedere.

Il sole ormai si era alzato alle sue spalle, dietro le dune, quando finalmente vide prendere forma ed emergere tra le onde qualcosa che da tempo attendeva. Aveva seni piccoli da adolescente e fianchi larghi da donna matura e soprattutto non era una creatura fantastica, una sirena, ma una donna, una vera donna. E sicuramente conosceva tutti i segreti del mondo sottomarino, quello che lui non era mai riuscito a esplorare perché non aveva mai imparato a nuotare sott’acqua. Nulla nella vita era mai riuscito a fargli paura, solo il mondo sottomarino, per qualche misteriosa ragione, aveva sempre provocato in lui un terrore indicibile.

La donna si avvicinò, nuda, appena abbronzata, i capelli biondo cenere arricciati dietro il collo fino alle spalle. Era in quell’età dorata tra la prima e la seconda giovinezza, e sarebbe stata lei a descrivergli i paesaggi sottomarini, a raccontargli le avventure di Atlantide e di quelle misteriose popolazioni scomparse. Poi, un poco alla volta, gli avrebbe insegnato a nuotare sott’acqua tra quei territori inesplorati e lui finalmente avrebbe scoperto l’indicibile, l’inaudito.

Lei si scostò i capelli dalla fronte. Poi gli si accovacciò davanti. Le sue cosce erano a pochi centimetri dal viso di lui. Tutto il suo corpo profumava di elicriso, si muoveva con quella grazia che solo certe donne sanno donare ad ogni minimo movimento. Le nuvole si allontanarono e si dissolsero, il sole si ritirò nell’angolo che annuncia l’arrivo del crepuscolo e il cielo si colorò di infiniti colori, freddi e luminosi come se miliardi di diamanti fossero stati incastonati lassù.

Mai era stato così eccitato in tutta la sua vita. Non aveva la lucidità necessaria per sospettare che le tante immagini di Venere, con le sue infinite varianti, si annidano da sempre dentro la fantasia di tutti gli uomini quando la vita gli concede il tempo di fantasticare. Avrebbe dovuto dubitare di ciò che vedeva, sentiva e poteva ormai toccare, ma non era più in grado di dubitare. Era quella la realtà, l’estasi a portata di mano, mentre dal mare si sollevava una musica celestiale di pianoforte che introduceva il coro satanico e la chitarra solista di David Gilmour e dei Pinkfloyd, accompagnati da tutta l’orchestra filarmonica di Londra affittata per l’occasione. La musica proveniva dal cielo o dalla superficie del mare o da un angolo remoto del suo cervello. Non lo sapeva, ma non aveva nessuna importanza.

Intanto lei lo guardava, dalle iridi verde nocciola scivolavano minuscole gocce di acqua marina, le ciglia imbiancate di salsedine. Poi lo baciò a lungo sulla bocca e si sdraiò accanto a lui. Quando entrò dentro di lei, fianco a fianco, sembrò l’inizio di un tempo iniziato da un’eternità che non sarebbe mai finito. Come se lui avesse sempre vissuto lì, su quella spiaggia, dentro i fianchi di quella donna, come se nessuno avrebbe mai potuto sfrattarlo da lì. Lì dentro si poteva anche invecchiare, morire e poi rinascere. E si accorse, in un bagliore di lucidità, che stava recitando parole d’amore senza senso.

Poi arrivò l’orgasmo totale, abbagliante, sommersi lui e lei da lacrime di felicità salate come il mare dove avevano finito col rotolarsi. Stavano lì, sul bagnasciuga, sconvolti, lui stava appena cominciando a capire che qualcosa che non sarebbe mai dovuto finire era finito, quando arrivò la catastrofe. Vide sollevarsi dalla risacca un’onda alta tre metri, poi il rombo, lo tsunami, il cielo e la spiaggia che crollavano uno sull’altra e le onde che lo trascinavano via verso il mare aperto. Le nuvole protendevano lunghe braccia colorate verso di lui. La paranoia, improvvisa e devastante, aveva preso il sopravvento e regnava su di lui e su tutto il territorio circostante, sul mare e sul cielo. Back to black, urlò, chissà come gli sovvenne la canzone di Amy Winehouse, mentre avrebbe voluto urlare qualcos’altro che non sapeva più cosa fosse e dai suoi neuroni impazziti si levavano scariche elettriche fuori controllo.

Riuscì a fatica a raggiungere la motocicletta, i bermuda e la maglietta dei Metallica zuppi di acqua di mare. Si rivestì, risalì in sella e con un rombo selvaggio fuggì come un disperato verso l’Aurelia. Scese la rampa che riportava in direzione di Roma, poi imboccò il bivio senza guardare. Fece appena in tempo a udire lo stridore di un clacson e il frastuono della ferraglia.

Da quel viaggio non si è più ripreso. Ha salvato la pelle, solo un paio di fratture presto sanate, ma la sua mente è stata conquistata da quella donna, da quell’amore, da quel fantasma all’alba sulla spiaggia di Talamone. Non parla d’altro e del resto parla molto poco. Passa gran parte del suo tempo con la fronte appoggiata alla finestra della sua camera da letto nella casa famiglia che lo ospita. Pende su di lui, come un’imputazione, una diagnosi di schizofrenia, ma di questo nessuno lo ha informato. Del resto non avrebbe dato retta a chi glielo avesse riferito. Rimane lì per intere giornate, solo con i suoi pensieri.

Quei fantasmi sono la sua sola ragione di vita. Il resto, il mondo, gli altri, la realtà, non esistono, proprio come gli diceva sempre sua madre. Sono solo un inganno. Sono il nemico, il mondo stupido e crudele dominato da quelli che uccidono i sogni dentro la culla. Nessuno lo avrebbe mai capito, era solo come non mai, ma in compenso quell’isolamento gli garantiva che nessuno lo avrebbe mai derubato dei suoi fantasmi.

“Io sono un uomo felice – diceva allo psichiatra che una volta alla settimana si occupava di lui e ascoltava ogni volta le stesse visioni e la stessa storia d’amore vissuta sulla spiaggia di Talamone – Non ho bisogno di lei, né delle sue droghe né di quelle che prima prendevo io. Lasciatemi in pace. Io sto altrove e ci voglio restare. Datemi solo, ogni tanto, qualche motocicletta da riparare. Non vi chiedo altro.”

Un paio di volte lo psichiatra provò a spiegargli che su quella spiaggia c’era un camping e che probabilmente una delle ragazze che alloggiavano lì gli aveva rivolto la parola per qualche ragione banale, che la musica probabilmente proveniva dalla tenda di qualche campeggiatore e che non c’era stato nessuno tsunami. Quel giorno tutto si era svolto in modo tranquillo e normale, il mare era calmo, tentava di spiegargli lo psichiatra. Ma la reazione di Roberto, detto il Golden, il suo sguardo sprezzante, indussero lo psichiatra a desistere.

Lo sedavano, a forza o di nascosto, quando qualche infermiere si accorgeva che stava per sopraggiungere una di quelle crisi di autolesionismo violento durante le quali era capace di tutto, anche di uccidere o di uccidersi.

“Io sono un uomo felice. Voi che ne sapete? – diceva quelle poche volte che si confidava con gli assistenti sociali e con gli infermieri – Io sono felice. E invece voi… Voi non siete niente.”

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Sergio Kraisky


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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