Desolante, l’immagine di quell’affollamento delirante di camper, tende, bivacchi tra cui si spostano come formiche migliaia di persone; una scena farneticante iniziata il 13 agosto e appena conclusa, che non ha conservato nulla della dimensione umana richiesta da un momento impegnativo come quello che viviamo.
Una musica martellante, senza soluzione di continuità, che esprime perfettamente il clima congestionato e ossessivo, il bisogno di rimuovere, abbandonare inibizioni e regole, che accompagna il rave party illegale di Viterbo, a cui è accorsa anche gente dal resto d’Europa. Una spianata di mezzi e persone ha occupato terreni agricoli e pascoli in cui si scorge ancora qualche trattore e qualche bovino spaesato nelle immediate vicinanze, spettatori di un evento tanto inatteso quanto impattante.
Dove sta il divertimento? Nella pericolosa promiscuità durante una pandemia con tutto ciò che ne consegue? Nell’assistere al recupero del cadavere di un 25enne ripescato nel lago? Nel vedere i tuoi compagni portati via per overdose o coma etilico? Nella tristezza di un parto in pieno rave, seppure evento di per sé emozionante? Nel ballare convulsamente come tarantolati senza il piacere del ritmo e della musicalità? Non c’è bisogno di stigmatizzazioni moralistiche per capire come in tutto ciò manchi un senso, una consapevolezza nuova e più profonda del valore dell’esistenza in un periodo gramo per tutti.
Viene in mente il racconto di Edgar Allan Poe “La maschera della morte rossa” (1842), in cui il principe Prospero decide di asserragliarsi nel suo palazzo con un migliaio di amici e cortigiani, cavalieri e dame, durante una terribile pestilenza, sbarrando porte e finestre. Trascorrono le giornate tra danze, spettacoli di giullari e ogni sorta di bagordi, “che il mondo esterno pensasse a se stesso: nel frattempo era follia addolorarsi o pensare.”
Dopo un periodo di totale spensieratezza, arriva l’invito ad un grande ballo in maschera, organizzato in sette sale di una raffinatezza mai vista, ciascuna di colore diverso. […]
“Le maschere erano grottesche, sfavillanti, luccicanti, piccanti e fantastiche, capricciose, bizzarre, alcune terribili e non poche avrebbero potuto suscitare disgusto”.[…] La festa aveva raggiunto l’apice della sua magnificenza, gaiezza e frenesia quando a mezzanotte, ai primi rintocchi, la musica cessò, le danze si interruppero e tutto si fermò, lasciando intravvedere una presenza inquietante: “ La figura era alta e scarna, avvolta da capo a piedi nei vestimenti della tomba. Le sue vesti erano intrise di sangue e la sua vasta fronte e tutti i lineamenti della sua faccia erano spruzzati dell’orrore scarlatto.”
I presenti ben presto si accorsero che dentro gli indumenti non esisteva alcuna forma corporea tangibile e riconobbero la presenza della morte, arrivata come un ladro nella notte a cancellare i festanti e ogni traccia di gozzoviglia. Si sta ancora suonando e ballando al rave party, le forze dell’ordine stanno lavorando allo smantellamento e all’evacuazione mentre arrivano ancora in molti, tentando di eludere i controlli e sfondando i blocchi. Il richiamo del “ballo in maschera” è forte, il bisogno di evasione è tanto e non esiste nessuna pendola che scandisca la mezzanotte e arresti tutto. Non esistono nemmeno i fasti di palazzo.
Ma Edgar Allan Poe riscriverebbe la stessa conclusione…
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
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