UN PUNTO DI VISTA PACIFISTA SULL’AFGHANISTAN.
Smontare la post-verità fatta di bugie utili alla “guerra umanitaria”
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La nostra voce contro la guerra non è stata forte, doveva esserlo di più. Ai talebani va chiesto il rispetto dei diritti umani, a Biden la chiusura della prigione di Guantanamo.
Destabilizzare l’Afghanistan significherebbe la crescita del terrorismo dell’ISIS, i recenti attentati siano di monito: Il movimento per la pace ha il compito di elaborare un suo punto di vista sui grandi eventi dell’umanità. Lo fece durante la guerra del Vietnam, ha il compito di farlo oggi con la guerra dell’Afghanistan.
Nel 1975, quando finì la guerra del Vietnam, la disfatta militare americana venne salutata come un evento positivo. Non solo per la disfatta in sé, ma per la lezione che essa comportava verso la leadership americana che per quindici anni non tentò, fino alla guerra dell’Iraq, altre avventure militari.
Oggi occorre constatare che il delirio di onnipotenza americano di plasmare il mondo è fallito, almeno per ora. Ed è una cosa positiva che sia finito questo delirio di onnipotenza che alimentava la guerra infinita. E’ stato evidente il collasso di un governo fantoccio che, dopo aver prosciugato una parte degli oltre duemila miliardi bruciati in questa guerra ‘democratica”, si è sbriciolato in pochi giorni. In pochi giorni venti anni di menzogne si sono polverizzate. Oggi i militari americani si tolgono la vita e i suicidi dei marines costituiscono uno dei più gravi problemi della società americana.
I presunti passi in avanti della società afghana non venivano difesi da nessuno, se non da quell’elite predatoria che aveva sottratto al popolo gli aiuti civili e che ha chiesto un corridoio umanitario per scappare perché non ha la coscienza a posto.
I millantati progressi della società afghana sono emersi in tutta la loro vergognosa falsità negli Afghanistan Papers. E questi ultimi da molti non sono conosciuti proprio perché questa è stata una guerra “democratica”, appoggiata da Fassino e D’Alema, su cui è stata costruita una narrazione a cui non corrispondeva la realtà.
Oggi la realtà emerge e ci dice che siamo stati tutti avvolti da una nube invisibile di informazioni narcotizzanti, le quali hanno addormentato anche parti importanti del movimento pacifista che non ha chiesto con la sufficiente determinazione il ritiro dei contingenti militari. Avevamo di fronte una raffinata forma di imperialismo che utilizzava i diritti umani per giustificare l’estensione della Nato fuori dalla sua area geografica originaria, delimitata nell’articolo 6 del Trattato del 1949.
Questo significava una proiezione delle forze armate oltre una funzione difensiva, prefigurando lo strumento militare come forma di tutela dei propri interessi geostrategici, lontano dai propri confini e vicino alle fonti e ai corridoi energetici.
Gino Strada sull’Afghanistan era stato chiaro, anzi chiarissimo, nel porsi contro questa guerra.
Ma molti di noi non hanno avuto quel coraggio di dire le cose in modo scomodo e sgradevole, come sapeva dirle lui. Avevamo troppa paura di essere definiti talebani e non abbiamo fatto abbastanza nel perseguire la fine della guerra.
E così la guerra è stata fermata non sull’onda di una battente campagna di opinione pacifista ma sulla base di una valutazione realistica fatta dagli Stati Uniti, condotta a termine da Joe Biden che ha deciso quel ritiro che Fassino e D’Alema hanno sempre ritenuto un tabù.
La nostra voce di pacifisti non è stata forte, doveva esserlo di più. Eanche oggi non è che sia bellissimo trovare la firma di Piero Fassino su appelli co-firmati da autorevoli associazioni pacifiste.
Ecco come Fassino si opponeva al ritiro e “valutava” l’uso delle bombe in Afghanistan: «quello delle bombe è un aspetto che deve essere esaminato e valutato da chi ha le competenze, cioè dai vertici delle Forze Armate e di chi ha il comando operativo in quell’area». (L’Unità, 12 ottobre 2010)
Non abbiamo chiesto con la sufficiente determinazione la fine della missione in Afghanistan e per non averla chiamata con il suo nome: occupazione militare. A cui si sono accompagnate condizioni di detenzione vergognose, fuori dai principi della Convenzione di Ginevra, Guantanamo in primis.
Sono stati violati i diritti umani più e più volte (lo ha documentato l’ONU) ma per molti era la nostra una missione di civiltà.
E’ stata messa in atto in questi anni una persecuzione terribile verso chi ha rivelato segreti militari per raccontare la verità della guerra: Assange, Manning, Snowden.
E non lo è stata, perché alzare la voce significava essere posti ai margini della vita pubblica, con la terribile accusa di essere un fiancheggiatore dei terroristi. E’ stata fatta un’enorme confusione fra talebani e terroristi. Questo è ciò che è avvenuto.
La fine di vent’anni di guerra e di menzogne è oggi una liberazione, è un evento, ed è un evento positivo.
I talebani hanno resistito ad un’occupazione militare.
Il collasso in pochi giorni del regime fantoccio – creato dagli Stati Uniti e dalla NATO – pone fine a venti anni di bugie e di illusioni.
La post-verità sull’Afghanistan
La post-verità (post-truth) è la costruzione di una visione della realtà in cui i fatti verificabili (in questo caso, quelli sull’Afghanistan) diventano secondari. La verità oggi viene considerata una questione di secondaria importanza, e così anche i fatti.
Secondo l’ Accademia della Crusca: “Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali”.
Sull’Afghanistan è stata costruita un post-verità. I più sprovveduti hanno vissuto di illusioni, in attesa di un miglioramento dell’Afghanistan grazie alla missione NATO, i più maliziosi hanno alimentato quelle illusioni con un mare di menzogne costruite a tavolino, come documentano i documenti desecretati di recente: gli Afghanistan Papers.
Oggi è venuto il momento di riscattarci per quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.
E oggi che cosa possiamo fare?
Riportare al centro l’ONU, dopo il fallimento della NATO.
Occorre prima di tutto essere chiari: la strategia dell’Occidente non può essere quella di destabilizzare l’Afghanistan per una sorta di rivincita. Destabilizzare l’Afghanistan significa favorire la crescita del terrorismo dell’ISIS che cerca – lo si è visto con i recenti attentati – di puntare alla destabilizzazione dell’Afghanistan per insediarsi pericolosamente.
Quello che dobbiamo chiedere all’Afghanistan è la fine delle coltivazioni di oppio che hanno fatto dell’Afghanistan un narcostato, e su cui gli occupanti occidentali hanno chiuso un occhio. E’ un tumore economico che alimenta una metastasi mondiale a cui occorre porre rimedio.
L’altro nemico è la povertà, che favorisce la misera condizione della donna e la sua mancata emancipazione. E qui occorre una forte pressione perché il nuovo governo apra spiragli di novità rispettando le promesse fatte nella prima conferenza stampa sui diritti umani.
Un altro grande nemico è la guerra, che anche l’Italia ha alimentato. Abbiamo puntato su ciò che creava il problema e non sulla sua soluzione. Il rapporto con il nuovo governo afghano deve essere improntato sulla pace, oltre che sul rispetto dei diritti umani fondamentali.
Occorre cambiare strada e noi, come pacifisti, possiamo avere la voce libera per indicare una strada che vada nell’interesse del popolo afghano e non delle lobby militari che in questi venti anni hanno dominato la scena.
E, come gesto simbolico ma concreto, possiamo e dobbiamo esigere la chiusura della prigione di Guantanamo. Perché il medioevo è lì.
Se ai talebani va chiesto il rispetto dei diritti umani, come è giusto che sia, occorre che l’esempio parta da noi, chiedendo agli Stati Uniti la chiusura della prigione di Guantanamo, simbolo della violazione occidentale dei diritti umani [vedi Campagna Guantanamo di peacelink]
Nota: questo articolo è già uscito sul sito di Peacelink il 27.08.2021
In copertina: Soldato americano in Afghanistan (licenza Creative Commons)
ALESSANDRO MARESCOTTI
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Caro lettore
Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.
Se già frequentate queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.
Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani. Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito. Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.
Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta. Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .
Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line, le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.
Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e di ogni violenza.
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