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Le riflessioni che seguono prendono spunto dalla recente introduzione del, cosiddetto, “green pass” per i lavoratori della scuola, insieme a quelli dell’università, e tentano di mettere in luce in questo dato politico alcuni aspetti che, a parere di chi scrive, dovrebbero sollevare in tutti i cittadini italiani degli interrogativi molto seri sulla direzione che sta prendendo il governo del Paese.

A scanso di equivoci e di polemiche vacue, vorrei premettere che le riflessioni in questione non sono ispirate a visioni no-vax, né a visioni pro-vax; né a idealizzazioni dei lavoratori della scuola, né tantomeno al loro disprezzo sistematico.
Non voglio, insomma, assolutamente entrare sul piano clinico, ma solo sviluppare alcune considerazioni sul piano etico e politico, mentre degli eventuali risvolti giuridici, se ve ne fossero, altri si potranno occupare con il necessario fondamento, come in parte già avviene.

Alla ripresa delle lezioni, dunque, i lavoratori della scuola dovranno esibire il green pass. Chi non ne sarà in possesso verrà sospeso dal lavoro e dal salario. Il che, teniamolo presente, per una fascia di lavoratori tradizionalmente a basso reddito può voler dire non essere in grado di far fronte alle esigenze più immediate della propria famiglia e costituisce dunque una formidabile arma di pressione.
In generale, il green pass si può ottenere in tre modi:
– essendo guariti dal covid;
– con un tampone negativo nelle ultime 48 ore;
– con un ciclo completo di “vaccinazione”.

Poiché non si può chiedere a qualcuno di contrarre volontariamente il Covid per poi, con un po’ di fortuna, rientrare nella prima categoria, né di fare tre tamponi a settimana (quelli salivari sono esplicitamente esclusi), è chiaro che per i lavoratori della scuola l’unica strada effettivamente percorribile è la “vaccinazione”.

L’obbligo del green pass equivale dunque, nel loro caso, a un tentativo di costrizione al trattamento sanitario in questione, perseguito attraverso la ‘sollecitazione’ dell’estromissione dall’ambito lavorativo e della privazione dei mezzi di sussistenza. Si tratta di un fatto ormai largamente riconosciuto, come per esempio dal microbiologo Andrea Crisanti  [Vedi qui]

Ma perché il governo non obbliga semplicemente e direttamente i lavoratori della scuola alla vaccinazione?

Si tratta di una questione complessa, sulla quale certamente il clima mediatico non aiuta a chiarirsi le idee. Alcuni punti sono stati accennati in un recente contraddittorio tra il filosofo Massimo Cacciari e il farmacologo Silvio Garattini, al quale rimandiamo chi lo avesse perso [Vedi qui] .
Fatto sta che non solo l’obbligo vaccinale non è stato imposto, ma in sede di presentazione del D.L. 111/2021 si è sentita l’esigenza di ribadirlo esplicitamente. Evidentemente – e anche su questo esiste un’amplia letteratura –  l’imposizione dell’obbligo implica un’assunzione di responsabilità che il Governo non può o non vuole esercitare.

La centralità del nodo della responsabilità in tutta la vicenda emerge chiaramente nel fatto che, in sede di somministrazione del vaccino, è inderogabilmente richiesta la firma di un modulo di consenso nel quale ci si dichiara a conoscenza di quanto esposto nei materiali informativi, rinunciando di fatto a possibili azioni futura di tutela per effetti indesiderati.

Per fare solo un esempio di ciò di cui si dichiara d’esser consapevoli, riportiamo il punto 5.3 del Documento integrale Pfizer: “Non sono stati condotti studi di genotossicità o sul potenziale cancerogeno. Si ritiene che i componenti del vaccino (lipidi e mRNA) non presentino alcun potenziale genotossico

Naturalmente, la richiesta di questa firma è, in sé, comprensibilissima: i “vaccini” sono stati realizzati in emergenza, dunque chi vuole godere dei benefici che essi hanno potuto dimostrare nei tempi ristretti della sperimentazione, deve anche accollarsi i rischi relativi a ciò che, nei medesimi tempi, non è stato possibile accertare.
Questo fatto, però, dimostra anche in modo incontrovertibile che – qualsiasi cosa si voglia far credere in proposito – non esiste allo stato delle conoscenze, una base di dati sulla quale effettuare una valutazione complessiva rischi/benefici scientificamente affidabile.
Da ciò derivano due conseguenze: l’opinione di chi teme che i rischi possano essere complessivamente maggiori dei benefici potrà magari nel tempo rivelarsi sbagliata, ma non è, allo stato delle cose, assurda o irrazionale; essa non è di per sé frutto di una prospettiva egoistica, se si tiene conto di uno scenario nel quale significativi effetti indesiderati si manifestassero in una percentuale rilevante della popolazione vaccinata.

È quanto viene sostanzialmente recepito nella Risoluzione 2361/2021 del Parlamento Europeo nella quale, ai punti 7.3.1 e 7.3.2, si afferma esplicitamente che i cittadini europei devono essere informati del fatto che la vaccinazione non è obbligatoria, che nessuno deve subire alcun tipo di pressione verso il vaccino se non è intenzionato a farlo, né essere discriminato in conseguenza di questa scelta [Qui]
L’introduzione surrettizia dell’obbligo vaccinale, dunque, non è affatto una questione di sottigliezze giuridiche, bensì di concretissime alterazioni delle sfere dei diritti individuali e collettivi. Certamente se ne discuterà molto nelle aule dei tribunali a diversi livelli ma, naturalmente, è anche qui imprevedibile con quali esiti.
Resta, spiace dirlo, un triste dato politico: imporre di fatto di ciò che non è esigibile in base al diritto è prassi che caratterizza forme di potere diverse da quello democratico e che difficilmente, una volta instaurata, non tende a replicarsi. Questo aspetto dovrebbe preoccupare tutti i cittadini indistintamente.

Purtroppo, però, le ragioni di preoccupazione civile e democratica non finiscono qui.
Appare, infatti, abbastanza scontato che chi valuta i rischi di una determinata pratica terapeutica superiori ai benefici, come coloro i quali non intendono sottoporsi attualmente alla vaccinazione, non può essere propenso a sollevare dalle relative responsabilità chi lo obbligasse a sottoporsi a quella pratica.
Questa è anche, ovviamente, la situazione dei lavoratori della scuola che avevano deciso per il momento di non vaccinarsi. Ma per poter ottenere la vaccinazione alla quale sono ora di fatto obbligati dalla logica intimidatoria del green pass – se non sei vaccinato non puoi lavorare e sarai privato dei mezzi di sussistenza – dovranno apporre quella firma liberatoria che è contraria alla loro volontà, alle loro convinzioni, alle tutele previste nel caso quelle convinzioni dovessero rivelarsi fondate.

In breve, lo Stato – da una parte come fonte, attraverso i suoi Organi, delle norme e dall’altra come datore di lavoro – dice in questa circostanza al suo dipendente: apponi questa firma con la quale rinunci a eventuali future azioni di tutela dei tuoi diritti, altrimenti ti allontanerò dal tuo posto di lavoro e dal salario.
A me pare che, in senso morale, la firma in questione debba essere considerata estorta.
Non vedo infatti, in senso etico, particolari differenze con quelle situazioni nelle quali alcuni datori di lavoro, all’atto dell’assunzione o del rinnovo di un contratto di lavoro, impongono al lavoratore la firma di una lettera di dimissioni priva di data, che il datore di lavoro stesso potrà utilizzare, ad esempio, qualora il lavoratore pretendesse di far valere in azienda i propri diritti garantiti dalla legge.
In entrambi i casi, infatti, il lavoratore appone la firma in contrasto con la propria volontà, con le proprie convinzioni e con la cura dei propri diritti all’unico scopo di ottenere o conservare il posto di lavoro e la retribuzione che il datore di lavoro minaccia di sottrargli.

Il tutto appare ovviamente ancor più eticamente paradossale se si tiene conto del fatto che proprio allo Stato spetta di vigilare affinché la sfera del lavoro – la quale resta, fino a nuovo ordine, il fondamento costituzionale della Repubblica democratica – sia protetta dall’eventuale erosione dei propri diritti sempre possibile nei concreti rapporti socioeconomici.

Tornando all’esempio di cui sopra, se un datore di lavoro chiede a un lavoratore di firmare una lettera di dimissioni, è compito dello Stato intervenire e reprimere tale condotta. Addirittura, tale comportamento è stato ricondotto, nella giurisprudenza, all’art. 629 del Codice Penale, ovvero al reato di estorsione, e questa interpretazione è stata confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n° 18727 del 14 aprile 2016 [Qui], nella quale si legge tra l’altro: anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà”.

In questi tempi difficili abbiamo un gran bisogno di buoni anticorpi: anche di quelli democratici e repubblicani.

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Alessandro Teja

Alessandro Teja è nato nella realtà ma è presto migrato nella fantasia, dove vive tuttora. Per questo ha deciso diversi anni fa di lavorare in un liceo: non deve allontanarsi molto da casa.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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