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Presto di mattina. I confini dell’umano

Per uno sguardo più umano

Dopo Bari 2020 e Firenze 2022, Marsiglia è la terza città a ospitare gli Incontri del Mediterraneo svoltisi dal 17 al 24 settembre 2023. Un’iniziativa che trova un felice preludio nell’intuizione profetica di Giorgio La Pira, allora sindaco di Firenze, che nella sua città aveva organizzato negli anni ’50 i Colloqui Mediterranei quale anticipazione delle istanze confluite dell’enciclica di Paolo VI Populorum porgessio: sviluppo e dignità dei popoli, una priorità e un impegno del post-concilio, per promuovere un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti avessero qualcosa da dare e da ricevere nella reciprocità e nello scambio tra diversità (cfr. n. 44).

Marsiglia, porta dell’Oriente, è oggi anche porta dell’Ovest per le persone che provengono dall’Est o dal Sud del mondo. È abitata da una fortissima presenza ebraica, armena, nordafricana, levantina e sub-sahariana. Vi risiedono pure varie comunità cristiane provenienti dall’Oriente ed è la città dove si trova Felix Pyat, il quartiere più povero d’Europa. Nel 2013 è stato inaugurato sull’antico molo portuale il MuCEM – Museo delle Civiltà dell’Europa e del Mediterraneo dedicato alle civiltà del Mediterraneo.

Uno sguardo in ascolto dei testimoni

Riunire le chiese a fianco degli gli uomini e delle donne di buona volontà, con comunità, movimenti, università, associazioni, è stata questa la finalità dei Rencontres méditerranéennes per uno sguardo nuovo sul Mediterraneo diventato il luogo di grandi sfide: povertà dilagante, conflitti, pluralità religiosa, questioni ecologiche, situazione drammatica dei migranti.

Ma anche laboratorio per una nuova teologia, che ha sortito alla fine con un “manifesto” per una teologia compromessa con l’umano, attraverso la tessitura di reti tra le Chiese mediterranee. Un pensiero teologico non solo più dialogico e relazionale con i mondi d’oggi, ma che si lasci toccare dalle ferite e dalle inquietudini che le persone vivono nei contesti mediterranei, che si lasci trasformare, convertire dai testimoni di questo esodo più che biblico e che ha in serbo per noi una luce per illuminare le nostre oscurità, un varco per osare oltre le nostre chiusure.

Che cosa è uscito dall’evento di Marsiglia, si è domandato papa Francesco al suo ritorno? «È uscito uno sguardo sul Mediterraneo che definirei semplicemente umano, non ideologico, non strategico, non politicamente corretto, né strumentale, umano, cioè capace di riferire ogni cosa al valore primario della persona umana e della sua inviolabile dignità. Poi nello stesso tempo è uscito uno sguardo di speranza. Questo è oggi molto sorprendente: quando ascolti i testimoni che hanno attraversato situazioni disumane o che le hanno condivise, e proprio da loro ricevi una “professione di speranza”. E anche è uno sguardo di fraternità

Il Mediterraneo, lo sappiamo, è culla di civiltà, e una culla è per la vita! Non è tollerabile che diventi una tomba, e nemmeno un luogo di conflitto. Il Mare Mediterraneo è quanto di più opposto ci sia allo scontro tra civiltà, alla guerra, alla tratta di esseri umani. È l’esatto opposto, perché il Mediterraneo mette in comunicazione l’Africa, l’Asia e l’Europa; il nord e il sud, l’oriente e l’occidente; le persone e le culture, i popoli e le lingue, le filosofie e le religioni.

Certo, il mare è sempre in qualche modo un abisso da superare, e può anche diventare pericoloso. Dalla sua sponda orientale, duemila anni fa, è partito il Vangelo di Gesù Cristo. Il suo annuncio è il frutto di un cammino, in cui ogni generazione è chiamata a percorrere un tratto, leggendo i segni dei tempi in cui vive» (Oss. Rom. 27 settembre 2023).

Fin dove può arrivare l’umano? Ha confini sconfinati come l’amore.

«Il vecchio contadino fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio… il vecchio contadino non aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio.

Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: “ecco, questo modo d’essere è l’amore”. E poi: “l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”» (Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore,  Milano, Mondadori,  1994, 42; 45-46).

Un luogo

«L’istituto s’estendeva tra quartieri popolosi e poveri, per la superficie d’un intero quartiere, comprendendo un insieme d’asili e ospedali e ospizi e scuole e conventi, quasi una città nella città, cinta da mura e soggetta ad altre regole.

I contorni ne erano irregolari, come un corpo ingrossato via via attraverso nuovi lasciti e costruzioni e iniziative: oltre le mura spuntavano tetti d’edifici e pinnacoli di chiese e chiome d’alberi e fumaioli; dove la pubblica via separava un corpo di costruzione dall’altro li collegavano gallerie sopraelevate, come in certi vecchi stabilimenti industriali, cresciuti seguendo intenti di praticità e non di bellezza, e anch’essi come questi, recinti da muri nudi e cancelli» (ivi, 6).

È il Cottolengo di Torino, una piccola città invisibile dal di fuori, direbbe anche Marco Polo a Kublai Kan ne Le città invisibili. Una città nascosta nella città è appunto quella che viene narrata da Calvino nel romanzo breve La giornata di uno scrutatore, in cui egli stesso veste i panni dello scrittore/scrutatore.

Un racconto lungo come un viaggio alla scoperta di un altro continente. Amerigo è il nome del protagonista e ci ricorda Vespucci; similmente il cognome Ormea è l’anagramma di amore, ma anche un cognome che allude all’impossibilità di muoversi, un restare ormeggiati: la libertà di fronte alla decisione di restare ancorati o partire attraversando i confini dell’umano.

Scrutatore prima che scrittore

Una storia che è una conversione dello sguardo dello scrittore in scrutatore: il quale passa dal verificare le schede elettorali, affinché tutto avvenga secondo le regole, senza imbrogli da parte di suore e preti, a quello sguardo che poco alla volta è disceso immergendosi negli abissi caotici, insensati, deformati di un’umanità che non sembra avere più niente di umano, minorata dalla natura, fisicamente e psichicamente.

Il testo uscito nel 1963, ma concepito nel 1953, ha avuto una gestazione decennale ed è ispirato da un episodio della vita di Calvino: «Posso dire che, per scrivere una cosa così breve, ci ho messo dieci anni, più di quanto avessi impiegato per ogni altro mio lavoro. La prima idea di questo racconto mi venne proprio il 7 giugno 1953. Fui al Cottolengo durante le elezioni per una decina di minuti. No, non ero scrutatore, ero candidato del Partito Comunista…

Pensai che avrei potuto scrivere un racconto solo se avessi vissuto veramente l’esperienza dello scrutatore che assiste a tutto lo svolgimento delle elezioni lì dentro. L’occasione di farmi nominare scrutatore al Cottolengo mi si presentò con le amministrative del ’61. Passai al Cottolengo quasi due giorni e fui anche tra gli scrutatori che vanno a raccogliere il voto nelle corsie.

Il risultato fu che restai completamente impedito dallo scrivere per molti mesi: le immagini che avevo negli occhi, di infelici senza capacità di intendere, né di parlare, né di muoversi, per i quali si allestiva la commedia di un voto delegato attraverso al prete o alla monaca, erano così infernali che avrebbero potuto ispirarmi solo un pamphlet violentissimo, un manifesto antidemocristiano…

Prima ero a corto di immagini, ora avevo immagini troppo forti. Ho dovuto aspettare che si allontanassero, che sbiadissero un poco dalla memoria; e ho dovuto far maturare sempre più le riflessioni, i significati che da esse si irradiano, come un seguito di onde o cerchi concentrici» e conclude nella presentazione Calvino: «Lo scrutatore arriva alla fine della sua giornata in qualche modo diverso da com’era al mattino; e anch’io, per riuscire a scrivere questo racconto, ho dovuto in qualche modo cambiare» (ivi, VII).

Oltre ciò che è giusto

Scrive Calvino che l’immagine di una città diversa è possibile là dove non è l’interesse che conta ma la vita (ivi, 16). E prosegue: «La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile. Bastava che Amerigo continuasse a farne il giro e sarebbe incappato cento volte nelle stesse domande e risposte. Tanto valeva tornarsene al seggio; la sigaretta era finita; cosa aspettava ancora? «Chi agisce bene nella storia, – provò a concludere, – anche se il mondo è il ‘Cottolengo’, è nel giusto». E aggiunse in fretta: «Certo, essere nel giusto è troppo poco» (ivi, 46).

Nel mondo-Cottolengo lo scrutatore/scrittore, di fronte alla miseria della natura, sentiva aprirsi sotto di lui la vanità di tutto ma, al tempo stesso, scopriva un di più la resistenza persistente dell’amore. Riscopriva anche quello suo per Lia, malgrado le incomprensioni e il nonsenso, la vacuità e apparente incomprensione degli sguardi e delle parole.

La presenza di quel contadino e di suo figlio gli mostravano infatti un territorio per lui sconosciuto, quegli sguardi gli rappresentavano al vivo un nuovo «genere d’amore come una reciproca e continua sfida o corrida o safari, non gli pareva più in contrasto con la presenza di quelle ombre ospedaliere: erano lacci dello stesso nodo o garbuglio in cui sono legate tra loro – dolorosamente, spesso (o sempre) – le persone.

Anzi, per lo spazio d’un secondo (cioè per sempre) gli sembrò d’aver capito come nello stesso significato della parola amore potessero stare insieme una cosa del genere di quella sua con Lia e la muta visita domenicale al “Cottolengo” del contadino al figlio… e adesso si sentiva lucido, come se ormai tutto gli fosse chiaro, e comprendesse cosa si doveva esigere dalla società e cosa invece non era dalla società che si poteva esigere, ma bisognava arrivarci di persona, se no niente» (ivi, 75; 73).

C’è un fuoco segreto

Come c’è una città invisibile nella città visibile e una città felice in ogni città infelice, lo stesso si può dire del Mediterraneo, dell’Europa stessa e degli stati che la compongono. Ma è lì in quella invisibilità che arde un fuoco nascosto. Le città, come il Mediterraneo, sono luoghi di scambio non solamente commerciale: interessi indicibilmente illeciti, criminali, contro le persone, fanno della dignità umana, privata di ogni valore in sé, una nuova e redditizia merce di scambio.

Il fenomeno è colto in tutta la sua drammaticità nel recente report degli ispettori delle Nazioni Unite su traffici e rete degli orrori in Libia. In 289 pagine viene fotografato il sistema del comandante Bija che, in diverse sentenze in Italia è indicato come “il peggiore dei carcerieri”.

Aiutato dai due cugini continua a gestire una vasta rete di traffico e contrabbando. Il circuito chiuso che coinvolge trafficanti e guardia costiera libica nella cattura dei migranti, a terra e in mare, è molto di più che una spirale di abusi. Ci sono le prigioni segrete. C’è il controllo sul transito e il contrabbando di petrolio. E un tesoro da nascondere all’estero, aggirando le sanzioni grazie alla copertura del governo e della magistratura libica (fonte Avvenire, 1° ottobre 2023).

Segnalo poi un libro di una delle più importanti reporter sul campo che narra le sue cronache dall’inferno seguendo il cammino dei migranti. Mi riferisco alla giornalista Sally Hayden, capace di condurci sulla soglia dell’abisso, senza voltare lo sguardo, nel volume dal titolo: E la quarta volta siamo annegati. Sul sentiero della morte che porta al mediterraneo, Bollati Boringhieri, Torino 2023.

Una città mai vista

Italo Calvino ci ha ricordato che sono altri gli scambi che permettono di scoprire dentro la città infelice una città felice, nell’imperfezione il suo momento di perfezione, e sono quelli incastonati da quegli sguardi tra il contadino e suo figlio. Relazioni di umanità, di resistenza silenziosa nei luoghi di disumanità, di conflitti, del non senso, ma capaci di educare lo sguardo, farlo alzare oltre i confini a scrutare in profondità andando oltre la superfice. Uno sguardo scrutatore che da sospettoso e respingente diventa ospitale della dignità dell’altro.

Così, concludendo il racconto, Calvino mette in guardia la città dell’homo faber – dell’homo oeconomicus, o prigioniero delle ideologie – e le sue istituzioni nazionali od europee, a non spegnere quel fuoco segreto di cui sono generative le città invisibili e dell’imperfezione.

Questo vale anche per la nostra città se essa vuole divenire, per la consapevolezza dei suoi cittadini, «una città mai vista», «la Città» senza confini a patto di rinunciare a metterglieli noi perché l’amore non ha confini se non quelli che gli diamo.

«La città dell’homo faber, pensò Amerigo, rischia sempre di scambiare le sue istituzioni per il fuoco segreto senza il quale le città non si fondano né le ruote delle macchine vengono messe in moto e nel difendere le istituzioni, senza accorgersene, può lasciar spegnere il fuoco.

S’avvicinò alla finestra. Un poco di tramonto rosseggiava tra gli edifici tristi. Il sole era già andato ma restava un bagliore dietro il profilo dei tetti e degli spigoli, e apriva nei cortili le prospettive di una città mai vista.

Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un’altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero. Un’altra, pure grande, venne spazzando, con una scopa di saggina. Una grassa, grassa spingeva per le stanghe alte un recipiente-carretto, su ruote di bicicletta, forse per trasportare la minestra.

Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città» (ivi, 83).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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