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Sul turismo la zavorra dei mille ‘enti preposti’

“A territory worth experiencing in freedom”, e per noi “Un territorio da vivere in libertà” è un piccolo depliant-libretto che la Provincia di Ferrara ha pubblicato e che si trova sugli scaffali degli Iat, nelle agenzie di viaggio e d’affari, ai punti informativi del Comune, all’entrata dei luoghi di cultura ed arte.
Un altro libretto libretto parla della costa, del Parco del Delta, di Comacchio e dei sette lidi, entrando nei dettagli e mettendo il lettore-vacanziero in condizioni di muoversi adeguatamente e con interesse.
Ci troviamo di fronte a due strumenti di marketing prevalentemente turistico che evidenziano le peculiarità dei territori, anche se sarebbe stato opportuno, saperne di più di storia, tradizioni e vissuto, e se la visione avrebbe dovuto comprendere il lungo nuovo distretto turistico emiliano-romagnolo fino alla laguna veneta.
Certo è che l’iniziativa, e non è la prima, ci mostra che l’assessorato al Turismo della provincia e il suo staff c’è l’hanno messa tutta nell’elaborare i contenuti, affidandone la distribuzione sia alla rete pubblica che ad operatori turistico-commerciali. Anche se, forse, servirebbero altre idee e ulteriori strumenti di sostegno e di servizio.
Sarebbe interessante, inoltre, capire che tipo di coinvolgimento è stato attivato e chi cura questo settore, dalla Camera di commercio, alle Sovraintendenze, dalle Agenzie per lo sviluppo Sipro e Delta 2000, ai Comuni, alla Regione e al ministero con le loro rispettive strutture operative.
Come si legge, i soggetti attuatori sono tantissimi, a volte con competenze concorrenti, a volte in conflitto, a volte silenziosi, a volte in sovrapposizione e con “spezzettamenti” a dire poco incomprensibili.
Anche qui, in questa circostanza, e non è la sola, richiamiamo l’attenzione di Franceschini, ministro indicato a mettere ordine, a rilanciare il settore, affinché turismo e cultura siano una filiera di innovazione e sviluppo, a ricreare le giuste condizioni per più lavoro, più occupazione, più imprese e farne la prima azienda nazionale.
Generalmente i supporti tecnici per animare ed accogliere i turisti si costruiscono in ottobre e novembre guardando alla stagione dell’anno successivo (se si ragiona nel breve). Occorre ricordare a tale proposito che l’ente Provincia diverrà un ente di secondo grado e privo della funzione turismo-cultura, ci pare quindi giusto evidenziare almeno alcune preoccupazioni.
Che dire ancora, se non che il nostro presidente, che è stato anche il sindaco di Firenze, dovrebbe molto preoccuparsi, perché se non arriviamo primi come accoglienza, l’Unesco potrebbe da subito toglierci dall’elenco dei Paesi i cui beni sono patrimonio dell’umanità (ne abbiamo tantissimi).
Il pil, il deficit, il debito, i parametri dei fondamentali macroeconomici, il tasso di disoccupazione, la Bce e altre istituzioni internazionali possono essere viste e riviste nella loro elasticità di movimento, anche con meno variabili indipendenti, anche con meno rigore nelle cifre e nei numeri, ma sul turismo non si può più scherzare e quindi, carissimo Dario, devi correre e più di quanto in Africa fanno il leone e la gazzella.
Buon lavoro, e speriamo bene!

Il giardino, orchestra di colori in cerca di direttore

Il giardino, opera viva, regno del possibile e del paradosso, ha sempre un direttore che dirige l’orchestra, il giardiniere, colui che ascolta, guarda e al momento opportuno, sceglie cosa fare e cosa disfare. Il giardino per definizione è un luogo artificiale e ha bisogno di avere dei punti fermi nella sua struttura di base: ingressi, confini, percorsi, punti di interesse, ma questa impostazione rigida non gli impedisce di essere anche elastico, accogliente e adattabile, nomade suo malgrado. Un giardino può diventare un luogo incolto per scelta, ma un incolto è solo uno spazio abbandonato in cui la Natura riprende il suo lavoro. Affidare il proprio pezzetto di terra al caso può essere una scelta di principio, ma tante volte è la scelta di quei giardinieri che, stanchi di consultare montagne di cataloghi e di fare il giro dei vivai, decidono di fermarsi per vedere cosa succede.
A volte capita che il vento sia un alleato prezioso, soprattutto quando un giardino si trova in una zona ricca di flora selvatica e può succedere che la composizione di rose da catalogo con fiori di campo, diventi un quadro pieno di grazia e di poesia. Questo è quello che vorrei fare nel mio giardino, perché mi piace l’idea che qualcosa possa crescere in modo equilibrato senza troppi controlli da parte mia. In verità nel mio giardino, se si esclude il tappeto di margherite e pisaletto, quello che è cresciuto in modo casuale, non è arrivato poeticamente sulle ali di un fresco venticello primaverile, ma dentro prosaiche sportine di plastica. Chi coltiva erbacee perenni o rampicanti, prima o poi sarà costretto a buttarle o a distribuirle. In questo modo, e senza nessun tipo di programmazione, il mio giardino si è arricchito di tante varietà interessanti, come la deliziosa Lychinis coronaria con le sue rosette di foglie grigie e pelose; l’allegra Centranthus ruber (foto); la scultorea Euphorbia caracias; tutte piante rigogliose che ormai fanno parte del mio paesaggio e che sono arrivate brutte, mezze secche, spesso aggrumate in zolle di terra, proprio dentro alle sportine- regalo delle mie amiche.
Cosa sono le perenni? sono le generiche piante da fiore con il fusto non legnoso. Queste, al contrario delle piante annuali che ogni anno completano il loro ciclo di vita, se trovano un luogo di loro gusto, ricominciano a vegetare ogni anno allargandosi alla base. Durante l’inverno la maggior parte di loro sparisce o lascia in terra una base fatta di steli secchi e di foglie morte. Quando una pianta perenne ha qualche anno di vita, tende ad allargare questa base e per mantenere in forza la pianta è necessario dividerla con un coltello affilato. Questi pezzi di materiale vegetale, daranno vita a nuove piante e così facendo, si riempiono aiuole, bordi, vasi e prima o poi si finisce per mettere queste cose informi dentro ad una sportina e portarla ad amici con spazi ancora colonizzabili. Mettere in terra queste “cose vegetali” mi è sempre piaciuto, perché sono molto più semplici da coltivare rispetto alle semine o alle talee, e così ho potuto riempire il mio giardino di presenze tanto gradevoli quanto infestanti. Con le perenni non ci sono problemi, lo spazio c’è e ho ancora molti amici su cui contare, il problema si è creato con i rampicanti. Tutte le piante che si possono trasportare a pezzi, infilate senza complimenti in una sporta di plastica, hanno una costante: sono robustissime. Le piante rampicanti lo sono in modo particolare, quindi, prima di accettare una sportina con un omaggio del genere, dovrebbe essere obbligatorio fare un esame onesto delle proprie capacità di essere drastici nel tenerle sotto controllo. Le rampicanti come i glicini, le viti americane, le edere, le bignonie, i falsi gelsomini, i caprifogli, sono piante fortissime e hanno tutte la stessa capacità di crescere e riprodursi con estrema facilità, in pochi anni creano pergole spontanee, grovigli di vegetazione, masse verdi di grandi proporzioni. Le ho sempre accolte, piantate e ammassate, pensando di poterle controllare, ma la pigrizia, la mancanza di tempo e il mal di schiena, hanno molto indebolito le mie capacità e adesso mi ritrovo con angoli di boscaglia molto arruffati, che non sempre mi piacciono, ma che alla fine conservo, perché sono piene di insetti e qualche nido di uccellini, così il giardino cresce e si mantiene pieno di vita.

La biblioteca d’albergo, col book-sharing si arricchisce la vacanza

Soggiornare in albergo è un vero piacere, soprattutto per una donna. Le camere vengono pulite e rassettate regolarmente, la colazione servita, tv e servizio wi-fi per la gioia dei figli e per le ultime incombenze lavorative da sbrigare degli adulti. Ma quest’anno, qui in Liguria dove mi trovo per qualche giorno, l’albergo ha una piacevolissima novità, scaffali di libri che si possono liberamente prendere in prestito. A dire il vero, mi spiega la direttrice dell’albergo, Legambiente a cui sono associati di solito propone il book-sharing ai bagni, ma lei era molto interessata, ha chiesto e le hanno subito spedito una libreria Ikea e anche un buon numero di libri. Ha aggiunto qualche volume poi l’ha sistemata in un luogo ideale per la lettura: in veranda, sotto l’ombra degli archi (l’albergo si chiama “Sette archi” e si trova a Bocca di Magra, La Spezia) da cui, seduti sulle poltroncine di vimini e magari sorseggiando un buon caffè, si può godere una splendida vista sul porticciolo… barche, mare, pini marittimi, e in fondo le colline, a tratti imbiancate da blocchi di marmo che sembrano neve.

Sono venuta qui per incontrare le mie più care amiche di un tempo che non vivono più a Ferrara da anni, e questo era già un grandissimo regalo per me. Ma trovare inaspettatamente un “nuovo amico” che ti invita ad entrare in un mondo diverso, che ti dà il buongiorno la mattina e la buonanotte la sera, una storia altra in cui naufragare e raccoglierti un po’, è stato come sempre emozionante e, come mi capita ogni volta che incontro “un tipo interessante”, mi ha fatto mancare il respirocome trovare un tesoro in fondo al mare.

Oltre all’idea dello scambio di libri tra sconosciuti, ciò che più trovo divertente del book-sharing è passare in rassegna i titoli e immaginare i criteri che ne hanno guidato la scelta. Anche qui ce ne sono tanti, i più disparati, e molti rivelano un certo gusto: ci sono i Maigret e gli Ellery Queen Mondadori, autori come Pennac, Stefano Benni, e poi, incanto nell’incanto, i ferraresi Roberto Pazzi con Conclave e L’erede, e Giorgio Bassani con Il (nostro) giardino dei Finzi-Contini… e poi tanti libri in lingua, soprattutto Inglese e Tedesco, che fanno tanto Camera con vista (l’albergo tra l’altro conta diversi ospiti stranieri, cosa che aggiunge gusto, un senso di internazionalità all’ambiente e, almeno per la sottoscritta, aiuta a sentirsi davvero in vacanza).
La signora ha tenuto a spiegarmi che il sistema di prestito-scambio sta funzionando: gli ospiti prendono un libro e poi gliene donano due, l’altro giorno un tedesco ne ha lasciati quattro. Si dimostra entusiasta e non ha nessun timore di possibili razzie: sarebbe un peccato se ne mancassero all’appello, ma per la sua attività sarebbe una perdita economica irrilevante, tanto vale rischiare.

Il libro che ho scelto e che sto assaporando s’intitola Una bellissima ragazza, di Ornella Vanoni con Giancarlo Dotto (Mondadori, 2011), autobiografia molto ben scritta, esilarante e commovente, sincera ed ironica. In copertina, il ritratto stilizzato della cantante con un cespuglio di capelli rossi, come i miei, fatti di lettere dell’alfabeto e note musicali.

E’ stato un vero piacere incontrarla signora Vanoni… lei è un tesoro!

Ferrara si tinge di giallo: tre giornate ad alta tensione nel cortile di palazzo Paradiso

da: ufficio stampa Comune di Ferrara

Da venerdì 11 a domenica 13 luglio, in biblioteca Ariostea, una rassegna di letteratura gialla, noir e thriller.

Da venerdì 11 a domenica 13 luglio debutta a Ferrara a palazzo Paradiso sede della biblioteca comunale Ariostea (via Scienze 17) la prima edizione di “#GialloFerrara”, rassegna dedicata alla letteratura gialla, noir e thriller di qualità. Ideata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Ferrara si avvale del patrocinio della Regione Emilia Romagna e della direzione artistica dell’associazione culturale Gruppo del Tasso. Per presentare il programma e le caratteristiche principali della prima edizione del festival questa mattina al Teatro Anatomico della biblioteca erano presenti il vicesindaco e assessore alla Cultura Massimo Maisto, il dirigente del Servizio Biblioteche Enrico Spinelli, il responsabile delle attività culturali dell’Ariostea Fausto Natali, il presidente dell’associazione culturale Gruppo del Tasso Alberto Amorelli insieme ai direttori artistici del festival Riccardo Corazza e Matteo Bianchi e altri collaboratori.
“La nostra maggiore biblioteca – ha affermato il vicesindaco Massimo Maisto – vuole essere una piazza del sapere dove potersi incontrare e un luogo inclusivo aperto a tutti i cittadini dove accedere ai prestiti librari, certo, ma anche ricco di eventi e di opportunità. Come Amministrazione – ha poi aggiunto – abbiamo colto da subito le potenzialità di questa iniziativa, ancora sperimentale ma che speriamo destinata a strutturarsi nel tempo grazie anche all’impegno e all’entusiasmo dimostrato dagli organizzatori del Gruppo del Tasso. Per questo abbiamo sostenuto il progetto sia attraverso la collaborazione dei diversi servizi comunali sia con un contributo diretto (4mila euro ndr)”.

LA SCHEDA (a cura degli organizzatori, ufficio stampa “GialloFerrara”)

Festival #GialloFerrara: la prima rassegna di Giallo nella città estense

Il week end dell’11, 12 e 13 luglio si terrà a Ferrara la prima edizione di un festival unico nel suo genere: la rassegna #GialloFerrara. Con la conferenza odierna si vuole dare un’idea dell’humus sul quale è attecchita l’iniziativa, ovvero il condurre le penne nazionali all’interno della città e far scoprire le eccellenze locali oltre l’ombra delle sue porte: #GialloFerrara è stato ideato dall’Assessorato alla cultura del Comune di Ferrara e patrocinato dalla regione Emilia Romagna; oltre alla direzione artistica dell’associazione ‘Gruppo del Tasso’, si ricorda il main sponsor, la Cassa di Risparmio di Cento, che si è accollata l’onere di supportare l’iniziativa, e gli sponsor tecnici “Suono e immagine”, nonché l’editore ‘Meme Publishers’, dal cui sito tutti i titoli saranno scaricabili gratuitamente soltanto nelle giornate del Festival.
Durante i tre giorni di Giallo la nostra città vivrà numerose iniziative che avranno come oggetto la letteratura gialla, attraverso le cui linee conduttrici troveranno espressione i dialoghi tra scrittori, sceneggiatori, fumettisti e disegnatori. I direttori artistici Riccardo Corazza e Matteo Bianchi, credendo ancora fermamente nelle istituzioni pubbliche e sentendosi parte di una città che ha bisogno di sostanza creativa per non far fuggire i suoi giovani, hanno articolato il programma rendendo teatro degli incontri tre diversi luoghi: lo storico Palazzo Paradiso, la libreria Feltrinelli, e il suggestivo Chiostro di Santo Spirito. Durante tutto lo svolgimento dell’evento sarà possibile l’acquisto delle opere degli autori in programma grazie alla convenzione stipulata con la Libreria Feltrinelli.

L’instancabile staff della rassegna presenta continuamente eventi off e iniziative collaterali con il preciso intento di non smettere mai di stupire la città e i suoi visitatori: il flash mob del cantante bolognese Alex Mari durante il mercoledì universitario del 2 luglio, la cena col delitto del 10 luglio, i video-promo, e le anteprime degli ultimi romanzi di Matteo Strukul e Nicola Lombardi.
I grandi nomi che calpesteranno il suolo ferrarese sono: Marco Belli, Stefano Bonazzi, Davide Bonesi, Davide Bregola, Alfredo Castelli, Claudio Chiaverotti, Gaia Conventi, Andrea Cotti, Sandrone Dazieri, Delmiglio Editore, Maurizio De Giovanni, Romano De Marco, Lorenza Ghinelli, Sara Magnoli, Luca Malaguti, Nicola Manuppelli, Angelo Marenzana, Lorenzo Mazzoni, Gianluca Morozzi, Luca Poldelmengo, Angela Poli, Carlo Riberti, Roberto Roda, Stefano Scansani, Eugenia Serravalli, Marcello Simoni e Stefano Visonà.
Dietro a #GialloFerrara si nasconde un ampio Gruppo capace di lavorare con poco e senza sprechi: i direttori artistici Riccardo Corazza e Matteo Bianchi, l’ufficio stampa Irene Lodi e Silvia Franzoni, il web designer nonché autore di “Diablo”, la bicicletta ufficiale del festival, Ciro Patricelli, e numerosi proseliti e accoliti.

Ogni ulteriore informazione può essere reperita sul sito http://www.gruppodeltasso.it/home.html, e la pagina Facebook https://www.facebook.com/GialloFerrara riserva sempre nuove sorprese: stay tuned!

Questo il programma completo del festival:
Venerdì 11 luglio
Ore 10 – Albero delle storie (Palazzo Paradiso)
Giallo Kids: Adriana Trondoli guiderà i più piccoli alla soluzione di alcuni buffi misteri e sparizioni sotto il grande albero in giardino, seguendo le tracce nascoste tra le righe di storie e filastrocche.
Ore 11 – Libreria Feltrinelli Ferrara
Lorenzo Mazzoni ed Eugenia Serravalli (traduttrice di Richard Godwin) sul poliziesco tra l’Italia e il mondo. Modera Marco Belli.
Ore 19 – Libreria Feltrinelli Ferrara
Aperitivo di inaugurazione con performance itinerante dell’artista Christopher Channing
Ore 21 – Palazzo Paradiso
Marcello Simoni, Davide Bonesi e il direttore de “La Nuova Ferrara” Stefano Scansani dialogano sul Giallo

Sabato 12 Luglio
Ore 11- Libreria Feltrinelli Ferrara
Gaia Conventi, Gianluca Morozzi e Luca Malaguti presentano “Nero per N9ve”. Modera Delmiglio Editore.

Ore 17 – Sala Agnelli (Palazzo Paradiso)
Giallo Kids: Scrittori e bambini a confronto. A cura di Sara Magnoli e Angela Poli.
Ore 17 – Palazzo Paradiso
Luca Poldelmengo e Lorenza Ghinelli tra giallo e noir. Modera Stefano Bonazzi.
Ore 19 – Palazzo Paradiso
Andrea Cotti e Sandrone Dazieri: la scenografia di un crimine. Modera Luca Poldelmengo.

Domenica 13 Luglio
Ore 11 – Libreria Feltrinelli Ferrara
Carlo Riberti e Nicola Manuppelli (traduttore di Francis S. Fitzgerald) dentro un noir senza tempo. Modera Davide Bregola.
ore 17 – Sala Agnelli (Palazzo Paradiso)
Giallo Kids: Scrittori e bambini a confronto. A cura di Sara Magnoli e Angela Poli.
Ore 17 – Palazzo Paradiso
Il giallo dentro i fumetti: Alfredo Castelli e Claudio Chiaverotti tra Arsenio Lupin e Martin Mystère. Modera Roberto Roda.
Ore 19 – Palazzo Paradiso
Conversazione a due voci sulla narrativa gialla con Romano De Marco e Maurizio De Giovanni. Modera Davide Bregola.

[pubblicato il 4 luglio 2014 alle 17:40]

Da Giovanni Errani a Zoia Veronesi, le inchieste sulla Regione

di Salvatore Billardello

Il processo che ha portato alla condanna a un anno per falso ideologico del governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani e alle sue dimissioni comincia nel 2006, quando la cooperativa Terremerse, presieduta dal fratello Giovanni Errani, riceve dalla Regione un finanziamento di un milione di euro. Il caso politico-giudiziario scoppia però tre anni più tardi, quando è “Il Giornale” che accusa Errani di aver favorito la coop del congiunto: il finanziamento serve per costruire uno stabilimento vitivinicolo, che non verrà però ultimato entro la scadenza del bando. Il governatore allora affida ai funzionari Valtiero Mazzotti e Filomena Terzini la stesura di una relazione da mandare in procura, in cui si afferma che la procedura adottata è pienamente regolare. Una volta iniziate le indagini del pm Antonella Scandellari e della Finanza, si scoprono varie irregolarità commesse dalla coop di Giovanni Errani; alla fine del 2012 la Procura coinvolge nelle indagini anche il fratello Vasco. L’accusa è appunto falso ideologico: la relazione di Errani è per il procuratore Roberto Alfonso e per il pm Scandellari «un modo per occultare la falsità attestata da Giovanni Errani il 31 maggio 2006 circa il termine del lavori», che furono effettivamente conclusi un anno dopo: il finanziamento sarebbe dunque stato concesso illegalmente. Ma il legale Alessandro Gamberini parla di “sentenza sconcertante” e annuncia il ricorso in Cassazione, che non esaminerà il caso prima di ottobre-novembre, giusto i mesi delle nuove elezioni per il presidente dell’Emilia Romagna.

Dopo l’estate la Procura si occuperà anche dell’altra – più grave – inchiesta che coinvolge la Regione, quella sulle spese pazze; qui ad essere indagati sono tutti i nove capigruppo del Consiglio regionale. Finora le pm Morena Plazzi e Antonella Scandellari si sono concentrate sulle spese che vanno da maggio 2010 a dicembre 2011, ma da settembre l’inchiesta dovrebbe allargarsi anche al 2012. 1 milione e 852 mila euro il denaro pubblico di cui la Regione avrebbe indebitamente usufruito per cene, viaggi, gioielli, vestiti per bambini e tanto altro; le voci parlano ufficialmente di soldi per indagini e ricerche, consulenze, visite di rappresentanza o semplicemente rimborsi. Il Pd guida la speciale classifica delle irregolarità, con circa 673.000 euro spesi; seguirebbe il Pdl con 390 mila euro, la Lega Nord con 193 mila euro, Sel con 126 mila euro, Idv con 147 mila euro, Gruppo Misto con 97 mila euro, Federazione della Sinistra con 90 mila euro, infine 5 Stelle con 87 mila euro e Udc con 47 mila euro. Dopo l’estate arriveranno i primi verdetti, due finora sono state le condanne definitive: la prima per il capogruppo Idv Paolo Nanni, che ha patteggiato 23 mesi per aver speso 227 mila euro destinati al proprio gruppo per scopi personali; condannata con lui la figlia Olimpia, che lavorava come segretaria per il gruppo. Successivamente è stato condannato a due anni per truffa aggravata Alberto Vecchi, consigliere di Pdl e poi Fi, per aver usato circa 85 mila euro di rimborsi chilometrici ottenuti tra il 2006 e il 2010 per il percorso tra la una residenza fittizia stabilita a Castelluccio di Porretta Terme e la sede dell’Assemblea regionale in viale Aldo Moro.

Intanto il presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti dell’Emilia Romagna Luigi di Murro fa sapere che dopo l’estate arriverà anche il verdetto sulle interviste in tv a pagamento: i sette capogruppo regionali – Marco Monari del Pd, Luigi Villani del Pdl, Andrea Defranceschi del M5S, Silvia Noè dell’Udc, Gianguido Naldi di Sel-Verdi, Roberto Sconciaforni di Fds e Mauro Manfredini della Lega – coinvolti sono accusati di aver speso illegalmente 136.000 euro tra 2010 e 2012 per apparire in emittenti locali. Il procuratore generale della corte dei conti Salvatore Pilato ha parlato di “illiceità finanziaria” per questo tipo di interviste.

Ultima inchiesta che coinvolge la Regione Emilia Romagna e in prima persona il governatore dimissionario Vasco Errani è l’accusa per truffa aggravata formulata nei confronti di Zoia Veronesi, la segretaria storica dell’ex leader del Pd Pierluigi Bersani. Secondo le indagini condotte dal pm Giuseppe di Giorgio, Veronesi lavorò al fianco di Bersani a Roma tra 2008 e 2009, come curatrice dei rapporti tra le istituzioni centrali e il Parlamento, essendo in contemporanea sotto contratto con la Regione fino al 2010. La truffa ammonterebbe a circa 150 mila euro, cioè la retribuzione avuta dalla Regione per l’anno e mezzo circa in cui ha ricoperto un incarico per un lavoro non svolto. La decisione del gup Letizio Magliaro sul processo – che coinvolge anche Bruno Solaroli, allora capo di gabinetto della presidenza Errani – arriverà il 23 luglio. Sebbene Veronesi si sia poi dimessa, ha continuato ugualmente a lavorare per il Pd: “male non fare, paura non avere” ha dichiarato durante l’udienza preliminare dello scorso maggio, in cui è stata formulata l’accusa di quattro mesi e 20 giorni e 200 euro di multa.

[© www.lastefani.it]

Regione, le grandi manovre per la successione ad Errani

di Jessica Saccone

Il Pd cerca la quadra. Il dimissionario Vasco Errani, travolto dallo scandalo Terremerse e da un sentenza che lo condanna, lascia la Regione in balia di se stessa e il partito annaspare. Sì, perché le pianificate primarie non sembrano più la priorità per il centro- sinistra. Tempi stretti, strettissimi, quelli che devono portare i dem a scegliere il successore di Errani. Il giorno dopo la debacle giudiziaria del presidente della Regione, si raccolgono i cocci e si cerca un successore. I nomi più accreditati restano quelli di Stefano Bonaccini, segretario regionale uscente, e due renziani della prima ora: il deputato Matteo Richetti e Roberto Balzani, già sindaco di Forlì. In queste ore si sgonfiano invece le quotazioni di Daniele Manca, sindaco di Imola, e Simonetta Saliera, vicepresidente della Regione, bruciati dalla loro vicinanza politica a Errani.

Il premier Matteo Renzi, che ha twittato «Finché non c’è sentenza passata in giudicato un cittadino è innocente. Si chiama garantismo», manifesta la propria solidarietà ad Errani, ma è probabile giochi la carta del fedelissimo Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Una candidatura pesante, che potrebbe mettere a tacere ogni voce di dissenso interno. Il Pd, tuttavia, congela il congresso regionale, ma organizza un incontro con i suoi per lunedì prossimo e fare il punto.

Paolo Calvano, segretario pd Ferrara, ha cancellato la sua “Leopoldina” del Baraccano per annunciare la propria corsa alla segreteria regionale. “Il Pd della regione ha molte frecce al suo arco- dice Calvano ai microfoni di città del Capo-. Il faro per la scelta migliore non saranno automaticamente le primarie” precisa. “Si tratta di una vicenda amara” solidarizza Pierluigi Bersani, che su Errani dice: ”E’ un peccato che la gente perbene vada a casa”.
L’opposizione incalza. Tra i grillini, la scelta del candidato sarà certamente attraverso primarie online, mentre in casa centro- destra Massimo Palmizio, coordinatore regionale di Forza Italia, detta le regole. Ha convocato per stasera infatti un’assemblea con la Lega Nord, lasciando intendere le primarie di coalizione siano alle porte. Sostegno anche dal “rottamatore” forzista, Galeazzo Bignami, che conferma il proprio supporto e disponibilità.

Esprime la necessità di “tempi brevi”, sorvolando sui nomi del probabile successore, Anna Pariani, capogruppo Pd in viale Aldo Moro. Prima di prendere parte al vertice pomeridiano dei capigruppo del suo partito, la numero uno dei consiglieri regionali dem ha puntualizzato che il Pd intende presentarsi con un candidato unitario, bypassando le primarie.

Intanto, Vasco Errani si lecca le ferite e prende una giornata di riflessione in una località ignota ai suoi stessi collaboratori. Secondo alcune fonti, starebbe lavorando alla redazione della lettera di dimissioni, che dovrebbe formalizzare entro qualche giorno. Molto amareggiato, convinto della propria innocenza per la quale si rivolgerà alla Corte di Cassazione, è determinato a non legare la sua vicenda a quella dell’istituzione che rappresenta. Finisce, tuttavia, un percorso iniziato 15 anni fa. Tanti gli impegni e traguardi raggiunti, soprattutto quelli per la ricostruzione dei centri terremotati, di cui era commissario, e per la difesa idrogeologica delle zone colpite nel Modenese dalla recente alluvione.

[© www.lastefani.it]

La cervicale… che dolore!

In una colonna vertebrale normale, la testa deve essere posta direttamente sopra la colonna vertebrale. Questa posizione mantiene il peso della testa sopra il centro di gravità del corpo.
La testa non è sostenuta da un’asta rigida, ma piuttosto da un arco di 43 gradi formato dalle ossa vertebrali del collo. Questo arco funge da ammortizzatore per la nostra testa ad ogni passo che facciamo. A volte, a causa di una cattiva postura, in particolare durante la lettura o al computer, mentre scriviamo sms, a causa di un incidente o per svariate altre ragioni, la postura di una persona cambia talmente che la testa viene spostata in avanti in una posizione neutra.
Questo cambiamento di postura del collo ha due effetti: uno, riduce l’arco di 43 gradi della curva cervicale; due, pone la testa in avanti rispetto al centro di gravità del corpo, provocando diversi problemi.

cervicale
Posizione del collo sulla testa, normale e sbagliata

In primo luogo, per ogni centimetro di spostamento in avanti, la testa pesa 1 kg. in più, fino ad un massimo di 5 kg., caricando il collo e le spalle di un grande lavoro. Provate voi stessi: tenete una palla da 5 kg davanti alle spalle, poi spostatevi in avanti. Percepite maggiore peso? Questo cambiamento di posizione della testa porta i muscoli del collo e della parte superiore della schiena a dover lavorare di più per riuscire a tenere la testa in una posizione corretta (stella rossa sul diagramma). Ciò può causare dolore a collo e schiena e affaticamento muscolare. La ricerca ha dimostrato che il flusso di sangue attraverso un muscolo diminuisce con l’aumentare della contrazione, con il conseguente accumulo di acido lattico e altri metaboliti che causano dolore muscolare e sofferenza.

In secondo luogo, quando la testa si sposta in avanti del centro di gravità del corpo, la colonna vertebrale nella zona del collo si allunga e si raddrizza. La perdita della curva cervicale altera le proprietà meccaniche del midollo e delle radici nervose, e questo potrebbe cambiare il nutrimento dei neuroni che compongono queste strutture. Infatti, il collo si collega al cervello attraverso radici sensitive e queste ai gangli nervosi e al resto del corpo, il midollo spinale del collo è particolarmente importante per la funzione di ogni organo. La correzione della postura della testa in avanti e il ripristino della lordosi cervicale è correlata anche all’aumento della funzione polmonare. In generale, dunque, la perdita della curva cervicale può causare una miriade di problemi di salute, di grandissime sofferenze, in particolare nella popolazione geriatrica.

Terzo, la perdita della lordosi cervicale provoca sollecitazioni innaturali sulle ossa vertebrali della colonna vertebrale cervicale. La legge di Wolf afferma che se sottoponiamo un osso ad uno stress costante, ad esempio un’eccessiva tensione da parte dei tessuti adiacenti, esso può deformarsi: la ricerca ha dimostrato che questo si traduce in un processo artritico con crescita di speroni ossei e osteofiti sulla colonna vertebrale cervicale.

Da ultimo, con la perdita della lordosi cervicale vi è la probabilità di lesioni da colpo di frusta e questo può avere implicazioni cliniche e biomeccaniche a lungo termine.

Fortunatamente, l’osteopatia può aiutare a correggere la postura della testa in avanti e la perdita di curva cervicale con programmi specifici.

Che tipo di miglioramenti potreste vedere dal correggere la postura in avanti della testa e il ripristino della curva cervicale? Per primo, meno stress sul proprio corpo e quindi un grande beneficio per la vostra salute nel suo complesso. Ma ancora più importante: la riduzione della deformazione meccanica dei tessuti del midollo spinale e delle radici nervose, permetterà al sistema nervoso di funzionare meglio. A livello preventivo, il restauro della curva cervicale può ridurre il rischio di lesioni da colpo di frusta in caso di incidente.

Ferrara balloons festival al decimo decollo

Dal 5 al 14 e il 20-21 Settembre 2014, a Ferrara, il Festival delle mongolfiere
più importante d’Italia festeggia la decima edizione

da: ufficio stampa Ferrara Fiere
Oltre centoventimila visitatori su trecentomila metri quadrati di parco. Circa millecinquecento passeggeri di voli liberi e vincolati, sulle mongolfiere di più di trenta equipaggi. Special shapes (mongolfiere dalle forme curiose e originali) e piloti in rappresentanza di nove nazioni. Cento espositori e trecento esibizioni ed eventi sportivi.
In questi pochi dati è racchiuso il successo del Ferrara Balloons Festival che, dopo aver ottenuto dal Ministero del Turismo italiano il riconoscimento di “Patrimonio d’Italia”, si prepara a festeggiare la decima edizione, dal 5 al 14 e il 20-21 Settembre 2014, nell’oasi verde del Parco urbano “Giorgio Bassani” di Ferrara.
A fare del Ferrara Balloons Festival la più importante manifestazione delle mongolfiere in Italia, nonché una delle più prestigiose d’Europa, è la perfetta alchimia tra il contesto naturale in cui si svolge – laghetti, piste ciclabili e percorsi pedonali, a due passi dal centro storico di Ferrara, gioiello del Rinascimento e Patrimonio dell’Umanità decretato dall’UNESCO – e la ricca offerta che il Festival propone a un pubblico trasversale, fatto di famiglie e persone di ogni età.
L’elenco è lungo e comprende gli eventi sportivi e l’area riservata ai bambini; il piacere dello shopping, a zonzo tra gli stand, e l’opportunità di gustare le specialità enogastronomiche del territorio; l’intrattenimento artistico e musicale, il concorso fotografico, ma soprattutto lo spettacolo dei “giganti dell’aria”. Le mongolfiere – protagoniste indiscusse dell’evento – spiccheranno il volo in due sessioni giornaliere (7.30 e 17.30), mentre le notti di Sabato 6, 13 e 20 Settembre, con il “Night Glow”, saranno illuminate a suon di musica. Oltre ai tradizionali aerostati a forma di lampadina, quest’anno saranno presenti anche numerose, inedite special shapes, come il Bicchiere di Birra, il Pinguino, il Clown e Babette.
Se nell’Area Mongolfiere gli equipaggi cureranno il gonfiaggio e il decollo dei balloons, garantendo ai passeggeri voli liberi e vincolati in totale sicurezza, il Villaggio dello Sport sarà il cuore pulsante di tantissime attività sportive: ginnastica ritmica, con una rappresentativa della Nazionale, pattinaggio, sparring, danza classica, moderna, contemporanea e jazz, flamenco, balli caraibici, “uguale od opposto”, wellness dance, yoga, hip hop, fit boxe, jujitsu, tchoukball, hockey, senza dimenticare l’“Educamp – Scuole aperte per ferie!”, il campo sportivo multidisciplinare promosso dal CONI – Comitato Regionale Emilia-Romagna, che i bambini dai 6 ai 12 anni potranno frequentare da Lunedì 8 a Venerdì 12 Settembre.

L’Area Sosta Camper attrezzata consentirà ai camperisti di immergersi nel Festival ventiquattro ore al giorno, senza spostarsi di un metro, mentre la Città Magica, allestita e curata dal Rione Santo Spirito, farà rivivere le atmosfere medievali dei castelli e dei cavalieri.
Nel Villaggio dei Bambini, i più piccoli troveranno un Festival costruito su misura per loro, con gonfiabili, tappeti elastici, tiro a segno, pony e cavalli sui quali fare una passeggiata, motoquad e motonautica con bolle, l’imperdibile ponte tibetano, per cimentarsi come Indiana Jones in avventure mozzafiato, e stimolanti laboratori didattici.
Come ogni anno, sarà possibile ammirare alcune tra le espressioni più spettacolari delle Forze dell’Ordine, a partire da quelle che l’Aeronautica Militare allestirà nella propria dall’area, fino alle sorprese che le pattuglie dei Carabinieri del Comando Provinciale di Ferrara riserveranno al pubblico.
Tra le novità dell’edizione 2014, ce n’è, poi, una particolarmente curiosa e rigorosamente legata al volo, ovvero i droni. Chiunque lo desideri potrà, infatti, pilotare uno di questi gioiellini tecnologici – vera e propria rivelazione degli ultimi anni –, sotto la guida attenta di Marco Robustini, uno dei massimi esperti mondiali del settore, e provare così l’esperienza originale, divertente e dinamica di catturare immagini dall’alto. L’appuntamento con i droni è fissato all’Arena mongolfiere nei due weekend del Festival (5-6 e 13-14 Settembre). Le prove di volo, che si svolgeranno fino al tramonto, saranno precedute da dimostrazioni e spiegazioni pratiche.

Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito www.ferrarafestival.it.

I “falsi amici” della scuola pubblica

Alcune persone che si occupano di istruzione e rivestono importanti cariche istituzionali, spesso usano un linguaggio comprensibile ma talmente diverso, da quello di chi vive la scuola, da apparire lontani, estranei o addirittura discordanti.
C’è una scena del film The Blues Brothers del 1980 che mi aiuta ad introdurre qualche esempio scolastico.
Ricordando i tempi della loro infanzia Jake ed Elwood, cioè i Blues Brothers (John Belushi e Dan Aykroyd), rivolti a Curtis (Cab Calloway), nella versione originale del film dicono: “Curtis, you and the Penguin are the only family we got. You’re the only one that was ever good to us… singing Elmore James tunes and blowing the harp for us down here.”
Nella versione italiana si ascolta questa traduzione: “Curtis, tu e la pinguina (la suora) siete tutta la nostra famiglia. Tu sei l’unico che sia stato buono con noi… per noi cantavi le canzoni di Elmore James e suonavi l’arpa in cantina”.
Blues_ridimensionareOra visto che l’arpa è uno strumento che non ha nulla a che vedere con il blues e premesso che la traduzione letterale di “harp” è “arpa” ma la trasposizione nella lingua del blues è “armonica a bocca”, la corretta versione sarebbe stata: “… per noi cantavi le canzoni di Elmore James e suonavi l’armonica in cantina”.
I traduttori quindi si sono fatti ingannare da un “falso amico”.
In italiano i “false friends” più ingannevoli sono quelle parole di una certa lingua che, presentando una somiglianza morfologica con vocaboli di un’altra lingua, hanno evoluto il proprio significato in maniera diversa: come “harp”, appunto.
In senso lato, ci sono anche esempi scolastici di “false friends”.
Il ministro Stefania Giannini, ad esempio, quando parla di “pregiudizi culturali che in Italia impediscono l’effettiva parità per le scuole non statali” usa il termine pregiudizio al di fuori del contesto adatto.
Infatti se il pregiudizio (dal latino prae, “prima” e iudicium, “giudizio”) è un giudizio prematuro ovvero basato sulla non completa conoscenza dell’argomento, il testo che recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”, non è un “pregiudizio” ma un ”comma” dell’articolo 33 della nostra Costituzione che descrive bene l’orizzonte nel quale i padri costituenti collocavano la scuola pubblica e quella privata.
Il ministro usa quindi un vocabolo inadatto per portar acqua al proprio mulino che è quello di introdurre l’effettiva parità per le scuole non statali.
????????????Il sottosegretario Roberto Reggi quando dice che la scuola non sarà più un “ammortizzatore sociale” usa un linguaggio preso dalla meccanica per creare volontariamente un’immagine negativa della scuola come fosse parte di un macchinario che ha assorbito gli urti occupazionali senza preoccuparsi della qualità dell’istruzione.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, ad esempio, quando afferma che “la scuola è il punto di partenza” e poi, ad esempio, decide di esentare dal pagamento dell’IMU e della Tasi le scuole paritarie, accetta:
1) di non accompagnare il termine ”scuola” con nessun altro termine per poter giocare sull’equivoco: scuola “pubblica/privata”;
2) di parlare di “punto di partenza” senza definire il percorso e il punto d’arrivo.
Nei casi sopra citati, posso considerare i termini “pregiudizio, ammortizzatore, scuola e punto di partenza” come “falsi amici” perché sono stati usati con una finalità che condiziona negativamente il senso della realtà.
Credo ci sia bisogno di imparare a riconoscere bene i “falsi amici” della scuola pubblica per evitare pericolosi fraintendimenti e aspettative elevate.
Infatti quando alcuni personaggi, che si occupano di istruzione e rivestono importanti cariche istituzionali, creano deliberatamente equivoci e condizionano negativamente il contesto, li si può considerare a pieno diritto “colonizzatori di territori linguistici preesistenti”, “manipolatori di senso”, “condizionatori di significato” e di conseguenza “false friends”.
Come l’arpa non è mai stata e mai sarà uno strumento per suonare il blues, anche chi parla di istruzione usando parole equivoche prese da vocabolari ambigui non potrà mai essere un “true friend” ossia un “vero amico” della scuola pubblica.

P.S. Come l’arpa con il blues, anche il violoncello non ha molto a che fare con il rock… tranne rarissime eccezioni (che confermano la regola).
Ad esempio questa che, nonostante crei inizialmente equivoci, poi si fa riconoscere per la sua originale e lucida provocatorietà: i 2Cellos suonano “Thunderstruck” degli AC/DC. [vedi il video]

 

Le risposte invano attese del sindaco di Comacchio

Curioso l’ atteggiamento del sindaco di Comacchio il pentastellato Marco Fabbri che a una sollecitazione da me inviatagli tramite uno dei giornali cittadini sulla situazione dei venditori abusivi sulla spiaggia del Lido degli Estensi non crede sia necessaria una risposta. Per rinfrescargli la memoria ripropongo parte della mia interrogazione. Avendo affittato ombrellone e sdraio in prima fila mi avvio a raggiungere il mio posto:

“[…]dopo centinaia di metri riesco a intravvedere la linea luminosa del mare e… sobbalzo. Davanti a me un infinito prolungarsi di sacchi, bancherelle, mercanzie stese al sole davanti a cui s’accalcano e toccano e valutano villeggianti d’ogni tipo […] Alzo poi l’occhio dalla lettura del mio libro e vedo passarmi accanto ed offrirmi oggetti di ogni tipo esibiti dagli ultimi della terra […]. A tutti oppongo un imbarazzato “no grazie” che a volte tradisce impazienza se la richiesta si fa insistente e imperiosa. Penso che quegli infelici si sudano letteralmente il tozzo di pane (molti vengono dl Bangladesh) offrendo oggetti assurdi che mimano e imitano i desideri delle folle che palpano e scelgono illudendosi di essere “in”, lasciandosi travolgere dal sogno della moda. Poi mi si dice (lo leggo sulla stampa locale) che chi sarà sorpreso a comprare merce sulla spiaggia potrà essere multato di una cifra che può raggiungere i 10.000 euro. Stupisco per lo sprezzo del pericolo dei miei co-villeggianti. Poi mi si rivelano dati inquietanti. I poveracci venditori […] sono in mano a mafie che sembra – dico sembra – minaccino i proprietari dei bagni di tagliare gli sdrai o altre azioni violente se avvertono gli addetti alla sorveglianza che a quanto pare dovrebbero elevare la multa agli acquirenti. E a lei, signor Sindaco, domando “Le risulta?” O son chiacchiere d’estate? Ma perché poi alcuni bagni non hanno davanti le bancarelle? Che si stendono più numerose davanti ai bagni in prossimità del porto canale? Mai vorrei portare danno agli ultimi disperati della terra; ma la prego si adoperi per trovare una soluzione decente e umana per questa inquietante situazione. Non bastano forse i balli lungo il viale Carducci rendere attrattivo il Lido degli Estensi. Non basta adoperarsi per trovare una soluzione alle “follies” che un archistar – del resto mio amico – ha graziosamente sparso per il suddetto viale rendendo ancora più evidente la bruttezza architettonica del luogo dello struscio. Si dia invece una risposta verosimile ai poveracci che malinconicamente trascinano sacchi di inutili pseudo vanità per dare l’illusione di un lusso che è invece miseria e sudore.”

Mi sembra che l’interrogazione non sia poi né offensiva né provocatoria, ma dal giovane Sindaco per ora non arriva risposta: chissà se riproponendogli il quesito su un giornale on line riesco avere una risposta visto che i seguaci di quel partito parlano e scrivono solo per via mediatica.

La situazione dei Lidi non è certo tra le più rosee. Teorie di cartelli con scritte “affittasi” o “vendesi” costellano sempre più numerose vie e piazze, ma nonostante questo minaccioso segno di saturazione o sovrabbondanza di alloggi sembra che la febbre edilizia non abbia fine e ancora al posto di villette della prima generazione sorgono orrendi caseggiati sempre più grandi che letteralmente soffocano il verde rimasto. E le spiagge si allungano e ogni bagno per sopravvivere deve impiantare piscine e ancor più fantasmagorici luoghi pseudo disneyani dove placare la voglia di divertimento dei più piccini poco propensi a sobbarcarsi centinaia di metri di traversata per raggiungere un mare che sembra un miraggio. Di tutto questo sembra poco importare anche a quel che resta di commercio locale ormai arroccato sulla difensiva e solo attento a non giocarsi anche i clienti più affezionati. Quando alla fine settimana i Lidi sono invasi dalle folle che ormai possono contare solo su quei due giorni di attività allora sì che diventa un’impresa riscontrare anche il più elementare segno di cortesia. Le spicce signorine o i crestati boys dei bar indifferentemente usano il “tu” per tutti: dal piccino al novantenne. Gli sguardi annoiati o altezzosi (caratteristica molto in voga nel ferrarese) si mescolano con il sempre più popolato e popoloso sciame di venditori abusivi costretti a ritmi allucinanti sotto l’implacabile sole mentre sempre più roco, quasi un’invocazione, si fa il tradizionale grido: “cocco bello”.

Penso a cosa sarebbero potuti essere i nostri Lidi che in quanto a natura nulla avevano da invidiare luoghi famosi come ad esempio le foci del Rodano. Ma qui hanno spazzato via le dune e la flora locale; hanno costruito luoghi di villeggiatura che volevano o potevano solo essere imitazione di una vita da spiaggia mutuata sulle più banali e ovvie soluzioni. Ora la natura sembra prendersi le sue vendette. L’ampliamento del porto canale porta con se un moto di reflusso che danneggia le imbarcazioni tanto da rendere necessario una specie di Mose che regoli l’entrata del mare nel porto. Le spiagge da una parte sono erose, dall’altra s’allungano all’infinito. Gabbiani e colombacci invadono i luoghi abitati rendendo pericoloso il transito e depositando sull’ignaro/colpevole villeggiante merde gigantesche che ti rovinano indumenti e umore.

Si discute appassionatamente se è giusto far pagare il posteggio a macchine e campers. Da un mese non ho mai visto nessuna forza dell’ordine municipale.

Dimenticavo. Un fiore all’occhiello dell’industria del nostro paese, le Poste italiane – dixit Passera – versano qui al Lido in una condizione allucinante. A fronte di file interminabili affrontate con una gentilezza commovente dal direttore e da un’impiegata mi vien spontaneo di chiedere perché non c’è una comune macchina che distribuisca i numeri della fila. La risposta desolata è che le Poste l’hanno rifiutata. E in più che un terzo impiegato richiesto non si è presentato. Per una banale operazione dai 45 minuti all’ora e mezza di fila.

Ed è per questo signor Sindaco di Comacchio che mi piacerebbe avere una qualche risposta e mi scuso se nella mia impotente indignazione talvolta al luogo di chiamarlo Lido degli Estensi lo chiamo per gioco ma anche con un poco di verità il Laido degli Estensi.

A modo suo. Un breve intervento fuori stagione

Per noi che abbiamo avuto una formazione culturale e politica nei leggendari e molto discussi anni sessanta, non è così difficile trovare un modello culturale che dia un orientamento alla nostra vita o che ci ispiri nella visione di come dovrebbe essere una città colta, vivace, civile. Ci sono autori immensi come Leopardi, Goethe, Manzoni, Croce, Gobetti, Brecht, Mann, Ungaretti, Bobbio, per dare solo qualche esempio, e così via fino a Magris o Habermas, che per noi sono e restano i ‘Maestri’. Ma purtroppo questi orientamenti, questi fari intellettuali non hanno più nessun peso culturale per i giovani d’oggi.
Non ho voglia di cantare una grande lamentazione sul degrado culturale di questi ultimi anni, cosa totalmente inutile, o forse utile solo a chi scrive per calmarne i nervi. Ogni professionista oggi, sia esso un architetto che un artista, un avvocato o un giornalista (per parlare della mia categoria), dovrebbe continuare con il lavoro di ogni giorno ma in modo ‘kantiano’, che significa che io mi aspetto dagli altri un lavoro serio, competente, coscienzioso, ma anche ricco di creatività e curiosità, e che anch’io a mia volta mi comporto reciprocamente in modo responsabile nel mio lavoro, nella mia vita, come cittadino d’Europa, di Ferrara o di Monaco. “Resistere, resistere, resistere” come slogan contro il degrado della vita pubblica e della responsabilità per la “res publica” mi pare molto giusto, ma non è sufficiente perché è un atteggiamento troppo passivo ed anche retorico. Si sente un po’ il lontano “vento sessantottentesco” che talvolta ci manca in questi giorni di “cash & carry”.
Thomas Mann ha definito una volta il senso della parola “traduzione”: orientarsi ad un modello a modo suo (in tedesco: auf eigene Art einem Beispiel folgen). Noi, e mi pare i giovani d’oggi inclusi, abbiamo bisogno di una “Vita attiva” (Hannah Arendt), di creatività umana, di un senso profondo per l’urgenza di una “globalizzazione civile”. Oggi non si può parlare o scrivere di cultura rimanendo dentro le mura di Ferrara o di Monaco, ma nemmeno rimanendo nella cornice della sola Europa. Dobbiamo aprire le finestre delle nostre case, talvolta soffocanti e piene di polvere culturale ma anche di una storia civile, umana e di grandi valori. E non si tratta solo di difendere il nostro grande tesoro culturale, artistico e di valori democratici. Dobbiamo fare uno sforzo e andare oltre, aprire le nostre finestre per trovare nuovi orizzonti culturali. Oggigiorno essere solo italiano o tedesco o spagnolo non basta più per vivere una vita al passo coi tempi. Essere solo italiano o tedesco, oggi, è anche molto noioso, per me troppo.

Carl Wilhelm Macke (Monaco di Baviera/ Ferrara/)

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Giovani timonieri nelle acque della vita al Lago delle Nazioni

«Di tutto quanto esiste è il mare, io credo, la gran meraviglia, o è soltanto la giovinezza? Chi può dirlo? Ma voialtri qui – tutti avete ricavato qualcosa dalla vita: denaro, amore (ogni volta che si scende a terra) – e, ditemi, non è stato quello il più bel tempo, quando eravamo giovani in mare, eravamo giovani e non avevamo nulla, salvo batoste e, a volte, l’occasione di provare la propria forza – non è questo soltanto che tutti rimpiangete?». Questo dice Marlow alla fine di Gioventù, romanzo breve di Joseph Conrad, che più di ogni altro scrittore ha saputo raccontare quel rapporto di formazione, sfida e sintonia unica che può legare le persone al mare, alla natura, agli elementi.

Vicino a Ferrara, in quell’ambiente straordinario che è il Delta del Po, un pezzettino di acqua, vento, forza e disciplina dà la possibilità a giovani uomini e giovani donne di provare la propria forza e di misurarla con quella della natura. Con rispetto e coraggio, umiltà e padronanza.

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Allievo del Centro nautico (foto Luca Pasqualini)

Questo posto è il Centro nautico del Lago delle Nazioni, uno dei tre centri italiani della Lega Navale, che è l’ente morale di cui sono emanazione diretta il centro delle Nazioni di Comacchio – a Ferrara –, quello di Taranto e quello di Sabaudia.

L’esperienza che possono fare ragazzi tra gli 11 e i 15 anni dura dodici giorni. E’ il tempo del corso, al termine del quale l’allievo ottiene un attestato di capacità tecnica per la conduzione di un’imbarcazione a vela e di una canoa. Dodici giorni durante i quali cominci prendendo confidenza con l’acqua, ti ritrovi prima al timone e poi a prua a manovrare le vele con l’istruttore e quindi ti vedi assegnare una barca da armare, ritirare in secca e disarmare. Al termine, davanti a familiari increduli, i ragazzini sono protagonisti del saggio non agonistico, che li vede impegnati a salire sulla propria barca, a fare bordi, virate, retromarce, prove di scuffiamento e poi di raddrizzamento del proprio mezzo.

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Giovane navigante (foto Luca Pasqualini)

Al quarantesimo anno di vita, il centro si rinnova un po’ e rilancia i valori nautici di sempre con un pizzico di attualità; come la pagina Facebook dedicata, dove seguire giorno per giorno progressi ed esperienze dei ragazzi. Lo racconta il nuovo direttore Marco Camirro. Che spiega: «La barca richiede la giusta concentrazione e preparazione. Bisogna imparare a sentire il vento, prendere confidenza con gli elementi senza mai dimenticare rispetto e attenzione, perché sennò scuffi. Questo fa parte dell’iniziazione alla disciplina; andare in barca vuole dire sapere valutare i propri limiti trovando di volta in volta il comportamento adeguato a ciò che l’ambiente circostante richiede». Una scuola di vela, insomma, che diventa scuola di vita. «La Lega navale – dice il neo direttore – è un ente pubblico morale, il cui obiettivo non è il profitto, ma la creazione di valori etici, che usano lo strumento della barca».

Lezioni di teoria si alternano alla pratica in acqua, il tempo libero è scandito dalle attività sportive con tornei di calcetto, ping pong e pallavolo. L’alloggio è all’interno delle tende, dove bisogna prendersi cura di ordine e quotidiane incombenze, perché la disciplina è la prima regola dell’aspirante navigatore. Un percorso di formazione che quest’estate si ripeterà cinque volte, nei cinque turni di vacanze sportive. Lunedì è partito il gruppo del terzo turno, che terminerà venerdì 18 luglio. Il turno successivo andrà dal 21 luglio al 1° agosto e l’ultimo dal 4 al 15 agosto con la conclusione che culminerà nella Festa ferragostana del lago.

Per diventare, così giovani, piccoli Naviganti come quelli della canzone di Ivano Fossati, «allenati alla corsa/allenati alla gara/e preparati a cadere/e a tutto quello che s’impara».
[ascolta il brano intonato]

Concesso l’asilo politico, Giuba torna a casa dalla sua famiglia

“Stiamo preparandoci per la grigliata, stasera si festeggia: mia moglie Giuba torna da noi. L’odissea è finita, ha avuto l’asilo politico”, è al settimo cielo Afrim Bejzaku, 32 anni, rom, che dà l’annuncio dall’altra parte della cornetta. Dopo un mese e 15 giorni trascorsi al Centro di identificazione ed espulsione di Fiumicino Ulfindana Bejzaku torna in famiglia. Sono le cinque del pomeriggio, Giuba è sul treno, nei pressi di Bologna e conta i minuti che la separano dalla stazione di Ferrara da dove farà rientro a Berra. Finalmente a casa dal marito e dai suoi cinque figli. “Quando è arrivata la notizia mi sono talmente emozionata al punto da mettermi a piangere. Sono davvero felice, è chiaro, dovrò trovarmi un lavoro”. Origini macedoni Giuba, 34 anni, da 29 in Italia, casa di proprietà, cinque figli di cui quattro minori, incensurata e senza patria, ha rischiato 18 mesi di detenzione al termine dei quali sarebbe comunque rimasta in Italia. Non c’è Paese dove rimpatriarla, in Macedonia la sua nascita non è mai stata registrata, è un apolide di fatto, pizzicata senza documenti mentre elemosinava a Codigoro. “La nostra vicenda è simile a quella di tantissimi altri – racconta Afrim – ma noi non siamo arrivati da due giorni, viviamo in Italia da più di 20 anni, i nostri figli sono nati qui e frequentano regolarmente la scuola”. Lo si voglia o no, è una realtà in contraddizione con una legge dai molti limiti e, diciamolo, dai notevoli sprechi. Giuba non è una mosca bianca, di casi come i suoi ce ne sono tanti e se la Commissione chiamata a valutare l’opportunità di concederle l’asilo politico, glielo avesse negato, la detenzione al Cie non avrebbe giovato né a lei, né ai suoi bambini e neppure alle tasche dei contribuenti, perché sarebbe rimasta comunque qui. “Anche solo un mese è stato un’assurdità, c’è caso e caso. Eppure il giudice di pace per ben due volte s’è pronunciato a favore dell’espulsione”, continua Afrim. “E’ stato un momento duro, soprattutto per i miei figli – racconta Afrim – sono stati ammalati, febbroni altissimi e la ragazzina di 12 anni, che ha problemi psichici, è stata trasportata al pronto soccorso per le convulsioni”. Afrim, agli arresti domiciliari, ha potuto contare sui parenti e comunicare attraverso la rete, ma all’ospedale come ovvio ha dovuto essere assente per gli obblighi di legge. “Fosse stata presente almeno la madre sarebbe stato diverso. Non è tanto semplice raccontare ai bambini cosa sta accadendo e pretendere una loro totale comprensione dei fatti”, dice.

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I coniugi Afrim e Ulfindana “Giuba” Bejzaku (foto di Ippolita Franciosi)

“A novembre la questione dell’espulsione potrebbe porsi anche per me – spiega – Potrebbero mandarmi in Kosovo da dove provengo, tutto dipende dal permesso di soggiorno e dal lavoro. E’ un serpente che si morde la coda, se manca uno non c’è l’altro e viceversa”. Le possibilità di un happy ending ci sono, la vicenda della famiglia Bejzaku ha un sostenitore, un’associazione di volontariato bolognese che si sta adoperando attraverso l’intervento di un legale di fiducia per dare un futuro stabile e stanziale a genitori e bambini.

Mosca verdissimamente Mosca…

Da MOSCA – Mosca è davvero verde, ricca, di cultura e tradizioni, ma anche di eventi, manifestazioni, scambi e, soprattutto, di parchi e giardini. Capitale da sempre circondata da enormi spazi verdi, la loro cura richiede non solo tanta disponibilità economica ma anche amore e grande rispetto per la natura. E qui tutto questo non manca. A maggio di ogni anno, usciti dal rigido inverno, i colori si risvegliano, i parchi brulicano di giardinieri indaffarati che rifanno completamente il manto erboso e fiorito di questi spazi dove i moscoviti vengono a respirare ogni domenica estiva o ogni sera dopo il lavoro. Una corsetta, una pedalata, una partita a tennis, e poi pattini, monopattini, biciclette, monocicli, skateboard e bambini vocianti riempiono stradine e vialetti profumati.
Guida colorata sotto braccio, mappa aperta sul cuore e mente libera, eccoci pronti ad avventurarci nella nuova e conturbante Mosca. Nuova perché ci ha accolto a braccia aperte, perché profuma di avventura, perché ci apre un mondo inaspettatamente verde e fresco. Nuova perché noi stessi siamo nuovi, rinati e felici, esultanti, intraprendenti, frementi, scalpitanti, impazienti. Entriamo al Gorky park allora. Forse il più bello fra i 96 parchi e i 18 giardini moscoviti.

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Gorky park, entrata

Ovviamente ci avventureremo nella natura con qualche libro che uscirà dal nostro zaino colorato, sempre con noi, sempre lui, eterno e paziente compagno di viaggio, un cilindro magico pieno di continue e mirabolanti sorprese. Accompagnati dalla musica che pervade e impregna la città…
Ci siamo. Stiamo per entrare al Gorky, ma improvvisante ci appare una sorpresa gradita, qualcosa di totalmente inaspettato. Tantissimi fiori, il loro profumo delicato, note che vi danzano intorno, solo note, tante note in girotondo. Ovunque c’è musica, solo musica, sempre musica. Chi la ascolta e chi la fa, chi la sente anche dove non c’è. Ognuno può suonare le sue note, ciascuno può giocare allegramente e spensieratamente con il suo spartito reale o immaginario.
Terminato lo stupore del vedere come ci si possa lasciare andare alla musica, in mezzo al traffico impazzito e a tante persone dalle mille culture e lingue, piedi e idee ci portano a entrare nel parco vellutato e ondeggiante. La sorpresa è la stessa di quando, da ragazzini, aprivamo il baule della soffitta delle meraviglie. L’entrata è maestosa, come tutto in questa città, e ci invade il colore, i fiori ci danno il benvenuto, quasi minuscoli esseri animati che sorridono alla nostra curiosità infinita ed interminabile. Un tulipano piega leggermente la sua corolla per indicarci la strada, un inchino, un saluto affettuoso che ci fa dirigere verso aiuole splendenti ovali, rettangolari, circolari, ovoidali; ogni forma ha un suo perché, quasi un disegno di un giovane angelo dispettoso che si è divertito e sbizzarrito a lanciare colori qua e là. La natura è splendida, qui, come ovunque, incredibilmente benevola e generosa nel regalarti emozioni forti ed indimenticabili. Anche qui gli alberi, come scriveva Tagore, sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto. Il cielo ascolta, ascolta i pensieri e i sogni che in questo posto magico abbiamo finalmente il coraggio di esprimere.

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Una delle splendide e profumate aiuole del Gorky park, Mosca

Prendiamoci per mano e sediamoci allora su questa panchina accanto ai tulipani fioriti, per una volta proviamo a rivelarci i nostri segreti, proviamo a scambiarci i desideri ed a capire cosa vorremo veramente. C’è anche una ninfa leggera laggiù che, con la sua scintillante bacchetta magica ornata di tulle bianco, ha spruzzato qualche goccia di stella su un vaso fiorito solo per noi.
E’ un tripudio di colori e luccichii gioiosi, qualche giacinto sorride scherzoso, anche voi (che so che ormai siete insieme a me…) faticate a capire dove girare il capo, destra, sinistra o ancora sinistra, dritto, dietro, davanti. Viole, iris, tulipani, rose, calendule, fontane, il degno quadro di una favola. Dicevamo, vediamo sbucare una ninfa da un cespuglio fiorito. Forse è una ninfa, o la sua delicata ombra, forse è invece una nobile principessa o una zarina che si aggira per i viali.

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Tulipani, viole, iris, calendule, rose, i coloratissimi fiori del Gorky park

Scorci mozzafiato. Il vostro piccolo libro, ecco ecco, ora ricordate. Quello che ritrovate seduto al caffè del parco, nascosto fra i libri arancioni allineati, a disposizione di tutti. Ci fermiamo un attimo in questo gazebo bianco, un caffè nero forte ci aiuterà a continuare il cammino, mentre le rose in fila rigorosa riflettono i loro colori accesi negli animi di chi, al riparo di quel candido legno, chiacchiera allegramente con amici ed estranei incrociati lungo la via.
Forse avevate sentito, dal nonno, la favola della bella zarina liutista, la giovane innamorata che era stata coraggiosamente capace di sfidare la sorte, travestita da paggio liutista, per salvare lo zar rapito da un sultano durante un viaggio nel lontano Oriente. Con il suo liuto aveva convinto il sultano a restituirle il prigioniero, in cambio delle sue note, lei che si era tagliata le lunghe e folte chiome e che in un prato fiorito, accanto ad una fontana, aveva rivelato al marito ritornato con lei, il suo trucco per salvarlo. Lei che, con il coraggio che dà solo l’amore vero, aveva compiuto il miracolo che vascelli carichi d’oro e di pietre preziose non avrebbero potuto compiere [leggi].

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Gorky park, libri a disposizione dei visitatori

Da dietro quel cespuglio fiorito, che ora accarezziamo, sono sbucate le note della zarina liutista. Sono loro, le stesse amorose e potenti note, ne siamo certi. Sono forti ed intense. I sentieri sono alberati, snelli e lunghi, ma retti e piacevoli. Come tutti i pazienti e curiosi sentieri che si rispettino ci porteranno in luoghi davvero fantastici.
Camminiamo ancora, ve ne prego, continuiamo a passeggiare lungo l’imponente e calma Moscova, cerchiamo di arrivare insieme al limitrofo giardino Neskuchnyy, il più antico parco della città, utilizzato dagli zar come residenza privata. Altro tripudio di verde smeraldo.
So che fa caldo per essere maggio, siamo a quasi trenta gradi, ma se avrete la pazienza di accompagnarmi ancora per un bel tratto vedremo uno spettacolo indimenticabile. La stanchezza si sentirà solo a fine giornata, ma sarete felici di avermi ascoltato. Prometto. Ma cosa intravvediamo laggiù fra vocii e risate? Canoe, remi, natanti, salvagente e ponti. Quasi fossimo in un altro mondo nel mondo.

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Gorky park, laghetto con canoe e barche a remi

Rincuorati procediamo, finché, insieme a un profumo di fresie bianche che non ci sono, eccoci apparire uno specchio d’acqua illuminato dal sole. I raggi di luce si abbracciano amorosamente per giocare a nascondino con i tuoi pensieri e le tue sensazioni. Ti innamori della loro passione, del loro essere insieme e uniti, del loro legame tenero e forte ma allo stesso tempo libero di sciogliersi in qualsiasi momento, in un attimo di polvere. Solo che loro, pur liberi in sé stessi e per sé stessi, vogliono restare allacciati per te, quasi ad indicarti la strada. In fondo allo specchio ti vedi, ammiri la natura che si specchia nei tuoi occhi. La foresta intorno è una vera e propria foresta nella città, ne senti i suoni e gli odori. Ti pare quasi di sentire le parole che la graziosa figlia di Grigorij Ivanovič Muromskij, Lizaveta-Akulina, sussurrava di nascosto al suo bel Aleksej, figlio dell’odiato vicino Ivan Petrovič, lungo la strada ombreggiata del boschetto che Puškin descrive con la maestria che lo contraddice. I cespugli e le frasche fruscianti paiono le stesse, i messaggi trepidanti lasciati negli incavi degli alberi potrebbero davvero essere ancora nascosti lì. Vi piace immaginarlo, vi piace l’idea di andare a cercarne qualcuno. Adorate Puškin quando non descrive fino in fondo e lascia immaginare parole e discorsi, la storia che si preferisce, il finale che si desidera. Cerchiamo allora qualcuno di quegli antichi messaggi.

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Mosca, Giardini Hermitage

Una nota manoscritta, una calligrafia femminile tornita ed elegante, ci dice di tornare indietro e di dirigerci ora ai giardini dell’Hermitage… Non sono vicinissimi, dobbiamo percorrere all’indietro il cammino fatto per arrivare, risalire verso il Bolshoi e arrivare alla Petrovka. Non sentirete la fatica. Ancora uno sforzo, allora, prima che arrivi il tiepido tramonto. Ci tengo a portarvi qui, perché questo luogo nasconde delle fate. Siamo accolti dal rosa, da palloncini a forma di cuore che ospiteranno un evento sul matrimonio. Il giardino curato attira le farfalle, e quindi anche noi siamo qui. Noi che siamo diventati farfalle grazie anche a quest’aria colorata e profumata, noi che stiamo prendendo il volo, con grazia. Abbigliati di gelsomino, attraversiamo gli alberi di pesco fiorito. Ammetto che non sono veri, come quelli che si trovano all’interno dei moderni e imponenti magazzini Gym sulla Piazza Rossa, ma il loro fascino è eterno e quasi sovrannaturale. Una signora dal cappello di paglia li sfiora e li accarezza, prima di scomparire, con il nipotino, sotto il gazebo verde.
Vi avevo detto che qui le fate passeggiano per i sentieri curati. Scambiamoci allora un segreto per il futuro, non siate timorosi di aprire il vostro cuore a questa natura che canta e incanta.
Usciti da questo magico giardino saprete dove andare. Promesso.

Postilla doverosa: alcune foto del Gorky park sono del maggio 2013, quest’anno una recente ondata di maltempo ha fatto soffrire molti fiori. Ma il parco risplende comunque per la sua bellezza e il suo verde immenso. Da vedere.

Questo articolo è anche sul blog “Contatto diretto” [vedi]

La natura delle cose

Della mano sinistra intende occuparsi la Città della Conoscenza, ora che un po’ per tutti è nuovamente giunto il tempo del riposo, di staccare dagli assilli del lavoro, di dedicarsi di più a se stessi. Tornano gli archetipi dell’infanzia, quando ti raccontavano che la destra è il fare, l’ordine, la ragione. Mentre a sinistra stanno i sogni, le fantasie, le emozioni. Per non parlare delle nefandezze un tempo compiute da insegnanti e genitori sprovveduti che costringevano i malcapitati mancini all’uso forzato della destra per scrivere. I nostri cugini francesi però ci hanno superato, definendo i figli nati al di fuori del matrimonio come quelli à main gauche. E però noi proveniamo da una cultura che ci ha cresciuti a dicotomie, a dualismi fino al manicheismo. Il più eclatante di tutti l’idea delle due culture: quella umanistica e quella scientifica, per non parlare dei danni che un simile assunto può aver prodotto nella formazione del pensiero e nell’idea di conoscenza per generazioni intere. Un’idea ancora ben radicata, e ancora meglio esemplificata, se qualcuno nutrisse dei dubbi, dal permanere nel nostro ordinamento scolastico di due entità separate: il liceo classico e il liceo scientifico.
Allora la Città della Conoscenza vorrebbe approfittare di questa estate per consigliare alcune, a nostro modesto avviso, buone letture, in particolare a insegnanti e studenti, come possibili antidoti a questo virus del sapere.
Non si tratta di pozioni da assumere con regolarità, si possono introiettare a dosi liberamente scelte, a pizzichi e bocconi, nelle modalità più creative e come tutti i libri hanno il vantaggio di poter non essere letti.
Non aspettatevi recensioni, ma le ragioni di una scelta dal punto di vista del come conosciamo, cosa significa conoscere e perché conosciamo. Proposte per un modo di pensare, di far uso del nostro cervello, suggerimenti di metodo per usare la nostra mente a trecentosessanta gradi. Una finestra di opportunità intellettuali da non lasciar richiudere, per parafrasare Gustave Flaubert.
Questa settimana è il turno di Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere di Piergiorgio Odifreddi, edizioni Rizzoli.
Perché la traduzione in prosa compiuta da Odifreddi del De rerum natura di Lucrezio Caro è un ipertesto, una grande lezione interdisciplinare sulla conoscenza, la descrizione di un metodo per imparare ad apprendere, un modello esemplare di didattica. La tomba d’ogni divorzio tra le due culture, la dimostrazione che le grandi ipotesi della scienza sono doni che giungono dalla mano sinistra.
Aver scelto Lucrezio e il suo De rerum natura è la prova provata che lo scienziato e il poeta non vivono agli antipodi. Odifreddi scrive di scienza a tutto tondo, di vuoto, di pieno e di atomi con rimandi ai grandi, ai minori, ai misconosciuti.
Dagli esametri del poema latino di Lucrezio la lingua morta sui banchi di scuola rinverdisce nel terriloquio, nelle “parole baule” o “parole cerniera” di Lewis Carroll, fino al manifesto Punto, linea, superficie di Vasilij Kandinskij. E poi lo “spaventevole infinito” in La gaia scienza di Friedrich Nietzsche, fino alla metafora dell’esistenza nella storia della cultura occidentale del Naufragio con spettatore di Hans Blumenberg del 1979.
Odifreddi ci svela che i telai per la tessitura di cui parla nei suoi versi Lucrezio, altro non sono che gli antesignani sia della robotica che dell’informatica. La tessitura come alta tecnologia da cui parte la meccanizzazione del lavoro e la Rivoluzione industriale. Lo dobbiamo a un certo Jacque Vaucanson che nella prima metà del diciottesimo secolo si dilettava a costruire automi realistici, tra cui una famosa “anatra digerente” che mangiava, beveva e defecava.
Il Lucrezio di Odifreddi non è l’autore delle sofferte versioni dal latino all’italiano dei nostri lontani tempi di scuola, ma un umanista con radici ben piantate nella scienza del suo tempo e Come stanno le cose ci conduce a scoprire di quanta linfa e in quali direzioni quelle radici abbiano nutrito la grande narrazione del sapere umano attraverso il tempo.
Che la cultura umanistica e quella scientifica fossero un tutt’uno inscindibile era chiaro agli antichi, il “sapiens” si muoveva tra i due ambiti con assoluta disinvoltura, altrettanto non possiamo dire di noi oggi, specie a proposito delle nostre scuole.
Nel nostro mondo ancora delle due culture, ciò che manca è proprio questa capacità di transfert interiore dalla sinistra alla destra. Per questo ritengo il lavoro di Odifreddi un prezioso manuale di metodo come creatività, come liberazione, un manuale sul rapporto tra strategie didattiche e processi cognitivi, un manuale di apprendimento significativo che chiunque fa professione di scuola dovrebbe riporre nella propria cassetta degli attrezzi.

Territorio, saperi delle comunità e formazione delle persone

La società nella quale viviamo da moltissima importanza all’informazione, al sapere e alla conoscenza; la disponibilità di informazioni tuttavia non implica di per sé un miglioramento nella società e nella qualità della vita delle persone; anzi, pone problemi crescenti nell’organizzazione e nella selezione di ciò che è pertinente, valido ed attendibile. La produzione di conoscenza per altro non è riducibile alla mera informazione ma implica una relazione, un rapporto che è stato che è stato in gran parte istituzionalizzato nei sistemi scolastici, educatici e formativi specializzati. Il processo di apprendimento tuttavia non può essere ridotto esclusivamente a questo: ognuno apprende da ogni tipo di esperienza, costruisce una biografia personale ed una storia, genera saperi e competenze che possono avere un grande significato collettivo se si risolvono nella condivisione comunitaria e nel loro trasferimento ad altri soggetti.

In una società sempre più caratterizzate dal valore della conoscenza si impara vivendo e si vive imparando e l’apprendimento durante tutto il ciclo di vita diventa una necessità: bisogna riconoscere che la generazione di conoscenza non può avvenire solo nei luoghi storicamente deputati (le scuole, le università, i centri di formazione, i centri di ricerca pubblici e privati) ma emerge anche attraverso la collaborazione allargata resa possibile dalle nuove tecnologie digitali sociali (open innovation, crowdsourcing), si sviluppa all’interno di gruppi informali, di organizzazioni, di istituzioni il cui scopo primario non né formativo né educativo.

A livello dei singoli la prospettiva dell’apprendimento lungo l’intero arco della vita impone proprio il superamento delle abituali distinzioni fra istruzione e formazione, studio e lavoro, conoscenze e competenze formali e informali: per le singole persone il sistema di apprendimento si costituisce sempre più come una rete di opportunità di apprendimenti contestualizzati e permanenti, in cui le agenzie formative si collocano lungo un continuum che va dal formale all’informale, dal fisso al flessibile: possono essere le classiche agenzie deputate alla formazione e all’educazione, ma anche ambienti di lavoro o contesti culturali e sociali di vario genere.

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In una valle del trentino, massaia pensionata bolognese insegna l’arte sublime del tortellino

In questo ambiente, radicalmente nuovo rispetto a ciò che immaginiamo quando pensiamo alla formazione, le agenzie e le relative offerte formative devono permettere a tutti gli attori coinvolti nel processo formativo di partecipare alla realizzazione di curricoli (currere = percorso che si articola e si snoda nel tempo; currus = modalità con cui perseguirlo), intesi, in duplice senso, sia sul piano dei percorsi proposti da agenzie che sul piano dei percorsi individuali costruiti dagli individui che fruiscono delle offerte. Questi percorsi curricolari si articolano all’interno di filoni alternativi e complementari: il sistema scolastico, il sistema universitario e di formazione tecnica superiore, gli enti accreditati alla formazione, il mondo del lavoro, le agenzie culturali, gli ambienti di apprendimento non formali ed informali. Ci apprestiamo a muovere i primi passi in uno scenario dove ognuno potrà eleggere e frequentare i suoi luoghi di apprendimento scegliendo se e come pagare, quando e come frequentare.
A livello di territorio, inteso come ambiente circoscritto dove le persone vivono, questa idea ha molte ed interessanti ricadute. In tale prospettiva si può infatti considerare un territorio come un sistema aperto di conoscenze che continuamente si costruiscono, si scambiano, si disperdono, si tramandano, vengono create o recuperate, entrano ed escono; queste conoscenze si trovano incorporate nelle persone ma, allo stesso tempo lo sono negli oggetti e nei manufatti, nelle procedure, nelle regole sociali proprie del luogo, nei processi di lavoro, nelle imprese, nelle storie, nel sapere degli artigiani e degli amateur, nelle cucine non meno che nella botteghe. Appare una prospettiva del tutto nuova per pensare alle comunità locali, alle loro risorse e al loro sviluppo: tale possibilità passa attraverso la individuazione e nobilitazione di quelle agenzie informali che sembravano escluse dai circuiti ufficiali di produzione di conoscenza ma che possono potenzialmente svolgere una potente azione formativa: saperi artigiani, tradizioni, associazioni culturali, eventi consolidati diventano così strutture abilitanti in grado di garantire apprendimento e formazione i cui esiti possono rientrare nei curricoli delle persone. Un passaggio che vede l’abitante del luogo, portatore di specifici saperi e competenze, trasformarsi da mero terminale del consumo a produttore culturale in grado di insegnare la propria arte a chiunque, dentro e soprattutto fuori la comunità di appartenenza, possa essere interessato.

A Castelli (Abruzzo) un artigiano ultra ottantenne insegna l’arte della ceramica
La qualità di un territorio non si riconosce solo dalla presenza dei servizi deputati all’educazione e alla formazione (le agenzie formali che tutti conosciamo) ma anche dalla disponibilità di tutte quelle agenzie informali più o meno strutturate che non vengono quasi mai riconosciute in termini di potenziale di formazione e produzione di conoscenza. Riconoscere questa ricchezza, mettere in relazione le diverse agenzie e promuovere la rete complessiva dei saperi del territorio rappresenta una delle grandi sfide per uno sviluppo locale capace di generare capitale sociale e migliorare la qualità della vita. Si pensi ad esempio all’enorme patrimonio associato ai cosiddetti mestieri d’arte, alla tradizione agricola, al cibo e alla produzione alimentare, ai micro laboratori artigianali troppe volte abbandonati ai pochi anziani ancora attivi. E’ un mondo di capacità nascoste che trova poco spazio nell’economia formale e nel mercato, che è poco riconosciuto dalle amministrazioni ma che rappresenta un valore straordinario per i territori ed una componente centrale della loro identità, un valore che può e deve essere riconosciuto, catalogato, rigenerato ed utilizzato anche in termini educativi e formativi.
In tempi in cui il lavoro bisogna inventarselo, dove chi lavora trova sempre più difficile trovare spazio e tempo per la formazione, in un futuro prossimo dove ci sarà molto probabilmente crescita senza occupazione, dove le macchine intelligenti potranno realizzare gli oggetti più disparati consentendo anche la micro produzione domestica su piccola scala (si pensi al movimento dei makers associati alle stampanti 3D), la nozione di comunità educante che sa riconoscere il proprio patrimonio indentitario e metterlo in gioco, diventa particolarmente appetibile; senza dimenticare la qualità dei servizi che siamo abituati a conoscere è forse tornato il tempo di riprendere in esame e di lasciarsi ispirare dall’utopia concreta di un Ivan Illich, dall’esperienza di un Danilo Dolci, dalla pedagogia di un Paulo Freyre o dalla lezione di un don Milani.

Si può fare, passaparola!

L’uomo che porta le pizze

di Valerio Lo Muzio

“Faccio fatica ad arrivare a fine mese” ammette sconsolato Younas, un pakistano di 42 anni, dal 2000 in Italia. Younas fa parte di quell’invisibile esercito di portapizze che quotidianamente invade la nostra città. Accantonati ai margini della società, invisibili sì, perché ci ricordiamo di loro solo in quei pochi istanti che trascorrono tra il suono del campanello e il pagamento della consegna, quando, fame permettendo, finalmente riusciamo a guardarli negli occhi. Younas lavora in una pizzeria del centro, mediamente non più di tre ore al giorno – “perché non c’è molto lavoro”, dice – e guadagna 5 euro l’ora, con i quali deve pagarsi la benzina del motorino. “Di quei 15 euro, a fine giornata – racconta – non rimane poi molto”. Lavorare come porta pizze non è certo economico o redditizio, basti pensare che sul conto del fattorino non grava solo il costo della benzina per le consegne, ma anche l’acquisto del motorino, il pagamento dell’assicurazione e del bollo oltre ai costi di manutenzione.
Amir, anche lui originario del Pakistan, è più giovane, ha 30 anni e consegna le pizze in motorino, lui è “più fortunato di altri – dice, perché lavora 10 ore al giorno e guadagna 35 euro”, ma anche lui deve pagarsi la benzina. Ogni volta che proviamo a parlare di contratto di lavoro, tutti i portapizze, guardati a vista dai titolari dei vari locali, spaventati assicurano di essere in regola.
E’ comodo voltare le spalle e far finta di nulla, a pagare il prezzo dello sfruttamento, sono loro, gli emigrati : invisibili per i sindacati, invisibili per l’ufficio del lavoro, sfruttati dai padroni dei locali, spesso anche loro emigrati, e per nulla sensibili alle loro pur minime necessità. Per Javed, venuto in Italia nel 2002 da Multan, in Pakistan “gli italiani sono un po’ tirchi, sono pochissimi quelli che lasciano la mancia” ed è costretto a fare altri lavori perché con “5 euro all’ora non si riesce a vivere”. Pervez ha una moglie e tre figlie in Pakistan e con gli occhi malinconici racconta di “non riuscire più a mandare soldi alla famiglia”, ha lavorato come metalmeccanico per 8 anni, finché con la crisi crescente è stato licenziato e si è trovato di colpo senza lavoro. “Ma non mi sono perso d’animo – racconta – mi sono messo a cercare lavoro, però tutte le cooperative alle quali mi sono rivolto preferivano assumere italiani, oppure cercavano gente con esperienza”. Alla fine ha dovuto cedere a rivolgersi ad una pizzeria vicino all’aeroporto, “ho comprato un motorino usato per 500 euro e ho iniziato a far consegne, certo con 15 euro al giorno riesco a malapena a pagare l’affitto della casa che condivido con altre 5 persone”.
L’esiguità delle paghe i costringe ad una vita che definire precaria è un eufemismo a partire dalla casa: convivono nella periferia della città, spesso con altri connazionali, più sono e meno pagano, questo è il lato positivo, però ovviamente, più sono e peggio stanno. Pervez però è tenace e non perde le speranze “il mio sogno – dice – è riuscire a far venire qui la mia famiglia dal Pakistan, perché un uomo che vive una vita senza famiglia non vive una vita dignitosa”, poi il pizzaiolo gli porge 5 pizze, Pervez sale in sella al suo motorino, saluta e scompare in mezzo al traffico, smettendo di essere un uomo con una storia tormentata alle spalle e ritornando ad essere un’invisibile portapizze.

[© www.lastefani.it]

Buone vacanze

Il termine vacanza allude ad uno spazio vuoto. Si dice vacanza anche per parlare di un ruolo o di una carica che nessuno ricopre. La vacanza evoca l’idea di libertà, di uno spazio da godere proprio perché libero. Il concetto moderno di vacanza nasce come risposta all’industrializzazione ed alla conseguente forte urbanizzazione. Il primo stabilimento balneare nasce nel 1822 a Dieppe, in Francia. Poche persone fino alla metà dell’Ottocento potevano permettersi di andare in vacanza, solo la borghesia più danarosa poteva mutuare dai ceti aristocratici l’idea di trascorrere in villa (in genere alle porte delle città) una parte del periodo estivo, sfuggendo alla calura dei centri urbani.
Negli anni Trenta del Novecento vengono inventate le ferie retribuite, riconosciute nei contratti di lavoro. La vacanza, da tempo dell’ozio, appannaggio solo dei ricchi, diventa un diritto stabilito dalla legge. Il boom degli anni sessanta e la diffusione dell’automobile, spinge agli esodi di massa, creando i primi giganteschi ingorghi della storia delle vacanze. Le scuole si adeguano a queste esigenze, prevedendo un periodo di vacanza nel proprio calendario e si afferma l’idea di un sosta dalla vita degli affari. Non più solo campagna: grazie soprattutto allo sviluppo delle ferrovie e poi dell’automobile, il mare comincia a entrare nei sogni di molti.
Oggi molte cose sono cambiate rispetto ai ritmi della società di massa e al clima di fiduciosa attesa che accompagnava il tempo del boom. Ritmi temporali diversi, sanciti dalla globalizzazione e consentiti dalle tecnologie erodono l’idea di vacanza come sosta collettiva e comunque la accorciano.
Ma, se diciamo vacanze, continuiamo a pensare a giorni vuoti dal lavoro, dallo studio, dai vari impegni quotidiani, giorni in cui i ritmi possono rallentare, in cui possiamo dormire di più, fare quello che ci pare. La vacanza è anche mancanza di ancoraggi, per questo il primo giorno di vacanza è spesso un po’ nervoso, per questo lo riempiamo di libri, quasi a volere sancire il nostro diritto alla distanza, il diritto ad uno spazio in cui possiamo permetterci il silenzio.
La vacanza riguarda oggi un periodo più circoscritto, per lo più caricato di attese straordinarie. Al ritorno ci preoccupiamo di confermare a noi stessi e agli altri che si è trattato di un periodo felice, esponendo i trofei fotografici, i nostri scatti migliori: tramonti, paesaggi, piedi sul bagnasciuga, serate di festa. I like ricevuti su Facebook ci compenseranno delle code in autostrada, degli inevitabili battibecchi scaturiti da un’inusuale vicinanza, delle eventuali mancanze di servizio, dei piccoli incidenti con le meduse, dei vicini di ombrellone chiassosi.
Il culto delle vacanze nasce con la società di massa che consente maggiori disponibilità economiche, apre culturalmente il diritto a lasciare i ritmi abituali per abitare temporaneamente altri luoghi. Nel tempo, quando la fatica fisica cessa di essere la dimensione prevalente del lavoro, le vacanze rappresentano soprattutto la possibilità di delocalizzarsi, mentalmente e fisicamente, dalla routine. Ben lungi dall’essere solo ozio, si caricano di bisogni di esplorazione, di esperienze, talvolta di raccoglimento o di attività fisica.
Quando la mancanza di lavoro non è forzata, un giorno vuoto da lavoro è un giorno da riempire con un’attività straordinaria e gratificante. Le vacanze sono sacre. Ci si dedica interamente al culto della vacanza, con i gadget e le attrezzature che la moda impone.
Buone vacanze dunque, con l’augurio che rappresentino l’esperienza di uno spazio per sé, un esercizio che potrebbe aiutarci al ritorno a mantenere quel pizzico di libertà in più che prescinde dalle circostanze esterne, ma che deriva dalla conquista di una interiore disposizione alla vacanza. Non coltivare solo “passioni dell’attesa”, come direbbe Spinoza: questo sì che è difficile.

Maura Franchi
Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand. maura.franchi@gmail.com

‘Il papadoro’, ovvero la strategia difensiva delle instant stories

Un libro di instant stories per “bimbi” da 0 a 120 anni, utile ai genitori per soddisfare le richieste dei propri figli: pubblicato da Claudio Strano, con illustrazioni di Chiara Barbaro, è disponibile in tre versioni (e-book e cartacea; in bianco e nero o a colori) su www.lulu.com o su amazon.it. La sera del 27 luglio, al Giardino delle Duchesse, la presentazione, nell’ambito di “La riga e il pentagramma”, iniziativa promossa da Pro Loco e altre associazioni in collaborazione con il Comune.

Il Papadoro non è un encomio o un manifesto programmatico, non è nemmeno un uccello esotico o di allevamento per quanto gli rassomigli nella fertile immaginazione di Chiara Barbaro. Il Papadoro (come nell’omonimo racconto, uno dei 17 che compongono la raccolta di Claudio Strano) è ciò che ogni padre vorrebbe essere in cuor suo prima di ritrovarsi, sotto Natale, confuso – nello stupendo linguaggio infantile – con un dolce tradizionale e banalissimo: il pandoro. O, se gli va peggio, di sentirsi cotto e cucinato come un tacchino dalla irresistibile voglia di giocare di un bambino piccolo, rimasto a casa da scuola, in attesa che arrivi “finalmente” Babbo Natale. Con la televisione rotta e la mamma fuori casa da molto, troppo tempo ormai…
In una serie di “instant stories” che invitano i genitori ad inventarsi sul momento storie per bambini (“con una morale e senza mostri”, così recita il sottotitolo), con tutto il piacere di ricamare trame partendo dalla realtà, sfuggendo in questo modo alla tirannia di streghe, orchi e supereroi, per riscoprire il gusto della fantasia al riparo dal troppo “magico imprescindibile” che circonda il mondo dell’infanzia.
Il libro, 88 pagine, illustrato magnificamente da Chiara Barbaro, è frutto di anni di esperienza maturata sul campo da un papà come tanti, non più giovanissimo ahilui, che ha pensato di coniugare il piacere del narrare con quello del collezionare “perle” (involontarie e non) lasciate dai bimbi lungo il percorso della loro crescita. Tutto questo, ovviamente, come strategia difensiva per uscire dalla loro morsa, unitamente a una finalità educativa e una trasmissione di esperienza intergenerazionale, valori questi senza i quali lo smarrimento dei cuccioli di uomo, davanti a figure genitoriali spesso sfuocate quando non del tutto assenti, sarebbe totale.

Claudio Strano, giornalista professionista, ha trascorsi nella cronaca e un presente in un mensile nazionale che si occupa di cooperazione, consumi, ambiente. È nato a Roma nel 1962 e vive a Ferrara. Laureatosi in lettere classiche a Bologna, da sempre coltiva l’interesse per la letteratura. Autore di “Borborigmi” (Poeticamente, 1986), suoi testi sono presenti su riviste italiane ed estere. In prosa ha pubblicato “Racconti di leggero astigmatismo” (Tosi Editore, 2001, prefazione di Gyózó Szabó) e “La giacca del Gundel”, romanzo ambientato tra Italia e Ungheria (Lulu editore, 2012, prefazione di Zsuzsanna Rozsnyói). Ama lo sport, soprattutto il calcio praticato in gioventù, il giardinaggio che (a quanto sostiene) lo rilassa, e la sua famiglia, che lo ha convinto a trasformare le proprie strategie di autodifesa in storie per l’infanzia.

Chiara Barbaro, illustratrice, pittrice, moglie e mamma, è nata nel 1972 a Ferrara, città in cui vive. È innamorata delle arti applicate che prova a fare amare anche ai propri allievi del Liceo artistico, dove insegna. Oltre a ciò, si occupa di Visual merchandising, sia sotto l’aspetto dell’allestimento di vetrine, sia sotto quello della docenza in corsi organizzati per le imprese del commercio. Nel suo background formativo troviamo una laurea all’Accademia delle Belle arti di Bologna, più varie specializzazioni in vetrinistica e decorazione d’interni. Adora i lavori di Felice Casorati e gli interni di Matisse. Difende a spada tratta, quando l’occasione lo richiede, la passione per il colore e l’artigianalità. Di sé dice di saper fare bene la pizza e di avere una vena ludica molto forte, anche grazie alle sue bambine che la tengono in allenamento…

Il libro è facilmente reperibile sul sito di Lulu (www.lulu.com) cliccando il titolo o l’autore (o tramite il codice bitly http://bit.ly/1h6fclU). Il formato e-book offre il vantaggio di avere un file editabile (ad esempio dai bambini che possono disegnare sulle pagine vuote) e di gustarsi le immagini a colori. Nelle due versioni cartacee c’è invece il piacere del libro da conservare e da sfogliare come da migliore tradizione: il bianco e nero con il vantaggio del prezzo e di un certo fascino delle immagini in chiaroscuro; la versione a colori, su pagine patinate, con il plus delle vivaci illustrazioni di Chiara Barbaro restituite alla loro originaria bellezza.

L’inno alla gioia e quello all’ignoranza

Nel tentativo di scegliere la notizia più offensiva apparsa sulla stampa nell’ultima settimana – e mi riferisco non alla più tragica ma a quella che maggiormente offende l’intelligenza umana e i suoi valori – certamente la peggiore risulta quella messa in atto da Farage e dai suoi seguaci che al momento della esecuzione dell’Inno alla gioia di Beethoven sul testo di Schiller eseguito nel parlamento europeo deliberatamente voltano le spalle ai musicisti non seguiti, per fortuna, in questo miserabile gesto dai deputati 5 stelle loro alleati. Ma a questa plateale e volgare affermazione di antieuropeismo risponde twittando furibondamente Grillo “Farage ha fatto bene a voltare le spalle quando c’era l’inno alla Gioia. L’inno della Gioia non è della gioia più per nessuno. Lo ha usato Hitler e lo ha usato Mao, lo hanno i usato i più grandi dittatori, i più grandi killer della storia”

Di fronte a questa dichiarazione così intellettualmente rozza mi sono sentito di postare su facebook questo commento: “Che un ometto semi nazista volti le spalle ad una delle più sublimi espressioni dell’intelletto umano, vale a dire l’Inno alla Gioia di Schiller musicato da Beethoven è già la riprova di cosa possa produrre il pensiero malato. Ma che il buffone genovese con la sua capigliatura da sciuretta lo segua con la sua vocetta isterica questa è un’umiliazione che l’Italia non si merita. Che vergogna, che pena, che schifezza!!!”. Lo ammetto, un po’ forte ma l’affermazione grillesca mi pareva degna di una ferma e chiara risposta. Apriti cielo! I commenti pentastellati arrivano a una straordinaria affermazione: “Tu sei il nulla!” che accetto di cuore pensando come mi fa osservare una cara amica fiorentina che ammesso che noi siamo il nulla, Beethoven è il tutto.
Inoltre l’assodata ignoranza del suddetto G. con la sua affermazione della scelta dei dittatori per questo altissimo momento musicale è esattamente la copia della scelta nazista di usare Wagner per la propria ideologia: come se Wagner o Beethoven fossero responsabili dell’ignoranza e follia umana (e politica) La strumentalizzazione del mito (e si pensi a Verdi e al suo impatto nel Risorgimento italiano e l’uso che si fa oggi di Va pensiero fruito da una forza politica che disconosce il processo dell’unità italiana insegna). Rozze dichiarazioni che sensibilizzano un certo tipo di elettori attratti da plateali affermazione eversive chiaramente riconoscibile nel vaffa… di triste memoria. Sono rispettoso di ogni scelta politica che non si appoggi alla violenza anche quella verbale e sono convinto che i molti milioni che hanno votato 5 stelle lo abbiano fatto convinti di rimediare un andazzo politico ormai infilatosi in un cul de sac senza fondo. Ma non si può rimanere indifferenti allo stravolgimento dei valori culturali e intellettuali su cui si fonda la civiltà dell’Occidente. E incolpare Beethoven perché la sua musica è stata oggetto di scelte dittatoriali mi sembra non combaci nemmeno con il concetto di Storia. Forse mister G. così liberal si dimentica che la musica e l’arte in genere fioriscono là dove la libertà politica è assente. Una tesi talmente vecchia che non avrebbe bisogno di commenti se non fosse la pervicace strumentalizzazione che il Capo fa di ogni aspetto della cultura a cui non sembra particolarmente sensibile.

A proposito al suo seguace che mi ha detto che sono il nulla va detto che esiste una scienza che studia la letteratura e l’arte del nulla. Quindi mi ha reso orgoglioso di essere annoverato tra gli esperti di questa difficile materia.

E per finire tutta questa assurda levata di scudi contro il Genio è proprio il nulla.

E’ sparita la barca del nostro scontento

Miracolo sulla Romea. La barca del nostro scontento è sparita, al suo posto c’è una piccola aiuola arata e un muretto di mattoni, lo sfondo di una futura scenografia? Confesso di sperare nel grande nulla proprio come Linus spera nell’avvento del grande cocomero. In ogni caso il “veliero” ha preso il largo, forse la notte, prima di diventare rosa, ha portato consiglio e ha fatto piazza pulita dello squallore di legni scrostati e di vele strappate, quello che si può definire un antidoto per proteggersi dagli effetti del turismo. Alle 10 del mattino di venerdì ai piedi del ponte tra Estensi e Porto Garibaldi c’era un furgoncino parcheggiato nel prato e un operaio operoso impegnato a sistemare la terra dove l’installazione di “malvenuto” era adagiata. Il cadavere era già stato rimosso e la scena del crimine modificata a favore di un piccolo niente molto più gradevole dello squallore elevato a “monumento”. Qualcuno, grazie al cielo, è in ascolto. E allora farebbe bene a sintonizzarsi anche sull’estetica dell’aiuola, l’erba sintetica regina dell’Acciaioli, è un insulto alla natura, se proprio manca la possibilità di irrigare, ci sono sempre ghiaia e piante grasse. Ispide ma sincere. Altro che plastica, i lidi non ne hanno bisogno, non sono un set cinematografico dove la finzione si presta a creare l’inesistente. Eppure la tentazione di farlo è forte. Deve essere il retaggio di ‘Polliywood’, con la differenza che ogni film girato nel Delta ha sempre avuto un regista professionista nelle cui scenografie non esistevano sbavature.

La frusta barca a vela posizionata in un'aiuola sulla Romea è sparita nella notte
La frusta barca a vela posizionata in in aiuola sulla Romea è sparita nella notte

Leggi il nostro precedente articolo [clicca qua]

Aldrovandi, nuovo scontro tra la famiglia e i poliziotti

di Claudia Balbi

«Confonde la parola “vendetta” con la parola “giustizia”». Lino Aldrovandi risponde così al duro attacco di Franco Maccari, segretario generale del Coisp, il sindacato indipendente di Polizia, che giovedì aveva accusato la famiglia del giovane ucciso nel 2009 da quattro agenti di polizia, di cercare solo vendetta. A scatenare la polemica il provvedimento di sequestro conservativo emesso dalla sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della Regione Emilia Romagna, notificato in questi giorni dalla Guardia di Finanza di Ferrara, con il quale si stabilisce che ai quattro agenti coinvolti vengano sequestrati un quinto dello stipendio, i beni immobili e i diritti reali immobiliari di proprietà fino al versamento complessivo di 1.870.000 euro. Paolo Forlani, Monica Segatto, Luca Pollastri ed Enzo Pontani, gli agenti responsabili del delitto del ragazzo, dovranno versare a testa 467.000 euro per corrispondere quanto pagato dal Ministero dell’Interno come risarcimento alla famiglia Aldrovandi.

«E’ quello che speravo, mi aspettavo e ritengo giusto, profondamente giusto» aveva commentato Patrizia Moretti, alla notizia del sequestro deciso della Corte dei Conti. Aggiungendo: «Mi sembra che alla fine la giustizia arrivi davvero. Il provvedimento della Corte dei conti, anche se ancora parziale e non definitivo, è il completamento giusto della sentenza di condanna per la morte di mio figlio».
«Non si possono lapidare quattro persone», ha protestato Maccari «non è giustizia chiedere a chi porta la divisa di svolgere per quattro soldi un lavoro in cui la disgrazia è in agguato assumendosi da soli le conseguenze nefaste che ne possono derivare, al di là delle loro intenzioni. Siamo e restiamo quelli che in qualsiasi contesto rischiano di più su ogni fronte, avendo le minori, quando non inesistenti, tutele». «A questo punto la famiglia Aldrovandi cerca solo vendetta», la punta avvelenata del discorso del segretario generale del Coisp. «Qui la vittima signor Maccari – risponde Lino Aldrovandi tramite un post su facebook nottettempo – è solo Federico che invoca “basta e aiuto” e subisce calci mentre è a terra bloccato dopo che era stato bastonato di brutto per mezz’ora senza aver commesso alcun reato». Non c’è pace per i familiari e la memoria di Federico.
Non è la prima polemica sollevata dal Coisp. Il 27 marzo del 2013, infatti, il sindacato aveva organizzato una manifestazione a Ferrara, in difesa degli agenti, proprio sotto l’ufficio dove lavorava Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi. La donna in quella occasione scese in piazza mostrando le foto del figlio morto.
Ed è di ieri mattina l’intervento di Carlo Giovanardi comparso su “La nuova Ferrara” in cui il senatore Ncd riflette sulle conseguenze che il sequestro di un quinto dello stipendio può avere sui poliziotti: «In questi giorni la commissione giustizia del Senato sta analizzando la proposta di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, e l’Associazione magistrati sostiene la posizione che loro non possono essere chiamati in causa neanche per dolo e colpa grave, perché altrimenti perderebbero la serenità di giudizio. Bene, pensiamo a quali conclusioni possono giungere le migliaia di poliziotti, carabinieri ed esponenti delle forze dell’ordine, dopo che dei loro colleghi a 1.300-1.400 euro al mese di stipendio, condannati per un fatto colposo, hanno prima conosciuto il carcere, e ora rischiano di finire sul lastrico con le loro famiglie. Quanti saranno disposti a correre questo rischio quando si troveranno ad intervenire con la forza?». Il senatore ha poi concluso: «in questa vicenda, a mio avviso, le vittime sono cinque: il giovane Aldrovandi, che ha perso la vita tragicamente, e i quattro poliziotti, che hanno visto distruggere la loro vita. Dopo la condanna, due di loro sono stati detenuti illecitamente per sei mesi, poiché la Cassazione ha poi sancito che sarebbero spettati anche a loro gli arresti domiciliari».

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C’era una volta ‘Lamerica’

di Emiliano Trovati

Buon compleanno America. Ma all’alba del terzo millennio il prestigio del Nuovo Mondo sembra essere in declino. Nella ricorrenza del 4 luglio gli Stati Uniti d’America festeggiano la propria dichiarazione d’indipendenza dall’impero coloniale inglese. Quell’evento ha scatenato, non solo nei rapporti tra corona e colonia, un terremoto politico internazionale.
Le idee di libertà maturate oltre oceano, alle quali anche l’Italia, grazie al contributo del medico e filosofo pisano Filippo Mazzei, aveva dato un grande contributo, permearono all’interno dell’Europa monarchica e assolutista, trovando terreno fertile fra le masse e portando ai moti rivoluzionari dai quali nacquero gli Stati nazionali moderni. Dal secondo dopoguerra in poi, l’America, grazie al suo paradigma economico, sociale e culturale – l’American way of life -, affascinerà l’immaginario collettivo del vecchio continente, e del mondo intero, arrivando a ricoprire il ruolo di Paese guida, in una posizione di preminenza rispetto ai partner internazionali. Preminenza però che sembra aver imboccato la via del declino, soprattutto dall’ultimo trentennio dello scorso millennio in poi. Responsabili di questo arretramento le forti contraddizioni sociali interne, dai problemi etnici al sistema socio sanitario, che discrimina le fasce più deboli della popolazione, l’avanzata economica di Paesi come la Cina e politica dell’Unione Europea, e dal ruolo a dir poco controverso con cui l’America gestisce la sua politica estera. Di tutto questo abbiamo parlato con la professoressa di storia ed istituzioni delle Americhe, al dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, Raffaella Baritono.

Professoressa, oggi è il 4 luglio, ricorrenza della dichiarazione d’indipendenza americana. Più di due secoli dopo la sua nascita, cos’è l’America oggi?
Interessante l’utilizzo del termine America. Non è in realtà un errore così strano. Quando noi utilizziamo il termine America oppure Usa, in maniera più o meno consapevole, ci rapportiamo ad un diverso contesto. L’America evoca nell’immaginario, un’idea, una rappresentazione, è un insieme di miti e metafore, prodotte dallo sguardo europeo verso il nuovo continente. Stiamo parlando di un processo secolare avviatosi dopo la sua scoperta, che produsse un terremoto nelle coordinate mentali degli europei e quindi la necessità di dare un senso, di inserire questa cosa, di cui nessuno aveva il sentore, dentro la cultura, il modo di pensare, le coordinate geografiche e lo spazio europei. L’America prima di tutto è una proiezione, un immaginario europeo.
Quando dalla rivoluzione delle 13 colonie si produsse un nuovo Stato, gli Usa cominciarono a costruire una rappresentazione dell’America in antitesi col vecchio mondo: “Noi siamo ciò che non è l’Europa”. Si è creato così uno Stato ben preciso, con una storia significativa, costruita proiettando l’idea di essere differenti e faro della libertà, rispetto alla tirannia, all’autoritarismo o all’intolleranza del vecchio continente. Questa idea, poi, s’è caricata di valori universali e propagata man mano che gli Stati Uniti, da realtà marginale, divenivano potenza mondiale.

E allora, cosa sono gli Stati Uniti d’America oggi?
Senza dubbio sono una potenza mondiale. Una potenza di tipo globale, con interessi geopolitici non solo nel contesto Atlantico – com’è stato per il periodo della guerra fredda -, ma soprattutto nel Pacifico, dove si concentra la loro strategia di politica internazionale.
Sono ancora un Paese in grado di proiettare una visione dinamica, perché demograficamente in crescita, e mobile, se guardiamo ad esempio alle dinamiche generazionali, etniche e razziali.
Un Paese sempre meno bianco, ma fatto di minoranze che diventano piano piano maggioranza: cosa questa che costituisce un elemento significativo, soprattutto se guardiamo alle dinamiche politiche. La presidenza di Obama, infatti, non si spiega soltanto dalla sua capacità innovativa, che indubbiamente ha avuto, o dalla sua strategia, che ha saputo intercettare volontà di cambiamento radicate nella popolazione, ma si inserisce dentro questa modifica significativa della popolazione americana in termini etnico-razziali. Anche per questo l’America è un Paese sempre meno europeo e sempre più globale.

Obama a gennaio nel suo whish list ha parlato di America come di opportunity per l’Europa e per il mondo. È ancora così?
Per certi versi sì e per altri no. L’economia e la società americana sono ancora un modello aperto, è una terra d’immigrazione, nonostante i suoi problemi con l’America latina e le paure o le ansie dei conservatori. Il modello economico e sociale americano sta diventando troppo diseguale e la politica di Obama non è stata in grado di risolvere, a causa di una forte contrapposizione e polarizzazione ideologica, e politica che sta rendendo il sistema americano un sistema immobile. Lo vediamo ad esempio in merito alle battaglie sulla sanità, lavoro o alle scelte sull’ambiente.

Prima ha detto che l’America è nata sull’idea “noi siamo ciò che non è l’Europa”. Vuol dire che c’è una cesura tra i due continenti oltre quella geografica?
I due continenti hanno vissuto di relazioni molto strette ma anche molto conflittuali. Durante la guerra fredda i rapporti tra i Paesi europei e gli Stati Uniti sono stati raramente rapporti pacifici, anche se naturalmente alcuni conflitti di fondo venivano sopiti. I paesi europei hanno sempre avuto bisogno dell’ombrello di sicurezza americano, ma allo stesso tempo perseguivano interessi nazionali che spesso entravano in conflitto con quelli americani.
L’Unione Europea oggi è potenzialmente un competitor economico degli Stati Uniti, ovviamente non militare. Anche la sua configurazione politica è competitiva, per non parlare dell’Euro, che continua ad essere una moneta molto forte.
Si è molto parlato, negli anni passati, soprattutto da quando è più forte il conflitto tra Stati Uniti ed Europa – vale a dire dopo l’11 settembre e la decisione americana di intervenire in Iraq – di un presunto modello sociale europeo da contrapporre a quello sociale americano. Questo è un tema molto dibattuto: il modello di welfare europeo, ad esempio, è molto più inclusivo ed apparentemente più democratico e capace di generare sicurezza e tutele, rispetto a quello americano.
Negli ultimi anni le politiche portate avanti da Obama, mettono in evidenza come negli Stati Uniti temi come la giustizia sociale o le disuguaglianze siano un elemento chiave nel dibattito politico.

Per modello sociale americano cosa intende?
Il Novecento viene definito il secolo americano, proprio per la grande capacità degli Stati Uniti di modellare gli stili di vita e l’immaginario collettivo. Basta pensare al cinema, alla musica, all’arte, ai prodotti del consumo di massa e alla loro commercializzazione. Pensiamo ad esempio ai Walmart e ai centri commerciali.
L’America ha creato una struttura in grado di essere esportata e ha costituito un modello di riferimento. Va capito, però, come questo modello non sia mai stato biunivoco: gli Stati Uniti propongono e gli altri recepiscono passivamente, come il termine “americanizzazione” lascia intendere. Questo processo è sempre stato una elaborazione strategica: per cui venivano prese alcune questioni e rifiutate altre, o alcuni concetti e rifiutati altri, o assorbiti alcuni stili di vita o modalità culturali. Ogni scambio, comunque, veniva tradotto a seconda del contesto in cui agiva.
La grande capacità seduttiva degli Stati Uniti è stata quella di non aver proposto un unico modello egemone, dal punto di vista delle strategie culturali. Nel momento in cui veniva proposto qualcosa, ad esempio la cultura di massa, del Mall o della società dei consumi, per cui il cittadino è soddisfatto perché consumatore; allo stesso tempo lavorava su più piani, ad esempio negli anni cinquanta, dentro le strategie di diplomazia culturale americana, proprio perché ci si rendeva conto delle contraddizioni sociali – in primis il razzismo -, che avrebbero potuto metterne in discussione la capacità seduttiva, venivano organizzati concerti e i tour dei grandi jazzisti neri in Europa e in Africa. E il tutto all’interno delle strategie di guerra fredda. In modo da poter dire, anche questa è l’America. Il Jazz noi lo consideriamo espressione dei valori americani e della sua cultura.
Questo fu un progetto interessante portato avanti da Eisenhower, un presidente moderato e conservatore. Quindi l’America non è soltanto la proiezione egemonica della super potenza, ma anche altro.

Da quando questo processo ha iniziato a scricchiolare?
La capacità seduttiva del modello americano, come dicevo, s’interrompe con la guerra in Iraq. Da quel momento in poi l’America non è più stata un riferimento, soprattutto per le nuove generazioni. Negli anni sessanta i giovani guardavano ai suoi campus universitari, al movimento femminista, a quello del Black Power. Tutto questo ha risvegliato immaginari sia in Europa che nel terzo mondo: pensiamo ad esempio alla considerazione che molti leader dei movimenti anti-coloniali dei Paesi africani o asiatici avevano della dichiarazione d’indipendenza americana.
Con l’Iraq questa situazione cambia, quel modello solido, quasi incontaminato, viene meno e l’America non è stata più capace di offrire alternative. Ricordo qualche anno fa un sondaggio, fatto da un network di ricerca europea, che dimostrava come nelle generazioni giovani europee, anche dal punto di vista delle condizioni materiali di vita, gli Stati Uniti non costituiscono più un modello di riferimento. Gli Usa non sono più il modello preminente, ancorché continuino ad offrire un modello a cui guardare.

La visione che si ha dell’America però è quella di una potenza imperialista?
Si parla molto di America e sembra che sia dappertutto, accendiamo la radio, leggiamo i giornali, guardiamo un film o la televisione. Ma in realtà, soprattutto in Italia, noi conosciamo pochissimo di America. Non sappiamo quasi niente di storia americana. Le opinioni si basano molto più sui pregiudizi che sulla conoscenza vera e propria. Sono pochissimi i corsi di storia americana nelle università italiane e sono pochissimi i docenti di storia o di politica americana. Esempio, ci si può laureare in un corso di storia contemporanea e non sapere niente di Stati uniti d’America. Eppure se ne parla tanto. Tutto è basato su pregiudizi, sul sentito dire o su stereotipi, anziché sulla realtà.

Qual è il più grosso stereotipo che sente in giro?
Innanzitutto la visione onnipotente dell’America. Quando parliamo di Stati Uniti ci interessiamo quasi esclusivamente alla politica estera, sapendo pochissimo di quella interna. Non sappiamo com’è organizzato il loro sistema politico, facciamo difficoltà addirittura a distinguere il partito repubblicano da quello democratico. Non sappiamo che la loro è una cultura politica molto mobile, rispondente ai cambiamenti e alle trasformazioni sociali.
Parliamo di politica estera convinti che se ne occupi il presidente, senza conoscere le dinamiche che ci sono dietro e le complesse strategie di negoziazione. Quando parliamo di governo, non riflettiamo sul fatto che non parliamo solo di Obama, ma di un complesso meccanismo che lo vede confrontarsi con il Congresso e la Corte Suprema, che ha un peso politico molto significativo: pensiamo per esempio a tutta la questione legata ai matrimoni same-sex e al ruolo avuto per le battaglie che vanno dalla segregazione all’aborto, dai diritti sociali alle libertà civili. Inoltre la visione dell’onnipotenza non considera che, molto spesso, alcune strategie di politica estera non sono molto diverse da quelle adottate da altri Paesi. Ovviamente cambia la dimensione della potenza.
Un altro stereotipo è quello dell’individualismo e del materialismo della società americana. È vero che la cultura democratica americana è incentrata sull’individuo, che interagisce con la sua comunità però. Questo intreccio – tra individuo e comunità – dà specificità al concetto di democrazia in America. Non a caso dopo l’11 settembre, uno dei libri che fece più eco anche in Italia, scritto da uno scienziato politico, Robert Patman, che aveva studiato anche la mancanza di società civile in Italia, intitolato Bowling alone (al bowling da solo), mette in luce come l’americano, da Tocqueville in avanti, è sempre stato dentro una moltitudine di associazioni, gruppi civici, dall’università alla scuola, alle comunità di vicinato. Questo è un elemento molto significativo della partecipazione politica. Le associazioni sono state il luogo di costruzione di forme partecipative, molto più che il partito politico. L’individualismo, quindi, deve essere interpretato come un soggetto capace di autogovernarsi e di autodeterminarsi nel suo rapporto con lo Stato.

Quindi, mi sembra di capire che il ruolo di paese leader l’America è uno stereotipo?
Questo ruolo ce l’ha avuto. È tuttora un Paese leader, ma è una leadership sempre più soggetta a processi di negoziazione e meno di accettazione acritica rispetto al passato. Una leadership che deve fare i conti con un mondo che sta cambiando, con altre potenze in grado di sfidarli, soprattutto nelle strategie di carattere economico. Pensiamo alla Cina e ai Bric. C’è un enorme dibattito sul declino e fine del secolo americano: se siamo o meno in transizione verso il secolo cinese. Coloro che non ci credono, a mio avviso a ragione, ritengono che la Cina sia sì un Paese superiore economicamente all’America, ma senza un modello socio politico in grado di costruire un’egemonia culturale. È stato proprio il modello, non solo economico, ma politico e culturale americano ad aver caratterizzato il suo primato e la sua capacità di penetrare società e suscitare desideri, aspettative e bisogni.

L’avanzata di questi Paesi può portare a uno scontro culturale?
Nel Pacifico si sta già combattendo uno scontro di carattere geopolitico interessante tra Stati Uniti e Cina. Gli Usa sono presenti nella regione, non soltanto perché la Cina è il rivale più importante e perché buona parte del suo debito pubblico è in mano cinese – cosa che determina interdipendenza tra le due potenze -, ma anche perché vengono chiamati dagli altri Stati del contesto asiatico che vedono negli Usa l’unico argine ad una avanzata egemonica della Cina. Come dicevo, comunque, l’interdipendenza tra i due Paesi rende i rapporti molto più dinamici e flessibili di quanto fossero quelli tra Usa e Urss. Non si ripresenterà oggi un contesto da guerra fredda.

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L’autenticità del vivere che scaccia paure ed egoismi

La rievocazione del martirio di sette monaci francesi in Algeria, nel 1996.
“Gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi”

Per chi, come me, ha vissuto a lungo in Algeria, non è difficile immaginarsi i luoghi aspri ma verdeggianti delle montagne che circondano il Paese, i loro colori e odori, la loro pace e i loro silenzi. Luoghi bellissimi e quasi inesplorati, ma, allo stesso tempo, posti difficili e teatro di storie e misteri oscuri e inquietanti del passato, talora non svelati.
Proprio qui, è ambientata la storia di un film, il cui titolo italiano “Uomini di Dio” ha fatto subito discutere: la traduzione letterale sarebbe “Uomini e dei”, a sottolineare il rapporto tra diverse religioni e non la focalizzazione solo su “questi” uomini di Dio. Poi, però, il regista fa una scelta: racconta la vita e la tragica morte di un gruppo di monaci trappisti francesi nell’Algeria degli anni ‘90, insanguinata dalla guerra tra i terroristi del Fronte Islamico di Salvezza e il regime militare corrotto dell’epoca. E la storia ruota attorno a loro: Christian, Luc, Bruno, Célestine, Chistophe, Michel, Paul, sette dei novi monaci trappisti francesi che abitavano nel monastero di Thibirine. Sette uomini di Dio. Sette uomini, che vivono nel convento (ordinario-povero-misero), in giornate scandite da preghiere, apicoltura, lavori comunitari e chiacchiere, nella stima e riconoscenza della popolazione musulmana dei dintorni, che vede in loro un punto di riferimento e di sicurezza, dati dall’amore e dall’aiuto concreto che i monaci danno loro. Frate Luc, in particolare, dispensa assistenza e cure mediche a donne e bambini. Carità e amore ci sono per tutti. Una dichiarazione d’amore al popolo algerino.

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La locandine del film ‘Uomini di Dio’

Ma il Paese sta sprofondando in un clima di terrore: la lotta tra l’esercito governativo (“i fratelli della pianura”) e i ribelli integralisti (“i fratelli della montagna”) provoca tra la popolazione paura e smarrimento; la strage di un gruppo di operai croati cristiani, in un cantiere nei dintorni, da parte dei rivoluzionari islamici a far capire ai monaci che sono in pericolo. Per i monaci, la situazione e le intimidazioni si fanno sempre più pericolose. Nel gruppo di religiosi arriva il terrore, non tutti sono disposti ad aspettare una morte probabile, sono costretti a ripensare la loro presenza: restare sapendo di rischiare la vita o andare in un luogo più sicuro? Nonostante le avvisaglie di morte i monaci decidono di rimanere. Nella notte del 26 marzo 1996, sono presi in ostaggio, in circostanze mai chiarite. I giorni di prigionia e la loro morte restano ancora oggi avvolte nel mistero. Decapitati, i loro corpi non saranno mai ritrovati. Solo le loro teste hanno avuto sepoltura nel cimitero del monastero. Il martirio è compiuto.
Uomini di Dio ha il merito di rievocare una pagina nota a pochi (dalle prime tensioni del 1993 all’uccisione del 1996) del lungo capitolo dei martiri cristiani del ‘900. Il regista mette in luce l’umanità dei religiosi, nei quali alberga l’umana paura ma anche un amore incrollabile in Cristo e nel prossimo (anche dei terroristi, di cui non ci si augura il male: vengono curati anche loro, la morte del capo suscita compassione).
Il film non fa sconti sulla crudeltà, ma prevale comunque l’amore. Agàpe, amore divino incondizionato, ma anche amore dell’uomo per il suo simile. L’amore come tensione a quell’autenticità del vivere che consente di accantonare paure ed egoismi. Sguardi che s’incrociano e sorridono, che emanano serenità e passione, sguardi rivolti all’Infinito, che si perdono nell’eloquente melodia del canto che si fa preghiera o nell’orizzonte di una natura che ti rimanda al suo Creatore. Una vera scelta d’amore.

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Una scena tratta dal film ‘Uomini di Dio’

Un film misurato, pudico, rigoroso, determinato, composto, intenso, grave e quasi ascetico, con una splendida fotografia di Caroline Champetier.

Uomini di Dio, regia di Xavier Beauvois. Con Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Philippe Laudenbach, Jacques Herlin, Drammatico, Francia 2010, 120 mn.

I sette monaci uccisi erano: Christian de Chergé, 59 anni, monaco dal 1969, in Algeria dal 1971; Luc Dochier, 82 anni, monaco dal 1941, in Algeria dal 1947; Christophe Lebreton, 45 anni, monaco dal 1974, in Algeria dal 1987 ; Michel Fleury, 52 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1985; Bruno Lemarchand, 66 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1990; Célestin Ringeard, 62 anni, monaco dal 1983, in Algeria dal 1987; Paul Favre-Miville, 57 anni, monaco dal 1984, in Algeria dal 1989.

Corruzione ovunque: guardie o ladri

A chi è nella nomenclatura dei partiti e si occupa di politica locale, può capitare di scivolare e ricevere un avviso di garanzia quasi certo, e anche qualche condanna.
Siena e Genova, e ora anche Milano e Venezia, non sono le tappe del Giro d’Italia ma sono le ultime vergognose vicende di corruzione che potrebbero incrinare quel cambio verso del presidente Renzi, oltre alle evidenti e nascoste resistenze contro i tanti “no” che ogni giorno si incontrano e si leggono.
Il tema non è nuovo. Anche su questo quotidiano si è letto a più riprese di corruzione, affari, interessi non chiari, ruberie, falsità e di bugiardoni e la meraviglia di quel 40% e oltre è stata una sorpresa che neppure i sondaggisti e la stampa avevano previsto e compreso.
Una storia che ricorda Guardie e ladri , fatta di troppe e spudorate ipocrisie, e che ci ricorda, come recita l’editoriale di domenica 8 giugno di Corsera, che la questione è trasversale e nessuno si salva, anche se qualcuno avanza pesi e misure.
Politica ed etica non si scindono, anzi si plasmano, e a partire dai territori. Anche se sta poi a Roma discuterne con duri provvedimenti, si lascia alle lontane periferie, anche nel dopo tangentopoli del ’92, il maneggio di sofisticate tecnicalità per far sparire, nelle scatole cinesi, le brutture imperterrite dei soliti noti, ormai senza anagrafe.
Non è certamente una novità che nel nostro Paese il costo delle grandi opere pubbliche sia almeno il triplo che altrove, ma quale severità è stata attivata per bloccare lo scempio, senza escludere anche quelle piccole cose che nei Comuni e nelle aziende pubbliche locali, da anni, si esercitano nella scarsa trasparenza dei capitolati e delle minute trattative (più si spezzano i fornitori e meglio è).
Abbiamo citato Guardie e ladri, soprattutto per sostare un po’ sulle guardie: la novità di questa specie di corruzione è che va dalla Corte dei conti, all’Agenzie delle entrate, alla Guardia di finanza, al Tar e al Consiglio di stato, a qualche magistrato, vigile e geometra, come fosse un corpo d’armata disarmante nell’auditing per il rispetto delle regole e dei comportamenti pubblici.
Questo non ci esime, però, dal marcare ed indicare il dito su altri target, dagli imprenditori ai politici ed amministratori, le cui condanne debbono essere severissime e a casa con la dura pena. Ma quello che qui si vuole evidenziare è la novità della corruzione e che solo il pentimento (e per fortuna ce n’è almeno uno) ha messo in rilievo, scoprendo il coperchio, ipocrisie comprese.
Non resta molto da aggiungere, quello che ci dispiace e che c’è il rischio che fra qualche settimana tutto diventi una bufala: un essere comunque garantisti, le nebbie che avanzano, responsabilità incrociate ma innominabili e tutto finisce così.
Ora che sono terminate le elezioni europee, regionali e dei comuni basterebbe la pubblicazione analitica e precisa di come e da dove sono pervenute le risorse finanziarie (dirette, indirette, altre strade…) per poter dire che veramente è finita.
Abbiamo anche sentito dire, da qualche campo, che siamo diversi, non abbiamo capito, però, da chi; però si sappia che il denaro non ha colore, basta, forse, verniciarlo diversamente.
Non sappiamo, inoltre, se Renzi riuscirà nell’impresa di portare l’Italia in una nuova Europa e se l’elefante abbia finito di rompere i preziosi nella cristalleria; noi e quei quaranta punti (con otto di decimale) speriamo che il Presidente possa veramente andare avanti e spazzare via quel marciume che ostacola i sentieri di una nuova crescita.

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Il calvario delle riforme di papa Francesco

In un articolo su Libero il 22 giugno scorso, Antonio Socci se la prende con il neosegretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), Nunzio Galantino.
Diverse sono le dichiarazioni rilasciate dal vescovo di Cassano Jonico, la più piccola diocesi calabra, ma forse le parole che hanno fatto traboccare il vaso al vaticanista del giornale diretto da Maurizio Belpietro sono quelle rilasciate a QN il 13 maggio: “In passato ci siamo concentrati esclusivamente sul no all’aborto e all’eutanasia. Non può essere così … Io non mi identifico con i visi inespressivi di chi recita il rosario fuori dalle cliniche che praticano l’interruzione della gravidanza, ma con quei giovani che sono contrari a questa pratica e lottano per la qualità delle persone, per il loro diritto alla salute, al lavoro”.
Apriti cielo.
Socci va giù durissimo col segretario Cei, scelto personalmente da Papa Francesco il dicembre scorso: “Galantino si è mai guardato allo specchio? Si sente un Rodolfo Valentino?”. Ma soprattutto: “Con quelle parole ha immotivatamente ferito il grande popolo della vita suscitato dal magistero di Giovanni Paolo II”.
Qui c’è un primo forte colpo di sciabola rivolto ad una strategia ecclesiale, vista come eccessivamente cedevole allo spirito secolarizzato del tempo, troppo debole nel volere “Chiedere scusa ai non credenti – sono sempre parole di Galantino riportate – perché tante volte il modo in cui viviamo la nostra esperienza religiosa ignora completamente la sensibilità dei non credenti”.
A questo abbassare la guardia della chiesa, Socci oppone le parole di Cristo nel Vangelo di Matteo (10, 34): “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: sono venuto a portare non pace, ma la spada!”.
Non sono un biblista, ma mi pare che la citazione sia decisamente fuori luogo, perché quelle parole sono dette per mettere in crisi ogni forma di facile sentirsi al sicuro ed acquisito accomodamento in ambito familiare. Perciò più dirette, mi pare, ad un contesto ad intra che ad extra.
Ma non è questo il punto.
Il vero attacco sembra piuttosto rivolto non tanto al segretario della Cei, quanto a chi lo ha voluto e, quindi, a Papa Bergoglio.
Si può disquisire all’infinito sull’opportunità e sullo stile delle uscite di Galantino, ma il bersaglio vero è altrove.
E quello di Socci non è che un esempio che accanto ad altri sta formando ormai una fila lunga come davanti ad uno sportello delle Poste.
A molti non va giù l’idea che si stia chiudendo per i vescovi italiani il ventennio ruiniano, così come non sono passate inosservate le modalità con le quali si è svolta la sessantaseiesima Assemblea generale della Cei, nella quale non era mai accaduto, come scrive Il Foglio sabato 17 maggio, che fosse il Pontefice in persona a leggere il discorso d’inizio. Un gesto che è stato letto come un commissariamento di fatto della Cei. E le stesse richieste di Papa Francesco di riforma dello statuto e la sostituzione del segretario generale al posto di mons. Mariano Crociata, sembrano i segni inequivocabili di un cambio di rotta.
Molti altri, poi, sono i mal di pancia che stanno affiorando nella chiesa.
Secondo Massimo Introvigne, docente di Sociologia dei movimenti religiosi all’Università Pontificia Salesiana di Torino, i lefebvriani si starebbero dando molto da fare perché ritengono il pontificato di Francesco per loro inaccettabile “e sperano – continua il docente in un’intervista a QN il 16 ottobre 2013 – di diventare un polo di coagulazione del dissenso anticonciliare”.
Stesso mese e stesso anno, qualcuno lo ricorderà, ci fu il caso dei due collaboratori di Radio Maria, Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, allontanati dall’emittente per avere firmato un lungo commento sull’operato di Bergoglio dal titolo significativo: “Questo Papa non ci piace”. I due non avevano gradito le interviste rilasciate da Francesco, ritenute “un campionario di relativismo morale e religioso”.
Fra queste, il lungo colloquio col direttore de La Civiltà Cattolica, nel quale Bergoglio definisce la chiesa un ospedale da campo.
Frasi e dichiarazioni che fanno irrigidire Michael Novak, fra i più noti ed influenti filosofi cattolici statunitensi. “Le sue parole – così in un’intervista a La Stampa il 21 settembre 2013 – lo espongono alla strumentalizzazione da parte di chi vuole colpire la chiesa … La sinistra si sentirà incoraggiata a spingere per modifiche della dottrina”.
Lo stesso Introvigne sempre su QN (21 settembre 2013), prova a ridimensionare: “Abbagliati dalla nuova strategia pastorale e dai nuovi accenti molti si aspettano chissà quali aperture dottrinali, cadendo in questa che è una sorta di illusione ottica”.
Come dire: cambieranno anche i toni, ma la sostanza della chiesa rimane identica.
In una riflessione sulla rivista americana Commonweal il 5 giugno scorso, lo storico Massimo Faggioli, fa una disamina dettagliata del fronte oppositivo a Papa Bergoglio.
Stile e linguaggio di Francesco non sarebbero benvenuti per numerosi vescovi, molti dei quali silenziosamente resistono ai cambiamenti.
In Italia i cardinali di Venezia, Milano, Torino, Genova, Firenze, Napoli e Palermo, non sono annoverati fra i massimi estimatori dell’attuale Pontefice, mentre il cardinale di Bologna, Carlo Caffarra, non ha esitato a criticare pubblicamente le posizioni di apertura del pari porporato Walter Kasper, circa la possibilità dei cattolici divorziati e risposati di ricevere la comunione.
Nel panorama editoriale italiano giornali come Libero, Il Giornale e Il Foglio, non stanno risparmiando critiche a Bergoglio. Lo stesso Corriere della Sera – scrive Faggioli – sembra dare voce al capitalismo italiano preoccupato dal magistero papale in ambito sociale. La dura strigliata sull’inequità contenuta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, è sentita per tanti come un campanello d’allarme.
Sandro Magister su L’Espresso, da sempre dato in quota a Ruini, non si tira indietro a dare voce a certi ambienti vaticani non proprio entusiasti della svolta bergogliana.
Si potrebbe andare avanti, per esempio, con pezzi significativi dell’episcopato e del cattolicesimo statunitense, culla delle posizioni prolife, ma ben più dell’elenco telefonico può interessare un significativo inciso di Faggioli.
Se c’è una cosa che contraddistingue da sempre la cultura conservatrice della chiesa, tanto da farne un vanto, è il rispetto incondizionato per l’ordine gerarchico, per l’autorità investita di un mandato divino.
Ora invece, diversi si sentono, per diversi motivi, minacciati da un corso ecclesiale che li spaventa e questo li porta a dimenticare una storica, e teologica, affezione e obbedienza alla figura del Papa, cadendo così in una vistosa contraddizione.
Ma che cosa irrita maggiormente chi, come anche Socci, è tuttora abituato a leggere i fatti ecclesiali all’interno del binomio angusto conservatori-progressisti, destra-sinistra?
Lo storico Alberto Melloni va bene all’osso della questione quando dice che per Wojtyla e Ratzinger era decisivo affermare e annunciare i valori cristiani nello spazio pubblico e mostrare la capacità antagonista della chiesa. Bergoglio, invece, ragiona partendo dalle persone e non dalle leggi, dai principi e dalle istituzioni.
Due cose, in fondo, stanno contraddistinguendo più di altre le parole e soprattutto i gesti del Pontefice.
Con Bergoglio la “prossimità” non è solo un atteggiamento diverso, un cambio di tono, di forma o di accenti, ma diventa la postura essenziale e fondamentale per la chiesa.
È il primato cristologico della misericordia, con il quale misurare e riparametrare tutto il resto.
In secondo luogo, Francesco vuole e chiede con insistenza la sinodalità come principio e metodo di vita e governo della chiesa. Sinodalità che richiama tremendamente alle orecchie il termine collegialità, che a sua volta significa attuazione del concilio Vaticano II.
Non sono certo novità assolute, ma sufficienti per rompere equilibri, urtare sensibilità e chiedere cambiamenti di rotta. Innanzitutto dentro la chiesa.
Così si comprende la preoccupazione che Enzo Bianchi espresse su La Stampa già il 21 settembre 2013: “Non vorrei apparire foriero di malaugurio, ma quando un cristiano – e tanto più un Papa – innalza il vessillo della croce, non come arma contro i nemici ma come cammino di sequela del Signore, può solo andare incontro a incomprensioni e contraddizioni, in una solitudine istituzionale pesante e faticosa”.

Pepito Sbazzeguti

Quella barca ‘sfinita’, allegro monumento che saluta i turisti

Elogio allo squallore. Potrebbe essere il titolo dell’installazione d’arrivederci posta ai piedi del ponte che collega il Lido degli Estensi a Porto Garibaldi. Il “monumento” non può sfuggire neppure all’occhio più distratto, è giusto collocato nello svincolo d’uscita e si mostra in tutta la sua bruttezza. E’ una barca “sfinita”, giunta a fine corsa, le vele strappate, la vernice scrostata e, fino a qualche giorno fa circondata da onde di cellophane azzurre incastrate sotto la chiglia. Risultato: un classico effetto pattumiera, con la plastica sbatacchiata dal vento come fosse un groviglio di sacchi dell’immondizia sfilacciati e abbandonati sull’erba. Una meraviglia. Quel che si dice il trionfo del buongusto, una chicca d’autore capace di solleticare la curiosità di chi passa sulla Romea. Sembra di sentirli gli automobilisti in transito dalla parte opposta dell’imbarcazione, peraltro persino più triste del monumento ai marinai caduti di via Pomposa a Ferrara. “Guarda che bella idea, quasi quasi vado a farmi un giro agli Estensi”. Se tanto mi dà tanto, c’è da mettersi le mani nei capelli. Di chi mai sarà una pensata tanto brillante, che sta alla accoglienza come una cozza (nel senso di brutto) alla bellezza. Forse l’ideatore ha voluto replicare l’Italia dei rifiuti della passata Biennale di Architettura di Venezia, lo scrivo perché sono un’inguaribile ottimista. Certi esperimenti però hanno bisogno di background altrimenti è meglio lasciare perdere. E’ meglio spendere due soldi e seguire un corso di educazione estetica, se il denaro scarseggia si può sempre lanciare una sottoscrizione purché i creativi fai da te seguano con impegno le lezioni e la finiscano di offendere la sensibilità dei passanti a colpi di oggettistica orripilante confezionata in casa. Ci sono già abbastanza villette a schiera, case e residence che gridano vendetta per quanto sono inguardabili. Un consiglio: lo squallore non aiuta la vacanza e aggiunge aria di naufragio a una località che ha conosciuto tempi migliori. Molto ma molto tempo fa.

Aggiornamento del 4 luglio – Rimossa la barca del nostro scontento [leggi]

L’amore non si cura

Il titolo del mio intervento prende spunto da uno striscione del primo pre-Pride svoltosi a Ferrara lo scorso sabato, corteo partito da Ferrara che si è successivamente unito al Pride di Bologna. La scritta “l’amore non si cura” è contro chi considera l’omosessualità una malattia, un qualcosa che vada curato perché contro natura. Sta ad indicare, come sostiene anche la psicoanalisi lacaniana, che l’orientamento sessuale è una scelta soggettiva e non qualcosa di “dato” a seconda del genere sessuale in cui si nasce. Per Lacan l’anatomia non è un destino. L’anatomia non definisce l’essere uomo o l’essere donna. Non c’è un essere un uomo o un essere una donna, ma c’è un “fare l’uomo” o un “fare la donna”. La sessuazione è un processo complesso che consiste nella soggettivazione della propria anatomia e questo comporta che la dimensione anatomica del sesso possa non corrispondere all’orientamento soggettivo della sessuazione stessa.
L’identità sessuale, quindi, implica sempre una scelta del soggetto. Non possiamo far corrispondere la sessuazione femminile al corpo di una donna, né quella maschile al corpo di un uomo. Il tempo dell’infanzia è solo un primo tempo della sessuazione a cui si deve aggiungere un secondo tempo dove si può rigiocare la partita della scelta del sesso, che è il tempo della pubertà e dell’adolescenza, ovvero il tempo dell’incontro pulsionale con la sessualità, con il corpo sessuale dell’Altro.
Il corteo pre-Pride era in contrapposizione con la manifestazione delle “sentinelle in piedi” tenutasi nello stesso giorno sempre a Ferrara. Le “sentinelle in piedi” sono un’organizzazione spontanea di cittadini nata per contrastare l’estensione della legge contro l’omofobia. Tra loro persone di tutte le età, in larghissima parte di orientamento cattolico, che conducono una battaglia ideologica contro la rivendicazione dei diritti delle persone gay, lesbiche e transessuali. Stanno in piedi, leggendo un libro, per un’ora, in silenzio. Le Sentinelle sostengono che il senso del loro manifestare è quello di “vegliare sulla libertà di espressione e opinione”, ma è una volontà che si concentra solo ed esclusivamente sul tema della negazione dei diritti per le persone omosessuali. Un movimento che sta alzando i toni contro ogni discorso e pratica di apertura nella scuola e nella società a visioni non assolutistiche della famiglia e delle relazioni umane e sessuali. Un movimento che distorce la realtà delle leggi proposte e delle misure educative che si vogliono intraprendere nelle scuole e che cerca di legittimare e giustificare la discriminazione contro le persone omosessuali, negando i più elementari e fondamentali diritti umani, che devono essere garantiti a qualsiasi persona. Mi pare una contraddizione che persone religiose, che dovrebbero dare l’esempio di tolleranza e rispetto dei diritti altrui, non siano in grado di considerarli.
L’omofobia, secondo l’Agenzia per i diritti Fondamentali dell’Unione Europea, danneggia ogni anno salute e carriera di milioni di persone. L’Italia è il Paese dell’Unione Europea con il maggior tasso di omofobia sociale, politica e istituzionale. I suicidi della popolazione gay legati alla discriminazione omofobica costituiscono il 30% di tutti i suicidi tra gli adolescenti. L’Italia è l’unico tra i Paesi dell’Unione Europea a non avere una legge anti omofobia, mentre in Europa il riconoscimento dei diritti civili è in media attorno al 65-70% con punte dell’80% nel Regno Unito e in Belgio, in Italia è fermo al 25% dopo Serbia, Kosovo e Georgia e prima dell’Azerbaigian. Occupandomi da diversi anni di omosessualità mi capita spesso di sostenere giovani omosessuali nella loro ricerca di rispetto dei propri diritti, assolutamente legittimi, come quelli di non essere discriminati sul lavoro, di avere eguali diritti di costituire una famiglia e avere dei figli, in definitiva di poter vivere con serenità la propria vita. La funzione del padre (fondamentale nella strutturazione dell’identità di un soggetto) non si identifica solo con la struttura della famiglia tradizionale. Chi è in grado di sostenere che la famiglia tradizionale compia meno danni di famiglie omogenitoriali?
L’importante è che in famiglia ci sia qualcuno che eserciti la funzione del padre, anche se ciò non necessariamente si incarna in un uomo. Il messaggio delle Sentinelle è omofobico perché, sotto slogan a difesa della vita, della famiglia e della relazioni tra i generi, alimentando un clima di pregiudizio e di discriminazione.
Sabato in concomitanza con la manifestazione, la Giunta comunale ha esposto alle finestre del Municipio il messaggio “La città di Ferrara condanna l’omofobia e la transfobia”, rendendo così manifesto il proprio impegno contro discriminazioni e la condanna di ogni forma di violenza omofoba. L’estensione della legge contro l’omofobia punisce discorsi di odio che incitano alla violenza o azioni violente, non certo le opinioni su matrimoni gay o adozioni. La legge non prevede alcuna limitazione alla libera manifestazione di idee.
Mi pare doveroso imparare a rispettare le diverse particolarità di ognuno in un tempo in cui l’educazione all’integrazione dev’essere al primo posto.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, è specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com