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Nei mille salottini televisivi che ormai hanno preso stabilmente il posto delle chiacchiere al bar di qualche decennio fa, accomunati dalla loro vacuità, oggi va di moda parlare di Fondi strutturali europei. Spesso vengono evocati come ancora di salvezza, ultimo treno da prendere al volo per accompagnare l’uscita del nostro Paese (e dell’intero nostro Continente) dal buio senza fine di questa crisi. Certo, si aggiunge, “bisognerebbe spenderli tutti”, quei Fondi, e soprattutto “spenderli meglio”, come ha avuto occasione di rimarcare anche il nostro Presidente del consiglio. Seguono ipotesi varie e immaginifiche sulle possibili destinazioni di questo fiume di risorse.

Purtroppo però c’è ancora molta confusione sulla strada della concreta disponibilità operativa dei Fondi 2014-2020 (circa 114 miliardi, compresa la quota di cofinanziamento) e questa confusione non è a dire il vero tutta imputabile alla negligenza delle istituzioni italiane.
Il primo problema è rappresentato infatti dall’estrema complessità delle procedure previste dai regolamenti dell’Unione europea: lunghi e tortuosi iter di approvazione, moltissimi documenti da compilare, intricati adempimenti amministrativi, molta burocrazia, controlli farraginosi e spesso più formali che sostanziali. Persino un linguaggio un po’ barocco, che sembra fatto apposta per scoraggiare i non addetti ai lavori. Tra “obiettivi tematici”, “assi”, “priorità”, “fabbisogni”, “misure”, “sottomisure”, ecc. ecc. a volte riesce davvero difficile raccapezzarsi.

La cornice nazionale delle scelte in base a cui procedere nella destinazione delle risorse dovrebbe essere definita dall’ “accordo di partenariato” tra Italia e Commissione europea. Peccato che una prima bozza di questo accordo, spedita dal Governo Letta alla Commissione Ue il 9 dicembre del 2013 sia stata sepolta da quest’ultima sotto una montagna di osservazioni critiche e di rilievi.
Così una versione “definitiva”, riveduta e corretta, è stata inviata alla Commissione nelle ultime ore prima della scadenza prevista del 22 aprile 2014. Entro quattro mesi da quella data, in base al regolamento, avrebbe dovuto avvenire l’approvazione finale del testo. Però il 22 agosto è trascorso e ancora non se ne ha notizia, nonostante gli annunci sia della Commissione Ue sia del Governo italiano dessero già ad inizio luglio come “imminente” la conclusione del negoziato. «L’intesa – dichiarò allora il commissario alle Politiche regionali Johannes Hahn – sarà raggiunta entro fine luglio». Nel frattempo qualche organo di stampa ha fatto filtrare, a cavallo di Ferragosto, indiscrezioni secondo le quali le questioni non risolte sarebbero ancora diverse e importanti.

Entro il 22 luglio però le Regioni erano tenute ad approvare ed inviare a Bruxelles i propri Por (Piani operativi regionali) attraverso i quali l’Accordo di partenariato deve trovare applicazione. Così è stato. Le Regioni hanno approvato i loro Por, che nella fattispecie sono tre, uno per ciascuno dei fondi: Fse (Fondo sociale europeo), Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale) e Feasr (Fondo europeo agricolo di sviluppo rurale). Si tratta di un materiale imponente, dal punto di vista volumetrico: per fare un esempio il solo Psr (Piano di sviluppo rurale) emiliano-romagnolo, applicativo del Feasr, consta di quasi 600 pagine, più gli allegati.
Peccato però che tutti questi Piani regionali dovrebbero essere coerenti rispetto ad una cornice programmatoria nazionale che – come si diceva – ancora non è nota, almeno nella sua versione finale.

Ma non basta. Perché questi Por dovrebbero incrociarsi con gli undici Pon (Piani operativi nazionali) che dovrebbero essere approvati dal Governo centrale. Questi Pon pescano le loro risorse dagli stessi Fondi europei e spesso riguardano materie molto vicine a quelle di cui si occupano i Por, avendo importanti ricadute anche sui territori regionali: ad esempio il Pon Istruzione oppure quello Occupazione o quello Inclusione. Peccato che di tutti questi Pon esistano al momento solo tracce, l’unico che finora si è concretizzato in un testo compiuto (ma non definitivo) è il Pon Città metropolitane. Il rischio che si finisca così per sovrapporre gli interventi è evidente.

E non basta ancora. Perché i Por dovrebbero infine incrociarsi anche con gli interventi e le risorse previsti da un altro Fondo strutturale, questa volta non europeo ma nazionale: il Fsc (Fondo sviluppo e coesione), che è l’erede del vecchio Fas (Fondo aree sottosviluppate).
L’ultima Legge di stabilità approvata attribuisce a questo Fondo per il 2014-2020 la bellezza di 54,8 miliardi, anche se ne rende disponibili per i primi tre anni soltanto 1,55.
Per dire dell’importanza di questo Fondo, la Regione Emilia-Romagna prevede, nei suoi documenti di programmazione, che grazie ad esso siano finanziati gli investimenti regionali su due capitoli tutt’altro che secondari per le traiettorie di sviluppo regionale: le infrastrutture per la mobilità (rinnovo del materiale rotabile, mobilità urbana sostenibile) e importanti interventi di salvaguardia del territorio (erosione del suolo e delle coste; rischio idraulico, idrogeologico e sismico; tutela e valorizzazione delle risorse ambientali e culturali).
Al momento però non c’è ancora neppure un accordo sulla ripartizione di queste risorse tra le Regioni, risorse che peraltro almeno fino al 2017 non saranno nemmeno disponibili. Quindi siamo ancora lontani dal poter immaginare una loro concreta destinazione.

Insomma, sarà davvero un miracolo se da tutto questo guazzabuglio si riuscirà a far uscire delle scelte sensate e soprattutto coerenti. Il rischio è che, come è già avvenuto in passato, molta parte dei quattrini finisca in finanziamenti a pioggia, di cui beneficiano in molti, non sempre i più meritevoli, ma senza che il sistema economico territoriale ne tragga nel suo insieme grande vantaggio.
Se così sarà, sarebbe troppo facile prendersela solo con le pur innegabili incapacità, deficienze e vocazioni clientelari di una parte almeno delle nostre Regioni. Forse è l’architettura del sistema che andrebbe ripensata, per renderla insieme più semplice, più comprensibile anche per i non addetti ai lavori, ma anche più funzionale ad un’efficace azione programmatoria.

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Giuliano Guietti

Laureato in legge, sindacalista, ha ricoperto vari incarichi nella categoria dei chimici Cgil e da ultimo quello di segretario generale della Camera del Lavoro di Ferrara. Attualmente opera in Cgil Regionale Emilia Romagna.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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