Nella gara a chi promette di fare maggiore raccolta differenziata (promette…) credo valga la pena, ogni tanto, mettere la testa fuori dal contesto italiano per capire se questo obiettivo è condiviso e soprattutto perseguito a livello europeo. A questo proposito consiglio la lettura di un recente rapporto presentato dalla Commissione Europea che ridimensiona molto alcune presunzioni di primeggiare.
Prima però una piccola premessa, un elenco di cose da fare forse note, ma che è comunque sempre bene ricordare:
introdurre sistemi di raccolta differenziata obbligatoria per alcune frazioni di rifiuti urbani e rendere obbligatoria la raccolta differenziata dei rifiuti biologici;
introdurre definizioni chiare su cosa si intende per raccolta differenziata nella legislazione nazionale e fare riferimento a standard di riciclaggio e trattamento di alta qualità;
definire cosa si intende per standard di alta qualità, standard di trattamento elaborati e applicarle;
investire nei sistemi di trattamento meccanico biologico solo in connessione con l’introduzione di sistemi di raccolta differenziata;
riconsiderare la necessità di investire / installazione di impianti di incenerimento per rifiuti urbani non differenziati;
chiarire i metodi di calcolo della produzione di rifiuti solidi urbani, rifiuti domestici e il loro riciclo.
La Commissione Europea ha presentato di recente lo studio “Assessment of separate collection schemes in the 28 capitals of the EU” (redatto dal Copenhagen Resource Institute e dal German consultancy-Bipro), che compara le prestazioni in tema di gestione rifiuti e raccolta differenziata nelle capitali europee, individuando le migliori esperienze e i motivi del loro successo. Lo studio analizza il quadro giuridico e l’attuazione pratica dei sistemi di raccolta differenziata per metallo, plastica, vetro, carta e rifiuti organici, valutando sia il contesto nazionale sia i casi specifici delle capitali. Dopo aver elencato una serie di indicatori utilizzati per la valutazione, il rapporto stila la classifica dei cinque migliori risultati tra le capitali europee per la raccolta differenziata (Lubiana, Helsinki, Tallinn, Dublino e Vienna) rilevando anche una serie di elementi comuni identificandoli come probabili fattori di successo.
Sulle politiche di “open access” – accesso libero ai risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici – per favorire la ricerca e la formazione di politiche fondate sull’informazione si tiene un interessante convegno che si terrà a Ravenna venerdì 20 maggio. L’obiettivo è avere anche nel settore dei rifiuti una visione d’insieme in termini di generazione, standardizzazione, disponibilità e confrontabilità dei dati su larga scala, in modo che le decisioni strategiche riguardanti la conservazione e il miglioramento dei parametri ambientali possano essere valorizzati in ottica di sostenibilità delle politiche generali dell’ambiente.
Per approfondire e partecipare http://www.labelab.it/ravenna2016/events/workshop-g-open-data/
All’alba del terzo millennio un viaggio in treno attraverso la Mitteleuropa puὸ apparire ai più desueto, dal sapore antiquato, fuori moda in tempi di “tour all-inclusive 3.0 iperorganizzato da otto giorni/sette notti”. Il treno offre relax a occhi chiusi in compagnia dei propri pensieri, consente un buon libro a occhi aperti come cibo, cullati e accompagnati dal fruscio dell’aria fuori, richiede un quaderno di appunti di viaggio per la cronaca quotidiana del giorno e della notte, vissuta fra sussulti di carrozza e il panorama che scorre e sfugge rapido all’esterno del vetro del finestrino.
È un viaggio immaginato, pensato e poi condotto come un viaggiatore curioso, con l’ambizione di riscoprire la bellezza del tempo lento, per una volta, non scandito dal check-in, dall’invadente e fastidioso spoglio di sicurezza, dal gate che non si trova. Ah! L’aereo è allineato ai ritmi odierni, veloce e popolare fra i turisti settimanali e abituale al sottoscritto per professione. Un viaggio da Bologna, a Monaco di Baviera e poi Berlino, Amsterdam e di nuovo Bologna su rotaia, però, sarà di certo un’esperienza indimenticabile.
Programmato per tempo, il viaggio, tutto giocato in autonomia e con facilità in rete, promette un’ottima riuscita. Cabina riservata nella carrozza letto, d’obbligo la scelta sulla Società delle ferrovie tedesche DB, Deutsche Bahn e ahimè per il nostro spirito spesso critico, son stati veramente bravi: orari e multiple coincidenze per le destinazioni finali che funzionano. Il libero arbitrio di movimento e di ritardo si contrappone al comandante che blinda d’imperio il portello dell’aereo. Il tempo non è più un tiranno.
La partenza, prevista la sera tardi, si annuncia con un piccolo giallo: il treno che da Bologna porta a Monaco (è un convoglio italiano fino al Brennero), partito da Roma ha già accumulato due ore di ritardo senza un perché. Misteri delle Ferrovie Italiane.
Fortuna vuole che la carrozza letto sia tedesca e attraverso scambi di locomotore arriviamo comunque a Monaco di Baviera con solo 10 minuti di ritardo. Il capotreno con un italiano dal timbro tedesco ci informa e si scusa, la colpa è “del ritardo è degli italiani”, e purtroppo è vero.
Monaco di Baviera è opulenta, mi colpisce la cilindrata del parco auto circolante: forse non tutto è oro ciὸ che luccica, ma qui lo scintillante si spreca.
Monaco è colma di siti culturali importanti: la Glyptothek, lo strepitoso e mondiale Museo della scienza e della Tecnica, un must, ma tanti altri gioielli come l’Antiquarium nel Palazzo Reale con la sua collezione di busti, e da non perdere per la sera l’Hofbräuhaus la birreria più famosa del mondo.
Dalla München Hauptbahnhof viaggiamo di giorno fra Monaco e Berlino, poche ore di panorama sempre piatto e allungato, fra campi coltivati e sterminate distese blu di pannelli fotovoltaici rivolti al sole come girasoli OGM. Siamo comodi e rilassati su un treno ad alta velocità, ovviamente tedesco; d`istinto mi assale un pensiero di puro orgoglio nazionale (il biondo Manfredi in Svizzera!): “quale assiduo cliente dei treni Alta Velocità reputo i nostri treni italiani molto più confortevoli, eleganti e aggressivi sui binari”.
Lipsia, Dresda, Dessau città nobili quasi azzerate dalla Seconda Guerra Mondiale e poi Berlino, dalla quale mancavo da oltre tre anni. La città si è trasformata in un’estesa foresta di gru cantierizzate, di edifici pubblici, teatri, università, musei.
Unter den Linden è il continuo filo viario che unisce la città, dalla Porta di Brandeburgo (a fianco il Reichstag con la sua moderna cupola di vetro progettata da Sir Norman Foster e ispirata al nostro adrianeo Pantheon) ad Alexanderplatz, circondata da grattacieli datati e balconate attrezzate per eventi in musica e cocktail notturni sulla città illuminata, su cui svettano i 368 metri della torre tv.
A piedi arriviamo al nostro obiettivo, l`isola dei Musei, “Museumsinsel”, patrimonio dell’umanità posto nel quartiere Mitte, il cuore di Berlino fra il fiume Spree e il canale Kupfergraben, in un` ambientazione otto/novecentesca fra le più scenografiche nei miei ricordi.
Cinque prestigiosi musei insieme sull`isola; due primeggiano per contenuti, che confesso di aver visitato precedentemente scoprendo sempre qualche nuova delizia per gli occhi: Il Pergamonmuseum e il Museo Egizio non fosse altro perché entrambi proteggono tesori senza tempo: la gigantesca monumentalità da occhi sbarrati dell`Altare di Pergamo, della porta Ishtar di Babilonia, del grande portale del Mercato di Mileto e la perfezione del minuscolo busto della regina Nefertiti.
Millenni all’interno della storia, di quella vera, un’overdose di emozioni forti che non si raccontano e che lascia smarriti da tanta bellezza.
Dalla stazione di Berlino, campione di architettura moderna, in ritardo montiamo su un treno diurno, sempre DB, con direzione Amsterdam. Il viaggio è tranquillo e riposante attraverso le selve di mulini a pale bianche, quelli moderni utili all`economia tedesca, e con qualche rarissimo mulino della tradizione dal tetto di paglia, ben chiaro nel nostro immaginario olandese. Raggiungiamo puntuali Amsterdam.
La città è conosciuta, ma i celebrati Musei Rijksmuseum, Van Gogh, la casa museo di Rembrandt e Het Scheepvaartmuseum (il museo nautico) nascondono sempre qualche meraviglia; la storia olandese ha un passato talmente glorioso, le colonie ma anche la tratta dei neri d`Africa, la pittura così multisecolare che sempre sorprende. Ma fa freddo e piove e il noleggio delle biciclette non è consigliabile.
Ultimo treno, e questo è notturno. Il percorso è a ritroso da Amsterdam verso Bologna via Monaco di Baviera. Vegliano su di noi due capocabine premurose con cappello, bionde platino, leggermente sovrappeso per circa 1 metro e novanta di altezza; si vede che hanno il controllo della situazione, sarà anche il fascino e l’autorità della divisa. Una ottima cena servita in carrozza letto con tanto di Prosecco di Conegliano ci sorprende come pure la buonanotte in italiano.
Partiamo in orario e possiamo riposare tranquilli fra ritmo e cadenza delle ruote sui binari.
Con il solito eccellente e puntuale servizio, dopo una abbondante colazione a bordo a Monaco ci congediamo dalla ferrovie tedesche.
Si cambia e attraverso il Brennero via rapidamente con entusiasmo verso l’Italia dove a Verona in stazione inspiegabilmente… un ritardo! Ci blocchiamo per tre ore.
Qualche dubbio a proposito di disservizi nostrani ci assale. Ma il treno è relax.
Migliarino (Ferrara) ricorda Ludovico Ariosto non solo “per fare memoria dei 500 anni della prima edizione dell’Orlando Furioso”, ma soprattutto perché il grande poeta è stato cittadino di quelle terre. Più precisamente, come ricorda la bella targa posta alla Pieve di Fiscaglia di Migliarino, “Ludovico Ariosto deposto l’Ippoogrifo alato con rusticana saggezza resse in temporalibus questa storica Pieve di Fiscaglia (1511-15) trasmettendola poi a membri di Sua casa”. E la storia vuole che fra i membri di casa sua (di sangue suo) figurasse anche un figlio concepito con una signora del luogo. Ariosto fu enfiteuta ed ebbe quindi il beneficio economico del terreno annesso all’antica chiesa pievana, di proprietà della diocesi di Cervia, operazione favorita dal cardinale Ippolito d’Este.
Le celebrazioni si sono aperte sabato con la mostra di Maria Paola Forlani “L’Orlando Furioso a Migliarino” (visitabile fino al 21 maggio 2016): una riproposizione dell’esposizione alle Gallerie d’Arte Moderna di Palazzo dei Diamanti del 1974, che vedeva una giovanissima artista appena uscita dall’Accademia di Belle Arti di Bologna presentare un Orlando Furioso che si dispiegava nelle ampie sale delle gallerie ferraresi in una sequenza di arazzi “fabulistici” realizzati con una grafica magistrale.
In un percorso che ricorda la sua attività di pittrice di scena nel film “I Cavalieri che fecero l’impresa” di Pupi Avati, l’esposizione presenta un suggestivo paravento-scenografico che esalta i tre poeti ferraresi: Boiardo, Ariosto e Tasso. Le ultime opere di Maria Paola hanno abbandonato le sue calme evocazioni medievali o quelle miniaturistiche, che facevano parte del suo vissuto, per dar posto solo al colore, che assume un significato aggressivo, d’origine quasi fauve. Il colore diventa segno, espressione, vive in un ambiente naturale sconvolto da un immane cataclisma, di battaglie, di duelli e passioni e che distorce le bordature laterali dello spazio, piega i cieli e la natura circostante. Non è una forzatura. Annullare le leggi fisiche della forza di gravità, annullare gli equilibri di verticali e orizzontali è uno strumento tipicamente della libertà dell’artista per far sentire che le leggi matematiche eterne vivono soltanto al di fuori dell’uomo.
Nel Duello tra “Rodomonte e Acheronte” il colore diventa azione, istintivo più che casuale e crea impulsi profondi nella definizione dello spazio. In quest’opera vediamo almeno due tipi di macchie colorate: velature espanse e trasparenti che introducono nella superficie della tela un senso di profondità di sfumature fluttuanti e vagamente stratificate per il colore che si fa materia.
E due e tre volte ne l’orribil fronte,
alzando, più ch’alzar si possa, il braccio,
il ferro del pugnale a Rodomonte
tutto nascose, e si levò d’impaccio.
Alle squallide ripe d’Acheronte,
sciolta dal corpo più freddo che ghiaccio,
bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa,
che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.
(XLVI, 101 – 140)
Alcune opere di Maria Paola Forlani. Clicca sull’immagine per ingrandire.
Impazzano le ‘zeta’ sibilanti elargite con enorme diponibilità dalle ragazze ferraresi. In piazza fiori e cibo vegano. I luoghi della cultura intasati da Ariosto e Bassani. In Cattedrale con passo solenne sfilano le contrade e i duchi e la corte, mentre il vescovo benedice i palii.
La Storia, la cronaca, il passato, si fondono con il tributo totale, immenso, senza limiti, che saluta l’arrivo della Spal in serie B. I giocatori intervistati dalle tv locali esibiscono strepitose pettinature, brandelli di tattoo e polsi invasi da decine di bracciali e fermagli da polso. I giornali dedicano la metà esatta delle pagine locali allo sport, un terzo alle sagre, il resto alla cronaca dove si dà stancamente conto della protesta degli azzerati delle quattro banche italiane.
Gramellini nella trasmissione di Fazio illustra una statistica che vorrebbe far luce su ciò che accomuna i diversi protagonisti del populismo mondiale. Da Trump a Grillo sembra che il denominatore comune vada ritrovato nella cura ossessiva e precisa della propria capigliatura. Sospiro di sollievo: per ragioni oggettive non potrò mai essere populista!
Ferrara sembrerebbe una città felice, anche se c’è l’uomo in nero che rapina giovani e anziane signore nel centro storico, anche se le proteste contro Carife portano a imbrattare i portoni della Fondazione con uova e altri commestibili. Prova irrefutabile di una volontà di colpevolezza che non sa indirizzare la protesta nei luoghi giusti. Il quartiere Gad è sempre più a rischio, ma ci sono le sagre!! Cibus e gli altri eventi mangerecci, che hanno reso l’Italia un unico, immenso ristorante. Vuoi mettere andare (e ne porto la colpevolezza/innocenza) a disquisire su Piero della Francesca a Forlì senza prima assaggiare le gourmandises in una trattoria tipica del luogo? E per fortuna che alla fine della mostra ‘intrigante’ ci aspetta l’Ebe canoviana che versa vino dalla sua ampolla dorata.
Dopo le pecore brucanti nel sottomura tiene il pezzo l’avventura del musicista da strada che suona il pianoforte nella centralissima Piazza Trento e Trieste, invitato ad andarsene dai vigili in quanto non ha pagato la tassa sull’occupazione di suolo pubblico. A furor di popolo verrebbe riammesso se non si scoprisse che la stessa dimenticanza era avvenuta in altre città tra il Veneto e l’Emilia.
Importantissime questioni che fanno dimenticare il conflitto tra magistratura e governo, mentre cadono e si dimettono per illeciti commessi amministratori e sindaci del Pd tra il tripudio e lo sdegno dei 5stelle che – mirabile dictu!!! – oggi vedono indagato il loro sindaco di Livorno.
Salvini si frega le mani mentre pochi imbecilli strappano il suo libro a Bologna, portandolo in tal modo alle vette delle classifiche delle vendite. Così come altri individui sfigati fanno proteste sbagliate al Brennero, deludendo con un comportamento goffo e privo di senso l’indignazione contro la politica austriaca del rifiuto dei migranti.
Ma che straodinaria ‘Itaglia’!
Sembra quasi che una vena di ordinaria follia percorra le strade della nostra città. Come del Paese. Come dell’Europa. E poi è davvero possibile che gli Usa, patria indiscussa delle libertà democratiche, possano spingersi fino a far raggiungere il ruolo di primo candidato del Partito Repubblicano a Donald Trump? E’ possibile che in Turchia un dittatore come Erdogan venga a patti con l’Europa? Mentre chi osa opporsi viene preso a pistolettate fuori da quel tribunale che gli sta comminando cinque anni di carcere tra l’impassibile indifferenza del dittatore? E’ possibile che Aleppo paghi con il martirio della città l’ambigua politica di Putin?
E per ritornare al mio campo, quello per cui lavoro e mi affanno: è possibile che dello straordinario spettacolo dell’Orlando Furioso, messo in scena da Ronconi sul ‘travestimento’ del poema operato da Edoardo Sanguineti, non resti più traccia consultabile? Sparite le due copie del testo, una perduta da Sanguineti e l’altra scomposta per assegnare le parti agli attori da Ronconi; rimane l’unico testimone: la copia consegnata alla Siae che però, come ha ben dimostrato Claudio Longhi, manca delle scene finali dettate agli attori da Ronconi stesso.
Della ricostruzione del testo, curato in modo impeccabile da Longhi, parlai assieme a Ezio Raimondi al Ridotto del Teatro Comunale. Ho perduto gli appunti e non ne resta traccia.
Chiedo a chi c’era nel lontano 1969 se qualcuno ha scattato qualche foto dell’evento in Piazzetta Municipale. I risultati per ora non danno frutto ed è per questo che chiedo in questa puntata del mio “Diario in pubblico” se chi mi legge per caso o destino possa confortarmi con qualche testimonianza.
Sembra enorme il divario tra ciò che la Storia ci infligge e questa particolare e curiosa situazione.
Ma un filo lega storia e cronaca. La mancanza della memoria che ormai impedisce attraverso il ricordo di procurarci quella giusta dimensione che permette di interrogare il passato non per affermarci nel presente, ma per poter costruire le fondamenta di un futuro sempre più pericolosamente schiacciato sulla dimensione dell’oggi, dell’ ‘eterno presente’.
Il passato si fa sempre più vivido allorché ci si allontana nel tempo. E la mente ricorda la perfetta e perturbante situazione di chi, allora giovane studioso, si faceva irretire dal labirinto della messa in scena ronconiana e si spaventava del rumor delle macchine e dei carrelli degli enormi cavalli che sembrava t’investissero o dell’iterazione ossessiva delle rime sanguinetiane, mentre Olimpia con la voce roca di Mariangela Melato urlava la sua disperazione alle prese con l’Orca e una ragazzina Angelica-Ottavia Piccolo seduceva il suo Medoro.
Ora il ricordo dalla mente si trasferirà nel saggio da mandare alla mostra che verrà allestita a Villa d’Este a Tivoli per cui si cercano referenze, appoggi, conferme. Ma sembra che per incantamento il mago Atlante abbia fatto sparire ogni traccia delle armi e degli amori.
Sarà così anche di questo tempo infelice che fa sparire il ricordo perché non c’è tempo di ricordare nel perenne inseguimento di un futuro che diventa inesorabilmente attualità?
“Non possono coesistere sullo stesso mercato imprenditori soggetti a leggi diverse. Bisogna normare la sharing economy e semplificare le regole per le attività tradizionali”.
Sburocratizzare le attività turistiche tradizionali. È la via indicata da Zeno Govoni, proprietario e direttore dell’Hotel Annunziata a Ferrara, per risolvere il dilemma che vede contrapposti, in quest’ambito, i figli della sharing economy agli imprenditori tradizionali.
Un tema caldo che verrà portato all’attenzione del grande pubblico durante il Ferrara Sharing Festival, evento dedicato all’economia della condivisione, in programma dal 20 al 22 maggio 2016.
Il turismo è in grande cambiamento. Come sta evolvendo il settore alberghiero? Nel turismo e in particolare nel settore alberghiero di certo non ci si annoia. Con l’arrivo della rete non c’è anno che passi senza un’innovazione tale da rimettere in discussione l’operatività quotidiana. Il modello delle piattaforme adottato prima dalle OTA, Online Travel Agency come Booking.com, e poi dalla Sharing economy, ha posto tutti gli operatori davanti ad un nuovo cambiamento. Certamente non ci si può più improvvisare albergatori, per restare sul mercato occorre un aggiornamento costante tale da poter comprendere e stare al passo di questi grandi player, sempre che sia ancora possibile.
La Sharing Economy ha portato una ventata di novità ma ha anche fatto emergere delle forti criticità. Come interpreta il fenomeno da operatore del settore? Il boom delle piattaforme di scambio e condivisione è una grande novità, un’opportunità e porta con sé un’interessante rivoluzione: chi possiede queste piattaforme di condivisione diventa in brevissimo tempo leader del settore, ottenendo una visibilità incredibile tale da ridisegnare le dinamiche del mercato e creando una concorrenza parallela. Mi auguro che questa grande voglia di condivisione porti ad un nuovo modello economico e non spalanchi invece le porte alla concorrenza sleale. Al momento sembra, purtroppo, prevalere la seconda ipotesi. La crescita esponenziale che hanno avuto certe piattaforme non ha dato il tempo di capire bene il fenomeno, di interpretarlo per intuirne poi la portata, che è stata ed è straordinaria. Questa novità è partita quasi per gioco, o per meglio dire è partita con il piede giusto all’inizio quando era una vera “condivisione” senza scambio di denaro, una sorta di baratto. Poi si è capito che da questo semplice scambio si poteva ottenere una piccola integrazione al reddito famigliare e infine anche ricavarne un profitto attraverso un nuovo modello di business. Da quel momento grazie alla rete, alle nuove tecnologie e al mondo delle app, si è innescata un’incredibile accelerazione. Il confine tra l’idea iniziale di no profit e quella finale di offerta commerciale è quasi sparito.
Sono molti a sostenere la concorrenza sleale da parte delle piattaforme di local hosting e room sharing. Il punto, però, è che soffocare un fenomeno di questa portata potrebbe essere controproducente oltre che difficile. Che tipo di soluzioni propone come operatore del settore? Questa fortissima espansione della sharing economy, come è avvenuto nel turismo, non ha permesso di applicare le leggi e le regole esistenti perché il modello economico, oltre ad essere troppo nuovo, evolve e cambia rapidamente. Al contempo le leggi esistenti sono probabilmente troppo complesse per i nuovi attori di questa economia condivisa. Per questo bisogna ripensare a come proporre nuove leggi e creare nuove regole. Non bisogna ragionare solo per risolvere i problemi nell’immediato, bisogna creare leggi e regole semplici, flessibili e facilmente adattabili alla velocità di cambiamento, oltre che applicabili a tutti gli attori di questa “platform economy”. Due sono sostanzialmente le figure che ruotano attorno alla sharing economy: i nuovi “imprenditori”, che chiedono di tutelarla dagli attacchi dei “conservatori” (noi albergatori in primis), e i “conservatori” che chiedono di entrare nel mercato a parità di regole per non alimentare una concorrenza sleale permessa da un vuoto normativo. Di certo non possono coesistere sullo stesso mercato imprenditori tradizionali soggetti a leggi, norme, regolamenti limitativi e pesanti tassazioni insiemi a nuovi soggetti, molto spesso privati ma con tutti i lineamenti dell’imprenditore, che fanno impresa senza essere sottoposti agli stessi adempimenti normativi e alla stessa tassazione. Non si può né si vuole bloccare, impedire o imbavagliare questa nuova economia, occorre però prevedere una regolamentazione delle attività, cosa che vogliono anche gli utilizzatori della sharing economy. A questo punto mi chiedo se non sarebbe forse più ragionevole anche semplificare le regole a cui sono soggette le attività tradizionali, deregolamentando e favorendo una dinamicità di adattamento alle esigenze dei nuovi turisti.
Recependo gli stimoli del mondo sharing, come potrebbe svilupparsi un albergo o un servizio di ospitalità del futuro? La Sharing economy, riporta al centro il rapporto vero, reale tra le persone attraverso la condivisione di un’esperienza local sempre più ricercata. Proprio per soddisfare questa voglia di experience si sta ripensando anche al layout dei nuovi hotel: due brand nuovissimi come Generator e The Student Hotel hanno portato una ventata di novità nella ridefinizione e nell’uso degli spazi comuni degli hotel. Generator addirittura ha rivisto totalmente il concetto di ostello creando un prodotto nuovo veramente interessante. Canopy, nuovo brand di Hilton, insegue la moda del social eating e del mangiare local rivisitando completamente la colazione del mattino sia per il layout che per le proposte di cibo locale. Come dicevo all’inizio la sharing economy può essere veramente un’opportunità anche per noi.
2. SEGUE – Per questa seconda conversazione il punto di partenza è stato il saggio “Lavoro e Costituzione: le radici comuni di una crisi” di Roberto Bin, docente di diritto costituzionale al dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
Il lavoro e i lavoratori sono nominati 3 volte nei primi 4 articoli dei Principi Fondamentali della Costituzione Italiana. Art. 1, comma 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Art. 3, comma 2: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e propria scelta, un’attività o una funzione che concorra a l progresso materiale o spirituale della società”.
Inoltre i Costituenti, nella prima parte del testo costituzionale, che tratta i Diritti e Doveri dei cittadini, hanno riservato un intero Titolo – il terzo – ai Rapporti Economici: esso inizia significativamente affermando che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (Art. 35, comma 1).
Roberto Bin
Il saggio del professor Bin affermando che proprio “i riferimenti al valore del lavoro che la Costituzione propone sin dai suoi articoli di esordio sono stati rapidamente “sterilizzati”, depurati dalla loro carica politica “positiva” di pretesa ad ottenere un lavoro”. Ma cosa significa questo?
“Non tutto quello che è contenuto nella Costituzione è stato considerato una norma giuridica. Che l’Italia sia una repubblica democratica fondata sul lavoro dal punto di vista politico vuol dire molto, dal punto di vista giuridico vuol dire pochissimo: non se ne ricavano comportamenti, sentenze, obblighi, divieti. Che il diritto al lavoro sia sancito in Costituzione non comporta che ognuno possa dire “ho diritto a essere retribuito per un lavoro”; l’unico uso giuridico che se ne è fatto è stato in senso negativo: non si può impedire agli altri di lavorare facendo i picchetti fuori dalle fabbriche”.
Non è questo però che i Costituenti avevano in mente…
“I Costituenti – risponde Bin – volevano soprattutto dare un messaggio storico e politico: dire che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, significa sancire che non è fondata sul censo, sull’ereditarietà dei titoli, ma è fondata solo su quello che ciascuno fa, su come lo fa e sull’obbligo di farlo, cioè quella solidarietà sociale che implica il lavorare. Perché non si lavora solo per sé stessi no?”
Dire che la Repubblica è fondata sul lavoro, significa quindi che per essere autenticamente democratica, essa persegue l’eguaglianza sostanziale fra i cittadini: un nuovo patto, non più fra cittadini e sovrano, ma fra le componenti sociali per un rinnovamento della struttura sociale da ricostruire dopo la guerra. È quasi scontato leggere nella relazione del comunista Palmiro Togliatti alla Prima Sottocommissione della necessità dell’affermazione, già nel preambolo, “di nuovi diritti della persona umana, il cui contenuto è in relazione diretta con l’organizzazione economica della società” e di operare attraverso la Costituzione “profonde trasformazioni economiche e sociali”. Forse è meno scontato citare Meuccio Ruini, il Presidente della Commissione dei 75 dell’Assemblea Costituente: “È necessario in una carta costituzionale stabilire fin da ora il principio che, oltre alla democrazia puramente politica, base di un nostro periodo glorioso di civiltà costituzionale, si deve oggi realizzare una democrazia sociale ed economica” .
Ecco il nodo evidenziato anche da Bin, quando scrive che “al riconoscimento di un certo tipo di diritti corrisponde di necessità l’esistenza di un certo tipo di rappresentanza”: un Parlamento eletto a suffragio universale avrebbe facilmente tutelato, se non ampliato, i diritti sociali. Ma allora come si spiega la situazione odierna? Oggi c’è il suffragio universale, ma sembra mancare la difesa dei diritti sociali e del lavoro. Secondo il costituzionalista di Unife, “il lavoro ormai è diventato una merce: è la vittoria di una certa visione dei valori politici. Il nostro assetto di valori, di principi, di regole giuridiche, anche costituzionali, è stato ampiamente riletto nella chiave di un’economia liberistica di mercato in cui il lavoro è sostanzialmente una merce, perciò ha perso il valore etico che aveva per i nostri Costituenti ed è diventato, invece, una delle componenti di costo della produzione”.
Perché questo arretramento sul terreno delle conquiste dei diritti sociali e del lavoro?
“Il problema è il bilancio dello Stato. Il bilancio è la contropartita dei diritti, di tutti i diritti, non solo quelli sociali: se non si dà la benzina alla polizia per le volanti la proprietà non è più garantita, se i giudici non vengono retribuiti i diritti perdono le proprie tutele, e così via. Tutti i diritti costano, il problema è che il costo si trasferisce nel bilancio e il bilancio si regge sulle tasse, perciò i diritti implicano tasse. Noi però viviamo in un’epoca in cui parlare di tasse significa bestemmiare, la conseguenza è che parlare di diritti vuol dire bestemmiare. Non è sempre stato così. La storia degli ultimi decenni però da questo punto di vista è dominata da un patto scellerato che ha dato luogo al liberismo finanziario, per cui oggi anche se gli Stati lo volessero non potrebbero tassare la ricchezza per il semplice fatto che la ricchezza se ne va: basta un click per spostare miliardi.”
Il professor Bin nel suo articolo cita anche “la sostituzione del lavoro con il consumo” concettualizzata da Bauman: la “progressiva sostituzione, al centro della scena sociale e politica, della figura del ‘cittadino’, come categoria storica fondamentale per l’ordine costituzionale, con la figura del ‘consumatore-utente’”. Dal punto di vista dell’etica sociale, mi spiega Bin, “cambia il fatto che il cittadino ha dei diritti che derivano dal suo essere parte dello stato politico, il consumatore o l’utente ha diritti perché ha stipulato un contratto con un soggetto privato, di conseguenza non c’è più nessuna rilevanza di valori nei rapporti fra utente ed erogatore del servizio, ma un rapporto contrattuale, tra l’altro spesso con un’asimmetria fra i contraenti, basta pensare alle multiutility. Senza contare che in questo modo restano fuori i diritti di coloro che non sono utenti e consumatori: quelli che non hanno soldi rimangono fuori da ogni circuito di garanzia. Per esempio, se le dicessero che il servizio ferroviario costa la metà perché serva metà del territorio italiano, se lei stesse nella metà che viene servita sarebbe contenta perché pagherebbe la metà per il suo servizio: ci sarebbe un accordo fra lei e l’erogatore del servizio, ma a danno di chi sta nell’altra metà, che non ha più voce. La cittadinanza è un’altra cosa: si vota tutti quanti – se vogliamo farlo – e il voto è uguale. Anzi era uguale, perché con la nuova legge sul finanziamento privato ai partiti del prossimo anno sarà sempre meno uguale: ciascuno lascia qualcosa della propria Irpef al partito che privilegia. Il che significa che un partito sostenuto dalle fasce più deboli, dai poveri, non avrà finanziamento, mentre il partito che rappresenta le fasce più alte, i pochi ricchi, avrà molto denaro. Democrazia?”. Provo a obiettare che i consumatori possono agire anche contro e non solo in solidarietà con i produttori. “Sì, certo, fa parte del gioco. Tornando alle multiutility, se lei prende uno dei loro Statuti scoprirà che dice che i consumatori sono gli stakeholders, i portatori di interesse dentro il gruppo, non solo: spesso si citano anche incentivi alla loro attività e corsi di formazione professionale per i loro rappresentanti. Conflitto di interessi? La solidarietà è anche conflittuale: entrambi sono favorevoli a obiettivi comuni, come la qualità del servizio, ma possono essere in disaccordo sulle modalità. Quello che in ogni caso viene tagliato fuori è l’ente politico: i comuni, gli enti locali, sono nati come erogatori di servizi pubblici, oggi però hanno perso la capacità di ingerirsi nella loro gestione, dal trasporto pubblico all’acqua. I servizi pubblici con le privatizzazioni escono così dal controllo politico”. Tento ancora di controbattere affermando che il controllo politico però in Italia molto spesso ha significato e significa purtroppo clientelarismo. “Non c’è dubbio. Se dovessi scegliere fra un sistema e l’altro non saprei quale scegliere, ma sta di fatto che non si può far finta di non vedere i problemi che sono l’effetto di una certa scelta di organizzazione dei servizi pubblici”.
La sostituzione dei cittadini-lavoratori con i consumatori ha poi conseguenze sul sistema di welfare: “il sistema di welfare si riduce sempre più – ed è una tendenza che c’è in tutti gli Stati – per il semplice fatto che il welfare è costo, il costo è tasse. Il welfare è un sistema di redistribuzione del reddito: esattamente il programma politico su cui è nata la nostra Costituzione. Oggi però a sentir parlare di redistribuzione del reddito c’è gente che sobbalza. Questo significa che noi non abbiamo le risorse per pagare i servizi pubblici, le prestazioni sociali: diventa una cosa quasi caritatevole, non più una questione che riguarda i diritti di cittadinanza”.
La sostituzione della politica con il mercato non è un’operazione neutra, ma un’opzione altamente politica che implica alcune scelte e anche un problema di rappresentanza.
“Certo – afferma Bin – pone un grosso problema di rappresentanza, che spiega anche perché le persone non vanno più a votare. I cittadini non vanno più a votare per il semplice fatto che non capiscono più a cosa serve la politica. Siamo vittime di un martellamento pubblicitario, la politica è diventata una parola sporca, significa rallentamento, interessi poco chiari: il mercato ha vinto in questa fase storica. Il mercato e la sua regolazione attraverso la mano invisibile sono ideologia pura, ma ne siamo preda: che la politica serva è un’affermazione che oggi sottoscriverebbe forse il 10% della popolazione italiana”.
La conclusione del professore è che non è nel richiamo alle disposizioni e ai valori costituzionali che si può trovare l’appiglio per puntellare il significato e la tutela del lavoro, ma allora dove? “È tutto da ricostruire, non che la possiamo trovare sotto gli alberi. Purtroppo c’è una sorta di mancanza di dimensione storica: la mia è la prima generazione che non ha vissuto le guerre del Novecento, con lei siamo arrivati alla terza, e sembra che ci siamo dimenticati che i diritti sono frutto di lotta, non si sono stati regalati dai padri Costitutenti. È necessariamente una questione di lotta, come dimostra anche il fatto che ora ce la si prende con i migranti: è una lotta deviata dagli obiettivi, volutamente deviata direi, perché il bersaglio diventano gli immigrati e non gli evasori fiscali. Tutto questo prima o poi necessariamente finirà. Come? Mi terrorizza solo pensarlo”.
Se fra le cause della situazione attuale ci sono la crisi della sovranità statale e la poca credibilità della nostra classe politica, secondo lui l’Europa, può giocare un ruolo, ma non scommette certo sui governanti, sui quali esprime un giudizio poco lusinghiero: “Nemmeno a livello europeo disponiamo di grandi statisti. L’unione Europea, secondo me, non governa niente. Siamo europeisti perché appartenere all’Ue ci ha impedito di fallire più volte in questi ultimi anni. La verità però è che l’Unione Europea è una creatura nata per il mercato e tutela il mercato. Qualsiasi decisione presa a livello europeo è una decisione che guarda agli interessi della libera circolazione del capitale non ai diritti sociali. I diritti sociali sono un disturbo: c’è una politica sociale ufficiale, ma è ridicola perché di fatto se si consente alle imprese italiane di delocalizzare in Polonia si mette in competizione l’apparato sociale italiano con quello polacco. A quale scopo? Perché aumenta la produttività. Intanto però diminuisce il livello di vita”. Insomma: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, l’Unione Europea è fondata sul mercato e la concorrenza”. Per Bin si potrà andare avanti così finché “non interverrà ciò che è alla base dei diritti: il conflitto. Fino a quando finalmente i sindacati non si renderanno conto che la vera questione è mettersi d’accordo con i colleghi europei per una politica sociale comune, di diritti sociali in Europa non si parlerà”.
È importante conoscere le linee guida dell’Unesco per la Rete Mondiale delle Learning Cities, le città che apprendono. Conoscerle per misurare la nostra distanza da una rinnovata visione dell’apprendimento e, in particolare, dall’avere realizzato l’istruzione permanente per tutti.
Forse nel nostro Paese nutriamo la presunzione di aver compiuto grandi passi avanti in materia di istruzione, è un’illusione che si può continuare a coltivare solo rimanendo ancorati a categorie già inadeguate nel secolo scorso e che oggi in tante parti del mondo si stanno rivedendo.
Basta scorrere le sei caratteristiche che per l’Unesco deve avere una learning city per comprendere dove è necessario impegnarsi per fare di una città, una città che apprende:
1. Promuovere l’apprendimento inclusivo, da quello di base agli studi universitari;
2. Rivitalizzare l’apprendimento nelle famiglie e nella comunità;
3. Facilitare l’apprendimento continuo e nei luoghi di lavoro;
4. Estendere l’uso delle moderne tecnologie per l’apprendimento;
5. Migliorare la qualità e l’eccellenza dell’apprendimento;
6. Coltivare la cultura dell’apprendimento per tutta la vita.
Nel nostro paese continua a prevalere una concezione dell’istruzione scolastico-centrica, quando tutto il sistema formativo avrebbe la necessità di essere rivisto nell’ottica dell’istruzione permanente. L’idea dominante di un’istruzione prevalentemente scolastica fa sì che essa sia segmentata per età, a discapito di un’idea del diritto all’istruzione che abbraccia l’intero arco della vita delle persone.
Da questo punto di vista la riforma del titolo V della Costituzione è rimasta un’opera incompiuta. È sufficiente riprendere l’articolo 117 per cui lo Stato ha legislazione esclusiva solo per le norme generali dell’istruzione, mentre esiste un vasto campo di materie, tra cui l’istruzione permanente, di legislazione concorrente fra Stato e Regioni che necessiterebbe d’essere governato. Chi si occupa dell’istruzione permanente? Non intesa come istruzione degli adulti, ma come istruzione per l’intero arco della vita, dalla pre-scuola all’università e oltre?
È evidente che gli strumenti normativi, prevalentemente concepiti negli anni Settanta del secolo scorso, oggi sono del tutto inadeguati e che il sistema formativo nel suo complesso necessita di una nuova stagione legislativa, non nell’ottica della sola riforma della scuola e dell’università, ma di un ripensamento radicale dell’istruzione per tutti e a ogni età.
Quando neppure sappiamo il futuro che vogliamo, tutto diventa più difficile. Eppure, in materia di istruzione i documenti non mancano, sono quelli a cui fa riferimento l’Unesco, le Dichiarazioni di Città del Messico e di Pechino, l’Agenda per lo sviluppo dopo il 2015, ma nel nostro paese non girano, non se ne parla, bisogna tradurli dal sito dell’Unesco della rete mondiale delle learning cities.
L’apprendimento permanente per tutti è il futuro della nostra società, sia per il potenziamento e la crescita individuale delle persone, che per la coesione sociale, lo sviluppo economico e la crescita culturale. Ma non sembra essere nell’agenda del governo, come non è nell’agenda della maggior parte delle nostra città, non si vede l’impegno politico, né la mobilitazione delle risorse, né il coinvolgimento di tutti i soggetti e attori interessati.
Quarantadue sono gli indicatori individuati dall’Unesco per verificare se una città è impegnata a sviluppare una politica per convertirsi in una learning city, una città che apprende. Sono indicatori che valgono per le città, come per il paese e le regioni. Sono indicatori impegnativi per il governo della città, perché si prevedono per ognuno gli strumenti per una valutazione costante e sistematica e le modalità di misurazione. Il problema delle nostre città, nonostante si facciano promotrici di molteplici iniziative, che siano città d’arte e di cultura, è che nessuna di loro dichiara la volontà politica di essere una città che apprende, una learning city. Perché è più facile fare spettacolo, portare turismo con gli eventi e le mostre, che mettere in campo giorno dopo giorno una non facile politica dalla parte dei cittadini, della loro crescita nel sapere, per uno sviluppo sostenibile e per una consapevole e responsabile partecipazione di tutti.
È giunto il momento di pretendere dalle Amministrazioni delle nostre città che aderiscano alla Rete mondiale dell’Unesco delle Città che Apprendono, delle Learning Cities, mettendo in capo alla loro agenda politica gli impegni che questo comporta.
da: Istituto Comprensivo Statale “G. Perlasca” – Ferrara
Alla Tumiati un progetto per riscoprire e amare il verde. Ospite d’onore il sindaco Tiziano Tagliani.
Immaginate un’aula didattica all’aperto. Una scuola che fiorisce come un giardino. Ravvivata da giovani aceri, ontani, un frassino e profumatissime piante aromatiche. Attraversata da nuovi battiti d’ali.
“Per fare un giardino…” servono le piccole mani di 203 alunni, unite a quelle più forti dei genitori e degli insegnanti della scuola primaria Tumiati, da mesi all’opera per trasformare il verde intorno all’edificio di via Bosi in un parco vivo e accogliente. Basta aprire gli occhi per ammirare come il progetto “Per fare un giardino…” sia oggi una realtà, che cresce giorno dopo giorno insieme alle piantine e ai nuovi alberi, ravvivato dal cinguettio degli uccellini.
Il “battesimo” dei nuovi alberi è previsto per il 5 maggio alle ore 15.30. Una festa “in famiglia” introdotta dal preside dell’I.C. Perlasca Stefano Gargioni con canti e ringraziamenti per sottolineare il lavoro di gruppo di adulti e bambini della scuola: da chi ha progettato il parco, alla “bassa manovalanza”, dai “beni di conforto” ai vivaisti e agli amici delle piante.
Il 13 maggio, alle ore 10, sarà la volta della cerimonia ufficiale, il taglio del nastro organizzato in collaborazione con il Comune di Ferrara e Hera, con ospite d’onore il sindaco Tiziano Tagliani. Gli studenti saranno dapprima coinvolti in un laboratorio didattico di semina, poi ci si riunirà per celebrare l’avvenuta piantumazione degli alberi e intonare insieme un canto. Una mattina speciale per valorizzare un percorso pluriennale avviato nell’autunno 2015 con il dissodamento dell’area e approfondito nell’inverno con attività di trapianto e moltiplicazione di piante; intensificato a primavera con la semina di piantine da fiore, la piantumazione di alberi e arbusti, l’allestimento di aiuole e zone protette. Proposto dalle insegnanti Rita Roboni e Ilaria Pasti, il progetto si propone di sensibilizzare gli alunni alla cura di uno spazio verde, sviluppando un senso di appartenenza al proprio territorio. Alunni, famiglie e insegnanti hanno dedicato il sabato mattina ai lavori più intensi; durante la settimana scolastica i bambini a rotazione sono stati coinvolti nella cura delle piante, nella semina e innaffiatura. Ad aprile in tutte le classi una settimana è stata dedicata all’albero, simbolo della vita, con letture, laboratori e attività a tema. Gli alunni hanno inoltre proposto e votato i nomi per i nuovi ospiti del parco della scuola, che ora hanno una propria “identità”: alberi appena piantati, che cresceranno nei prossimi mesi insieme agli alunni.
Come ricorda un detto zen, tra le tre cose essenziali da fare nella vita ce n’è una semplice, naturale e condivisibile: “piantare un albero”. Un gesto altruistico, puro. Profondamente educativo.
I partiti tradizionali sono in crisi e così la politica che su quel modello si era articolata: ne sono segni evidenti la corruzione, l’immagine di una casta legata a conservazione del potere proprio piuttosto che al bene pubblico, il degrado della democrazia interna. Una larga parte della crisi della politica è opera della politica stessa, che ha accentuato la ricerca del consenso immediato e la difesa di interessi personali, a partire dalla preoccupazione alla propria rielezione.
La crisi della politica ha anche origini nei cambiamenti sociali, nella scomposizione e declino dei gruppi sociali compatti che avevano caratterizzato l’Italia del dopoguerra, nella crisi delle ideologie che sono state a lungo elementi di aggregazione di masse accomunate dalla percezione di un comune destino. Le ideologie, oltre che espressioni di pensieri forti (nel senso di chiusi e divisivi), sono state espressione di blocchi sociali compatti che attorno a esse potevano riconoscersi e alimentare identità altrettanto compatte. La progressiva differenziazione sociale e l’emergere della società degli individui hanno cambiato definitivamente lo scenario, aprendo la possibilità – almeno auspicata – di un confronto più laico e aperto.
Con la crisi della politica e dei partiti che l’hanno interpretata è venuto meno un articolato sistema di rappresentanza – il sistema dei cosiddetti corpi intermedi – così oggi non esiste più una corrispondenza tra gruppi sociali e aree di affiliazione, in sostanza non è più chiaro chi rappresenta chi. I gruppi sociali deboli perdendo i tradizionali canali di rappresentanza, avvertono il venir meno di qualsiasi protezione. Insieme alla protezione viene meno la possibilità di riferimenti identitari. Così, di fronte alla crisi delle ideologie tradizionali (la crisi delle grandi narrazioni, ovvero di visioni del mondo alternative e compatte) riemerge in altre forme l’esigenza di narrazioni che forniscano supporti di senso alla vita quotidiana. Le narrazioni sono sempre importanti in quanto forniscono modelli mentali per interpretare i fatti, aiutano a ricostruire un nesso tra passato e presente, ci permettono di immaginare traiettorie di vita diverse da quelle presenti. Le narrazioni sono, quindi, un costrutto dell’identità, un dispositivo per elaborare criteri di scelta e per ridurre l’incertezza proposta dal mondo intorno a noi.
Le narrazioni a cui la politica fa oggi ampio ricorso – condensate nel pensiero personale del leader –diventano la nuova base dell’appartenenza, ma non sono molto diverse da quelle che condensavano le profonde differenze ideologiche che segnavano la contrapposizione tra cattolici e comunisti negli anni Cinquanta o Sessanta. Le narrazioni odierne restano fortemente divisive, non meno di quanto fossero le ideologie forti, ancorché costruite su fatti e su emozioni più contingenti. Le narrazioni odierne sono l’espressione e lo strumento di battaglie di potere personale giocate su tecniche comunicative piuttosto che su contenuti e programmi. I partiti nella loro semplificata e aggressiva comunicazione quotidiana interpretano la nuova ‘ideologia della narrazione’, offrendo una debole risposta alle frantumazioni identitarie e all’incapacità di elaborare scenari futuri credibili nel lungo periodo. Le forme della comunicazione del magmatico mondo del populismo (termine che uso qui per connotare uno stile prima che aggregazioni politiche) sollecitano appartenenze emozionali piuttosto che adesioni razionali a questa o a quella proposta politica. Ma la democrazia ha bisogno di proposte politiche concrete e di visioni di lungo periodo.
[Mercoledì 4 maggio alle 17,30 alla libreria IBS+Libraccio di Ferrara Maura Franchi e Augusto Schianchi presentano “Democrazia senza” (Diabasis) e discutono con Patrizio Bianchi e Sergio Gessi sulle difficoltà odierne della democrazia]
Maura Franchi vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com
Laura Trapani, flautista e concertista, ferrarese d’adozione.
Laura Trapani è nata in Texas, ma vive e lavora fra Ferrara e l’Emilia Romagna. È diplomata al conservatorio di Milano e specializzata a Modena sulla musica di Edgard Varèse, con il maestro Roberto Verti. Ha suonato come solista e primo flauto nelle orchestre più prestigiose del panorama italiano e collabora come artista da camera in Italia e all’estero. Per il secondo anno consecutivo è il direttore artistico della rassegna cameristica “Pomeriggi musicali a casa di Ludovico Ariosto”, che inizieranno il 7 maggio 2016.
Come nasce la sua idea di creare un festival a casa dell’ Ariosto?
In realtà questa è la seconda edizione del festival come direttore artistico a casa Ariosto e diversi anni fa vi erano già stati organizzati dei festival musicali. La struttura non è molto grande per contenere orchestre o grandi gruppi, ma adatta per contenere piccoli gruppi da camera. Antares, l’associazione musicale per la divulgazione della musica classica da me fondata nel 2006, ha collaborato con i Musei d’Arte Antica di Ferrara per rilanciare le attività musicali a casa Ariosto, anche in vista dei festeggiamenti per i 500 anni dell’Orlando Furioso (22-04-1516/22-04-2016).
Chi sono gli artisti invitati?
Gli artisti provengono da diverse realtà musicali ferraresi, ma anche internazionali e si prestano a titolo volontario per rilanciare una delle più importanti realtà di Ferrara e internazionali, quale è appunto Casa Ariosto.
La prima data del festival vanterà un ospite internazionale: Solène Greller, arpista di Ginevra, che assieme alla sottoscritta in qualità di flautista, inaugurerà il festival il 7 maggio. Seguiranno poi ogni sabato concerti con artisti locali e componenti dell’orchestra Antiqua Estensis, della quale sono cofondatrice assieme ad altri musicisti di Ferrara.
I programmi che verranno eseguiti?
La mia idea: vista l’importanza storica del luogo e il cinquecentenario, saranno eseguiti dei programmi di musica antica con la caratteristica della contaminazione musicale tra i vari stili. Quindi, non eseguiremo solamente dei concerti seguendo un’unica tematica, ma aggiungeremo tra un brano e l’altro delle contaminazioni moderne, sempre comunque inerenti ad uno stile accademico di ricerca.
Ci può fare un esempio?
Il 7 maggio io e Solène Greller suoneremo dei brani appartenenti al periodo di Maria Stuarda (1542-1587), per poi attraversare due secoli di storia di letteratura scritta per duo, dove flauto e arpa si abbineranno per le loro dolci e intense sonorità.
Il 14 maggio la brava Emanuela Susca eseguirà un programma per due chitarre e flauto traverso.
Un altro esempio di ricerca musicale sarà la collaborazione nata con il professor Lazzari, docente al Conservatorio Girolamo Frescobaldi di Ferrara, e il suo ensamble di musica antica, con strumenti antichi (flauti barocchi, cembalo e viola da gamba). Ci cimenteremo insieme in un duo per flauto moderno e flauto barocco.
Il 26 maggio, sarà molto bello anche il concerto del gruppo Nuova ricerca musicale, molto caratteristico per la varietà di sonorità che si presenteranno, con i suoni di liuti, viole da gamba, violino, viola e flauti a becco.
L’innovazione e la ricerca musicale per lei sono fondamentali….
Credo fortemente che la musica abbia bisogno di attingere dal passato per evolversi nel presente e quindi proiettarsi nel futuro. Occorre suonare la musica del passato con strumenti del passato, come è giusto interpretare la musica moderna con strumenti moderni. La contaminazione tra strumenti del passato e strumenti moderni può essere sublime. Ricercare un certo tipo di suono d’insieme e di fraseggio musicale è sempre stato parte fondamentale della mia attività di ricerca artistica come musicista e interprete. L’evoluzione del suono equivale all’evoluzione del linguaggio sociale dell’uomo del XXI secolo. Attingere dal passato ed evolvere le sonorità è come quando un artista figurativo si spinge oltre il significato della mera figura e dona più enfasi alla sua opera, o con il colore o con un taglio su una tela antica o con una frase del passato sopra a un cartellone bianco gigantesco. Il suono e la sua evoluzione sono la stessa cosa: l’evoluzione del suono va di pari passo con l’evoluzione dell’uomo e del suo modo di esprimersi nel nuovo mondo.
Contenta di vivere a Ferrara?
Ferrara è ormai la mia città, mi sento a casa, al sicuro, mi sento avvolta dalla bellezza totale, vivo tra opere d’arte e storia, qui ci sono molti artisti amici cari.
Prossimi impegni?
Ho molti progetti e idee ma per dirla con Beethoven:” Sarà il destino a bussare ancora alla mia porta….”
Le sculture dalle forme sinuose sono disposte ovunque, si intravedono già attraverso le grandi finestre dello spazio bianco di Ferrara Off. Alcune sono appena accennate, grumi di materie, stese sui pavimenti chiari; altre si innalzano, emergono da grandi semi spaccati in due, con una tale energia e naturalezza che sembrano emanare luce propria.
Siamo all’inaugurazione della mostra “Germoglia” di Elio Talon, artista poliedrico che abbina scultura e poesia, lingua italiana e dialetto veneziano. Il concetto del germoglio è la radice su cui cresce tutta l’esposizione, nella quale si possono osservare le fasi della crescita e del mutamento, simbolicamente associate a figure di donna.
Dopo la presentazione di Monica Pavani, poetessa ferrarese che ha collaborato all’allestimento della mostra, e l’ascolto di un testo di Elio Talon, letto dal poeta Andrea Tombini, è l’artista stesso a presentare l’esposizione. “Le mie opere si sviluppano su tre livelli: il primo è rappresentato dalla materia in diverse misure, ma ancora nel suo stato non totalmente formato, una figura femminile che, come un seme, è stesa sul terreno. La mutazione è in atto, non ci troviamo davanti al concetto di immobilità, ma a un continuo movimento, tanto che la stessa pelle di ceramica delle sculture è tesa, come un seme che si gonfia”.
Le figure non rappresentano un’evoluzione, da materia grumosa a sinuosa figura femminile, bensì un rapporto continuo tra materia e spiritualità, come se il germogliare di questi semi fosse paragonabile al concepimento dell’anima legata alla materia.
Il secondo livello è rappresentato da figure che possiedono forme più definite, come le “donne aratro”, figurazione della capacità femminile di essere attiva, feconda a se stessa. È lei che trascina il solco, crea il terreno fertile in cui saranno piantati i semi che, quando sarà il momento, germoglieranno.
“Mi ricordavo quando, da bambino, mi capitava di vedere gli aratri – racconta Elio Talon – Prima di essere utilizzati sembravano strumenti vecchi e usurati, pieni di ruggine, ma alla fine dell’aratura splendevano come specchi. Questo succede alle mie donne aratro: prima rugginose, dopo luminose”.
A questo secondo livello appartengono anche le donne goduriose, solitamente di colore lilla o viola, che esercitano il diritto di procurarsi il piacere, di godere di loro stesse. Per quanto donne nell’aspetto, esse rappresentano anche il lato maschile, in comunione con quello femminile, presente in ogni essere umano.
Al terzo livello, infine, appartengono le figure al centro della sala: le “donne germoglio” e il “grande sacerdote”.
Ciò che caratterizza queste donne, intente a germogliare dai semi divisi in due parti da un solco dall’interno color ruggine, è la luminosità e l’idea di nuovo e di purezza che emanano. La bellezza della composizione è unita alla delicatezza che la rottura del guscio esterno suggerisce, come quella che attribuiremmo a una nuova vita.
La scelta di cosa esporre nello spazio bianco di via Alfonso I d’Este è avvenuta dopo averlo visitato e Monica Pavani mi spiega i passi di questo processo creativo. “Tutto è avvenuto in un processo alchemico: Elio Talon ha una produzione abbastanza fitta di opere che si dividono tematicamente. Subito dopo aver visto lo spazio, ci ha proposto l’idea del germoglio, che poi ha fatto da filo conduttore. Quando è entrato nella stanza di Ferrara Off ha deciso di contornare le ‘Germoglie’ con una popolazione di altre sculture e poesie. L’idea è il radicamento: un rapporto molto forte con la materia che però è anche una spinta verso altro. Questo essere radicati serve per elevarsi in un altro spazio. È un filo diretto tra le stelle e la terra. Questo spazio, che ha come caratteristica la nudità, anche perché mancano anche delle cose concrete, è stato il contesto perfetto per l’esposizione”.
Dopo l’inaugurazione di fine 2015, questo luogo espositivo ricomincia a vivere anche con gli incontri Domeniche d’estate. “L’idea – mi spiega Monica – è di dare spazio non necessariamente ad autori del territorio o celebri. Ci interessa avere con noi artisti disposti a creare un contatto con chi partecipa, a mettersi in gioco. La dinamica degli incontri vedrà la lettura come parte preponderante, non saranno presentazioni ufficiali, ci interessa far sentire la scrittura. Il primo appuntamento sarà tenuto da me e Andrea Tombini, che stasera ha letto una poesia non sua, ma è autore. Il secondo sarà un incontro di prosa, ma con una forte base poetica. L’ospite sarà Sandro Abruzzese, l’autore di “Mezzogiorno padano”, un libro che mostra il punto di vista di chi si sposta dal sud, raccontando di personaggi che hanno la caratteristica di essere in transito. Il terzo appuntamento è ancora in itinere, perché l’artista, il poeta algerino Tahar Lamri, che vive da anni in Italia, ha incontri anche in Francia. Ci terrei molto ad averlo qui perché porterebbe un insieme di frammenti, sia in arabo sia in italiano, in cui vorrebbe si inserissero, in un’opera di tessitura comune, altri autori italiani. Sarà poi proprio Elio Tanon a chiudere il ciclo, domenica 26 giugno, mostrando un altro aspetto della sua natura artistica, presentando e leggendo le sue poesie”.
L’associazione Ferrara Off continua così a lavorare perché si crei uno spazio nuovo, diverso da quelli più istituzionali: “il nostro intento è renderlo un luogo di cultura che sia in continuo dialogo con la città. Come associazione, vorremmo che quello che realizziamo in questi spazi creasse un dialogo molto stretto con chi ne fruisce. La natura dello spazio ha come grande pregio quello di consentire una connessione, l’abbiamo notato anche con il teatro, e crediamo che ci sia necessità di questo adesso, non solo da parte nostra, ma anche dalle persone che frequentano i luoghi di Ferrara Off. Ci piacerebbe anche creare collaborazioni con gli altri organismi culturali cittadini, per lavorare su un percorso più completo e intimo tra arte e cittadini”.
Elio Talon, “Germoglia”, presso lo spazio Ferrara Off fino al 26 giugno. Per tutte le info clicca qui.
Foto di Chiara Ricchiuti. Clicca sulle immagini per ingrandirle.
I bambini in questi giorni sono sulle prime pagine di tutti i giornali: dal feroce delitto di Fortuna-Chicca-Loffredo alle immagini delle nascite brutali tra le baracche di Idomeni, ai corpi straziati dei bimbi che il mare ha ributtato sulla spiaggia; quel mare a cui Montale si rivolgeva come un impassibile giudice “come fai tu che sbatti sulle sponde tra sugheri alghe asterie le inutili macerie del tuo abisso”.
E le cronache rimandano immagini di un tempo feroce, dove maestre picchiano bambini e li maltrattano e li strattonano, dove vicini di casa occultano feroci delitti commessi su bimbetti indifesi, dove per punire chi non ubbidisce alle leggi del clan il figlio viene sciolto nell’acido. E dove si creano dai bimbi feroci miliziani settenni che uccidono a colpi di pistola gli ostaggi.
Infanzia violata, si diceva un tempo, mentre scorrono come per incantamento – direbbe Ariosto – i fotogrammi finali della “Dolce vita” in cui la bimba guarda perplessa il mostro marino. Ma l’infanzia e la prima giovinezza sono di per sé le età privilegiate di un contatto con il mondo che può essere ancora una volta la possibilità di costruirsi un futuro. E non solo con le immagini di Gomorra.
E mentre la nostra vita s’avvia a un punto di non ritorno i ricordi dell’infanzia si moltiplicano. Improvvisamente assumono una valenza fondamentale. Il cestino del pranzo comprato in un negozio che ancor oggi resiste di fronte all’asilo Sant’Anna, il pizzicore provocato dai calzettoni di lana lavorati da nonna, il vestito con la giacchetta a doppio petto della prima comunione identico a quello di mio fratello fatto con le stoffe Unra. E quelli più recenti di nipoti e pronipoti, amatissimi, rispettati nel loro lento avviarsi a diventare uomini e donne liberi di scegliere, ma non più protetti dall’innocenza a cui tutto noi “grandi” abbiamo aderito, ma con la responsabilità di un destino che li ha resi tali quali oggi li vediamo e amiamo.
Ancora una volta il contatto con i ragazzini crea un corto circuito difficilmente dimenticabile. Così m’avvio a Mesola per parlare di Ludovico Ariosto a una nutrita schiera di ragazzi di terza media. Che bella mattinata! Al Castello della Mesola per la fiera dell’asparago, non per comprare l’amatissima verdura, ma per parlare a circa 150 ragazzini di terza media su Ariosto. E’ l’unica cosa che conti. Doversi sforzare (ed è fatica grandissima specie per noi ‘intellettuali’… brrr… che nome) di rendere comprensibile ai ragazzini la meravigliosa poesia di Ludovico. E che soddisfazione! Naturalmente l’Ippogrifo la fa da padrone, ma anche le facce dell’Ariosto e anche le storie di Lucrezia. Un mormorio s’alza dalle fila dei maschi quando proietto l’immagine di Lucrezia Borgia nelle vesti di Flora con un seno scoperto. Avverto di non commentare, ma qualcuno mi domanda se può almeno dire “Oh!” Concesso. Le ragazze guardano con evidente disprezzo, loro, i ragazzini attenti più ai loro giochi puerili che alle storie d’amore che il poeta racconta e che hanno per centro sempre e comunque l’amore. Fino alla pazzia.
Si conclude la chiacchierata con evidente soddisfazione mia, ma anche loro. Sollecito domande che non arrivano o vengono rimbalzate dall’uno all’altro. Poi alla fine tra lo scrosciar degli applausi – non so se indotti o sinceri, ma m’illudo e propendo per la seconda ipotesi – il più sveglio in seconda fila mi chiede se può fare una domanda. Ovviamente rispondo positivamente. E con aria furbetta dice “ Che ore sono?” Di fronte alla mia perplessità e alle risate dei compagni alla fine capisco: avevo sforato di venti minuti il limite della lezione.
Si dice, e forse è vero, che i ragazzi specie nella pubertà, ma anche nell’infanzia sono crudeli. Ma qual è il senso di questa crudeltà? Anche Micòl nel “Giardino dei Finzi-Contini” può essere giudicata crudele. E crudeli sono i giovani che commentano la diversità di Athos Fadigati, il medico omosessuale degli “Occhiali d’oro” o il protagonista di “Dietro la porta”. E’ tuttavia una crudeltà che noi adulti giudichiamo tale e che fa parte dell’umanità. Cioè non è indotta, ma insita nel genere umano. A meno che non si tratti di una crudeltà che ha origine dalla diversità. E allora, secondo un’invenzione potente dello scrittore Bassani, diversità è crudeltà poiché il mondo – e noi stessi – la giudichiamo attraverso il vetro della distanza che ci allontana dalla realtà. E’ la vetrina dietro la quale immobile ci fissa la sagoma dell’airone impagliato non più legato alla sofferenza dei colpi di arma da fuoco che lo hanno abbattuto. Sono gli occhiali che condannano la scelta di Fadigati. E’ la porta dietro la quale Cattolica spia la vita.
L’innocenza e/o la crudeltà dei giovani fanno parte della vita a meno che non le si legga con gli occhiali della diversità. O ancor peggio non le si corrompa con la ferocia del non umano: il mostro che ha ucciso l’innocenza di Fortuna o i mostri che abituano i bambini alla pratica della morte come gioia, senso del potere, odio contro la vita.
Oggi viviamo all’interno di una mega-macchina socio-tecnica di cui siamo, nostro malgrado, parti e componenti costitutive e senza la quale molti di noi non riuscirebbero a vivere. Essa è composta da grandi infrastrutture e piattaforme tecnologiche, organizzazioni e istituzioni, processi interconnessi, macchine e miliardi di persone diversamente collegate. L’orologio, il mercato, la gerarchia, il diritto, inteso come fonte delle regole legittime del suo funzionamento, ne sono componenti imprescindibili, connesse tra di loro dal principio di efficienza. Il primo misura e quantifica il tempo in modo lineare e uniforme, consentendo di sincronizzare e pianificare le infinite attività umane che costituiscono la vita sociale ed economica. Il secondo coordina come una mano invisibile e impersonale, efficiente per definizione, gli scambi tra tutti gli attori, singoli e collettivi, partecipanti. La terza organizza il potere all’interno di ogni entità strutturata sia essa uno Stato, un’azienda, un esercito, una politica. Il quarto definisce le regole e le legittima rendendole obbligatorie con tutta la forza degli apparati deputati al mantenimento dell’ordine costituito. Le tecnologie, infine, rappresentano e sempre più spesso, l’ossatura, i muscoli e l’apparato nervoso di questa immane sistema: ciò che ne amplifica ed esalta la potenza.
Malgrado le sue singole componenti diventino sempre più specializzate e sovente autoreferenti, la mega-macchina è in costante avanzamento nella direzione di una sempre maggiore integrazione a livello planetario. Lo vediamo chiaramente nei processi di globalizzazione, nella diffusione di internet e nell’applicazione delle tecnologie digitali in ogni settore economico; lo osserviamo nella eliminazione delle barriere agli scambi economici e finanziari, nella nascita di normative sempre più astratte che pretendono di avere validità universale surrogando e mettendo in discussione i contenuti delle costituzioni nazionali.
Lo cogliamo chiaramente nella mobilità estrema delle classi creative, nelle elite di tecnici, scienziati ed ingegneri, che parlano un unica lingua veicolare, condividono medesime forme di sapere, si muovono con disinvoltura su un palcoscenico che comprende tutta la terra.
Da tempo lo vediamo all’opera nelle imprese multinazionali, grandi protagonisti del mutamento in corso; la tendenza appare con tutta evidenza nell’iper-specializzazione delle competenze e nell’applicazione sistematica di tecniche codificate ad ogni possibile campo di attività umana, nell’industrializzazione di ogni processo di trasformazione e nella sostituzione incessante del lavoro umano con quello delle macchine intelligenti.
La finanza rappresenta forse il settore più altamente integrato e, non a caso, essa sta al timone di comando della mega-macchina. La politica, che in un altro modello sociale doveva esprimere i fini, è diventata essa stessa un attributo della finanza e il suo scopo prioritario sembra ormai divenuto rimuovere gli ostacoli alla sua affermazione, promuoverne il rafforzamento e l’ampliamento, poiché la sua vitalità sembra essere, anche per molti politici, l’unico meccanismo in grado di garantire la prosperità e la vita civile.
Agli occhi dei suoi sostenitori la mega macchina sembra ormai crescere allo stesso modo naturale con cui cresce una foresta; agli occhi dei suoi detrattori si diffonde con la stessa pervicacia di un cancro che minaccia un organismo non più sano. Ogni nuova connessione internet, ogni telecamera installata sul territorio, ogni norma che libera il flusso di merci e capitali oppure intralcia e impedisce scambi propri dell’economia informale, rappresenta un passo in quella direzione.
Nel suo implacabile cammino di sviluppo la mega macchina procede per balzi e contraccolpi. Crescita del Pil e occupazione sono le variabili fatte proprie dal senso comune che rappresentano, per così dire, la parte socialmente accettata del meccanismo generale che spinge verso un controllo sempre più diffuso e un’integrazione crescente. La sua capacità produttiva e ri-produttiva sembra quasi infinita e, laddove essa non riesce a convincere attraverso la forza dei suoi numerosi apparati retorici, distrugge avvalendosi dei mezzi messi a disposizione dalla tecno-scienza.
Malgrado questo, o forse a causa di questo, la vita sociale non è mai apparsa cosi complessa, per certi versi così libera; immerse in un mondo di merci e servizi le persone si muovono cercando una loro identità innanzitutto nel consumo. Ogni desiderio diventa prima pretesa e quindi diritto. Ogni persona che nasce e cresce in questo sistema viene cresciuta come consumatore e portatore di infiniti bisogni che devono essere soddisfatti. I miti di progresso, libertà e democrazia sostengono a livello sociale lo sviluppo della mega macchina quando le sue esternalità diventano insostenibilmente imbarazzanti. Le distruzioni prodotte dai meccanismi espansivi alla periferia del nucleo più avanzato del sistema generano flussi migratori colossali che diventano a loro volta spinte per rafforzare ulteriormente il sistema; le esternalità che ricadono all’interno si traducono nella corruzione dei vincoli di fiducia, nell’aumento dell’insicurezza percepita, provocando richieste di maggiore controllo, che applicate, contribuiscono all’espansione della mega-macchina.
La forza di attrazione che essa esercita resta però irresistibile: per miliardi di persone l’importante non è vivere bene ma poter vivere all’interno del sistema, goderne i frutti, farne parte, esserne protagonisti e non venirne espulsi. Bene o male che sia, il mondo sembra diviso in due: persone incluse e connesse (forse dipendenti) e persone escluse (che tentano di sfuggire dal o di entrare nel sistema); questa dicotomia si allarga a tutto il vivente contrapponendo, per esempio, gli animali domestici umanizzati che vivono nelle famiglie e sono curati come figli, agli animali trasformati in oggetti di consumo, ridotti a macchine da carne o a variabili della produzione.
I drammatici cambiamenti di questi anni possono essere spiegati all’interno di questo quadro: da un lato un immenso tecno-sistema che diventa sempre più integrato e pervasivo, che assume forma di un ambiente di vita esclusivo, sostituendosi a quello che era l’ambiente naturale; dall’altro, un sistema sociale turbolento e composito che regredisce spesso verso aspetti meramente utilitaristici ed egoistici, ma che è sempre impegnato nella costante ricerca di senso. Non è in quest’ottica privo di significato il ritorno di termini quali comunità, clan, branco, banda, setta e tribù che sembravano superati dal cammino trionfante della modernità razionalizzatrice; né può essere sottaciuto il diffondersi rapidissimo di discipline, pratiche e professioni specificatamente centrate sull’aiuto emotivo, psicologico, religioso e spirituale.
Persone che ormai non sono più in grado di vivere indipendentemente dal sistema, si aggregano per necessità in forme non previste dal sistema stesso; persone che cercano speranza sfuggendo per quanto possibile da esso si attivano per costruire comunità e ambienti significativi di vita fondati su presupposti differenti, a volte religiosi a volte tradizionali; persone volenterose si aggregano nelle infinite forme del non profit per affrontare i disagi e i problemi generati dal funzionamento impersonale della mega macchina; altre persone travolte dai meccanismi del sistema sono abbandonate a se stesse e sempre più spesso dipendono dal buon cuore degli altri perché il sistema ha smesso di prendersene cura.
Da un lato ci sono dunque le forze che tendono a rafforzare a ogni costo il sistema socio-tecnico planetario, dall’altro una vasta costellazione di forze che ricercano nel umano sociale fonti di gratificazione che quel sistema non è più in grado di garantire. I due livelli sono ora contrapposti ora e più frequentemente intrecciati in forme che assumono colorazioni politiche e sociologiche assai diversificate.
Non mancano i profeti della tecno-scienza che predicano un evoluzione verso il transumano potenziando i corpi delle persone con le biotecnologie, connettendoli direttamente alle macchine intelligenti, fino a pensare di scaricare le menti su un supporto digitale per conquistare una forma di immortalità. Non mancano coloro che rifiutando l’attuale sistema, si adoperano per trovare alternative sociali capaci di risolvere la crisi, creando un mondo nuovo fondato su presupposti differenti da quelli del neoliberismo finanziario imperante. Non mancano neppure innovatori sociali che credono sempre più necessaria una nuova pedagogia che insegni a vivere nella consapevolezza accettando la complessità e la sfida.
Per vivere bene in questo mondo, per contribuire ad un evoluzione che non sia semplicemente distruttiva, per indirizzare bene le potenzialità offerte dalla tecno-scienza evitando contrapposizione meramente utilitarie o ideologiche, occorre riscoprire il senso delle virtù e delle doti morali, riscoprire la cifra della socialità e della relazione, recuperare il senso di responsabilità ad ogni livello; forse è venuto il momento di superare l’idea perversa che i vizi privati si trasformino magicamente in pubbliche virtù.
Il 29 aprile viene festeggiata la Giornata Internazionale della Danza, istituita nel 1982, dal Comitato Internazionale della Danza (C.I.D.) / Istituto Internazionale del Teatro (IIT) dell’Unesco (vedi). La data commemora la nascita di Jean-Georges Noverre (1727-1810), che fu il più grande coreografo della sua epoca, considerato il creatore del balletto moderno. Lo scopo principale degli eventi che in tutto il mondo vengono organizzati in questa giornata (esibizioni, speciali performance anche all’aperto, incontri pubblici, letture, articoli di giornali e riviste, programmi radiofonici e televisivi) è attirare l’attenzione di un vasto pubblico, per indirizzarlo al mondo della danza e destarne l’interesse verso questa disciplina formativa e meravigliosa.
Per festeggiare questa ricorrenza che accomuna e avvicina tutti i paesi e gli artisti del mondo, vi abbiamo preparato una sorpresa. Una carrellata fotografica di balletti, scatti presi principalmente a Mosca, tempio del balletto. Off course! Buona visione.
Teatro Bolshoi, Mosca
Teatro Bolshoi, Mosca
Teatro Bolshoi, Mosca
Teatro Bolshoi, Novaya Scena, Mosca
Ivan il Terribile Teatro Bolshoi, Mosca, 4 febbraio 2015
Gioielli Teatro Bolshoi, 27 Febbraio 2016
Gioielli Teatro Bolshoi, 27 Febbraio 2016
Gioielli Teatro Bolshoi, 27 Febbraio 2016
Sergei Polunin Il Lago dei Cigni, Teatro Stanislavsky Mosca, 27 Novembre 2015
Sergei Polunin Il Lago dei Cigni, Teatro Stanislavsky Mosca, 27 Novembre 2015
Sergei Polunin Il Lago dei Cigni, Teatro Stanislavsky Mosca, 27 Novembre 2015
Erika Mikirticheva Silfide, Teatro Stanislavsky Mosca, 7 Dicembre 2015
Erika Mikirticheva Silfide, Teatro Stanislavsky Mosca, 7 Dicembre 2015
Carla Fracci Mistero Balletto, Teatro Russkaya Pesna Mosca, 28 Settembre 2015
Carla Fracci Mistero Balletto, Teatro Russkaya Pesna Mosca, 28 Settembre 2015
Carla Fracci Mistero Balletto, Teatro Russkaya Pesna Mosca, 28 Settembre 2015
Carla Fracci Mistero Balletto Teatro Russkaya Pesna Mosca, 28 Settembre 2015
Sergei Polunin La Bayadere, Teatro Stanislavsky Mosca, 28 Marzo 2016
Sergei Polunin La Bayadere, Teatro Stanislavsky Mosca, 28 Marzo 2016
Sergei Polunin La Bayadere, Teatro Stanislavsky Mosca, 28 Marzo 2016
Balletto Moyesev Sala Tchaikosky, Mosca, 6 Aprile 2016
Balletto Moyesev Sala Tchaikosky, Mosca, 6 Aprile 2016
Nella maggior parte dei menu dei ristoranti italiani la voce Liguria fra l’elenco dei vini non compare. Chi chiede un Vermentino, normalmente, ha in testa quello sardo, sapido e lievemente senapato, o tuttalpiù quello toscano. Difficilmente chiederà o riceverà un Vermentino ligure. Eppure questo bianco di Liguria, in particolare se prodotto nella zona di Luni, al confine con la Toscana si può segnalare – così come l’elegante Pigato – fra i prodotti notevoli del panorama vinicolo italiano. Ma la produzione del territorio ligure risulta marginale e fatica a catturare l’attenzione del mercato. Appena cinquemila sono gli ettari coltivati a vite, concentrati fra le terre di levante e ponente. Conseguentemente ridotta è la produzione, normalmente inferiore ai cinquemila ettolitri annui. Non sono molte neppure le varietà presenti nella magra Liguria, dalla curiosa conformazione a boomerang: un arco costituito da colli che si tuffano in mare. Ridottissima, in zona, è l’escursione termica; decisamente particolare il clima, inadatto per parecchie varietà d’uva.
Primeggiano i bianchi: oltre ai già citati Pigato e Vermentino, si segnalano il Levanto, il Cinque Terre, la popolare Bianchetta (anche frizzante), l’elegante Colli di Luni. Bosco, Albarola e Vermentino si coalizzano per dare anima al celebrato e raro Sciacchetrà, un passito per facoltosi intenditori, figlio delle Cinque Terre, mentre la zona del Tigullio esprime pure un Moscato, non particolarmente noto, però.
Fra i rossi, Rossese e Ormeasco sono i più ricercati, e con loro le varianti ‘tinte’ di Tigullio e Levanto oltre a un più raro Ciliegiolo e alla riscoperta Granaccia (da uve Alicante, tipiche del savonese), interessante anche come passito.
Di recente a Ferrara, il piacere di degustare proprio i vini di Liguria, nella cornice del ristorante Le Querce (del Cus), è stato riservato ai soci Onav, grazie al consueto prodigarsi del segretario Lino Bellini, come sempre coadiuvato da Ruggero Ciammarughi e Alberto Capponcelli. Introdotti dalla sapiente e appassionata prolusione del maestro assaggiatore ligure Andrea Briano, si sono fatti apprezzare al palato degli ospiti alcuni fra i prodotti presentati, in particolare il Basura Obscura, uno spumante metodo classico ottenuto da uve Pigato in purezza, prodotto dall’azienda vitivinicola Durin, utilizzando mosto in luogo degli zuccheri, e servito a preambolo della serata. Molto gradito anche il Pigato “Vigne Veggie” della cantina Massimo Alessandri di Imperia.
L’Organizzazione nazionale assaggiatori vini – peraltro – per l’autunno ha in programma anche un ben articolato corso in 18 lezioni, pensato per chi desidera approcciarsi al vino con piena consapevolezza e la capacità di coglierne il carattere autentico. Intanto il prossimo appuntamento è già fissato per il 9 maggio, con le bollicine di Franciacorta, sempre alle Querce del Cus.
Nel 1573 Paolo Caliari, detto il Veronese, dipinge una grande allegoria della battaglia di Lepanto, combattuta due anni prima. Tra raggi di luce, angeli e santi, schiere di navi si affrontano sul mare, in un confuso incastro di vascelli, alberature, remi e bagliore di armi. Tra i tanti combatte in quella battaglia anche il ventiquattrenne Miguel de Cervantes Saavedra.
Nato nel 1547 ad Alcalà de Henares, non si sa esattamente dove trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Lo troviamo studente a Madrid dove, ritenuto colpevole di aver ferito in uno scontro un certo Antonio de Segura, è condannato al taglio della mano destra. Per evitare la condanna, Cervantes fugge in Italia al seguito del cardinal Acquaviva e, arruolatosi nelle schiere imperiali, combatte a Lepanto dove, sfuggito al taglio della mano destra a cui era stato condannato, perde in battaglia quella sinistra. “Ma egli – scrive di sé più tardi – trova bella questa ferita, perché l’ha ricevuto combattendo sotto le vittoriose bandiere di Carlo V di felice memoria”.
Essendo soldato, vorrebbe conquistare un po’ di gloria con le armi. Partecipa, tra altre imprese, alla presa di Biserta e di Tunisi nel 1573 e, nei momenti di pausa, scrive novelle e drammi. Intanto don Giovanni d’Austria, vincitore di Lepanto e vicerè di Napoli, lo raccomanda per una promozione a capitano, che però non riuscrà mai ad avere. Così si imbarca per tornare in Spagna. Naviga con una piccola flotta, ma non si sa per quali ragioni la sua nave si distacca dalle altre; individuata dai corsari turchi, viene presa d’assalto alla foce del Rodano. Cervantes, preso prigioniero con pochi altri superstiti, viene venduto come schiavo. Rimane in terra africana per cinque anni, tentando invano di fuggire; poi viene riscattato e torna in Spagna, dove presta ancora servizio nell’esercito per due anni, senza peraltro conseguire quella nomina a capitano a cui tiene moltissimo. Nel 1584 si sposa e va a vivere a Siviglia, lavorando in qualità di commissario per le forniture dell’Invincibile Armada, la flotta navale di Filippo II, ma pochi anni dopo viene arrestato per una questione di ammanchi dovuti alla disonestà di un banchiere di cui ingenuamente si è fidato. Nella solitudine della prigione, ancora – come in altre situazioni di prigionia o di solitudine – cerca di evadere con il pensiero e immagina una fuga nelle immense pianure della Spagna, cavalcando come un cavaliere antico, per difendere i deboli combattendo. Ma immagina anche di deridere spietatamente il servile comportamento di molti, quello che egli stesso, nella vita, sta conducendo.
Uscito dal carcere, Cervantes si trasferisce a Valladolid, dove comincia a scrivere la prima parte dell’operache lo renderà famoso, che esce nel 1605 (ma più recenti ricerche daterebbero la prima edizione al 1604). La intitola “L’ingegnoso gentiluomo Don Chisciotte della Mancia”. I protagonisti sono: un cinquantenne male in arnese, che cambia il proprio nome di Alonso Quijano in quello pomposo di don Chisciotte della Mancia; il suo cavallo, un povero ronzino, cui pone il nome di Ronzinante, “pomposo e risonante, come era conveniente al nuovo ordine ed all’uffizio nuovo che ormai assumeva”; la dama, “una contadinotta delle vicinanze che non si curava affatto di lui”, a cui dà il nome di Dulcinea del Toboso; infine, “un contadino del vicinato; un uomo dabbene, ma con molto poco sale in zucca”, che si chiamava Sancio Panza, convinto a seguire il cavaliere come suo scudiero, “perché poteva capitarli qualche avventura di guadagnarsi in quattro e quattr’otto un’isola di cui l’avrebbe nominato governatore”.
Il Don Chisciotte di Salvador Dalì
Così don Chisciotte su un cavallo e Sancio su un asino “uscirono dal paese senza essere visti da nessuno e camminarono tanto che all’alba si tennero sicuri che, se anche li avessero cercati, non li avrebbero trovati”.
Comincia così la serie di vicende dei due personaggi, in una successione di pseudoavventure dove l’immaginazione impazzita del cavaliere affronta fantasiose trame di assalti, lotte, misteri e straordinari eventi. Una storia di saggia pazzia, o di pazza saggezza, in cui Cervantes sembra voler ridicolizzare, attraverso la simulazione narrativa, i comportamenti irresponsabili e assurdi, le troppo serie situazioni reali, gli eventi che inquietano per poca cosa o per nulla. Cerca insomma, nell’ilare pazzia del suo personaggio, di trasformare gli eventi elogiando la diversità, l’evasione, la fuga da una realtà spesso pesantemente insopportabile. La pazzia, dunque, come rifugio alla tristezza e alla miseria del quotidiano, che per questo va elogiata, come scrivevano in quei tempi Erasmo da Rotterdam e Sebastiano Brant; o esaltata, come accade nell’Orlando Furioso dell’Ariosto. O anche la follia come mezzo per fingere se stessi e al tempo stesso rivelarsi, come Amleto, Ofelia, Re Lear, lady Macbeth, e dalla quale viene travolto il Tasso. Cervantes no: tra odiare gli uomini e divertirsi alle loro spalle, sceglie quest’ultima strada, e crea questo personaggio straordinario, un Burlador de la Mancha che si avventa sui fantasmi delle cose. Fantasmi che nel loro simbolismo sono la trascrizione deformata, ma vera, della più cruda attualità.
E, in realtà, i castelli dei principi sono locande mascherate dove occorre pagare molto per avere una misera ospitalità, i mulini sono briganti che vivono di vento e di furto, le vergini che si incontrano non sono altro che prostitute travestite, le serve sono meglio delle signore, i soldati sono pecore condotte al macello e le schiere dei condannati sono sicuramente più innocenti dei loro sbirri. È ciò don Chisciotte, o meglio Cervantes, pensa degli uomini. E la sua storia personale continua, nonostante i sogni, a essere mediocre e triste. È stata appena pubblicata la prima parte della sua stralunata storia, che viene di nuovo arrestato – innocente – per un assassinio accaduto di notte di fronte alla sua casa, e del quale vengono accusati lui e la famiglia come esecutori. Fa alcuni mesi di prigione, dopodiché, scagionato, torna libero. Ma si può ben pensare con quale animo e quale rancore verso la società.
Dopo il carcere, torna a Madrid, al seguito della corte di Filippo II. Qui, nel 1615, appare la seconda parte del romanzo, mentre l’autore anela invano ritornare in Italia e dedicarsi esclusivamente alla scrittura. È il sogno di un poeta, come in realtà egli fu, perché il Don Chisciotte è anche un’opera di poesia. Lui, Cervantes, viveva di sogni. “La vida es sueño”, scriverà più tardi Calderón de la Barca: “Qué es la vida? un frenesí; / Qué es la vida? una ilusión / una sombra, una ficción…”.
Così, in quegli anni preziosi per la cultura spagnola, si consumano le contraddizioni di una società splendida e miserabile, dove l’opulenza delle corti e dell’arte si mescola con il putrideiro della morte rivestita d’oro, degli stracci mescolati a velluti e corone, agli incensi e alle pustole dei bambini che si spulciano, come si può vedere in molte pitture spagnole dell’epoca. Murillo, per esempio, dipinge bambini vestiti di stracci e gallegas, prostitute alla finestra, che cercano di attirare i clienti, o una vecchia che spidocchia un bambino, o dei poveri contadinelli affamati, ma dipinge pure Madonne e Santi, in scene di dolcezza mistica e splendori di porpore e di ori; oppure El Greco, che esalta mortificazioni austere e mistici asceti macerati dai tormenti della passione religiosa. La letteratura trova spazio nella celebrazione del Rinascimento che si conclude e del Siglo de oro che inizia, mentre la pittura, per mano di artisti come Velasquez sottolinea ulteriormente le scene di genere dipinte da Juan del Castillo, da Francisco Herrera, da Ribera, da Zurbarán e da altri ancora, insistendo su caratteri e sentimenti, ma anche sulla descrizione della modesta vita quotidiana ripresa anche nei dettagli: canestri di vimini, boccali, tovaglie che conservano ancora la traccia delle piegature con cui erano riposte nella cassapanca, pentole entro cui cuoce la zuppa, uova che friggono nel padellino di coccio. Eppure questo splendore intriso anche di miseria, di ascetismi e di trionfi sta concludendo il suo aureo itinerario. Carlo V aveva abdicato quando Cervantes aveva otto anni; la potenza spagnola comincia a declinare già sotto Filippo II, poi sempre più sotto Filippo III. Il lento inizio di questo tramonto sembra avvertito anche da Cervantes, che vive una vita da fallito e descrive la storia di un personaggio pure fallito, che evade nella fantasia: un idealismo utopistico per fuggire la realtà o anche, volendo, un realismo adombrato da figure di spoglia e dimessa umanità.
Dopo aver scritto la seconda parte del suo romanzo, Cervantes vive ancora un paio d’anni. Di lui non si hanno più notizie, se non che sta scrivendo “Le pene di Persiles e Sigismonda”, sua ultima opera. E in questi giorni di tramonto, lo si potrebbe immaginare come lo rappresenta Honoré Daumier nel 1866: uno stanco e disilluso vecchio, seduto su una sedia in una saletta buia, le gambe scheletriche, il volto macilento, gli occhi profondamente cerchiati di stanchezza.
Pochi libri in terra, a rappresentare la dispersione di quanto la mente ha pensato e che andrà poi irrimediabilmente perduto con la morte.
Cervantes muore a Madrid il 23 aprile del 1616, ma non dimenticato. Trasfigurato nel cavaliere dell’ideale, cammina ancora nelle strade di Spagna e del mondo, aprendoci in ogni tempo, nella storia e nella vita, i meravigliosi itinerari della fantasia e della speranza.
Ormai è diventato un appuntamento fisso, una tradizione. Da domani ritorna il ciclo di incontri pubblici alla Libreria Ibs + Libraccio organizzato dalle Cattedre di Diritto costituzionale e Istituzioni di diritto pubblico del Dipartimento di Giurisprudenza di Unife, giunto quest’anno alla loro sesta edizione.
Dopo aver affrontato le tematiche inerenti alle carceri (2011-2013), la storia costituzionale contemporanea (2014) e il tema della giustizia in tutte le sue forme (2015), il ciclo di conferenze di quest’anno è intitolato “Pagine sul potere” e prevede un nutrito schieramento di illustri ospiti che, per cinque venerdì sempre alle ore 17, animerà gli spazi di Palazzo San Crispino.
Un luogo, quest’ultimo, “divenuto negli ultimi anni un importante centro culturale della città”, come affermato durante la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa da Patrizia Ricci, direttrice della libreria Ibs + Libraccio, la quale ricorda come questo fosse “uno degli obiettivi da quando la libreria ha avuto l’onore di insediarsi in questo storico luogo, una responsabilità soprattutto verso la cittadinanza. A confermare questo è la grande collaborazione con Unife – ha proseguito Ricci – una partnership possibile soprattutto grazie al grande successo riscontrato da queste conferenze in questi sei anni”.
Ideatore e promotore dell’iniziativa il costituzionalista dell’Università di Ferrara Andrea Pugiotto che, nell’illustrare l’evento, ha precisato: “nonostante l’iniziativa sia incentrata su un tema estremamente vasto come quello del potere, a noi interessava mettere sotto i riflettori soprattutto quello che concerne il potere politico, una questione che fa parte della vita di ognuno di noi anche se solo da sfondo”.
Cinque le parole chiave elencate da Pugiotto, una per ognuno degli eventi in rassegna: fare, sapere, saper fare, far sapere, leadership. Cinque concetti che caratterizzeranno questi eventi importanti ed estremamente attuali poiché, come ha ricordato il costituzionalista, “si collocano nell’anno del settantesimo anniversario della nostra Repubblica, nel sessantesimo della Corte Costituzionale e a pochi mesi dal referendum costituzionale, il quale non è argomento centrale della rassegna ma che di sicuro troverà spazio di analisi”. La formula di ogni incontro rimane invariata: grande rilevanza verrà data al libro di riferimento che ogni autore presenterà, un intervento di apertura a delineare la cornice costituzionale in esame, il dialogo tra l’ospite e un costituzionalista e, infine, spazio alle domande dal pubblico.
Ed ecco il ricco programma: domani si aprono i battenti analizzando il tema “governare”, con ospite l’uomo politico e oggi giudice costituzionale Giuliano Amato e il suo libro “Le istituzioni della democrazia”; venerdì 6 maggio sarà la volta di “scegliere” con la politologa Nadia Urbinati e il suo “Democrazia in diretta”; il professore emerito di diritto amministrativo Sabino Cassese presenterà il suo volume “Dentro la corte”, analizzando la parola “controllare”; venerdì 20 maggio si parlerà di “informare” e a intervenire sarà il presidente della Fondazione Italiadecide Luciano Violante con il suo libro “Politica e Menzogna”; a chiudere la rassegna il politologo Mauro Calise e il suo “La democrazia dei leader” per affrontare il termine “leadership”.
Una rassegna di grandissima qualità e spessore quindi, che Pugiotto ricorda essere “pensata per chi ha voglia di pensare” e che sconfinerà anche dalle Mura ferraresi grazie alla presenza di Radio Radicale, la quale registrerà tutte e cinque le conferenze.
Al termine della conferenza stampa di presentazione della rassegna spazio alle parole di Gian Piero Pollini e Giuseppe Stefani, rispettivamente l’ex direttore di Iuss-Ferrara 1391 e il Presidente della Fondazione Forense di Ferrara: il primo ha ricordato l’importanza di questa iniziativa culturale poiché “esce dalle aule universitarie e in questa maniera riesce ad arrivare a un numero sempre più ampio di cittadini”, mentre il secondo ha ribadito l’entusiasmo da parte della Fondazione Forense nel patrocinare questo evento grazia al suo “scopo fortemente culturale e quindi perfettamente in linea con il percorso di aggiornamento e formazione intrapreso con entusiasmo dai giovani avvocati della Scuola Forense”.
Oltre alla collaborazione di Iuss Ferrara 1391, Scuola Forense di Ferrara e Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna, “Pagine sul Potere” è patrocinato da Università e Comune di Ferrara, Fondazione Ordine dei Giornalisti Emilia Romagna e Fondazione Forense di Ferrara ed è sostenuto da Banca Generali.
Tutte le informazioni del ciclo di incontri “Pagine sul potere” potete trovarle nella locandina che segue. Clicca sull’immagine per ingrandirla.
Buon 25 aprile!
Anche chi ha lottato per quell’alba di Liberazione, ma non ha potuto viverla perchè è morto per essa.
Benedetto Bocchiola (Marco)
Di anni 20, meccanico, nato a Milano il 14 maggio 1924. Dal marzo al giugno 1944 svolge attività di raccolta e rifornimento di armi per le formazioni in montagna, nei mesi successivi prende parte a varie azioni effettuando colpi di mano su caserme occupate da forze nazifasciste e posti di blocco. Arrestato il 10 ottobre 1944 in Valle Biandino (Lecco) nel corso di un rastrellamento. Processato il 13 ottobre a Casargo da un tribunale misto tedesco e fascista. Fucilato il 15 ottobre a Introbio (Lecco) con altri cinque compagni.
15.10.1944
Carissimi genitori,
vi scrivo queste poche righe per farvi sapere che la mia salute è ottima come spero sia anche la vostra, non pensate per me perchè io sto bene. Se non riceverete mie notizie non allarmatevi.
Ricevete tanti saluti e tanti baci.
Vostro Nino
(Scritta poche ore prima della fucilazione, quando già conosceva la sua condanna)
Mario Brusa Romagnoli (Nando)
Di anni 18, meccanico aggiustatore, nato a Guardiaregia (Campobasso) il 12 maggio 1926. Nell’autunno del 1943 è nelle bande Pugnetto di Valli di Lanzo (Torino). Combatte sulle montagne di Genova, dove viene ferito una prima volta e arrestato, ma riesce a fuggire. Entra a far parte dei primi nuclei della Divisione autonoma Monferrato. Nel corso di un’azione da lui guidata vengono fatti prigionieri soldati e ufficiali tedeschi, viene nuovamente ferito. Non ancora guarito partecipa al combattimento del 25 marzo 1945 nei pressi di Brusasco-Cavagnolo, vicino Torino, e il 29 marzo mante guida un’azione contro un convoglio ferroviario tedesco sulla linea Milano-Torino viene ferito gravemente. Catturato verso la mezzanotte da una pattuglia del Reparto Arditi Ufficiali insieme ai tre compagni che tentavano di trasportarlo e condannato a morte quella stessa notte, mentre il comando partigiano tenta invano di concordare uno scambio di prigionieri. Fucilato il mattino del 30 marzo 1945 sulla piazza di Livorno Ferraris (Vercelli). E’ il fratello di altri due partigiani caduti.
Papà e Mamma,
è finita per il vostro figlio Mario, la vita è una piccolezza, il maledetto nemico mi fucila; raccogliete la mia salma e ponetela vicino a mio fratello Filippo.
Un bacio a te Mamma cara, Papà, Melania, Annamaria e zia, a Celso un bacio dal suo caro fratello Mario che dal cielo guiderà il loro destino in salvo da questa vita tremenda.
Addio. W l’Italia. Mario-Nando
Mi sono perduto alle ore 12 e alle 12 e 5 non ci sarò più per salutare la Vittoria
Domenico Caporossi (Miguel)
Di anni 17, elettricista, nato a Mathi Canavese (Torino) il 4 agosto 1927. Iscritto al Partito Comunista italiano, partigiano con il grado di sottotenente nella 80a Brigata Garibaldi operante nelle Valli di Lanzo e nel Canavesano. Il 17 febbraio 1945, recatosi a trovare i famigliari a Ciriè, viene catturato da elementi della Divisione Folgore. Incarcerato e torturato per 36 ore, viene fucilato senza processo il 21 febbraio 1945 sulla piazza principale di Verbania. Decorato di Croce di Guerra.
Cara Mamma,
vado a morire, ma da partigiano, col sorriso sulle labbra e una fede nel cuore. Non star malinconica io muoio contento. Saluti amici e parenti, ed un forte abbraccio e bacioni al piccolo Imperio e Ileno e il Caro Papà, e nonna e nonno e di ricordarsene sempre.
Ciau Vostro figlio Domenico
Eraclio Cappannini
Di anni 20, studente all’Istituto Industriale di Foligno (Perugia), nato a Iesi (Ancona) l’8 gennaio 1924. Nel novembre 1943 entra a far parte del 5a Brigata Garibaldi operante nella zona di Ancona e ne diventa Capo di Stato Maggiore. Partecipa ai combattimenti del gennaio e dell’aprile 1944 a Serra San Quirico e nei dintorni di Cabernardi e al colpo di mano per il sabotaggio del macchinario della Snia viscosa di Arcevia (Ancona), utilizzato dai tedeschi. Catturato all’alba del 4 maggio 1944 durante un trasferimento da un reparto tedesco presumibilmente guidato da un delatore. Viene fucilato senza processo il 5 maggio sotto le mura di Arcevia.
Arcevia 5 maggio 1944
Sono il giovane Cappannini Eraclio prigioniero dei tedeschi. Chi trova la presente è pregato di farlo avere alla mia famiglia, sfollata da Iesi a Serradeiconti presso il contadino Carbini. Cari Genitori e Parenti tutti; il mio ultimo pensiero sarà rivolto a voi ed alla mia, alla nostra cara Patria, che tanti sacrifici chiede ai suoi figli. Non piangete per me, vi sarò sempre vicino, vi amerò sempre anche fuori dal mondo terreno; voi sarete la mia sola consolazione. Siate forti come lo sono stato io.
Salutatemi tutti i miei conoscenti.
Vostro per l’eternità Eraclio
Bacioni alla piccola Maria Grazia
Ringrazio perennemente il latore
(Lettera scritta e abbandonata lungo il percorso fra il luogo della cattura e il luogo della fucilazione)
da “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Einaudi
Aléeee… Aléeee… Il grido s’alza, rimbomba, s’irrobustisce. Trapassa dallo stadio alla città. Ci siamo: la Spal – da pronunciarsi con la ‘elle’ ferrarese – è finalmente, dopo 23 anni, in serie B! Nonostante il diluvio, nonostante il vecchio stadio, nonostante gli sfigati che non ci credevano. E i giornali giustamente si appropriano dei termini più crudi, più immaginifici: dall’ormai consueto ‘abbiamo sofferto’ all’innovativa ‘estasi biancoazzurra’. All’estasi s’abbandona il vescovo della città estense, monsignor Negri, che vorrebbe trascinare nella sua nuvola biancoazzurra il recalcitrante collega bolognese; alla raucedine da troppo urlo si piega il sindaco Tagliani mentre un boato, un rimbombo, uno tsunami scuote la piazza: è l’assessore allo sport Merli, che ha deciso di esprimere la sua ‘satisfaction’. Il direttore di questo giornale ricorda date fondamentali della sua vita e nascita e li mette in rapporto alla ri-nascita spallina.
Le persone che contano debbono urlare, commentare, congratularsi: se no che ferrarese sei?
Doni dal ciel piovuti gratificano la bella città estense. Una generosa e charmante dama dall’illustre prosapia affida attraverso il nipote dal nome che incute ammirazione, Ferrigo, il manoscritto del Giardino dei Finzi-Contini alle cure della città di Ferrara. Un’altra dama dal piglio sbrigliato e dalla strepitosa cultura taglia il nastro del munifico dono che il marito, Cesare Segre, ha voluto destinare a Ferrara, la città che nella sua Biblioteca custodisce la più importante raccolta di memorie ariostesche. Entrano quindi preziosi i doni e si pavoneggiano nella bellissima mostra curata dalle coraggiose e competenti vestali della Biblioteca Ariostea. Dall’alto del monumento funebre voluto dal generale napoleonico Miollis per dare degna sepoltura al ‘divino’ Ludovico sembra quasi che un impercettibile sberleffo percorra il viso marmoreo del poeta laureato. Una degna risposta alla violazione crudele che ha colpito con un tentativo d’incendio appiccato al portone della biblioteca, le fragili difese della cultura.
Ma il divertimento è assicurato con i giovani: e non scherzo.
Mi reco con lo scrittore Paolo Di Paolo al Liceo Ariosto per commentare il suo romanzo, “Mandami tanta vita”, romanzo imperniato sulla morte a Parigi di Piero Gobetti. Gli studenti sono preparatissimi; anzi le studentesse. Non un maschietto prende la parola. Sicure e tranquille le ragazze pongono le domande, commentano, s’infervorano, mentre l’unico ragazzo sopraffatto dalla timidezza rinuncia al suo intervento. Niente è cambiato allora da quando, ai miei tempi, le compagne ci guardavano tra protettive e consapevoli, sapendo benissimo che loro erano donne e noi ragazzetti? Son sicuro di no. Il meglio però viene al pranzo che le bravissime insegnanti ci offrono alla fine dell’incontro. Il ragazzo smania perché non è sicuro di essere riuscito a procurarsi l’agognato biglietto per la Spal. Immaginavo che avesse avuto la comprensione delle compagne che secondo il modello femminile non sarebbero dovute essere particolarmente interessate all’avvenimento. E… TUTTE invece si erano procurato il biglietto e minacciavano sfracelli d’entusiasmo durante la partita. Fantastico.
Il giorno seguente, anniversario dell’edizione del 1516 dell’Orlando furioso, ritorno al Liceo per presentare assieme a Lina Bolzoni – presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni del cinquecentenario del poema – il volume da lei curato, “L’Orlando furioso nello specchio delle immagini”, un raffinatissimo e costosissimo volume sulla storia delle immagini che hanno testimoniato la fortuna figurativa e non solo del poema. I ragazzi sono presi dalla vicenda che riguarda i fumetti, ma anche da quella, veramente straordinaria, di una fortuna che sigla il poema fino all’Ottocento più popolare in Europa. E ammirano Ingres e Doré e commentano, saputi, la Valentina-Angelica di Crepax o le pedine del suo magnifico gioco dell’Orlando furioso, ma chiedono il perché nel libro si trova un’immagine di Masaccio raffigurante il Tributo e come metterlo in rapporto con Ariosto.
Davvero ci siamo divertiti e abbiamo compreso molto. Lina Bolzoni afferma che il fondamentale vero omaggio alla comprensione dell’Ariosto è questo – e spero – gli altri numerosi incontri con gli studenti.
Poi, mentre il più robusto tra i ragazzi portava il libro in Presidenza offrendolo al miglior acquirente, siamo ritornati ai riti e ai miti delle celebrazioni.
Bocche rigorosamente a ‘cul de poule’, pensosi commenti lasciati cadere al momento giusto, falso schermirsi a chi ricorda la tua posizione. Insomma, il gioco delle parti, che è stato per un momento infranto dalla generosa presenza di giovani belli dentro e fuori.
Alléeee…
Le radicali trasformazioni in atto nel lavoro per effetto delle tecnologie digitali rappresentano una difficile sfida per il sindacato. Non da oggi è in atto una crisi di rappresentanza derivata da imponenti trasformazioni sociali e organizzative. Gli iscritti ai sindacati sono il 25% dell’insieme dei lavoratori; tra gli iscritti i pensionati sono il 40% e i giovani solo il 10%. Bastano questi pochi dati per comprendere la serietà della crisi di rappresentanza. Le trasformazioni del lavoro toccano l’identità, la natura, la funzione e la missione sociale del sindacato.
Rispetto alle comprensibili difficoltà di riposizionamento è ancora lontana la consapevolezza della discontinuità con il passato indotta da questa fase dell’innovazione tecnologica: il lavoro si riduce e cambia in modo radicale. I settori più colpiti sono: banche e finanza, manifatturiero, commercio, metalmeccanica, servizi pubblici, costruzioni, logistica e trasporti. Se consideriamo i profili, i più esposti alla riduzione sono gli addetti ad attività bancarie, gli operai non specializzati, gli addetti ad attività manifatturiere e commerciali e all’amministrazione.
McAfee e Brynjolfson in “Race against the machine” avevano calcolato che il 47% dei lavori erano a rischio di sostituzione: impiegati d’ufficio, assicuratori, commercialisti. Ma al di là dei numeri è in atto una riconfigurazione profonda. Cambieranno le mansioni e le competenze richieste: per esempio, un addetto di un punto vendita di ricambi auto, che oggi colloca scatole sugli scafali sulla base di codici, con l’arrivo delle stampanti in 3d dovrà produrre anche i pezzi richiesti. La fabbrica digitale resterà una commistione di processi automatici e di intelligenza. Avranno la meglio i lavoratori che “sapranno lavorare con le macchine”, che sapranno esprimere attitudini creative e sociali.
Le soluzioni a questa crisi del lavoro non sono affatto semplici. I problemi sono di due ordini. Il primo riguarda l’effetto di sostituzione e il secondo le implicazioni organizzative e la qualità delle competenze. Sul primo punto – cosa fare in risposta alla riduzione della quantità di lavoro – le proposte avanzate variano dal reddito di cittadinanza, alla costruzione di atelier in cui gli individui possano coltivare competenze e trasformarle in attività lavorative, alla promozione di lavori di servizio sociale finalizzati all’integrazione delle parti più povere della popolazione e così via. Si sottolinea che, al di là delle coperture economiche dei costi di forme di salario sociale, nessuna soluzione monetaria, ancorché praticabile, può sostituire il senso di identità che deriva dall’essere inserito in un contesto lavorativo.
Sul secondo punto, invece, è indispensabile guardare ai numerosi cambiamenti organizzativi senza pensare che questi riguardino un futuro lontano. Molti cambiamenti sono già in atto: per esempio l’era delle postazioni fisse è al tramonto: ad esempio le distinzioni tra front office e back office sono meno rigide. Inoltre la possibilità di lavoro a casa renderà più controllabile l’attività dei singoli e il potere di mercato sarà sempre più legato a caratteristiche individuali. Questo e molto altro manda definitivamente in crisi l’idea di rappresentanza che aveva attraversato la lunga fase della crescita del lavoro di massa.
Si aprono nuove questioni di regolazione. Basti pensare alla cosiddetta ‘uberizzazione’: a forme di impresa in cui le posizioni lavorative non rientrano né in quelle classiche del lavoro autonomo, né in quelle del lavoro dipendente. Basti pensare alla crescente difficoltà di legare la remunerazione ad un orario uniforme e definito contrattualmente. Non da ultimo, l’introduzione per legge di un salario minimo a livello nazionale per i lavoratori che non sono regolamentati da un contratto nazionale come inciderà sulla capacità di rappresentanza sindacale? Non è semplice individuare soluzioni, ma certo non è possibile ignorare l’urgenza di affrontare uno scenario che è profondamente cambiato.
Maura Franchi insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com
Ventitré anni. Quasi un quarto di secolo. Una generazione. Un’agonia. Una sofferenza. Averlo saputo allora che toccava aspettare quest’eternità molti si sarebbero messi il cuore (biancazzurro) in pace e avrebbero digerito meglio umiliazioni, fallimenti, campetti di provincia, figuracce varie. Meglio guardare avanti. Oggi. Il giorno del Sogno. Siamo tornati nel calcio. Il resto, quello di prima, era una finta. Erano Pieve di Soligo o Santarcangelo di Romagna. Cose buone e giuste per un prosecco o una piadina. Niente a che vedere con il blasone, la storia, i ricordi.
Adesso ci (ri)siamo. E nonostante l’atavico pessimismo manco a fasi alterne non ci sono mai stati dubbi. La questione degli scontri diretti persi? Tutta esperienza per l’anno che verrà. Consigli per gli acquisti, di fatto, alla proprietà. Due parole fondamentali. Anno e proprietà. L’anno della rinascita. La seconda serie. Quella che ti permette di leggere di Spal sulle pagine dei quotidiani nazionali, che ti fa vedere i gol ma anche le immagini e pure le interviste nelle trasmissioni vere, che ti fa spulciare sotto l’ombrellone il mitico cartellone del calciomercato.
Seconda parola: la proprietà. Ecco, tutto nasce qui. Quando la famiglia Colombarini riuscì con l’aiuto delle istituzioni a cacciare i mercanti dal tempio. All’ultimo secondo stava per saltare tutto, guai dimenticarlo, e ora toccherebbe andare ad Argenta o a Casumaro, probabilmente. Ma per fortuna non è successo. Così le facoltà della Famiglia, la passione del Presidente Mattioli (quest’anno molto più lucida e non di pancia, cosa fondamentale per l’esito finale), le capacità del Direttore Vagnati e ovviamente i giocatori tutti e il tecnico hanno fatto il resto.
Vanno spese un po’ di righe per un ragazzo, il diesse, che fino a pochi mesi fa – ma non succede soltanto all’ombra del Castello Estense – era da molti, pregiudizialmente, considerato incapace e arrogante. Nella riuscita del sogno, invece, la bandierina messa sulla cima più in alto l’ha portata lui. Tappandosi le orecchie, restando in silenzio, portando a casa i giocatori giusti senza buttare soldi. Già perché i Colombarini provano a fare quello che faceva il numero uno, Paolo Mazza. Comprare a poco, valorizzare e poi eventualmente rivendere. Manca soltanto il Settore Giovanile (unico difetto fin qui, ma sbagliano novanta società su cento e in tutte le categorie, sul tema), per il resto la strada è quella giusta. Se riporti allo stadio il popolo spallino, e se lo riporti anche in trasferta con numeri da Serie b anticipata, hai già vinto.
Poi c’è Mattioli. Il pres. Tifoso e innamorato della Spal come pochissimi, ma pochissimi sul serio, ha imparato la lezione degli ultimi anni. Niente commenti a caldo – ogni tanto ci ricasca ma vabbé – fiducia nei collaboratori, lavoro tanto ed esternazioni poche ed eccoci qui in serie B. Fa pure rima.
Rieccoci, anzi, una vita dopo. Di quest’anno volato via in scioltezza per bravura e anche fortuna (senza non ci riesce nessuno), vedi il girone B, è già stato detto e scritto tutto o quasi. Facile immaginare che non ci sia uno spallino in giro per il pianeta che non abbia la bava alla bocca pensando a domani. A domani che puoi sognare per il calciomercato, a domani che ti fai la lista delle trasferte che farai e delle squadre che affronterai, a domani che finalmente dimentichi tutto il recente (mica tanto, quasi un quarto di secolo, vale la pena ribadirlo) e pensi solamente alla lettera numero due. La “B”. Il calcio.
Per il resto, questioni di lavoro, ho vissuto da lontano la cavalcata ma da vicinissimo l’affetto nei confronti della Spal. Episodi a caso, da chiudere nella sfera delle amicizie, un po’ autoreferenziali se si vuole, ma è esclusivamente per dare l’idea. Storie di quest’anno. Cosmi che dice alla Gazzetta dello Sport che tifa Spal e poi mi gira un whatsapp per farmelo sapere, Capello che per altri impegni dice no a una collaborazione con la Rai e nella discussione cita la Spal, Reja che furibondo per un ritardo nel dargli la linea a Novantesimo Minuto si addolcisce quando gli dico in bassa frequenza con la faccia come le chiappe: “Mister da spallino a spallino, siamo quasi in B, non mi rovini la giornata e lui ride e risponde che va bene, per la Spal questo e altro”, Gianni De Biasi opinionista fisso sempre di Novantesimo Minuto col quale ogni domenica si tifa a distanza costretti dalla serie A ad aspettare con ansia il suono dell’applicazione dell’iphone “futbal24”, e tanti altri ex o allenatori biancazzurri che su Facebook tifano come se quei nostri colori li avessero ancora addosso.
Ma anche tutto questo fa parte del passato. Ora tocca al presente e al futuro. Adesso cominceranno mesi di trattative fantascientifiche, di altri sogni di mercato, di consigli per gli acquisti al club. Ecco, mi tiro fuori completamente da questi giochini, lo dico anche al mio amico direttore di questa Testata che ha già cominciato con gli esercizi di cui sopra, e dichiaro ufficialmente che mi fido. Aspetto e spero e soprattutto tifo. Gli esempi da non ripetere ci sono, quell’unico anno di B di ventitré anni fa deve per forza aver insegnato tanto a tutti a proposito di nomi grossi e inutili, peggio: dannosi. La B è un torneo tosto e lungo. Ci vuole pazienza, esperienza ma anche corsa, stimoli, gioventù. Ricette a priori non esistono. Altri esempi, invece, sì. E tutti recenti. Carpi, Frosinone, Crotone. Andate a rileggere pareri e pronostici e acquisti di un’estate fa sulla squadra di Juric. Basta questo. Tutto il resto è noia, tifo e il Sogno.
Che si è realizzato e questo, al popolo spallino, deve bastare e avanzare. Ventitré anni dopo ci (ri)siamo. Abbiamo perso una generazione, inghiottito cinghiali più che rospi, smadonnato per decenni. Ma è passato. Il futuro biancazzurro è già adesso. Peccato solamente che Gibì non abbia potuto vederlo e piangerlo di lacrime di gioia. E io con lui. Ma il Sogno è con noi. Godetene e tifatene tutti.
Immagini d’archivio di Geppy Toglia per gentile concessione di “Lo Spallino.com”
Foto di Geppy Toglia per gentilo concessione di Lo Spallino
175 nazioni ieri al Palazzo di vetro dell’Onu hanno approvato e iniziato a firmare l’accordo sul clima Cop21, che avevano scritto a Parigi in dicembre. Lo ha comunicato Leonardo DiCaprio perché anche la terra ha bisogno di un testimonial che abbia vinto l’Oscar. L’accordo è di grande importanza perché i maggiori paesi, a partire da Stati Uniti e Cina, si impegnano a ridurre la temperatura del pianeta di 2 gradi.
Affrontare e soprattutto risolvere i cambiamenti climatici è una delle grandi scommesse della nostra epoca e uno dei principali obiettivi dell’Onu fin dal primo vertice sulla Terra che si svolse a Rio nel 1992 e poi con il protocollo di Kioto e l’emendamento di Doha (con il quale i paesi si sono impegnati a ridurre le emissioni di almeno il 18% rispetto ai livelli del 1990). Il nuovo accordo globale sui cambiamenti climatici esteso a tutti i paesi dell’Unfccc dovrebbe entrare in vigore nel 2020. Se ne parla da troppo tempo ed è ora di agire. Ci sono però ancora 70 paesi in via di sviluppo che non si sentono ancora vincolati a questi principi.
A Parigi in dicembre si è detto di mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei due gradi, proseguendo poi gli sforzi per limitarlo a 1,5 gradi; sono stati presentati vari piani di azione e si sono previsti contributi per questo; si è avviato un percorso di trasparenza che impegna i paesi a comunicare i dati tra loro in un principio di comunicazione e di solidarietà.
L’accordo è un grande successo soprattutto perché inverte la tendenza di fallimenti degli anni passati (come Berlino dieci anni fa e Copenaghen sei anni fa). Però non tutti sono convinti che ci si creda davvero. Il rischio di un aumento pericoloso delle temperature porta ampie regioni della superficie terrestre a non essere più abitabili per l’aumento della anidride carbonica a causa dell’uso dei combustibili fossili. Per non parlare dell’acidificazione degli oceani e lo scioglimento dei ghiacciai dell’Artide. Un enorme problema per le generazioni future che sperano nelle promesse dei governanti di oggi.
L’economia verde fatica ad avere successo come anche la decarbonizzazione. Dovrebbero essere i paesi più ricchi a pagare, ma ne avranno la forza? Si parla di “loss and damage” ovvero di avviare un meccanismo che compensi le perdite finanziarie con un meccanismo di rimborso assicurativo. Una chiamata in causa di alta responsabilizzazione difficile da attuare insieme a tanti altri problemi.
Europa, Sati Uniti, Cina e India (in tono minore) dicono di poterlo fare. Però siamo in ritardo e dilatare i tempi rischia di vanificare gli sforzi: non è stata fissata una data, che avrebbe spaventato le imprese petroliere, del carbone e del gas, oltre ai paesi produttori di energia da fonte fossile. Inoltre non si presidia il controllo delle emissioni del gas serra prodotti dal gigantesco settore del trasporto aereo e navale, che pesano quasi il 10% del problema.
Obama ha promesso che entro il 2030 elimineremo le emissioni del 32% (ma lui non sarà più presidente); DiCaprio ci ha detto che siamo “l’ultima migliore speranza della terra” e Ban Ki Moon afferma che il momento è storico. Proviamo a crederci. Certo è che stiamo cambiando le cose più velocemente di quanto non capiamo; a volte senza sapere come ci stiamo comportando. La caratteristica di una società civilizzata si misura dal senso di responsabilità sul futuro.
Mi ricordo le ultime parole di Robert Louis Stevenson nel suo libro “Jekill e Hyde”: “Il peso e il destino della nostra vita sono legati per sempre alle spalle dell’uomo e, quando si tenta di disfarsene, ci ricadono addosso con maggiore e peggiore oppressione.”
La letteratura è l’unica forma di assicurazione di cui una società può disporre. (…) Sono certo, certissimo, che un uomo che legge poesia si fa sconfiggere meno facilmente di uno che non la legge. (Iosif Brodskij)
Iosif Brodskij
Due discorsi, raccolti nel 1987, su “la condizione che chiamiamo esilio” e “un volto non comune” – scritto per il ritiro, quello stesso anno, del Premio Nobel per la Letteratura – quelli del grande poeta, drammaturgo e saggista russo Iosif Brodskij (1940-1996), in “Dall’esilio”. Poche pagine cariche di messaggi illuminanti, l’importanza dell’arte e della letteratura, che si prendono cura dei propri figli. Si parla anche di esilio, in queste righe (anche perché uno scrittore esiliato si ritira dentro la sua madrelingua e quindi l’esilio è prima di tutto un evento linguistico), ma quello che oggi ci colpisce, anche per la sua drammatica quotidianità, è quanto la scrittura e la lettura, spesso dimenticate o sottovalutate, in realtà contino in società ed esistenze confuse.
La letteratura, secondo Brodskij, è “l’unica forma di assicurazione di cui una società può disporre, l’antidoto alla legge della giungla, l’argomento migliore contro qualsiasi soluzione di massa che agisca sugli uomini con la delicatezza di una ruspa – se non altro perché la diversità umana è la materia prima della letteratura, oltre che costituirne la ragion d’essere”. La letteratura è maestra di finesse umana, migliore di qualsiasi dottrina, e, ostacolando la sua esistenza e l’attitudine della gente a imparare le lezioni che essa impartisce, una società riduce il suo potenziale e mette in pericolo il suo stesso tessuto. L’arte stimola, nell’essere umano il senso della sua unicità, della sua individualità, un’opera si rivolge a un individuo singolo e, in un autentico tête-à-tête, stabilisce con lui rapporti diretti, senza intermediari. La prima e vera funzione dell’arte è, infatti, proprio quella di insegnarci qualcosa sulla “dimensione privata della condizione umana”. Essa porta a dialogo, consapevolezza e riflessione, per questo non è sempre apprezzata “dai paladini del bene comune, dai padroni delle masse, dagli araldi della necessità storica”. E poi l’estetica è la madre dell’etica. Malsana è, dunque, la condizione in cui arte e letteratura sono monopolio o prerogativa di pochi. E poi “se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori, e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe assai meno sofferenza sulla terra. (…) A un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima di ogni cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì osa pensi di Stendhal, Dickens, Dostoevskij. (…) Come polizza d’assicurazione morale, quanto meno, la letteratura dà molto più affidamento che non un sistema religioso o una dottrina filosofica”. Domanda da lettori che si potrebbe fare ai nostri governanti, potrebbe essere un’idea… sorprese garantite.
Prepariamoci al grande evento, i Giardini Estensi, dal 30 aprile al 1 Maggio, a Ferrara. Prima di parlarvi dell’evento (a breve), e prepararci a questa consueta esplosione di colori, arriviamo per gradi, al 23 Aprile. Mancano pochi giorni, infatti, per partecipare a un concorso che, con tanta fantasia e buona volontà potrà portare i fiori su tutti i balconi della città e nelle sue più belle vetrine. Ci sarà spazio per ogni idea e iniziativa.
L’AssociazioneFerrara Pro Art ed Ascom Confcommercio Ferrara, in occasione della rassegna florovivaistica Giardini Estensi 2016, bandiscono il concorso a premi “Balconi e Negozi in fiore” con l’obiettivo rendere più gradevole ed ospitale la città attraverso l’utilizzo dei fiori, in grado di abbellire lo scorcio di una via, di una finestra o di un palazzo.
PARTECIPANTI
Il concorso è aperto alla partecipazione gratuita diresidenti, associazioni e attività commerciali di Ferrara. Sono esclusi dalla partecipazione i membri della commissione esaminatrice e le attività di fioraio o vivaista.
Chi intenda iscriversi al concorso deve presentare istanza redatta su apposito modulo disponibile sul sito www.giardiniestensi.it, da recapitare entro il 1° maggio a mezzo posta (Associazione Pro Art, via Terranuova 41), o e-mail (ferrarainfiore@libero.it), o a mano (sede dell’Associazione Pro Art, o dal 30 aprile al 1° maggio in piazza Castello durante la manifestazione Giardini Estensi).
È ammessa una sola iscrizione per nucleo familiare. È possibile però indicare più balconi della stessa unità abitativa: la valutazione sarà complessiva.
SVOLGIMENTO
Il concorso si compone di due sezioni (è possibile l’iscrizione a entrambe):
Sezione BALCONI IN FIORE (privati): premio al più bel balcone, finestra, terrazza o davanzale fiorito (o altro particolare abitativo esterno).
Sezione NEGOZI IN FIORE (attività commerciali): premio alla più bella vetrina fiorita (o ambito esterno di pertinenza).
Si trattera’ di un allestimento a tema libero con composizione di fiori e piante varie (gerani, edera, petunie, ortensie, begonie, verbena, ecc.) e si svolgerà dal 23 aprile al 1° giugno. I partecipanti devono garantire il mantenimento delle caratteristiche del luogo per tutto il periodo del concorso.
VALUTAZIONE
La valutazione degli allestimenti compete ad apposita commissione costituita da: un architetto o agronomo o vivaista, e da un rappresentante del Comune designato dal Sindaco.
La commissione effettuerà sopralluoghi esterni tra il 5 e il 20 maggio e provvederà, a suo insindacabile giudizio, all’assegnazione dei premi.
La valutazione sarà effettuata in base ai seguenti criteri: Varietà e composizione di fiori e piante, Migliore combinazione dei colori dei fiori (gioco di colori), Originalità e creatività, Inserimento armonioso nel contesto urbano, Qualità dei materiali dei vasi utilizzati.
Vengono premiati i primi 3 classificati di ogni sezione. I premi consistono in cene/pranzi o buoni sconto/omaggio, a cura di Ascom Confcommercio Ferrara, e il loro ritiro avverrà a giugno (data, orario e luogo saranno comunicati ai vincitori a mezzo telefono o internet).
Di nuovo visibili con una mostra a Palazzo ducale,“Xilografie sulla Resistenza”, tredici opere realizzate nel 1955 da importanti artisti italiani e ferraresi per celebrare il primo decennale della Lotta di Liberazione, grazie alla sezione locale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia e al lavoro del Liceo artistico Dosso Dossi.
Armando Pizzinato, Eccidio di Bosco di Cornilio – Appennini 1944 (1955)
La mostra, inserita nel calendario delle cerimonie e delle iniziative di Ferrara per celebrare il 71° anniversario della Liberazione, riporta alla luce la raccolta di incisioni di cui si era persa quasi ogni traccia. Ritrovate nell’autunno del 2015, quando da una vecchia scatola conservata all’archivio Anpi di Ferrara, riaffiorano le tredici matrici realizzate negli anni ’50 dai maestri locali: Rambaldi, Fioravanti, Cavallari e da diversi artisti nazionali: Treccani, Zancanaro, Farulli, Pizzinato, Anderlini, Bartoli, Bussotti, Cavicchioni, Leonardi e Ruffini.
Copertina della raccolta “Xilografie sulla resistenza”
Nel 1955, infatti, la sezione ferrarese Anpi aveva ricordato i dieci anni della fine della Guerra, commissionando i disegni che, qualche anno dopo, nel 1957, sarebbero stati raccolti e commentati, sotto il titolo “Xilografie sulla Resistenza”, da Raffaele De Grada, critico d’arte, ex partigiano e futuro parlamentare comunista. Nei decenni a seguire, le stampe “tirate” per l’occasione erano state via via donate, vendute e col passare degli anni erano andate definitivamente disperse; con esse si era persa anche la memoria delle tredici matrici d’autore. A ricordare la loro esistenza, c’era però la raccolta dell’intera serie a stampa conservata da Giorgio Pancaldi ed esposta alle pareti della propria abitazione, raccolta che rappresenta di fatto l’unica copia autentica delle Xilografie nel 1955. Il ritrovamento delle matrici originali e la disponibilità della collezione Pancaldi hanno così permesso di dar corso al progetto che dal 22 aprile fino al 4 maggio è in mostra nel Salone d’onore della Residenza municipale.
La realizzazione dell’iniziativa, culminata con la ristampa dei tredici disegni d’artista, è stata resa possibile dall’accurato lavoro di un gruppo di allievi del Dosso Dossi di Ferrara, coordinati dalla docente Gabriella Soavi, con la consulenza del prof. Paolo Berretta.
INFORMAZIONI
Sede della mostra: Salone d’onore, Palazzo ducale estense
La mostra è visitabile dal 22 aprile al 4 maggio 2016 dalle ore 9.00 alle ore 18.00, nei giorni di apertura del Municipio. L’ingresso è gratuito.
INAUGURAZIONE venerdì 22 aprile – ore 18.00 Interverranno: Massimo Maisto, vicesindaco, assessore alla Cultura, Annalisa Felletti, assessora alla Pubblica istruzione e formazione, Comune di Ferrara, Fabio Muzi, dirigente scolastico, Liceo linguistico Dosso Dossi di Ferrara, Daniele Civolani, presidente Anpi, sezione di Ferrara
Si è aperta con uno straordinario omaggio a Vittorio Cini (Ferrara 20 febbraio 1885 – Venezia 18 settembre 1977) la nuova stagione della veneziana Galleria di Palazzo Cini a Campo San Vio, casa-museo un tempo dimora del grande mecenate, nella quale sono custodite le raccolte di dipinti toscani e ferraresi già nella sua collezione personale. Fino al 5 settembre 2016 gli spazi del secondo piano presentano i più importanti dipinti veneti provenienti dalla sua vastissima collezione – tra cui capolavori di Tiziano, Lotto, Guardi, Canaletto e Tiepolo – opere che sono esposte al pubblico per la prima volta assieme.
Il percorso espositivo ideato per l’occasione dall’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini, diretto da Luca Massimo Barbero, restituisce attraverso una trentina di capolavori selezionati la qualità di una raccolta d’arte antica tra le più importanti del secolo scorso e ci permette di conoscere meglio la figura e il gusto di Cini collezionista, che – con l’aiuto di consiglieri illustri come Bernard Berenson, Federico Zeri e Giuseppe Fiocco – si assicurò i nomi più rappresentativi della scuola veneta, dal Trecento al Settecento.
La pittura del Trecento e del primo Quattrocento veneto è testimoniata in mostra dalla presenza di una nutrita schiera di artisti: da Guglielmo Veneziano a Nicolò di Pietro, dal Maestro dell’Incoronazione a Michele Giambono. Di quest’ultimo, la cui arte raffinata segna la maturazione del tardo gotico a Venezia (il suo celebre San Cristoforo si trova nella chiesa di San Trovaso), è esposta la straordinaria tavola “San Francesco che riceve le stimmate”. Introduce invece il Rinascimento, la splendida Madonna Speyer di Carlo Crivelli, rappresentativa dello stile originale, nervoso e incisivo, di questo singolare artista veneziano.
Tra le opere in mostra, accanto a lavori di Cima da Conegliano, Bernardo Parentino, Giovanni Mansueti e Benedetto Diana, spicca per importanza e imponenza la “Madonna con il Bambino e i Santi Giovanni Battista e Francesco” (1485 circa) del vicentino Bartolomeo Montagna. Quest’opera cardine della poetica del Montagna – educato sugli esempi di Mantegna, Bellini e Antonello da Messina – considerata uno dei più alti capolavori della pittura del tempo, è poco conosciuta e la mostra offre un’occasione unica per ammirarlo e studiarlo da vicino.
Un posto a sé in questo itinerario attraverso la pittura veneta, occupa l’enigmatico “San Giorgio che uccide il drago” di Tiziano, probabile frammento di una pala commissionata a Tiziano dalla Serenissima nella seconda decade del Cinquecento, è un dipinto intrigante per la storia critica che l’accompagna. Nel corso dell’Ottocento l’opera fu attribuita a Giorgione e nei primi decenni del secolo successivo prima a Palma il Vecchio poi ancora a Giorgione, per poi essere definitivamente restituita al grande Tiziano solo recentemente.
Una sezione della mostra è dedicata alla ritrattistica veneta del Cinquecento con un piccolo nucleo di straordinari ritratti maschili opera di Bartolomeo Veneto e Bernardino Licino. Tra tutti spicca per fascino e notorietà il bel “Ritratto di gentiluomo”, forse Fioravanti degli Azzoni Avogardo, una piccola perla della collezione, eseguito da Lorenzo Lotto.
A fare la parte del leone è però il Settecento, presentato attraverso un trionfo di capolavori dei principali rappresentanti di quel secolo d’oro della pittura veneziana – Canaletto, Antonio e Francesco Guardi – spia del sorprendente e intelligente gusto collezionistico di Cini. Mirabili sono due Capricci di Canaletto, tele di grande formato considerate due dei più celebri capricci giovanili dell’artista: creazioni poetiche che presentano un mondo di fantasia, vedute ideali nelle quali, immersi in una luce calda, emergono fatiscenti ma ancora maestose rovine classiche. In dialogo con le tele di Canaletto sono esposti quattro sublimi Capricci di Francesco Guardi e, ad arricchire il panorama della pittura veneziana del Settecento, due piccoli bozzetti per pale d’altare di Giambattista Tiepolo. Di Antonio Guardi – del quale sono in mostra anche due delle sue famose ‘turcherie’ – sono visibili eccezionalmente tre album di disegni, noti come “Fasti veneziani”: 58 fogli che illustrano fatti della storia di Venezia. Prove grafiche di altissima qualità contraddistinte da un linguaggio stilistico che asseconda la genuina vena rococò del pittore. Lo stesso gusto che ritroviamo nelle tre grandi tele dell’artista, che in origine decoravano un soffitto di Palazzo Zulian a San Felice, che sarà possibile vedere nuovamente dopo molti anni. Tra le prove più alte della pittura decorativa veneziana, le tre tele, raffiguranti Vulcano (il Fuoco), Nettuno (l’Acqua) e Cibele (la Terra), databili al 1757 circa, sono realizzate con una pennellata sciolta e guizzante.
Vittorio Cini è stato uno dei più grandi collezionisti d’arte moderna del Novecento, un uomo votato al culto della bellezza e dell’arte. A testimoniarlo resta la sterminata raccolta di dipinti, sculture, oggetti d’arte decorativa, espressione di un interesse vastissimo per ogni espressione della creatività umana, e i due luoghi che serbano l’immagine più autentica di Cini collezionista: il Castello di Monselice e la Galleria di Palazzo Cini sul Canal Grande, nata nel 1984 grazie alla generosità degli eredi del conte e alla lungimiranza della Fondazione Giorgio Cini.
Resta il doloroso abbandono della casa natale del conte Cini a Ferrara. Un tempo luogo di convegni, mostre, sempre affollato di giovani e sede delle prestigiose biblioteche, ancora ivi conservate, con le collezioni di volumi donate dai direttori che hanno guidato l’Istituto con amore. Quell’Istituto di Cultura “Casa Vittorio Cini” ora non c’è più. La diocesi (a cui l’edificio medioevale era stato affidato) ha preferito farne uno pseudo condominio di ambigue affittanze, cacciando i giovani che la vivevano, chiudendo le preziose biblioteche e alienando le collezioni d’arte. Uno specchio di decadenza del gusto e della cultura, un oltraggio, un’infamia consumata ai danni della città che quel luogo amava. Una violenza diretta alla memoria del grande mecenate, che l’aveva donata a Ferrara, alla cultura e ai giovani, e verso chi in anni trascorsi (come i Padri gesuiti, don Franco Patruno e don Francesco Forini) aveva raccolto collezioni d’arte contemporanea (destinate a diventare un ricco museo patrimonio della diocesi) e riempito quelle stanze con l’ascolto e l’accoglienza del pubblico assetato di conoscenza, ma soprattutto di giovani, vivaci interpreti della ricerca. Siamo nelle mani di persone che probabilmente non hanno consapevolezza di quello che hanno fatto depauperando nei suoi contorni architettonici un bene di così grande levatura e privando la comunità ferrarese di tale ’dono’, del valore delle cose, dell’importanza di conservare ciò che di bello è stato realizzato da persone di grande levatura e che hanno fatto la storia di Ferrara.
Resta lo splendore di Palazzo Cini a San Vio tra le luci e i riflessi di Canal Grande, in una Venezia che accoglie con armonia i suoi visitatori, nel ricordo di chi alla cultura ha creduto veramente.
La notizia è di poche ore fa: Brescello non sarà più noto solo come il paese di Peppone e don Camillo, ma anche come primo comune in Emilia Romagna sciolto per mafia.
Il comune in provincia di Reggio Emilia (la stessa città sede dello storico processo Aemilia che sta mettendo alla sbarra la ‘ndrangheta in Regione) era già commissariato da gennaio, da quando l’ex sindaco Marcello Coffrini si era dimesso dopo la conclusione dell’indagine della commissione prefettizia che ha indagato sulle infiltrazioni mafiose in seno al Comune.
Sullo sfondo: l’inchiesta Aemilia del gennaio 2015 coordinata da Roberto Alfonso, che ha portato all’omonimo processo contro la ‘ndrangheta in Emilia Romagna. E ancora prima, nel 2014, le dichiarazioni di Coffrini su Francesco Grande Aracri, figlio del boss della ’ndrangheta Nicolino, in carcere al 41bis, ai ragazzi dell’Associazione Cortocircuito di Reggio Emilia che stavano svolgendo l’inchiesta “La ‘ndrangheta di casa nostra”. Sindaco di Brescello dal 2014 e prima ancora (dal 2005 al 2014) assessore con deleghe a Urbanistica, Edilizia e Sicurezza, Marcello Coffrini aveva detto su Francesco Grande Aracri, condannato in via definitiva per mafia nel 2008 e considerato dai magistrati uno dei ‘reggenti’ della cosca: “E’ gentilissimo, è uno molto tranquillo… è molto composto, educato, ha sempre vissuto a basso livello. Hanno un’azienda… con cui fanno i marmi… mi fa piacere che siano riusciti a ripartire”. Recentemente è emerso anche che Ermes Coffrini, padre di Marcello e anch’esso sindaco di Brescello per alcuni anni, è stato l’avvocato della famiglia Grande Aracri dal 2002 fino al 2006.
A chiedere al Ministro dell’Interno lo scioglimento del comune in riva al Po, per “il concreto pericolo che ci siano state infiltrazioni mafiose all’interno dell’apparato amministrativo”, era stato il Prefetto di Reggio Emilia, Raffaele Ruberto, al termine dei lavori della commissione di accesso nominata nel giugno 2015 e dopo le consultazioni con forze dell’ordine e magistrati. La commissione (formata dal vice prefetto Adriana Cogode, dal capitano dell’Arma di Castelnovo Monti Dario Campanella e da Giuseppe Zarcone) ha lavorato per mesi negli uffici del comune della Bassa, incrociando dati e documenti. Nella relazione finale, di oltre 300 pagine, si parlerebbe di dipendenti comunali a tempo determinato riconducibili alla famiglia Grande Aracri, di appalti e subappalti ‘sospetti’, di cambi di destinazione d’uso di terreni, soprattutto per quanto riguarda la zona dove, tra gli altri, vive Francesco Grande Aracri.
Il ministro dell’Interno Alfano, valutati gli atti, ha deciso di chiedere al Consiglio dei Ministri lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose e questa mattina il cdm ha deciso in questo senso: è la prima volta nella nostra regione. Ora per Brescello la legge prevede un commissariamento di almeno un anno.
Guarda l’inchiesta dell’Associazione CortoCircuito di Reggio Emilia “La ‘Ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana”
“L’Italia non è un paese normale”, “basta pensare al fatto che tre Presidenti del Consiglio negli ultimi anni sono stati indagati o condannati per fatti gravissimi: Giulio Andreotti, su cui pendeva l’accusa di associazione a delinquere andata prescritta, Bettino Craxi accusato di corruzione e morto latitante o esule che dir si voglia, e Silvio Berlusconi, condannato per frode fiscale”.
Bastano queste parole del magistrato Leonardo Grassi a dare la misura della delicatezza e dell’attualità del tema affrontato nel quarto appuntamento del ciclo “Chiavi di lettura, opinioni a confronto sull’attualità”, organizzato da Ferraraitalia nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea: “Il potere dei giudici: diritto e rovescio dell’intangibilità dei magistrati”.
Grassi è presidente di sezione della Corte d’Assise d’appello del tribunale di Bologna, in passato si è occupato fra gli altri dei casi giudiziari relativi alle stragi dell’Italicus e della stazione di Bologna; insieme a lui, nel ruolo di “provocatore” – come lo ha definito Andrea Vincenzi di Ferraraitalia nell’introduzione al dibattito – Gian Pietro Testa, inviato speciale del Giorno negli anni Settanta, poi all’Unità, ad Avvenimenti, direttore del quotidiano napoletano Senza prezzo, direttore dell’emittente televisiva Ntv, scrittore e poeta.
Alla domanda di Gian Pietro “Chi è il giudice oggi in Italia?”, Grassi ha risposto: “E’ una domanda difficile. I giudici non dovrebbero occuparsi di tutto, dare un contributo alla formazione dell’opinione pubblica, in Italia però la situazione è diversa. Nel corso degli anni c’è stata una sovraesposizione della magistratura, che ha anche esercitato un ruolo di supplenza rispetto al deficit di altre Istituzioni”.
Il rapporto conflittuale con la politica è iniziato per lui “dai tempi dell’arresto di Calvi, negli anni Settanta, perché già allora la magistratura è andata a intaccare gli ambiti di un potere politico distorto”; “il governo dei giudici però non c’è mai stato – ha continuato Grassi – i magistrati hanno governato una serie di processi che hanno avuto un effetto mediatico e anche sul contesto politico contingente, l’esempio emblematico è stato Mani Pulite”. “Ma allora – ha chiesto Testa – come rimettere ordine?”, “Forse non è ancora il momento di mettere ordine, perché non sì è ancora espressa un’onesta intelligenza organizzativa per una riforma organica” del sistema giudiziario italiano. “Quello di cui mi rammarico – ha concluso il magistrato – è che il potere politico non ha saputo affrontare in modo razionale ed efficace i problemi che il lavoro della magistratura portava alla luce. Per questo ci troviamo ancora oggi in un groviglio di situazioni opache”.
Fra i temi sollevati nel corso del pomeriggio anche il dibattito interno alla magistratura su “una gestione costituzionalmente e socialmente orientata” del proprio mestiere e lo spinoso nodo della responsabilità civile dei giudici. Quest’ultima ripetterebbe un principio di equità, ma potrebbe anche essere anche un’arma a doppio taglio, perché da una parte si salvaguarda il principio della responsabilità individuale delle proprie azioni, dall’altra però si introduce un potenziale elemento di pressione sui magistrati, un freno in particolare per le azioni condotte nei confronti di imputati ‘eccellenti’.
Gian Pietro Testa ha dato voce a un’autocritica del giornalismo a questo proposito: “quanto influisce su questo dibattito il giornalismo, che intuisce o ipotizza dove bisognerebbe andare a parare e insiste in quella direzione? Ormai qui si va avanti a forza di scandali, non di problemi”. Secondo Grassi questo è un tema “affrontato spesso con spirito di rivalsa”, mentre l’obiettivo dovrebbe essere “trovare un punto di equilibrio fra le due esigenze di affermare la responsabilità in caso di errore e di salvaguardare il magistrato, pubblico ministero o giudice, da richieste risarcitorie pretestuose”.