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EDITORIALE
Nuovi ‘san Giorgio’ cercansi

Niente di più azzeccato della scelta del coraggio come fil rouge del decimo festival di Internazionale. In questo lo staff dell’ormai celebre kermesse che nei giorni scorsi ha riempito le strade della nostra città è senz’altro da lodare. Il coraggio viene invocato quando ci troviamo in presenza della paura. E infatti basta mettere il naso fuori di casa per saggiare i miasmi pestilenziali di questo atroce nemico che serpeggia in tutta Italia. Il drago della paura.

Una creatura ancestrale, che esiste fin dai tempi dei tempi e che oggi ha assunto volti nuovi. Nei suoi occhi si scorge quel misto di sfiducia e di futilità esistenziale che sta ammorbando il Paese, e insieme a questo, Ferrara. Si potrebbero citare le difficoltà economiche, le incertezze lavorative, gli allarmi ambientali, le liste di attesa per le prestazioni sanitarie, gli asili nido intasati, l’incapacità di figliare (non certo -o non solo- per problemi di orologio biologico, come qualche ministra vorrebbe farci credere). Inutile fare esempi: ognuno ha già impressi nella mente i suoi casi quotidiani. Quali che siano i motivi, l’aria è questa. C’è poco da dire. Ed è così più o meno in tutto il complesso (e perplesso) lembo di terra che va dalle Alpi alla Sicilia.

Il ferrarese doc però pare sicurissimo: a Ferrara la situazione è ‘più’. Siamo più fermi. Più poveri. Più vecchi. Più confusionari. Più vittime dello spaccio. Più vittime della polizia. Più vittime del malgoverno. Più vittime degli immigrati. Più vittime della svalutazione degli immobili. Più pestati dalla storia. Più…
Di fronte a questa visione dei tempi, la risposta in voga in città è una sola: “è sempre andata così”. Si tratta di un condensato concettuale che viene generalmente espresso con il suo corollario di spallucce, scotimenti di capo ed espressioni di saccente scetticismo.

Attenzione però: il mantra sopraindicato si coniuga in due forme di pensiero ben distinte e massimamente diffuse.
Versione numero uno: “è sempre andata (bene) così”. Chi segue questa particolare filosofia avvertirà, al primo barlume di novità, come una certa scomodità esistenziale, un fastidio, un pizzicore. Quindi rifletterà: “Si è sempre andati bene così!”. Dunque perché cambiare? Questo filone del pensiero pubblico è positivo quando è basato sul buon senso, quando si traduce in rispetto delle tradizioni e conservazione delle specificità territoriali. È altamente dannoso invece quando diventa immobilismo. È un pensiero da usare con cautela.

Versione numero due: “è andata sempre così e così andrà nei secoli dei secoli amen”. Certo nei fatti umani la ciclicità è elemento imprescindibile. D’accordo, ma anche qui la moderazione e la temperanza devono guidare. Se si cade nel disfattismo è finita. Come dire: dato che la malattia esiste da sempre, è inutile ora mettersi a cerca una cura. Di qualche cosa si dovrà pur morire, no?

Ad entrambe queste tendenze filosofiche si risponde con il coraggio. Il drago Ferrara se lo è trovato davanti fin dalla sua fondazione, ma ha sempre saputo sperare, attendere un nuovo san Giorgio. Così dice il mito. Ma san Giorgio siamo noi, è la nostra reazione all’impaludamento depressivo. Ognuno di noi può essere oggi il san Giorgio che serve alla città, magari partendo dal suo piccolo.

Noi di Ferraraitalia faremo la nostra parte. Reinvestiremo, ci rimetteremo in discussione. Per noi è tempo di nuove partenze, a quasi tre anni dalla nostra venuta al mondo… virtuale. È vero che per molti versi “andava già bene così”, ma non ci basta. Sto parlando di riorganizzazione dei contenuti, di una nuova redazione, di un’ampliata offerta giornalistica, sempre qualitativamente elevata. Verranno mantenute le penne che hanno fatto grande questo giornale: i professori, gli studiosi, i ricercatori, gli esperti. Non possiamo prescindere da loro: sono la nostra anima perché quello che a noi interessa maggiormente inizia quando l’attenzione degli altri giornali scema. Dopo la scorpacciata di scandali e scoop, e finito il frastuono delle bagarre politiche, noi scegliamo di metterci a guardare dall’alto per scorgere meglio le connessioni, le implicazioni, la reale dimensione degli eventi. A questo stile inconfondibile, vogliamo aggiungere, anche se sarà un’ardua sfida, un gruppo di giovani a cui offrire formazione in campo e da cui speriamo di trarre tutte le energie e le idee che ci servono.

Ferraraitalia continuerà a riservare uno spazio al quotidiano, con notizie, interviste, inchieste, storie, opinioni, ma non solo. C’è il settimanale, con i vari dossier dei nostri esperti sugli argomenti più vari: società, salute, ambiente, cultura, economia. E ancora: partirà un mensile monotematico per fare luce su una problematica o un aspetto sentiti come particolarmente rilevanti. Alcune innovazioni saranno pronte a breve, altre ci impiegheranno più tempo. E una trasformazione che avverrà in corso d’opera. Per il resto si continua con gli appuntamenti fissi delle nostre rubriche, delle stanze (che sono l’originale spazio libero e personale di alcuni autori) e tanto altro. Le visualizzazioni e gli apprezzamenti non solo dall’Italia, ma anche da altre città del mondo, ci rassicurano del lavoro fatto finora.

Ai naviganti della grande rete, ai corsari dell’informazione e a tutti i cacciatori di nuove visioni offriamo un porto sicuro.

L’EVENTO
Una ricerca che protegge tutte le forme di vita

di Eleonora Rossi

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“Non vogliamo fermare la ricerca. Vogliamo promuovere una ricerca che protegga e rispetti tutte le forme di vita”, spiega Gianmarco Prampolini, presidente nazionale Leal, Lega Antivivisezionista, impegnata da 40 anni per una ricerca senza animali.
Il convegno nazionale “Perché è giunto il tramonto della sperimentazione animale” è il biglietto da visita della nuova sezione Leal di Ferrara (www.leal.it).
L’8 ottobre 2016 il Palazzo della Racchetta ha ospitato un’intera giornata di studi, aperta a tutti i cittadini, con oltre 70 partecipanti, organizzato da Leal Ferrara insieme a Riscatto Animale. Nei diversi interventi sono stati messi a confronto “gli aspetti scientifici, etici, giuridici e legislativi della sperimentazione animale”. Il convegno è stato pensato per approfondire questi aspetti con le autorità, le istituzioni e gli istituti di ricerca universitari.
“Abbiamo inaugurato la sezione ferrarese con un evento importante – prosegue Prampolini – che ci offre l’opportunità di entrare nel tessuto sociale della città, abbiamo invitato le istituzioni per avviare un dialogo e vorremmo entrare in contatto con le biblioteche per diffondere le nostre pubblicazioni scientifiche. La sensibilità nei confronti degli animali è diffusa, ma c’è molto ancora da fare per cambiare la mentalità e non lasciare più spazio alle strumentalizzazioni”.

“Un convegno per aprire le coscienze”, lo definisce Stefania Corradini, responsabile della sezione Leal di Ferrara dal 4 luglio 2016, attivista e volontaria; sue collaboratrici Beata Stawicka e Anna Barbieri, moderatrice del convegno. Per Stefania Corradini “molti non conoscono il problema. Ma non è semplice farsi ascoltare e scuotere l’indifferenza”. Da qui l’esigenza dei volontari di una giornata di riflessioni e analisi, dati e video alla mano, “per dimostrare come l’abbandono della sperimentazione animale non sia soltanto possibile, ma doveroso. Esiste una ricerca che non fa uso di animali ormai consolidata, scientificamente valida, innovativa ed etica, per la quale Leal e Riscatto Animale chiedono sostegno e implementazione”.

Dopo un’introduzione di Gianmarco Prampolini e Claudia Corsini, presidente di Riscatto Animale, la mattinata ha visto l’intervento di Bruna Annamaria Monami, vicepresidente LEAL, che ha illustrato “Il valore dell’etica nel tempo della Sperimentazione Animale”, evidenziando la “contrapposizione tra i termini ‘vivisezione’ e ‘sperimentazione’, sottolineando l’“urgenza di un cambiamento che metta d’accordo etica e scienza e protegga ogni forma di vita”. La Monami ha lanciato un appello “perché nessuno dimentichi mai quello che succede ogni giorno nei laboratori di tutto il mondo”.
Yuri Bautta, responsabile del settore Vivisezione di Lav Modena, ha portato la sua testimonianza: “I Macachi di Modena: una battaglia vinta”. Attraverso un’azione diplomatica durata anni, con manifestazioni, banchetti informativi, raccolta di firme, flash mob e un tavolo di confronto che ha coinvolto gli amministratori, i cittadini e la stampa, si è riusciti ad affermare una prospettiva diversa: “La nostra proposta è stata quella del superamento degli esperimenti sui primati. Alla fine di questa battaglia, nella primavera del 2015 l’Università si è arresa, accettando la chiusura dell’esperimento e la cessione di tutta la colonia di Macachi”.
Oriano Perata, dirigente medico di Chirurgia Generale dell’ospedale Santa Corona-Pietra Ligure si è soffermato sui “Test su animali in chirurgia”: “Le esercitazioni chirurgiche su animali non umani sono inutili, dannose e fuorvianti per la formazione dei chirurghi – ha osservato Perata -. Le reazioni degli animali non umani sono diverse e quindi prive di predittività per la specie umana. Abissali le differenze anatomiche, le complicanze intra e perioperatorie, differente la fisiologia e la fisiopatologia d’organo e sistematica tra gli animali e l’uomo. Fondamentali per la formazione dei chirurghi le esercitazioni su cadavere umano specie se inserito in un sistema di Cec, un sistema di Circolazione Extra-Corporea, che sostanzialmente riproduce le condizioni operative in vivo”. Ha riportato l’esempio del “Progetto Penco BioScience ONG” che prevede si possa studiare e testare su cellule e tessuti umani, e non su animali, per una ricerca dedicata alla specie umana”. La biologa Susanna Penco, ricercatrice all’Università di Genova, obiettrice di coscienza, ha apportato il suo contributo via Skype.
Marco Mamone Capria – matematico ed epistemologo dell’Università di Perugia e presidente della Fondazione Hans Ruesch -: nel suo intervento “Come (non) è finita l’iniziativa Stop Vivisection” ha descritto alcuni aspetti di tale iniziativa “nel contesto della critica della ricerca biomedica degli ultimi decenni, sottolineando alcuni insegnamenti che se ne possono trarre sul rapporto tra cittadini, associazioni e governi”. 
 L’avvocato David Zanforlini, del Foro di Ferrara e presidente nazionale dei Centri di azione giuridica di Legambiente, ha sviluppato il tema “Forse che gli animali hanno diritti?” attraverso un excursus legislativo dal Codice Civile al Codice della Strada, passando per il Trattato di Lisbona e la Costituzione, per arrivare ad affermare che “nel momento in cui si riconosce la qualifica di ‘essere senziente’ ad una forma di vita animata e se ne dichiari la tutela del suo benessere, cioè il suo diritto a stare bene, questo soggetto diventa titolare del diritto di vedere rispettata la sua sensibilità, a fronte del nostro dovere di rispettare gli animali non umani”.
Ha chiuso il convegno Paolo Bernini, onorevole del Movimento 5 Stelle; nel suo intervento: “La politica delle gabbie vuote e dei metodi sostitutivi” ha riportato i motivi dei “no” alla ricerca sperimentale sugli animali, la sua “pericolosità per l’uomo”, descrivendo “qual è la posizione della bioetica” e richiedendo “l’implementazione dei metodi sostitutivi alla sperimentazione animale”; pur “NON sostituendo la sperimentazione, obiettivo al quale dobbiamo puntare non solo per ragioni etiche, ma soprattutto per il vero progresso della scienza medica”.
Leal ha sostenuto Stop Vivisection e dal 1981 finanzia borse di studio per una ricerca con metodi sostitutivi. Ma “i metodi sostitutivi non godono di sufficienti sussidi che permetterebbero uno sviluppo tale da eliminare la vivisezione”.

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“Lo scopo dell’intero movimento di cui faccio parte dal 1975 è educare la popolazione: non si possono cambiare le cose se l’opinione comune è che gli animali servano per la ricerca e l’alimentazione”, ha spiegato Bruno Fedi, professore di Urologia, primario anatomopatologo, referente scientifico di Leal. “Credo senza presunzione di aver dato una svolta in senso scientifico al movimento animalista, con osservazioni genetiche e di tipo evoluzionista, oltrepassando l’interpretazione pietista e filosofica. La società deve totalmente cambiare prospettiva, adottando il punto di vista scientifico e globale”. Nel suo intervento “Vivisezione, Animalismo e Società” il professor Fedi ha sottolineato la necessità di una svolta anche in senso sociale, auspicando il superamento del principio “antropocentrico”, che vede l’uomo “misura di tutte le cose”.
“Questo principio ha generato una società competitiva, che è stata importante per il nostro successo biologico (insieme all’empatia), ma, attualmente, ci sta portando ad un mondo invivibile, al suicidio climatico. Dobbiamo sostituire i principi fossili ancestrali ed edificare una società che superi il sessismo, il razzismo, lo ‘specismo’. Non la società competitiva, ma la società fraterna”.

IL LIBRO
Luisa Bartolucci presenta il suo secondo libro “Guide a quattro zampe”

Quante volte abbiamo letto che in un ristorante o in un albergo è stato negato l’ingresso a una persona cieca solo perché accompagnata dal proprio cane guida? La cronaca italiana non è priva di storie simili, che mostrano come a volte non si abbiano scrupoli a negare la normalità a un individuo solo a causa della sua condizione.

Luisa Bartolucci, già autrice de “Le domande le faccio io”, ha presentato in questi giorni presso Occhiali D’Oro (in via Contrari 9 a Ferrara) il suo secondo libro “Guide a 4 zampe”, iniziativa organizzata dall’Unione per Ciechi di Ferrara con il patrocinio del Comune di Ferrara. Trentuno interviste e due storie, per capire le difficoltà, ma anche la bellezza della vita simbiotica di chi si affida ad un cane guida.

” Il progetto –  racconta l’autrice – è nato in un modo un po’ strano, così com’è stato per il mio primo libro. Io ho sempre scritto e realizzato interviste per l’Unione dei Ciechi e degli Ipovedenti e in passato ho frequentato il primo e unico corso di giornalismo realizzato per persone non vedenti. Non era mio grande interesse quello di raccogliere storie, ma alcuni episodi mi hanno indotto a farlo. Il primo libro, che era una raccolta di interviste fatte a personaggi del mondo dello spettacolo o della letteratura, decisi di scriverlo perché erano stati tagliati i fondi al Centro Nazionale del Libro Parlato e avevo voglia di dare un aiuto concreto. Nel caso di questo secondo volume, invece, le motivazioni sono state due. Da un lato ero venuta a conoscenza della situazione economica di una delle scuole per cani guida italiane, la scuola triveneta di Selvazzano, in provincia di Padova, a cui sto destinando i ricavati del libro. Dall’altro mi ha invogliato a scrivere la constatazione che ancora oggi si fa fatica ad andare in giro con la propria guida a quattro zampe, perché non ti fanno entrare nei locali, nei ristoranti, oppure non puoi usufruire dei taxi perché i tassisti non vogliono cani a bordo. C’è una legge che stabilisce che i cani guida possano entrare in ogni esercizio pubblico ma, anche se è prevista una multa, c’è ancora chi non la rispetta”.

Il cane guida per un non vedente è un vero e proprio strumento di autonomia, oltre che un incredibile compagno, eppure in Italia si fatica a comprendere che, rifiutando l’ingresso dell’animale, si limita fortemente la libertà del proprietario. Le interviste e le storie presenti nel libro, però, non sono tutte italiane, hanno partecipato anche francesi, spagnoli, americani e tedeschi.
“Non è un problema tutto italiano, ma indubbiamente da noi ci sono delle criticità maggiori. Per esempio, all’estero il cane guida è meglio conosciuto, invece, nel nostro Paese, nonostante tutte le campagne di sensibilizzazione, le persone non ne sanno molto. Qualcuno ci raccontava che gli è capitato di sentire che il proprio cane è stato scambiato per un cane di salvataggio o per un cane antidroga. Quando avevo il cane guida ricordo che dicevano di tutto e di più, non era mai associato al suo vero compito. È emerso quanto ancora sia difficile, anche all’estero, vivere la quotidianità con il proprio cane guida. Un denominatore comune è il problema dei taxi. Noi a Roma abbiamo il più alto tasso di tassisti allergici. Quando vogliono che il cane non salga trovano questa motivazione”.

Nel libro non sono presenti tecnicismi, non viene spiegato come si addestra un cane guida e quali esercizi vanno fatti, ma sono raccolti dei consigli su come gli altri devono comportarsi in presenza di un cane al lavoro, che non può essere distratto dal compito che sta svolgendo. I cani, però, sono animali estremamente intelligenti e non tutti sono remissivi.
Qual è il racconto che più ti ha divertito?
“Mi viene in mente la storia che mi ha raccontato un tedesco. Uno dei suoi cani guida era una vera e propria femmina alfa e gli giocava anche degli scherzi. Una volta, per esempio, si è nascosta in un cespuglio e lui non riusciva a ritrovarla. Un’altra volta, invece, era stata rimproverata per averlo fatto sbattere contro un erogatore di tagliandi per i parcheggi. Lei, centro metri dopo, l’ha mandato nuovamente contro un secondo erogatore, si è voltata e gli ha poggiato il muso sul ginocchio come per ricordare che lì comandava lei”.

Il libro è disponibile su diversi formati, dal cartaceo al libro parlato, per cui Luisa Bartolucci si batte da tempo. Secondo alcuni dati, risulta che le persone ceche leggano molto di più di chi è normodotato, ma devono aspettare che il libro venga prodotto per loro, con dei ritardi anche di diversi mesi.
“Ricordo quando uscì il “Codice Da Vinci”, di cui tutti parlavano, noi riuscimmo a leggerlo dopo sei, sette mesi. Siamo stanchi di questa situazione, soprattutto considerando che l’Italia deve ancora ratificare il trattato di Marrakech (per facilitare l’accesso ai testi per le persone cieche, con incapacità visive o con altre difficoltà ad accedere al testo stampato). I libri sono pubblicati continuamente e se le case editrici non mettono a disposizione il formato elettronico dobbiamo supplire con le nostre strutture. Ci sono degli autori particolarmente sensibili che, in accordo con la casa editrice, ci hanno fornito il testo in anticipo, permettendo l’uscita delle diverse edizioni lo stesso giorno, ma sono eccezioni”.

“Guide a quattro zampe” è rivolto a tutti, perché anche chi non ha mai visto un cane guida possa capirne l’importanza, senza esserne diffidente, perché non si limiti il suo accesso nei luoghi consentiti. Quale vuole essere il messaggio del libro?” Attraverso queste storie vorrei che passassero due concetti diversi. Il primo rivolto ai cechi e agli ipovedenti, per sottolineare che, anche nelle nostre metropoli, con il cane guida si può! In secondo luogo vorrei che si capisse che si deve essere accoglienti nei confronti del cieco e del suo cane guida, che ci consente di essere autonomi e di vivere una vita il più normale possibile. Rifiutando il cane rifiuti anche me”.

Palazzo Massari, al via i lavori di recupero e restauro della Galleria d’Arte

E’ dalla notte del terremoto del 20 maggio 2012 che le luci del Palazzo Massari sono spente. L’edificio tardo-cinquecentesco, inagibile a causa del sisma e svuotato delle preziose collezioni d’arte in esso contenute, è rimasto, per oltre 4 anni, chiuso al pubblico in attesa che fosse possibile dare inizio agli ingenti lavori di consolidamento e restauro di cui necessitava.
Il momento è finalmente arrivato: dal 3 ottobre 2016, infatti, verrà aperto il primo dei due cantieri necessari per portare il Palazzo Bevilacqua-Massari, e l’adiacente Palazzina Cavalieri di Malta, all’antico splendore. Nel corso della conferenza stampa tenutasi questa mattina, presenti il vice sindaco e assessore alla Cultura Massimo Maisto, l’assessore ai Lavori Pubblici Aldo Modonesi, il capo settore Opere Pubbliche e Mobilità  Luca Capozzi, la dirigente del Servizio Gallerie Arte Moderna e Contemporanea Maria Luisa Pacelli e Raffaela Vitale del Servizio Beni Monumentali-Centro Storico, è stato presentato il progetto di riparazione e miglioramento strutturale post sisma, riguardante i due palazzi storici. Come spiegato dall’Assessore alle Opere Pubbliche Aldo Modonesi: “Attraverso i fondi stanziati dalla Regione Emilia Romagna, nel programma delle Opere pubbliche e dei beni culturali danneggiati dagli eventi sismici del 20 e 29 maggio 2012, e quelli messi a disposizione dall’Amministrazione Comunale, è stato elaborato il progetto di miglioramento sismico,la cui conclusione è prevista per il 17 gennaio 2018”.
I lavori, affidati all’impresa Emiliana Restauri Soc.Coop. di Ozzano Emilia, in provincia di Bologna, avranno un costo complessivo di 1.610.663,26 euro e permetteranno di portare a termine gli interventi di tipo strutturale indispensabili a rendere nuovamente agibili i due palazzi danneggiati dal sisma del 2012. Come spiegato dall’architetto Raffaella Vitale, i lavori saranno divisi in due lotti. Il primo avente ad oggetto l’opera di consolidamento strutturale, il secondo, che verrà avviato una volta conclusosi il primo, di abbellimento e riorganizzazione delle collezioni artistiche prima ospitate all’interno del Palazzo Massari. “Nelle intenzioni del Comune – afferma il vice sindaco Maisto – c’è sia quello di ricostituire la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, i cui percorsi museali verranno sviluppati all’interno del Palazzo Massari e della Palazzina Cavalieri di Malta, sia la creazione di nuove sale studio e per la didattica”. Atro elemento di novità, rispetto al recente passato, è il ripristino di un collegamento tra i palazzi storici e l’adiacente Parco Massari. “A volte i musei stentano a richiamare un pubblico di visitatori adeguato – spiega Maria Luisa Pacelli – in questo senso un collegamento con il vicino parco permetterebbe di rendere questo luogo un posto dinamico e richiamerebbe una maggiore affluenza cittadina. Stiamo quasi implodendo dalla voglia di mettere in atto le diverse idee volte a valorizzare al meglio la Galleria d’Arte”.
Gli abitanti di Ferrara potranno inoltre monitorare lo stato dei lavori attraverso una postazione fissa “Per gli umarells 2.0.”, ironizza l’assessore Modonesi.
Appuntamento nel 2018 per poter nuovamente ammirare la magnificenza delle sale del Palazzo Massari e dei suoi capolavori d’arte.

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Referendum: realtà o finzione?

Quanto è importante occuparsi del prossimo referendum costituzionale? Forse tanto, perché, come dice qualcuno, la luna potrebbe uscire dall’orbita terrestre a seconda dell’esito. O forse poco, perché in fondo si sta cercando di cambiare una Costituzione già disapplicata nella maggior parte dei suoi articoli, anche di quelli fondanti e fondamentali.

In ogni caso bisogna prendere atto che siamo già stati catturati dall’argomento e catapultati nella campagna elettorale, complice anche la personalizzazione che questo Governo ha voluto dare all’evento. E che quindi gli schieramenti sono già pronti e hanno cominciato a darsi battaglia.
Da una parte e dall’altra insigni costituzionalisti o semplici giuristi, parlamentari navigati o semplici militanti di partito, industriali e grande finanza oppure semplici cittadini, per finire agli operai e ai volontari, si stanno già affrontando nelle pubbliche piazze, nei giornali o negli spot pubblicitari, tra l’altro in molti casi offensivi della comune intelligenza.

Su Micromega l’ex parlamentare comunista Raniero La Valle scrive un resoconto molto ben dettagliato sulla truffa del referendum e ricorda che cosa c’è in ballo nel mondo mentre noi giochiamo con la Costituzione. Profughi da sistemare, guerre sempre più cruente, una catastrofe ambientale che incombe ed economie nazionali in affanno.
E poi, che avremmo bisogno di capire come dare da mangiare a 7 miliardi di persone, come affrontare la speculazione finanziaria, come approcciarsi nei confronti di ambigui dittatori, uno come il turco Erdogan per esempio. E come dimenticare, inoltre, la crescita zero, la disoccupazione troppo alta, il futuro offuscato dei nostri giovani e via di questo passo.

Del resto anche Paolo Barnard, che solitamente capisce prima degli altri le cose, ci ricorda a modo suo e dal suo blog che la nostra Costituzione è già stata superata con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che ne ha sancito la sudditanza, che non possiamo più decidere sulla legge di bilancio senza il parere di Bruxelles e che gli interessi della UE vengono prima di quelli italiani. Abbiamo perso qualsiasi discrezionalità su spesa e tassazione già prima, e senza bisogno, del referendum. Ad oggi, scrive Barnard, gli art. 4, 11, 35, 36, 41, 42, 43, 47, 54, 87, 81, 90, 97, 98, 100, 117 e 134 sono già diventati carta straccia.

Personalmente affronto l’argomento referendum per strati. Trovo assolutamente fondato quanto scritto da altri e riportato sopra, cioè sapere davvero cosa stiamo affrontando, almeno quanto trovo fondamentale imparare ad esercitare la nostra capacità di intervento nella cosa pubblica ogni volta che ce ne viene concessa l’occasione. Bisogna imparare a non distrarsi e dare segnali di discontinuità. Ma capire anche che se ci si impegna per il No, e questo vince, sarà solo l’inizio e avremo ben poco da festeggiare.

E per dare un contributo e un senso a quanto affermato voglio parlarvi di un documento che si chiama “5 Presidents report”, il sottotitolo è “Completare l’Unione monetaria ed economica dell’Europa” https://ec.europa.eu/priorities/publications/five-presidents-report-completing-europes-economic-and-monetary-union_en. Si tratta di una relazione scritta da Jean-Claude Junker con l’aiuto di Donald Tusk, Jeroen Dijselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz, ovvero, nell’ordine, dal Presidente della Commissione Europea, dal Presidente del Consiglio Europeo, dal Presidente dell’Eurogruppo, dal Governatore della BCE e dal Presidente del Parlamento Europeo. Tutti i Presidenti delle Istituzioni europee che fanno la vera differenza nella qualità della nostra vita, e la fanno già, a prescindere dall’esito del referendum costituzionale di dicembre, tant’è vero che già ragionano e scrivono come se la nostra Costituzione non esistesse.

Questa relazione indica le priorità dell’Unione Europea, cioè cosa deve essere fatto nei prossimi anni perché l’Unione Economica e Monetaria diventi sempre più stringente tra i Paesi aderenti, in particolare tra quelli che hanno adottato l’euro. Sono appena 26 pagine, quindi facili da leggere, e tra esse ogni tanto si parla di “decisioni legittimate democraticamente” ma non si spiega mai come questo debba avvenire.
Anzi, l’Unione Politica, che pur si auspica, è solo l’ultima delle fasi, che viene dopo il raggiungimento di una Unione Economica autentica, e quindi i Paesi siano strutturalmente uguali, che si sia completata prima l’Unione Finanziaria, cioè la condivisione dei rischi tra pubblico e privato, e dopo, ovviamente, l’Unione di Bilancio, cioè che sostenibilità e stabilizzazione del bilancio siano ormai una realtà.
L’unione Politica, che chiunque metterebbe al primo posto perché prima di tutto bisognerebbe condividere ideali e visioni di vita, viene relegata all’ultimo posto, a sostegno dell’idea che ormai la Politica nulla conta rispetto al dio denaro e al potere finanziario. In ultimo, e solo dopo che la Grecia sia diventata strutturalmente uguale alla Germania, cioè dopo che molti Paesi da unire siano stati definitivamente trasformati in qualcosa di nuovo e diverso, non richiesto dalle loro popolazioni.

Di questi giorni è la notizia della vendita, proprio in Grecia, delle compagnie di acqua ed energia elettrica, oltre ad un ulteriore taglio delle pensioni. Eventi che seguono la vendita a società tedesche di aeroporti e altre aziende strutturali di quel Paese. Questa è la sintesi della convergenza strutturale degli Stati europei.
Quale Costituzione potrebbe permettere tutto questo? Domanda retorica e quindi si capisce perché bisogna cambiarle, mentre nel pratico sono già state superate dai fatti, grazie all’incapacità dei nostri rappresentanti politici che solo a parole perseguono i nostri interessi.

Lo step dell’Unione Finanziaria raccomanda invece la condivisione dei rischi tra pubblico e privato. Prendere il caso CARIFE e allargarlo all’Europa per una più corretta comprensione, lo Stato che non deve intervenire a sostegno dei cittadini. Qui la curiosità sarà vedere come la Germania si comporterà con il caso Deutche Bank visto che già in passato non ha lesinato aiuti alla sue banche. Del resto, i forti fanno quello che vogliono mentre i deboli devono attenersi alle loro regole.
Il sistema dei 5 Presidents dovrà essere però sostenibile, cioè sostenuto dai pareggi di bilancio e dall’assenza di deficit pubblico.
In pratica lo Stato dovrà occuparsi solo di mantenere il pareggio di bilancio e non spendere in eccesso rispetto alle entrate. Anche se si trattasse di spendere per costruire ospedali e scuole o dare servizi, pensioni e lavoro se non coincidenti con le necessità degli interessi finanziari della futura Unione Europea, l’imperativo è “tenere i conti a posto”.

Addirittura viene prevista un’Autorità per la Competitività, giusto per rendere chiaro che nel recinto gli ossi saranno sempre scarsi e che per emergere bisognerà mordere e lottare, come nella giungla. Magari in un mondo perfetto si sarebbe pensato ad un’Autorità per la condivisione e la cooperazione o per lo sviluppo economico equo e solidale tra i Paesi aderenti.Questo per permettere uno sviluppo armonico tra Paesi con caratteristiche differenti, più o meno forti, più o meno votati all’export o al mercato interno, insomma a compensazioni date le differenze strutturali tra Germania e Grecia o Portogallo o Italia. Ma questo solo in un mondo perfetto ovviamente, non nell’Europa a trazione teutonica, dove il più forte plasma gli altri e se questi non ce la fanno, debbono arrangiarsi oppure perire.

Ecco, in Europa le Costituzioni degli Stati sono già defunte, già superate, ben prima di eventuali referendum o scelte dei cittadini. In Europa già si parla della trasformazione degli Stati, della convergenza verso standard utili pur sempre a pochi, perché i popoli europei, di certo, non hanno alcuna convenienza nell’adottare questi standard economico-finanziari avulsi dalle reali esigenze umane.
Ma tant’è, nessuno se ne sta preoccupando, rincorriamo con un Sì o un No qualcosa che di fatto non esiste già più, mentre dovremmo concentraci su chi ci sta distraendo dai veri problemi, dall’origine dei nostri mali.

E cosa fare allora, restare a casa il 4 dicembre? Non credo proprio!
Si vada a votare, ma con spirito critico, senza pensare che sia davvero determinante per il nostro futuro. Con la giusta consapevolezza però, sapendo che la vittoria del Sì legittimerebbe ancor di più questo tipo di report e di volontà sovranazionali. Ma anche che un No poco informato non cambierebbe realmente le cose, non bloccherebbe i piani della grande finanza internazionale e di quelli che già da anni, ignorando le Costituzioni democratiche dei popoli, modificano il tenore delle nostre vite.

Per il testo del Report https://ec.europa.eu/priorities/publications/five-presidents-report-completing-europes-economic-and-monetary-union_en
Per la relazione di Raniero La Valle http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-verita-sul-referendum/
Per il Blog di Paolo Barnard http://paolobarnard.info/

INTERVENTI
Una questione di scelte

Caro Direttore,

pur essendo tendenzialmente orientata a votare no al prossimo referendum costituzionale, alcune inopportune iniziative e dichiarazioni mi fanno venir voglia di starmene a casa.
Lasciando da parte la parte la terribile minaccia del del professor Zagrebelsky, “Se vince il sì smetterò di insegnare”, che ha gettato nella costernazione milioni di italiani, vorrei portare l’attenzione sul fatto che l’Anpi ferrarese ha invitato il 10 novembre Gaetano Azzariti, nipote di quel Gaetano Azzariti il cui busto troneggia nel salone d’onore della Corte Costituzionale (di cui fu primo presidente), nonostante le vivaci proteste di molti studiosi e delle comunità ebraiche perché, durante il regime fascista, fu presidente anche del Tribunale della Razza.
Intendiamoci, non vi è responsabilità nell’essere nipoti di qualcuno; però nel difenderne l’operato, contro ogni evidenza, vi è certamente una colpa da non trascurare.
Gaetano Azzariti, con mille cavilli e con ragionamenti speciosi, ha scritto un lungo articolo sul “Corriere della Sera” del 15 aprile 2015 per dire, in sostanza, che il nonno commise un erroruccio, che il Tribunale della Razza non aveva compiti operativi e che, tutto sommato, Gaetano Azzariti senior dovrebbe essere ringraziato perchè cercò di limitare i danni.
Insomma, alla fin fine, il busto può rimanere dov’è e se il defunto Azzariti commise il piccolo errore di accettare l’incarico di presiedere il Tribunale della Razza – ben remunerato, aggiungo io – non possiamo certamente condannarlo senza appello perchè bisogna tener conto del contesto storico, delle sue benemerenze successive, eccetera, eccetera (leggi qui).
Chiedo pubblicamente ad Anpi a non invitare Gaetano Azzariti a Ferrara, a meno che lo stesso non firmi l’appello per rimuovere il busto del nonno che fa bella (si fa per dire) mostra di sè alla Consulta.
Trovo inaccettabile che Gaetano Azzariti (quello vivente) venga a dottoreggiare e a darci lezioni di democrazia, dipingendo Renzi come un affossatore delle istituzioni, quando – contro ogni buon senso – ha voluto difendere la scelta del nonno, per me immorale e inescusabile, di presiedere il Tribunale della Razza, con le indennità e gli onori del caso. Spero che l’Anpi ritorni sui suoi passi ed eviti a Ferrara una presenza a dir poco inopportuna.

Paola Ferrari

TEDxBologna 2016, attese 1000 persone al teatro Comunale

Da: Organizzaotori

Un nuovo appuntamento a tema Transition per TEDxBologna 2016, che da quest’anno si sposta al Teatro Comunale. Quattordici nuovi punti di vista: dallo psicologo, all’artista, dall’economista al filantropo, insieme per parlare di come modificare le proprie esistenze cambiando prospettiva di pensiero.

Bologna: Arrivati alla sesta edizione, TEDxBologna annuncia il tema del prossimo evento: Transition, con le seguenti sessioni caleidoscopoio, focus, resilienza, che si svolgerà sabato 22 Ottobre presso il Teatro Comunale di Bologna, un appuntamento che si prospetta già ricco di contenuti interessanti.

Saliranno sul palco relatori d’eccezione, a partire da Simone al Ani, performer di manipolazione dinamica già vincitore di Italia’s got talent, passando per Stefano Zamagni, membro della pontifica Accademia delle Scienze, Giovanni Castelli fondatrice dei ‘i bambini dharma’, il direttore di Ashoka, Alessandro Valera, lo psicologo Luca Mazzucchelli, e molti altri ancora. Come ci racconta il curatore di TEDxBologna, Andrea Pauri, la scelta del tema della transizione nasce: “dall’esigenza sempre più attuale di discutere dei cambiamenti che viviamo come società e individui, momenti pieni di incertezze e di dubbi, perché le scelte a cui siamo sottoposti possono cambiare il piano prospettico delle nostre stesse esistenze, soprattutto in una società “liquida” e mutevole come la nostra’.

Le tre sessioni che compongono l’evento sono declinate come metafora del processo di transizione: l’esigenza di scegliere di fronte ad un caleidoscopio di possibilità, l’importanza di mettere a fuoco il presente, e la capacità di adattarsi in maniera resiliente al cambiamento. TEDxBologna 2016 sarà dunque una giornata interamente dedicata alle esperienze e alle idee di donne e uomini che hanno saputo cogliere i cambiamenti sociali, economici ed individuali che stiamo vivendo, come un’opportunità per migliorare il mondo che ci circonda.

I biglietti sono disponibili sul sito www.boxol.it/TEDxBologna/it/event/tedx-bologna/170557

IL LIBRO
All’Ibs, il critico Sgarbi e il costituzionalista Ainis: “L’identità nazionale italiana è la bellezza”

La bellezza è costitutiva dell’identità della nostra nazione, perciò non può che permeare di sé la nostra Costituzione. In queste poche parole sta il senso dell’operazione culturale del libro “La Costituzione e la Bellezza” (La nave di Teseo), scritto a quattro mani dal costituzionalista Michele Ainis e dal critico Vittorio Sgarbi, entrambi presenti alla presentazione di ieri pomeriggio all’Ibs-Il Libraccio di Ferrara.

La copertina di La Costituzione e la Bellezza
La copertina di La Costituzione e la Bellezza

Probabilmente, ciò che a molti rimarrà più impresso dell’evento è la lunga attesa in piedi fra la calca all’ultimo piano di Palazzo San Crispino (non c’era più un posto libero fin dalle 18, mezz’ora prima dell’inizio previsto) e il fatto che Sgarbi sia arrivato in forte ritardo, come in fondo vuole il personaggio dell’impertinente critico d’arte, al contrario del puntuale e pacato giurista Ainis. Tuttavia ha avuto ragione il professor Pugiotto nella sua presentazione quando ha definito entrambi: “liberi, liberali, libertari, si può essere in disaccordo con loro, ma le loro argomentazioni sono sempre e comunque cibo per la mente”.
Entrambi con ottime capacità di oratori e divulgatori, Ainis e Sgarbi hanno dato un piccolo assaggio di quello che si può trovare nel volume: un inedito commento letterario e illustrato alla nostra Costituzione in sedici capitoli – uno per ciascuno dei dodici princìpi fondamentali e dei quattro titoli in cui si articola la prima parte della Carta – in un continuo gioco di rimandi dalla bellezza della Costituzione a quella del patrimonio culturale italiano, a volte addirittura scambiandosi di ruolo, con Sgarbi che chiosa gli articoli e Ainis che suggerisce artisti e autori, per far capire che proprio no, l’una senza l’altra non è possibile.
E allora è apparso chiaro come non sia un caso che nel titolo bellezza e Costituzione abbiano entrambe la lettera maiuscola: “in questo libro – spiega Ainis in attesa del co-autore Sgarbi – la bellezza non è un concetto retorico e non ha nemmeno a che fare solo con l’estetica. Ciò che abbiamo cercato di dire e far emergere è che l’estetica contiene, è intrinseca all’etica”.
A un certo punto è stata citata la proposta della senatrice Sel Pellegrino, che vorrebbe aggiungere all’ articolo 1 proprio un comma sulla bellezza: “La Repubblica Italiana riconosce la bellezza quale elemento costitutivo dell’identità nazionale, la conserva, la tutela e la promuove in tutte le sue forme materiali e immateriali: storiche, artistiche, culturali, paesaggistiche e naturali”. “La voterei subito – ha affermato Sgarbi – anzi, se fosse per me, la farei ancora più breve: l’Italia ha la propria identità nella bellezza”.

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“Il quarto stato”, Giuseppe Pellizza da Volpedo

Il critico ferrarese però confessa anche di essere molto restio a ritoccare il primo articolo della Costituzione, di cui dà una lettura originale: “non si può modificare perché esprime l’emancipazione della donna. Lavoro significa non dipendere, poter decidere autonomamente”. Ed ecco perché per illustrare l’articolo 1 ha scelto “Il quarto stato” di Pellizza da Volpedo: “è il primo quadro del Novecento e apre la strada a quello che, quarantacinque anni dopo, sarà il primo articolo della Costituzione”, “è l’umanità che ci viene incontro, è come una Scuola di Atene di Raffaello, in cui però l’umanità non vuole dimostrare il proprio sapere, ma conquistare diritti sociali”, uomini e donne insieme.

Madonna della Misericordia, Piero della Francesca
Madonna della Misericordia, Piero della Francesca

Piuttosto insolita anche la lettura dell’articolo 3 sull’uguaglianza dei cittadini: questo comma “è di un’ipocrisia pazzesca”. Secondo Sgarbi è “molto più sincera, a questo proposito, la Costituzione della Repubblica Romana del 1849, che recita: “la Repubblica promuove lo sviluppo morale e materiale dei cittadini”, dando per assodata una disuguaglianza di partenza”. Per questo articolo l’opera prescelta è la “Madonna della Misericordia” di Piero della Francesca, che accoglie a braccia aperte i credenti sotto il proprio mantello: “è la rappresentazione più chiara che ciò che non è uguale fra gli uomini lo è davanti a Dio, dato che non abbiamo giustizia in terra, non ci resta che sperare che ce la dia Dio”.

Uno degli elementi che fanno la bellezza della nostra Carta è senza dubbio la sua semplicità di linguaggio perché i Padri costituenti la volevano il più inclusiva e partecipativa possibile, come dimostra anche l’ultima disposizione transitoria: “Il testo della Costituzione è depositato nella sala comunale di ciascun Comune della Repubblica per rimanervi esposto, durante tutto l’anno 1948, affinché ogni cittadino possa prenderne cognizione”.
“Questa semplicità – ha spiegato Ainis – è stata ottenuta lavorando per sottrazione. È stato calcolato che un quarto del tempo nelle discussioni alla Costituente è stato speso per decidere non solo quali temi inserire, ma anche quali termini usare, come dimostra per esempio, la discussione sull’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra”. Quel “ripudia” è stato scelto dopo molte disquisizioni”. Purtroppo poi, secondo il costituzionalista, non si è più lavorato così: “se non hai idee, diventi prolisso, verboso e complicato; allaghi con un fiume di parole il nulla che hai nella testa. La Costituzione dovrebbe essere una lingua che tutti possono parlare”. È vero che Ainis non si è ancora schierato per il sì o per il no al referendum costituzionale di dicembre, ma unendo queste parole a quelle che usa per la riforma, “ciò che non mi piace è che è scritta male”, forse qualcosa si può intuire. Chiarissima, invece, la posizione di Sgarbi: la Costituzione è come un monumento e, come tutti i monumenti, la minaccia è rappresentata da una parte dall’incuria e dall’altra dai restauri non oculati, proprio come quello del Governo Renzi, almeno questo è il parere del critico.

CLIMA
L’ultimatum di Mercalli: “Ferrara pagherà un conto salato”

Luca Mercalli, noto climatologo, una istituzione nella sostenibilità ambientale. Tramite i suoi libri, la televisione e le conferenze porta le sue importanti convinzioni. Venerdì scorso, alla Facoltà di Economia, un pubblico attento (ma sono sempre quelli che già sono convinti) ascolta la sua conferenza, organizzata nell’ambito della manifestazione Internazionale a Ferrara. ‘Il tempo che ci resta’ è il titolo della sua conferenza e lascia poco spazio all’ottimismo. Forse troppo poco.

Da persona precisa è presente in anticipo in un’aula strapiena (riempite anche altre sale, meno male). Una drammatica slide dinamica ci mostra i cambiamenti climatici nel tempo e ci avvisa di cosa parleremo. Fuori e’ per fortuna una bella giornata, ma il richiamo all’aumento della temperatura globale fa riflettere. La climatologia e’ una scienza complessa, ma spesso si fa di tutto per sottovalutarla. Serve uno scienziato che sia anche comunicatore come Mercalli e soprattutto si apprezza la sua coerenza. Inizia dicendo che il tempo (meteorologico) che ci resta è brutto e poco. Entrata subito a gamba tesa. Ferrara e’ a rischio nei prossimi cento anni prima con il cuneo salino poi con il mare che inonda. Stiamo fabbricando un pianeta nuovo per il nostro sistema sociale resiliente, ma debole. Possiamo solo cercare di difenderci; possiamo adattarci, ma non possiamo più tornare indietro. Visione pessimista e disfattista? Ognuno farà le sue valutazioni, si spera informandosi.
Il congresso mondiale dei geologi a Città del Capo ha detto che siamo entrati in antropocene. Serve una svolta energetica verso il rinnovabile. Serve una forte etica ambientale (leggi enciclica). Abbiamo bisogni di cambiamenti politici e accordi veri che poi si attuano. La conferenza e l’accordo di Parigi lo ha detto, ora però lo devono firmare tutti i Paesi. Ratificato l’accordo però non sarà ancora capitato nulla. Si deve applicare e questo è più grave. Le soluzioni necessarie sono assolutamente impopolari e costose, dunque improbabili da attuare. Eppure Papa Francesco ha avuto un ruolo catastrofista, cosa ci guadagna? Da qui si capisce il suo valore.

La meteorologia è un buon modo per capire gli effetti negativi dell’inquinamento. Non possiamo certo nasconderci di fronte all’evidenza dei disastri climatici in corso. Lui ci prova con professionalità e cultura: il suo libro ‘Prepariamoci a vivere in un mondo con meno risorse, meno energia, meno abbondanza e forse più felicità’ prova a dare uno spiraglio. Condivido molto la sua massima: “Proviamoci, almeno non saremo complici”. È infatti richiesta una crescente attenzione ai temi dell’organizzazione dell’informazione e del sistema di comunicazione. Bisogna insistere nell’attivare una partecipazione reale ai principi di sostenibilità ambientale. Troppo spesso si comunicano i disastri e situazioni ingestibili in cui ci sentiamo impotenti; comunichiamo paure, non partecipazione e coinvolgimento. Per questo servono persone preparate ad abituare i cittadini ad interloquire con la politica, con le amministrazioni e con le strutture che erogano servizi. I migliori scienziati del mondo ci dicono che le nostre attività stanno cambiando il clima e che se non agiamo con forza continueremo a vedere l’innalzamento degli oceani, ondate di calore più intense e più lunghe, siccità e inondazioni pericolose che possono scatenare maggiori migrazioni, conflitti e fame nel mondo.

Il mondo sta cambiando. Lo percepiamo, ma lo stiamo anche capendo? Ne siamo consapevoli? O giochiamo solo al ruolo delle vittime? Crescono attorno a noi problemi ambientali e sociali ma non sempre percepiamo che sono la nostra sostenibilità. Cosa possiamo fare? Come possiamo influenzare questa tendenza negativa? E soprattutto: a chi tocca? alle istituzioni o anche a noi? Cresciamo, anzi ci moltiplichiamo. Invecchiamo. Nel contempo consumiamo risorse naturali che ci hanno detto essere limitate. Ma temo che non ce ne stiamo preoccupando troppo. Siamo attenti a rischi e rendimenti finanziari, ma non a quelli naturali, compresa la energia. C’è fortunatamente chi pensa (io tra questi) che il potere buono possa difendere la sostenibilità o addirittura rafforzarla. Una visione più proattiva e meno pessimista ci aiuterebbe a capire che possiamo ancora fare qualcosa.
Il principio teorizzato da tutti, da sempre, è: “Non dobbiamo lasciare in eredità ai nostri figli le nostre colpe ambientali”. Salvo poi smentire. A tutti capita di pensare al futuro e quasi sempre lo viviamo con l’ansia dell’incognito. La globalizzazione ha creato una società civile globale, ha migliorato le condizioni di salute e il tenore di vita, ha cambiato il modo di pensare della gente, ha servito gli interessi dei paesi industrializzati, però non ha funzionato per molti poveri del mondo e soprattutto ha posto problemi per gran parte dell’ambiente, ripercuotendo l’instabilità a livello globale (ci ricorda Stiglitz). L’obiettivo di fondo dunque è la difesa dell’ambiente e la trasformazione dei bisogni dei cittadini in diritti. Riprendiamoci il principio di chi inquina paga. Una società civilizzata si misura dal senso di responsabilità che ha nei confronti delle generazioni future.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Morte annunciata di una mensa

Mi sento sempre più distante, di un’altra generazione, dicono che è il trauma della vecchiaia, io pensavo di poterne esser esente, ma ogni giorno mi porta la sua conferma che non è così. Ora il senso della distanza mi viene per via della sentenza del tribunale di Torino che sancisce il diritto di portarsi da casa il pasto da consumare a scuola. Non so se valga anche per l’asilo nido il diritto all’omogeneizzato fatto in casa con prodotto biologico a chilometro zero o per la scuola dell’infanzia il panino vegano della sindaca Appendino, che qualcuno mi deve spiegare bene che cosa sia. Distante perché io sono di quelli, comunisti sporchi brutti e cattivi, che credevano che andare a scuola senza essere costretti a portarsi il cestino da casa o al lavoro in fabbrica o in cantiere con la gavetta fosse una conquista sociale. Le mense, il welfare, le mense di quartiere, quella roba lì, che liberava anche le donne dalla schiavitù domestica. Adesso c’è un giudice che sentenzia che sul diritto alla mensa prevale il diritto al panino fai da te, perché prima di tutto viene il singolo, l’individuo, la persona. Insomma al diritto alla mensa corrisponde specularmente il suo contrario ed opposto. È un po’ come il diritto al vaccino, altro tema caldo di questi giorni, un’altra conquista, faticosa per di più, della scienza e della società, il diritto alla tutela della salute tua e degli altri che viene contestato. Non vorrei estremizzare, ma a me viene così, è come rivendicare il diritto di fare il bagno con il burkini, nonostante le conquiste sociali in tema di emancipazione della donna, in nome della libertà individuale. I paladini del liberalismo dovrebbero essere tutti schierati a difendere anche questi diritti negativi, se non fosse che si tratta di un liberalismo medievale. Per i più distratti o troppo giovani potrei rinfrescare alcune date: 1968: legge 444 istitutiva della Scuola materna statale, fino allora in mano ai privati, soprattutto privato confessionale. 1971: legge 1044 istituzione degli asili nido comunali; 1971: legge 820 nascita del tempo pieno nella scuola elementare. Tutte istituzioni ad orario prolungato che prevedono la mensa per funzionare. Istituzioni al servizio dei diritti dell’infanzia e dei diritti delle donne. La mensa non come accessorio, ma come momento integrante del progetto educativo, del progetto di crescita, la mensa che garantisce un’atmosfera famigliare, di calore e di accoglienza, di relazione e di affettività al nido come alla scuola dell’infanzia, come alla scuola elementare. Lascio agli psicologi spiegare l’importanza del momento del pasto per la crescita emotivamente equilibrata di ciascuno di noi, quanto i bambini apprendono con più piacere e motivazione mentre nutrono il loro corpo e in questo sentono l’attenzione e l’affetto degli adulti che si prendono cura di loro. Del resto mica ce la siamo inventata noi la scuola con la mensa, la migliore tradizione pedagogica da Dewey a Freinet, dalla Montessori, a Lorenzo Milani è lì a dare buona testimonianza di come la mensa per importanza formativa sorpassa e avanza ogni lezione d’aula. Certo la sentenza di un giudice tutto questo non lo può considerare, perché non ci sta scritto e neppure si può estrapolare dalle righe di un testo di legge. Solo, insinuo un sospetto, se a ricorrere al giudice fosse stato un paziente d’ospedale, che rivendicava il diritto di portarsi il pasto o il panino da casa, l’esito sarebbe stato lo stesso? Ogni sistema per funzionare rispetto al suo compito deve attenersi alle regole che gli consentono di raggiungere lo scopo, se si altera solo una di queste tutto il sistema ne risulta modificato. L’ospedale è un sistema delicato, la scuola che educa, pure. Un “sistema educativo” è appunto un “sistema”, sottostà alle leggi dei sistemi complessi, non a quelle dei giudici, come tutti i sistemi, del resto. Che si voglia o no, se si introduce il principio che il momento del pasto, non fa parte integrante del progetto educativo, del sistema scuola, allora ognuno se lo gestisce come vuole e non è necessaria la presenza di personale professionalmente preparato come quello scolastico, come ormai accade nella scuola media di primo grado dove una congerie di modelli orari settimanali ha ridotto la mensa ad un fatto puramente accessorio. Ma attenzione, ora si rivendica il diritto di portarsi il panino da casa, domani si potrà rivendicare il diritto di censurare questo o quel contenuto, questo o quell’insegnante in nome del superiore valore della libertà individuale. Il sistema educativo sarà sempre più gestito dall’esterno anziché trovare al proprio interno la forza d’essere quello che è. Nessuno metterebbe in discussione la terapia prescritta da un’équipe di medici, sebbene i detentori del progetto educativo siano professionisti dell’istruzione, questo nelle nostre scuole accade. Capisco anche che le mense nelle scuole muoiono per via della “cooperativite” che le ha colpite. Dagli entusiasmi dei primi tempi con cucina interna alle scuole e con la partecipazione dei genitori alla gestione, si è passati agli appalti, al precotto, alle diete talebane, tutte cose che non hanno fatto bene alla scuola e al suo progetto educativo. Allora è la scuola che non si può chiamare fuori, perché evidentemente è la scuola che non ha convinto. Sono i professionisti della scuola che per primi debbono spiegare l’importanza della mensa all’interno del curricolo scolastico, dalla materna alla media, se non sono in grado di farlo c’è poco da stupirsi per la sentenza dei giudici di Torino, è inevitabile che mensa o panino siano indifferenti come ogni altro break dal lavoro, ma degli adulti non di fanciulli che crescono.

 

INTERNAZIONALE
Entrare in carcere con il teatro

Entrare in carcere. Era una delle iniziative del Festival di Internazionale a Ferrara: uno spettacolo teatrale dentro al carcere ferrarese, considerato tra quelli di massima sicurezza. Un evento a cui si partecipa per vedere la messa in scena, ma che poi diventa un’esperienza per tutto quello che c’è intorno. Gli attori sono i detenuti stessi, tantissimi altri detenuti come spettatori. Sono tutti uomini. In sala arrivano alla spicciolata, uno dopo l’altro. Uomini come tanti che puoi vedere in giro. Capelli corti corti, jeans e scarpe da ginnastica; un gruppetto sembra quello dei muratori che hanno messo a posto il tetto dopo il terremoto. C’è un ragazzo di colore, alto e atletico, le scarpe di un rosso sgargiante e l’aria di uno che gioca a basket. Alcuni sono un po’ più anziani, magari con gli occhiali, potrebbero essere commercianti qualunque. Un ragazzo ha un aspetto così giovane, ma diciotto anni ce li avrà per forza, se si trova qui. Cento seggiole nella stanza-laboratorio, cinquanta da una parte e cinquanta dall’altra; in mezzo un panno scuro, dove gli attori mettono in scena lo spettacolo.

I protagonisti dello spettacolo "Me che libero nacqui, al carcer danno" (foto di repertorio del Teatro Nucleo/Internazionale)
“Me che libero nacqui, al carcer danno” (foto di repertorio del Teatro Nucleo)

Non è un’opera qualsiasi o una messa in scena così. Ci lavorano su da anni con il laboratorio teatrale della compagnia Teatro Nucleo di Pontelagoscuro. Mettono in scena un’opera antica, ma azzeccata: un episodio della “Gerusalemme liberata”, che descrive gli scontri tra cristiani e musulmani durante la prima crociata. Torquato Tasso l’ha scritto mentre era a sua volta rinchiuso nella prigione di Sant’Anna a Ferrara. Lo spettacolo si intitola Me che libero nacqui al carcer danno ed è incentrato sul combattimento tra Tancredi e Clorinda della “Gerusalemme liberata” di Tasso. Le parole sono difficili perché il testo è scritto in versi ed è poesia della seconda metà del ’500.

L'ingresso al carcere di Ferrara
L’ingresso al carcere di Ferrara

Per potere assistere a questa rappresentazione devi lasciare con parecchi giorni d’anticipo un documento d’identità all’organizzazione e presentarti almeno mezz’ora prima per i controlli, lasciando giù macchina fotografica, cellulare e qualsiasi dispositivo elettronico. Molte barriere e cancelli vanno superati per entrare in quella sala-teatro.

Dal parcheggio recintato nella periferia ovest della città, si oltrepassa a piedi la barra mobile e ci si trova davanti alla vetrata della guardiola d’ingresso. Due agenti-uscieri ti chiedono i documenti e verificano che ci sia il tuo nome su un registro. Cellulare e macchina-foto li lasci lì. Poi ti controllano la borsa, ti danno un badge da appuntarti sulla maglia con sopra un numero e resti in attesa di qualcuno che ti accompagni dentro. Si attraversa tutto il cortile e si entra nella palazzina difronte. C’è un metal detector e un impiegato che si annota il numero che hai scritto sul badge. Lì entri da una porta automatica blindata e attraversi un corridoio per arrivare in un altro cortile, attraversarlo ed entrare in un’altra palazzina. Superi il cancello di una grata metallica grande come tutta la parete, c’è un altro corridoio e poi la sala. Tre file di sedie sono disposte di qua e altre tre di là dal tappeto scuro che fa da palco. Sulla sinistra una pedana sulla quale si piazzano i musicisti del Conservatorio di Ferrara, due ragazze e due ragazzi con strumenti a corde di varie dimensioni e il direttore del coro del Conservatorio, Gianfranco Placci, che li accompagna al pianoforte, mentre un ospite del carcere suona il triangolo e le maracas. Nei corridoi e in sala ci sono sempre agenti con la divisa della polizia carceraria.

I musicisti del Conservatorio davanti al carcere di Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
I musicisti del Conservatorio davanti al carcere di Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)

La regia è di Horacio Czertok, sul palco gli attori detenuti del laboratorio teatrale della casa circondariale di Ferrara: Lesther Batista Santisteban, Desmond Blackmore, Federico Fantoni, Sotirios Kalantzis, Lefter Kuli, EdinTicic. Sono quasi tutti stranieri, spiega il regista che è lì in sala: montenegrini, greci, un cubano e un suddito britannico.

Inizia lo spettacolo e la difficoltà è grande anche per chi assiste. Le parole sono davvero desuete, praticamente incomprensibili. Loro le recitano con una sicurezza incredibile, capisci qualcosa solo grazie al modo in cui gesticolano e scandiscono i versi, che è chiaro che loro hanno ben capito e interiorizzato. Un attore in semplice maglietta e pantaloni scuri entra in scena. Ha un’aria molto normale, quasi dimessa. Poi inizia a cantare. Ha una voce potente e vibrante, mentre intona le parole dello spartito e senti l’emozione che ti invade. Canta un brano molto lungo e articolato e avanza tenendo in mano un foglio che di tanto in tanto scorre con gli occhi. Finito il canto, un uomo di colore in tunica bianca e un attore dal volto pallido e barba castana mettono in scena il confronto tra i due combattenti, un duello fatto di sguardi, testa e testa di un’intensità fortissima, che rende tutta la tensione della sfida senza bisogno di arrivare mai a dare un solo colpo.

La foto di John J. Kim che ha vinto il 3° premio per foto singole del World Photo Press 2016
Foto di di John J. Kim, vincitrice del World Photo Press 2016 esposta al Pac di Ferrara fino al 23 ottobre 2016

Alla fine applausi, il direttore del carcere Paolo Malato che si complimenta per il risultato incredibile, sottolinea che tutti possiamo sbagliare ma – come è scritto sulla facciata del teatro di Palermo – “l’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”. Uno tra gli spettatori detenuti legge una lettera per sottolineare l’importanza che ha, per loro, questa iniziativa, l’apertura del carcere alla città. Il maestro Mauro Presini ricorda che c’è anche una redazione interna che cura una rivista, sempre aperta a contributi e col desiderio di creare un evento aperto all’esterno. Il direttore del coro del Conservatorio Gianfranco Placci racconta che da tre anni viene qui per tirare fuori musica e canto dai detenuti che ne hanno voglia e talento.

Uno dietro l’altro, gli spettatori che vivono qui si alzano per tornare in cella. Una volta che sono usciti loro, anche il piccolo gruppo del pubblico viene riaccompagnato dalle guardie. Si ripassa attraverso i cancelli e le barriere. Due mondi si richiudono. Resta il brivido dell’arte che li ha uniti.

 

Festival di Internazionale si è tenuto a Ferrara da venerdì 30 settembre a domenica 2 ottobre 2016 per la sua decima edizione. La mostra con le migliori fotografie dei reporter di tutto il mondo che hanno vinto il World Photo Press 2016 resta visitabile fino a domenica 23 ottobre (ore 10-13 e 15-19, ma biglietteria chiusa un’ora prima) al Pac-Palazzina di arte contemporanea in corso Porta Mare 5 a Ferrara.

INTERNAZIONALE
Le cose cambiano

Alzi la mano chi pensa che l’adolescenza sia uno dei periodi più difficili che siamo costretti a vivere: insicuri sulla propria identità, le proprie convinzioni, i propri valori e la propria visione del mondo, sempre in balia dell’opinione, o peggio, del giudizio degli altri. Purtroppo, per qualcuno lo è ancora di più.
Billy era un ragazzo di quindici anni dell’Indiana, a scuola era vittima di bullismo omofobico, pensavano fosse gay. A un certo punto non ce l’ha fatta più e si è suicidato impiccandosi. I suoi genitori hanno creato una pagina facebook in sua memoria, ma i bulli non hanno rispettato nemmeno quella e hanno continuato a offenderlo anche sui social.

A raccontare la sua storia domenica pomeriggio al Cinema Apollo al Festival di Internazionale a Ferrara è il giornalista omosessuale statunitense Dan Savage, autore della rubrica Savage love: “forse se qualcuno gli avesse detto che non era solo, che l’adolescenza è dura da superare, ma le cose cambiano, da adulti vanno meglio, Billy si sarebbe salvato”.

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Ecco come è nato nel 2010 il progetto “It gets better”, un portale web che raccoglie testimonianze di persone lgbt, persone normali o personaggi famosi, su come hanno superato il periodo della propria adolescenza. Lo si potrebbe considerare quasi un manuale di istruzioni per l’uso: come superare la scuola giorno dopo giorno, come fare coming out con i propri genitori, come entrare in contatto e trovare sostegno nella comunità lgbt.
“Vengo spesso invitato nelle università a parlare di sesso e sessualità, ma non nelle scuole superiori, forse perché sono considerato troppo esplicito e pericoloso – scherza Savage – e così ho pensato che, in realtà, per entrare in contatto con tutti i ragazzi e le ragazze nell’era di internet e di youtube non mi serviva l’invito degli adulti”. Il primo video Dan lo ha girato con suo marito Terry, poi ha iniziato a coinvolgere altri adulti gay perché registrassero la propria testimonianza: “all’inizio l’obiettivo era arrivare a cento video, ma solo nei primi due giorni siamo arrivati a mille e nella prima settimana abbiamo raggiunto i 10mila”, racconta Dan. “Ora siamo il canale youtube open source più grande mai creato, abbiamo un video persino del presidente Obama”.

Dan racconta anche la propria esperienza e quella del fratello maggiore, entrambi bullizzati a scuola, l’uno perché gay, l’altro perché “era una secchione”. La differenza era che suo fratello “poteva parlare e aprirsi con i nostri genitori”, mentre Dan no perché erano “omofobici”. Ebbene le cose ora vanno meglio per Dan: è sposato con Terry da 18 anni e insieme hanno adottato un bimbo, che ora è un perfetto “ragazzo etero” con buona pace di coloro, i “bigotti” come li chiama Dan, che temono che i figli che crescono con genitori omosessuali diventino per forza a loro volta omosessuali.

Quello che cerca di fare Itgetsbetter.org è non fare sentire soli i ragazzi vittima di bullismo, in particolare quelli che subiscono bullismo omofobico, mettendo “le cose in prospettiva”. È un canale per trasmettere esperienze di vita, perché tutte le persone lgtb “ sono state adolescenti, non è una cosa che capita all’improvviso in età adulta”: queste testimonianze di persone lgbt adulte aiutano i ragazzi e le ragazze a diventare più consapevoli nell’affrontare e vivere la propria condizione.
L’obiettivo è “fare la differenza salvando almeno una vita” perché ci siano sempre meno storie come quella di Billy.

www.itgetsbetter.org
www.lecosecambiano.org

Guarda il video del Presidente Usa per la campagna Itgetsbetter

INTERNAZIONALE
Se l’Occidente non riconosce più i suoi nemici

Ci sono giornalisti che si trovano a loro agio solo sotto i riflettori di uno studio televisivo, fra politici e opinion makers che parlano di niente, accavallandosi e accapigliandosi gli uni sugli altri. E poi ci sono giornalisti che trovano ancora la voglia e alcune volte il coraggio, di andarle a cercare le storie da raccontare da dietro quelle telecamere.
Corrado Formigli, due volte vincitore del Premio Ilaria Alpi, che tutti conoscono come autore e animatore di Piazza Pulita su La7, appartiene a questa seconda ‘specie’ e ha appena pubblicato un volume che racconta il suo viaggio, primo giornalista italiano, nell’inferno dell’assedio di Kobane e nelle zone di guerra occupate dagli uomini del califfo Al-Baghdadi. Il titolo del libro è “Il falso nemico. Perché non sconfiggiamo il califfato nero” (edito da Rizzoli) e Corrado lo ha presentato sabato pomeriggio a Palazzo Roverella durante il Festival di Internazionale a Ferrara.

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Perché e per chi l’Isis è il ‘falso nemico’?
Lo è, o lo è stato per la Turchia, che per lungo tempo “ha chiuso uno, due, tre occhi sui jihadisti che attraversavano il confine per diventare foreign fighters perché l’Isis serviva per combattere Assad e i Curdi”. Lo è per i Sauditi, anzi secondo Formigli, l’Isis sarebbe addirittura il loro “ fratello pazzo”, sfuggito al loro controllo. Il califfato però è forse soprattutto il falso nemico dell’Occidente che, a ben vedere, lo ha creato. Mettendo insieme i pezzi dello scomposto quadro mediorientale degli ultimi anni, come fa Corrado, emergono una serie di errori di Europa e Stati Uniti: “lo Stato Islamico è stato creato e potenziato dagli errori occidentali”. Al-Baghdadi ha creato l’organizzazione e ne è diventato il leader nella prigione statunitense di Camp Bucca, nell’Iraq meridionale, dove tutti i jihadisti “dormivano insieme all’aperto ed erano lasciati liberi di avere contatti fra loro”. Nel frattempo Paul Bremer, nominato governatore dell’Iraq da George Bush, aveva sciolto e messo al bando il partito Baʿth di Saddam, e “ex ufficiali e burocrati laici che si erano formati in Occidente hanno deciso di offrire le proprie competenze al Califfato”. Se poi si aggiunge che il ritiro dal territorio iracheno è avvenuto “senza sapere cosa sarebbe successo dopo e, peggio ancora, lasciando gli arsenali delle armi dell’invasione in mano a un esercito allo sbando e corrotto”, il quadro è completo. Anzi no. Corrado una cosa non è ancora riuscito a capirla: il mistero riguarda la Highway 47, l’unica strada che porta da Mosul alla Siria, l’unica arteria di collegamento fra le due capitali dello Stato Islamico, “costantemente sorvolata dai droni della coalizione e sorvegliata da terra dai curdi, ma mai toccata”. “Io detesto i complottisti – spiega Corrado – ma in questo caso ho dovuto combattere il complottista che è nato in me, perché non sono riuscito a capire come mai per due anni nessuno ha bombardato quella strada. E quando abbiamo provato a chiedere, i comandanti curdi ci hanno risposto che loro dovevano sentire il comando americano, che li ha sempre fermati dicendo che si rischiavano vittime civili”. Forse si riferivano agli autisti dei tir che trasportano le cisterne di petrolio.

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C’è però un altro falso nemico, questa volta agli occhi di un’Europa miope, che fa accordi con la Turchia di Erdoğan e ne prepara altri con l’Egitto di Al-Sisi: sono “i rifugiati”, anche se “statisticamente non c’è un autore di un attentato in Europa che sia arrivato qui su un barcone”, si arrabbia Corrado. Questo libro, confessa, lo ha scritto “per far conoscere le loro storie, per far capire cosa c’è dietro, cosa hanno vissuto”. “I rifugiati dovrebbero essere i nostri primi alleati perché hanno vissuto la guerra sulla propria pelle, hanno visto i propri cari perdere la vita, quindi credono nella libertà e nella democrazia molto più di noi, che spesso le diamo per scontate”.

INTERNAZIONALE
Clinton VS Trump, quello che le donne vogliono

Il prossimo Presidente Usa potrebbe essere una donna forte, con una carriera importante e nello stesso tempo moglie e madre, oppure un misogino che si distingue per il suo maschilismo e sessismo. Ecco la dicotomia che ha spinto gli organizzatori di Internazionale a guardare alle elezioni americane attraverso gli occhi delle donne, con “Decidono le donne. La candidatura di Hillary Clinton e la questione femminile in America”. Per parlarne, domenica mattina al Teatro Comunale di Ferrara, Katha Pollit, femminista che nel suo ultimo libro si è occupata della questione dell’aborto negli Stati Uniti, Rebecca Traister, autroce di “All the single ladies”, e la giornalista femminista italiana Ida Dominijanni.

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Tutte d’accordo sul fatto che lo scontro in atto in vista delle prossime elezioni è una battaglia fra due anime del paese, fra due idee diverse di cosa sono e dovrebbero essere gli Stati Uniti. Secondo Katha, per esempio, proprio l’aborto è “un tema esplosivo”, uno “spartiacque”. Da una parte lo schieramento riformista, che vede l’aborto come una possibile scelta che “una donna americana su tre potrebbe affrontare prima della menopausa”, con “il diritto di scegliere in piena libertà del proprio corpo, senza chiedere il permesso al padre del feto”. Dall’altra chi vuole frapporre più ostacoli possibile all’aborto perché questa libertà di scelta “fa impazzire persone che non vogliono l’uguaglianza fra uomini e donne” e pur di ottenere il proprio scopo la destra estremista cristiana americana si affida a un uomo come Trump che spesso “dice cose che con Gesù non hanno nulla a che fare”.
Per Ida Dominijanni la contrapposizione Clinton-Trump in realtà non ha nulla di strano: “in America come in altre parti del mondo si tratta di un movimento di reazione del maschilismo patriarcale proprio perché siamo in un momento di grande espansione delle libertà femminili”. Rebecca Traister le fa eco: “Trump esiste perché esistono Hillary e Obama, prima di lei: è l’incarnazione dell’America bianca e maschilista che vorrebbe continuare a reprimere parti della società, le donne e i neri, che in questi anni hanno raggiunto posizioni di potere”.

Sicuramente le americane sono convinte che Hillary farà molto, dal punto di vista delle politiche sociali e di sostegno al reddito, per aiutare le donne single, madri o meno, che sono sempre di più in America. Per questo la difendono anche quando Ida critica le sue scelte come donna, soprattutto quella di salvare il proprio matrimonio e recitare la parte della moglie devota ai tempi del sex gate che ha coinvolto suo marito e di sfruttare poi il fatto di essere un e first lady per costruirsi una carriera politica.
Kata, molto pragmaticamente, afferma: “ragazze dobbiamo prenderci quello che possiamo” e resta il fatto che Hillary è la prima donna a bussare alla porta della Casa Bianca. Se per arrivare alla stanza ovale ha prima dovuto passare per quelle della first lady, does it matter?
Per Rebecca è un processo che ha già avuto luogo in passato: “il primo ingresso delle donne nei posti di potere è sempre avvenuto grazie a quello che io chiamo potere prossimale, cioè per il fatto di essere mogli o vedove di potenti. È il beneficio delle prime volte: le porte si allargano e le strade si spianano. Hillary ha fatto breccia e dopo di lei verranno donne che non sono partite dall’essere mogli, in realtà sta già accadendo”.

Eppure Hillary continua a non convincere del tutto parte del movimento femminista proprio perché, come sottolinea Dominijanni, agisce in un certo senso rispettando i ruoli di genere tradizionali: moglie e madre devota quando è nel ruolo della donna, mentre “si virilizza quando si trova nella competizione politica”. E qui si accende un dibattito che avrebbe meritato almeno un’altra ora, perché Ida si chiede se sia “possibile impadronirsi del potere senza fare una critica del potere al maschile” e pensa che la vera scommessa del femminismo sia andare al potere non virilizzandosi, ma portando la propria cifra specifica. Kata, invece, sostiene che “molte delle qualità che attribuiamo al femminile hanno a che fare con le strategie per affrontare la mancanza di potere. Se le donne avessero lo stesso potere sociale ed economico degli uomini, non sappiamo come sarebbero perché vivremmo in un mondo diverso, che siamo ancora molto lontano dal raggiungere”.
In conclusione il messaggio è: arriviamo nei posti chiave, ogni donna decida come.

INTERNAZIONALE
Ecco come vivere felici, nonostante tutto

“Come vivere felici nonostante tutto”. Un bel titolo per l’evento che c’era venerdì sera al Festival di Internazionale a Ferrara. In pratica è una conversazione con Oliver Burkeman, giornalista inglese di The Guardian che ogni settimana scrive articoli, tradotti e ripubblicati dalla rivista Internazionale. E chi è che non vuole essere felice, in effetti? Nonostante tutto, poi…! Dopo essere andati ad ascoltarlo, bisogna dire che vale la pena sentirlo (o leggerlo). Ecco perché.

1. Riderci un po’ su. Il messaggio di Burkeman è una buona cosa, prima di tutto perché riesce a farti ridere (e questo è già un buon avvio di felicità). Attacca raccontandoti di tutti i corsi motivazionali che ha fatto inutilmente, delle attivazioni di chakra a cui si è sottoposto, dei manuali di auto-aiuto e di pensiero positivo che ha letto e che ha cercato di mettere in pratica senza riuscire a sentirsi meglio. Racconta anche di come ha provato a “visualizzare” la situazione che desiderava, come predicano i guru del pensiero positivo. Ma questo non faceva che aumentargli la paura di non riuscire a ottenere quelle cose. Dice: “Cercando di convincermi che tutto sarebbe andato bene, se poi le cose andavano male diventava una tragedia”. L’eccesso di positivismo, secondo Burkeman, è proprio pericoloso. Per lui è stato decisivo nella crisi finanziaria del 2008. Ricorda: “Venivi incoraggiato a comprare a tutti i costi la casa dei tuoi sogni. Non importa che tu non avessi i soldi. Come fa Trump adesso, una campagna elettorale fatta tutta di superlativi assoluti. Miglioriamo! Ma come? Non ha importanza, l’importante è crederci. Mah…”

2. Elogio del pessimismo. La seconda intuizione viene a Burkeman dalle persone che si definiscono stoiche, che secondo lui si fanno dei film anche loro, ma di solito sono film incentrati sul caso in cui le cose andassero male. In questo modo – assicura – riesci a ragionare in maniera più pacata sul peggior scenario possibile. “Hai paura di fare una brutta figura in pubblico?”, chiede. La risposta lui ce l’ha: “Affrontala e falla, quella brutta figura!”. E lui l’ha fatto, rivela. La paura della figuraccia lo assillava, così una volta decide di prendere di petto quella paura. Sale sulla metro di Londra e, a ogni fermata, annuncia a voce alta il nome della stazione. “All’inizio – ricorda – è stato abbastanza terribile. Il cuore mi batteva all’impazzata e sentivo sudori freddi”. Poi, fermata dopo fermata, si rende conto che le persone a mala pena alzano gli occhi dal giornale o dal tablet che stanno leggendo. “Non c’è da preoccuparsi tanto di quello che pensano di voi – conclude – perché tutti sono talmente presi dalle loro preoccupazioni, che a mala pena si accorgono di quello che fate. E la paura crolla. Addirittura ti rendi conto che, quasi quasi, non stai neanche facendo una brutta figura, ma potresti sostenere che stai facendo qualcosa che è di aiuto agli altri passeggeri!”.

3. Male comune. In Massachusetts, Burkeman scopre che c’è un “Museo dei prodotti invenduti dei supermercati”. Una marea di prodotti falliti, a partire dalle uova sbattute da farsi in macchina e da mangiare con la cannuccia mentre si guida, per arrivare fino alla New Coke della Coca-Cola, che ha dovuto subito ritirarla perché tutti volevano quella vecchia e originale. “Non se ne parla mai – fa notare Burkeman – ma ci sono tantissimi prodotti falliti di aziende di gran successo”. Fallire, insomma, è facile e diffuso, ma non se ne parla mai perché è considerato quasi un tabù.

4. La morte esiste, viviamo! In Messico Burkeman scopre che la gente trascorre tempo sulle tombe dei propri cari. “Lo fanno così, semplicemente. Si trovano lì, mangiano, parlano”. E sottolinea che è importante reintrodurre il pensiero della morte nella realtà quotidiana. “La morte – dice – è la madre di tutte le nostre paure. Invece va pensata come quello che è, una cosa che accade e basta, non una paura così tremenda da non poterla nemmeno nominare”. A conferma della validità di questa idea, arriva un intervento dal pubblico di Ferrara. Nella platea del Teatro Nuovo prende parola una pedagogista che lavora con i bambini ricoverati in ospedale per malattie molto gravi. E racconta la sorpresa che ha avuto trovandosi davanti alla naturalezza assoluta con cui quei bambini accettano l’idea della morte, come qualcosa di possibile e ovvio. Ma anche il modo in cui poi, con altrettanta facilità, quei bambini sono pronti in ogni momento a giocare, ridere e interessarsi delle cose, perché sono molto presi da ogni istante del presente più che dall’idea di futuro.

5. Sogna e metti in pratica. Ancora dal pubblico la sollecitazione che porta al suggerimento conclusivo. Non è poi del tutto vero che bisogna sempre pensare negativo. Un partecipante all’incontro fa notare a Burkeman che avere un obiettivo o una mèta è una buona cosa, che il sogno e l’utopia sono belli, perché con quelli in testa puoi darti da fare per portare avanti le cose che servono a realizzarli. Il giornalista britannico-ricercatore di felicità ammette: “Sì, visualizzare le cose positive va bene, se lo fai per mettere a fuoco gli strumenti che ti possono portare a quel risultato. Più che visualizzare un gol, ad esempio, un calciatore deve visualizzare la buona falcata, lo scatto giusto; deve esercitarsi su quelli. Anche gli artisti, i creativi, i grandi romanzieri lo dicono. Più che l’ispirazione illuminante, conta la costanza, mettersi con determinazione a lavorare ogni giorno”. Dopo non importa se non fai sempre gol. Importa che te la giochi bene. Chi ascoltava Francesco De Gregori, del resto, lo sa: un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. E, se sbagli un calcio di rigore, ti ricordi che “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”.

Festival di Internazionale è a Ferrara da venerdì 30 settembre a domenica 2 ottobre 2016 per la decima edizione.

INTERNAZIONALE
Acqua di Colonia, profumo di razzismo

– Tutta colpa del colonialismo!
– E che è?
– Boh!

In questo scambio di battute c’è l’essenza di “Acqua di colonia. Prima parte: zibaldino africano”, lo spettacolo di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano, che venerdì sera ha chiuso al Teatro Comunale di Ferrara la prima giornata del Festival di Internazionale, giunto quest’anno alla sua decima edizione.
In questa anticipazione dello spettacolo che debutterà al Roma Europa Festival, Elvira e Daniele portano in scena alcune pagine poco conosciute della nostra storia italiana, vicende rimosse e negate che provengono da paesi lontani dell’Africa orientale, come Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia, non solo negli anni dell’Impero fascista.
Proprio come nello Zibaldone, i due attori cercano di concentrare, con un escamotage metateatrale, una serie di spunti, associazioni di idee, nozioni, fatti, risultato di un lavoro di “riesumazione e scavo”, come lo hanno definito loro stessi nell’incontro con Igiaba Scego al termine dello spettacolo: una sorta di piccolo Bignami sulla storia razzista italiana e non solo.

Un momento dell'incontro al termine dello spettacolo
Un momento dell’incontro al termine dello spettacolo

Forse è la prima volta che si affronta questa pagina del passato nazionale a teatro: “Perché parlare di colonialismo oggi?”, chiede Igiaba agli autori. “Perché fa parte della nostra storia, ma è stato rimosso, messo sotto silenzio o narrato in modo riduttivo”, risponde Elvira alludendo alla persistente narrazione memoriale degli ‘italiani brava gente’. “Ci sembra che in un momento come questo, invece, il nostro paese debba guardare in faccia, affrontare questo periodo della sua storia, senza rimuoverlo”, conclude Elvira. Daniele dal canto suo aggiunge: “E’ come se i cinque anni del colonialismo fascista diventassero un capro espiatorio per tutto il resto”: l’Italia il proprio ‘posto al sole’ in Africa lo aveva cercato fin dal primo decennio del Novecento, con la prima campagna in Libia.
Nello “Zibaldino” però non c’è solo il passato: dalle canzonette di inizio secolo si passa a un pezzo del 2014 scaricato da internet e, come in uno specchio, gli stereotipi, i pregiudizi e quello che in fondo è un “sistema di pensiero generale” – afferma Elvira – si riflettono in scene di ordinaria quotidianità, affermazioni che chiunque di noi ha sentito al bar, per strada, sul treno o in tv.

Ad assistere a questo dialogo-brainstorming, un ospite silenzioso e immobile, che cambia a ogni replica, non è un attore/attrice professionista e non sa nulla dello spettacolo se non quello che gli/le rivelano Elvira e Daniele prima di entrare in scena. Per la serata ferrarese quest’ospite è stata una ragazza di colore, che al termine dello spettacolo ha confessato tutto il suo disagio nel non poter intervenire nel dialogo che si svolgeva intorno a lei senza che i due pensassero minimamente a coinvolgerla: “sentir dire cose negative, ma soprattutto cose positive su te stesso, senza poter controbattere, è stato molto fastidioso”. Elvira e Daniele hanno spiegato che non vogliono una morale per “Zibladino”, solo incrinare alcune certezze. E tuttavia, forse, un messaggio in fondo c’è: per parlare di colonialismo – italiano e non solo – non si dovrebbe parlare dell’Africa, ma con l’Africa.

DIARIO IN PUBBLICO
Ferrara, ovvero ‘Delle meraviglie’

Nel giorno clou di mille avvenimenti, la ‘MOSTRA’ (ovviamente d’Orlando) come ormai viene chiamata tutta in maiuscolo, il Premio Estense, la sagra dell’anguilla, la marcia contro i razzismi, è passato sotto silenzio un avvenimento memorabile: la conferenza di Gianni Clerici sul suo rapporto con Bassani; una conferenza che non poteva aver luogo se non alla Palazzina Marfisa organizzata dal glorioso Tennis Club che porta lo stesso nome.

Per fortuna il tam tam ha funzionato; si contavano tra le duecentocinquanta e le trecento persone in piena orgia di selfies. I ragazzi tennisti vestiti anni ’30 e le ragazze con gli abiti bianchi di Micòl accompagnano il grande scrittore. Appaiono le signore che hanno giocato a tennis con Bassani, leggermente fanées, ma sempre leggiadre. Alla fine del discorso interrotto da affettuosissimi applausi per la verve ed eleganza verbale del gran tennista-scrittore, ci rechiamo sui campi di terra rossa e leggiamo le poesie di Bassani affidate ai leggii di metallo al bordo dei campi. Clerici ci incanta con i ricordi legati all’amicizia con il grande scrittore ferrarese evocati con una leggerezza degna dell’insegnamento di Italo Calvino. Gioca con la smemoratezza, tutta letteraria ed ironica, della sua vita così sontuosamente divisa tra l’attrazione alla scrittura e il gesto e l’esercizio tennistici. Ricorda la sua partecipazione ai premi letterari come lo Strega presentato e sostenuto dai suoi amici Mario Soldati e Giorgio Bassani e si concede a foto di gruppo circondato dai giovinetti tennisti frastornati e ammirati da tanto onore. Accanto a me Daniele Ravenna ricorda la promessa del ministro Franceschini: quella di fare di quei campi un luogo inalienabile. Un museo dedicato a uno sport che in quegli spazi è diventato cultura, parte integrante della città: una memoria altrettanto importante di quella vista con gli occhi dell’Ariosto quando scriveva e che qui vedeva giostrare non con lance ma con racchette, tra gli altri, Giorgio Bassani, Michelangelo Antonioni cioè quegli autori-personaggio ormai imprescindibili dalla sostanza di una città: Ferrara e non ‘Ferara’. Alla fine minuti interi di applausi. Peccato che dell’amministrazione comunale non ci fosse traccia. Ma non si può avere tutto.

Nel frattempo, nel resto delle ore di una giornata così memorabile dove andare? A vedere le macchine d’epoca sul Listone o a immergersi tra i sapori e profumi degli stand culinari europei allestiti saggiamente al nuovo acquedotto, quindi nella zona GAD più infelice e pericolosa della città? Mi si dice che la ressa -per fortuna- è strepitosa. Nemmeno mi lascio tentare dalla distesa di piante fiorite che aspettano solo di essere comprate con il richiamo civettuolo del ‘prendimi! comprami!’.
No, per scelta annosa, alle prime e alle inaugurazioni, quindi niente Orlando o Premio Strega. Già fioccano i primi risentiti commenti sulle mie riserve della e sulla mostra orlandesca. Non è vero. Aspetto solo di vederla. D’altra parte la città è fatta così. Solo ciò che accade entro le mura è degno di essere ricordato come fatto memorabile. Ma la primazia non sempre è gesto di buon gusto intellettuale.

Il comitato per le celebrazioni dei 500 anni dalla pubblicazione dell’Orlando Furioso aveva indicato tre luoghi dove esse avrebbero avuto maggior risonanza: Ferrara, Villa d’Este a Tivoli, la Valtellina. Ecco le parole di Lina Bolzoni presidente del Comitato per le celebrazioni di Orlando 1516 nell’intervista concessa ad Anja Rossi del ‘Resto del Carlino’ il 23 aprile 2016:
“Di iniziative ce ne saranno molte. Ci può anticipare qualcosa? Oltre alla mostra di Palazzo dei Diamanti, pensata sull’immaginario di Ariosto al momento di scrivere l’Orlando Furioso, ce ne sarà un’altra altrettanto bella a Villa d’Este a Tivoli, incentrata sulla modernità dell’Ariosto e su come il poema ha influenzato scrittori e artisti successivamente. Quanto ai convegni, oltre uno a Ferrara in autunno, ce ne saranno molti altri: uno a Londra sulla fortuna del Furioso in Inghilterra, la settimana prossima alla British Academy, a New York sulla dimensione letteraria del poema, poi in California, Germania”.

Ma non sembra che a Ferrara la mostra di Tivoli o le manifestazioni in Valtellina possano interessare granché. Provvederemo con una trasferta ad hoc a Roma per vederla, pur inneggiando come ci si aspetta da un ferrarese alla strepitosa bellezza delle opere ospitate alla mostra dei Diamanti.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
La buona scuola parla francese

Altro che buona scuola! Dobbiamo andare a lezione dai cugini francesi per imparare di cosa si dovrebbe ragionare quando si ha la pretesa di usare termini come buona scuola.
La conferma la fornisce in questi giorni un articolo apparso il 22 settembre sul Corriere della Sera. Najat Valaud-Belkacem, ministra dell’Educazione nazionale del governo Hollande, ha dichiarato che l’obbligo scolastico in Francia sarà innalzato dai sedici ai diciotto anni. Al momento è solo nel programma del Partito socialista francese, ma se Hollande sarà confermato alle presidenziali della prossima primavera sarà un atto del suo governo.
La questione riguarda anche casa nostra perché, mentre è in corso la sperimentazione del liceo quadriennale, sull’obbligo scolastico a diciotto anni è sceso il silenzio. Eppure lo stesso PD aveva presentato un emendamento alla legge di stabilità del governo Letta, nel novembre del 2013, per l’innalzamento dell’obbligo scolastico a diciotto anni a partire dal 2014.

I 212 commi della legge di riforma a tale proposito non dicono nulla. Ma evidentemente la Buona scuola del governo Renzi è figlia di scarse idee e di troppi compromessi, a partire dal Jobs act che prevede l’apprendistato dai quindici ai venticinque anni. Con l’innalzamento a diciotto anni dell’obbligo scolastico sarebbe impossibile ai quindicenni l’accesso al mondo del lavoro, per non parlare dei vari enti di formazione professionale che nel nostro paese prolificano sulle elevate percentuali di drop out scolastico.

Dai tempi della Moratti, ministro dell’istruzione nel 2004, è stata introdotta la farisaica dizione: “diritto/dovere all’istruzione per dodici anni, o almeno fino al conseguimento di una qualifica entro il 18° anno di età”. “Diritto/dovere” perché in tempi di neoliberalismo dilagante la parola obbligo fa troppa impressione, minaccia le libertà individuali e produce mal di pancia.

Intanto tra i paesi dell’Ocse restiamo all’ultimo posto per dispersione scolastica con il nostro 17% e con un ritardo di 16 anni rispetto alla Strategia di Lisbona, a cui l’Italia ha aderito, che già nel 2000 chiedeva, tra l’altro, di contenere l’abbandono precoce degli studi al di sotto del 10% e di portare almeno l’85% dei giovani al conseguimento di un diploma di scuola secondaria superiore. In tutti questi anni le ricerche dell’Ocse-PISA hanno dimostrato che i Paesi con i risultati formativi migliori sono quelli dove la durata dell’obbligo scolastico è più elevata. L’Italia continua ad occupare il fanalino di coda nelle statistiche internazionali.

I propositi della ministra francese toccano un altro nervo scoperto del nostro sistema formativo, quello della scuola dell’infanzia che, nonostante nel nostro paese sia frequentata ormai dal 97% dei bambini, non fa parte del sistema scolastico obbligatorio. Lo scorso week end la ministra francese ha scelto di svelare il suo piano con un twitter: «Proporrò di estendere l’obbligo scolastico dai 3 ai 18 anni».

In Italia siamo fermi e la buona scuola non promette nulla di buono, la crisi si fa sentire e sul terreno dell’istruzione picchia duro, i soldi per le riforme di cui avremmo bisogno non ci sono. Ce lo dice l’annuale rapporto dell’Ocse “Education at a Glance 2016”, se c’è una certezza è che il passato domina sulle nostre scuole con insegnanti vecchi e mal pagati, con le materie di sempre, con i compiti a casa che ancora non si sa se fanno bene o male, ma soprattutto con un taglio, tra il 2008 e il 2013, della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche del 14%, pari a quasi il doppio del calo del Pil nel periodo (-8%) e contro un calo inferiore al 2% per altri servizi pubblici.

INSOLITE NOTE
Il piccante blues dei Fratelli Tabasco

Inizia con un urlo da rocker “Radioactive mama”: una scarica di blues elettrico che apre “The Dock Dora Session”, l’album d’esordio dei Fratelli Tabasco.
Il disco è registrato in presa diretta dal vivo per riprodurre le atmosfere dei Juke Joint, conosciuti anche con il nome di Barrelhouse: locali gestiti soprattutto da afro-americani nel sud degli Stati Uniti, dove si suonava, ballava, beveva e giocava. I Juke Joint erano delle palestre di talenti, in cui i migliori bluesman si esibivano prima di diventare leggende.

La copertina di The Dock Dora Session
La copertina di The Dock Dora Session

I Fratelli Tabasco, amici e non parenti, si sono formati a Torino nel 2013, accomunati dalla passione per il blues, contaminato da influenze piccanti quali funky, rock, Louisiana, peperoncino, Mississippi e soul. Il nome del gruppo sintetizza il calore e l’origine della loro musica, senza tralasciare l’identità italiana.
I testi delle canzoni rappresentano i loro blues trascritti in musica: con l’aiuto di metafore, personaggi bizzarri e contesti surreali descrivono il nostro tempo, stimolando la sensibilità e le emozioni di loro stessi e di chi li ascolta. L’armonica di Boris, il cantante, evoca ricordi e realtà, suggestioni create dalla peculiarità di questo strumento, il più usato nel blues che, soffiando ed aspirando dallo stesso foro, produce due note diverse.
Nel 2015, i Fratelli Tabasco hanno vinto il concorso “Rocks the Docks”, il cui premio consisteva nella registrazione di un intero album nella zona Docks Dora a Torino, luogo storico per la città: i suoi club notturni negli anni Novanta hanno animato la scena musicale, diventando un punto di riferimento per la cultura underground della città.

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Blues d’attesa nel brano “Jack Knife”, voce e armonica dialogano in attesa di animarsi nel successivo “Blues on!” e nel rockeggiante “D.Q.T.H.L.”, da cui è stato tratto il video ufficiale.Il blues dei Fratelli Tabasco entra in circolo senza bisogno di molecole, wireless o pillole per la pressione sanguigna, come in “Up all night”, caratterizzato da uno splendido dialogo tra voce e organo Hammond, per non parlare di “Ask yourself”, dove l’armonica richiama un piccante e nutriente roadhouse blues.
“Same damned shame” è il titolo del primo singolo estratto dall’album, uno dei brani più coinvolgenti, servito con voce, chitarre, batteria e tanta grinta, diverso da “Boris’ Boogie”, dove il front man può liberamente sviscerare la sua anima blues.
La registrazione in diretta con il pubblico ricorda i vecchi dischi di blues a cui i fratelloni si ispirano. Non siamo sulla riva del Mississippi, ma su quella del Po’ torinese: un piccolo dettaglio che nulla toglie alla genuinità e alla qualità della loro musica, per non parlare della nostalgia che riempie le loro note blu.

I Fratelli Tabasco
I Fratelli Tabasco

I Fratelli Tabasco sono:

Boris Tabasco – Voce/Armonica.
Joele Tabasco – Chitarra.
Simone Tabasco – Batteria.
Lorenzo Tabasco – Tastiere.
Marco Tabasco – Basso

Guarda il video ufficiale di D.Q.T.H.L.

Il villaggio industriale di Crespi d’Adda e il capitalismo illuminato… che non c’è più

(Pubblicato il 16 maggio 2014)

Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo / chi è veloce si fa male e finisce in ospedale / in ospedale non c’è posto e si può morire presto. / Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo / la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo / pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento / sempre fuori dal motore, vivere a rallentatore (…)

‘Lavorare con lentezza’, cantava Enzo Del Re negli anni ’70 del Novecento, quando buona parte del sistema produttivo-economico moderno aveva svelato la sua essenza, acuito problematiche insolute, mostrato i vantaggi e il prezzo da pagare per raggiungere lo sviluppo economico.

Sempre negli anni ’70 il regista Ermanno Olmi ambientò nella bassa bergamasca L’albero degli zoccoli, uno dei film più importanti del cinema italiano, vivido spaccato che raccontava, con la consueta cura a cui ci ha abituato l’autore, il mondo contadino italiano di fine Ottocento. Me ne parla con perizia la piacevole guida di questa giornata.

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I cancelli e l’entrata della fabbrica dei Crespi sull’Adda

Penso a questi due autori, dopo aver visitato il villaggio industriale di Crespi d’Adda, dal 1995 ritenuto patrimonio dell’umanità dall’Unesco, testimonianza di una delle poche esperienze di capitalismo illuminato agli albori della rivoluzione industriale italiana. Una sorta di città “perfetta”, progettata dall’architetto Ernesto Pirovano, edificata affinché i numerosi operai delle cotoniere Crespi, installate sull’Adda dal 1878 dall’omonima famiglia originaria di Busto Arsizio, avessero le condizioni di vita ideali per dare il meglio sul posto di lavoro.

Mi inoltro nell’ordinato e geometrico villaggio, alla mia sinistra la chiesa, la scuola, e il busto del vecchio fondatore Cristoforo Benigno Crespi. Al di là della strada iniziano le graziose casette operaie disegnate sullo stile di quelle inglesi dell’epoca, con giardino, orto e una piccola staccionata ricavata dall’incrocio di vecchie cinghie, scarti del materiale industriale. La staccionata, volutamente bassa, non doveva rappresentare una barriera, la socialità era elemento significativo del villaggio e veniva favorita in ogni modo.

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La scuola di Crespi, affidata a una direttrice che reclutava i maestri e dirigeva l’istituto

Gli operai disponevano gratuitamente di case con servizi, docce calde in comune, una piscina, assistenza sanitaria, borse di studio, scuole gratuite fin dall’asilo nido, chiesa e addirittura di un loculo nel cimitero, costruito alla fine dell’agglomerato per simboleggiare la tappa finale dell’esistenza. All’interno del villaggio, per compensare le tante ore passate nell’ambiente caldo-umido, rumorosissimo e insalubre delle cotoniere, veniva incoraggiato lo sport, la vita all’aria aperta, il contatto con la natura e con la terra.

Lo scopo di questo paternalismo industriale, lungi dall’essere una copia degli arditi esperimenti di Robert Owen – padre del socialismo utopistico della prima parte dell’800 – piuttosto costituiva l’essenza dell’imprenditoria liberale moderna: ottenere prestazioni lavorative qualitativamente migliori, più competitività sul mercato, raggiungere maggiore profitto.

I piani del patron Benigno furono portati avanti dal giovane e promettente Silvio, ma al di là della buona volontà, le continue crisi del settore tessile a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 del ’900, portarono la famiglia a rinunciare alla fabbrica e al villaggio.

Oggi, con un po’ di fortuna e con l’impegno di alcune associazioni ambientaliste del posto, si è riusciti a preservare il progetto originario dei Crespi, salvando l’area da numerose mire volte all’espansionismo edilizio. Il villaggio è stato costruito in circa cinquant’anni, dal 1878 al 1930, pur rimanendo incompleto rispetto al progetto finale della famiglia per via della cessione.

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Il simbolo che riecheggia più spesso nel villaggio Crespi, rappresenta la città ideale

Simbolo del luogo è una stella a otto punte formate dall’intersecarsi di due quadrati che al centro presentano un cerchio. Molti rosoni riportano questo stemma in maniera quasi ossessiva, denotando così qualcosa di più che un semplice ornamento estetico.

Nella fortunata storia del capitalismo all’italiana, di sicuro i Crespi incarnano l’eccezione. La loro esperienza nel tempo mi porta a pensare alla grande personalità di un altro uomo di industria: quell’Adriano Olivetti che alla metà del ’900 riprese e portò avanti in termini più radicali la missione del capitalismo illuminato dei Crespi. Egli rappresenterà la versione progressista e democratica dell’industria nostrana. Purtroppo, rimangono esempi quasi del tutto isolati per ciò che riguarda il grande capitalismo del Belpaese.

Adriano Olivetti che, stando a quanto testimonia Natalia Ginzburg in Lessico famigliare, ebbe parte attiva nell’organizzare la fuga all’estero del leader socialista Filippo Turati durante il fascismo. Oppure solo per citare i ricordi di uno dei suoi ultimi collaboratori, Furio Colombo, Olivetti che considerava l’ imprenditoria quale missione per portare benessere alla comunità in termini di ricchezza, cultura, democrazia.

Tra le intuizioni più importanti dell’ingegnere vi era il progetto di sposare cultura tecnico-ingegneristica e umanistica, di portare nella fabbrica musica, arte, letteratura, dibattiti; ragioni che lo porteranno a fondare la casa editrice Edizioni di comunità e ad assumere svariati intellettuali del calibro di Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere, oppure Franco Fortini, addetto alle pubblicazioni aziendali, Giovanni Giudici alla biblioteca aziendale, Paolo Volponi ai servizi sociali per l’impresa.

Di fronte a esperienze di tale levatura, diventa inevitabile guardare con rimpianto alle condizioni attuali del panorama industriale italiano. Rimane la tentazione di cercare degli eredi, ma pure la paura di scoprirsi ogni anno un po’ più orfani di quello precedente.

Questi sono i tempi moderni dei Tanzi e dei Marchionne, della concretezza a scapito degli ideali, gli anni della finanza creativa, quelli della razionalità spietata, che non crede alle utopie e che i propri errori – la mancanza di coraggio, lungimiranza e capacità – li trasforma in titoli tossici, in delocalizzazione, finendo per addebitare il proprio conto sulle generazioni future.

dal blog di Sandro Abruzzese “Racconti viandanti” [vedi]

Le relazioni intangibili e l’eclissi delle emozioni

(Pubblicato il 5 maggio 2014)

Nella primavera del 2011, mentre frequentavo il quinto anno del liceo scentifico, una troupe delle Iene (il noto programma di Italia 1) venne nel mio liceo per condurre un esperimento. La mia classe fu scelta dal preside come la più adatta ad essere sottoposta a questa valutazione. Dopo un’ora di domande relative all’uso dei telefoni cellulari e di Internet, la iena Enrico Lucci chiese chi sarebbe stato disposto a rinunciare per due settimane a questi strumenti. Solo in 7 su 26 accettammo. Avevo deciso di mettermi alla prova.
Ci ritirarono i cellulari, che vennero consegnati al notaio presente in aula, chiusero temporaneamente i nostri account di Facebook e ci vietarono l’ascolto di musica ad alto volume (non potevamo usare l’i-pod), e di conseguenza anche le serate in discoteca.
All’inizio e alla fine delle due settimane fummo sottoposti a valutazioni psicometriche e psicofisiologiche. Uno psicologo ci pose diverse domande che vennero registrate da uno strumento simile alla macchina della verità, per classificare le variazioni emotive. In ospedale un otorinolaringoiatra ci fece fare prima un normale test dell’udito, poi un esame di psicoacustica per vedere come fosse cambiata la nostra percezione del suono dopo le due settimane di “astinenza”. I risultati mostrarono solo esiti positivi: il nostro umore era migliorato, come anche la nostra capacità di concentrazione; eravamo meno stressati e la nostra soglia di sopportazione del rumore si era notevolmente abbassata.

Oggi non solo abusiamo di tutti questi nuovi dispositivi, ma impariamo ad utilizzarli nella più tenera età. È impressionante vedere bambini di 2-3 anni che sanno usare l’ipad e questo grazie (leggi “per colpa”) dei genitori, che danno ai figli il proprio tablet affinché stiano tranquilli. Quando avevo la loro età e andavo al ristorante con i miei genitori portavo sempre con me un album da disegno e pastelli colorati. Le femmine avevano le bambole, i maschi le macchinine, ora invece è come se Internet stesse cancellando tutta la genuinità e l’ingenuità dell’infanzia. È la comunicazione che sta cambiando. Prima ci si guardava negli occhi e ci si parlava faccia-a-faccia, adesso invece ci si osserva attraverso uno schermo e la voce viene filtrata da un microfono. È una comunicazione spersonalizzata… selfie, like, file sharing, re-tweet, ashtags… che mondo è questo? Un mondo nuovo, un mondo che cresce e corre alla velocità della luce. Un mondo che ci connette con i miliardi di altre persone che lo abitano.
Oggi viviamo online e anche se abbiamo la possibilità di “contattare” milioni di persone, siamo molto più soli di una volta. Amicizie su Facebook, follower su Instagram, commenti e like di persone sconosciute: questi non sono legami reali, concreti. Si parla di “mondo virtuale” perché oggi tutto è astratto, immateriale. Eppure ciascuno di noi sembra aver bisogno di questa intangibilità, e i giovani più di chiunque altro.
La tecnologia ha sicuramente migliorato molti campi della comunicazione: attraverso programmi come Skype possiamo parlare e addirittura vedere persone, con cui abbiamo rapporti sentimentali, affettivi o lavorativi, che vivono dalla parte opposta del pianeta. Ma allora perché i nostri genitori, che sanno cosa significa vivere senza un telefono cellulare e sicuramente senza le miriadi di piattaforme multimediali oggi esistenti, dicono che si stava meglio 50 anni fa? Oggi non si conosce più l’attesa, tutto è istantaneo. Le chiamate dai telefoni fissi? Ridotte all’osso; le lettere? Inesistenti. Ho chiesto ad alcune adolescenti perché non chiamino anziché mandare migliaia di messaggi al giorno, mi hanno risposto: “Non mi piacciono le telefonate, mi annoiano e la mia voce non è bella al telefono”. Impersonalità: questa la parola che mi viene in mente per descrivere questo nuovo mondo, che è il nostro mondo.
Ho 21 anni, uno smartphone, sono iscritta a più di un social network, e come ogni mio coetaneo non sono immune da questa realtà. Ma so cosa vuol dire scrivere una lettera e aspettarne una in risposta, controllare ogni giorno la buchetta postale, assaporando l’ansia e il fremito dell’attesa. So cosa vuol dire stare ore al telefono, sentire la voce di chi sta al capo opposto del filo, percepire i pensieri e le emozioni dell’altro, dedurli da una pausa, un sussurro, un sospiro. La mia paura è che questa nuova realtà, questo mondo in cui si teme il confronto diretto, possa creare solo generazioni progressivamente immuni alle emozioni.

Un miliardo di tonnellate di gas serra in più ogni anno. O si cambia o è catastrofe

(Pubblicato il 18 aprile 2014)

Ogni anno immettiamo nell’atmosfera un miliardo di tonnellate di gas serra in più rispetto all’anno prima. E tra il 2000 e il 2010, le emissioni sono aumentate più rapidamente rispetto ai tre decenni precedenti. I dati sono contenuti nel “Quinto rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico” (Ipcc), un foro scientifico che ha lo scopo di studiare il surriscaldamento globale. Domenica 13 aprile, a Berlino, è stato presentato il loro studio.
Secondo uno dei tre copresidenti del gruppo di lavoro, il tedesco Ottmar Edenhofer, “per evitare pericolose interferenze con il sistema climatico occorre smettere di avere un atteggiamento di sottovalutazione” e agire in fretta. Per invertire la rotta del riscaldamento globale, è necessario diminuire l’utilizzo dei combustibili fossili (petrolio, carbone e gas naturale) e puntare sulle energie rinnovabili. Per contenere l’aumento della temperatura globale entro i due gradi, il massimo considerato sostenibile, le emissioni dovrebbero essere ridotte da qui al 2050 tra il 40% e il 70%, con un impegno ad arrivare a un valore prossimo allo zero entro la fine del secolo.
Il carbone, che produce oggi il 39% dell’energia elettrica mondiale, è considerato il principale responsabile dell’accumulo di gas tossici nell’atmosfera; per questo motivo si punta a una sua progressiva riduzione a favore del gas. Questo in vista di un auspicabile abbandono, o comunque ridimensionamento, dell’uso dei combustibili fossili a favore delle rinnovabili, considerate “pulite” e inesauribili. Se l’allarme degli scienziati non sarà ascoltato, entro il 2100 le temperature medie globali aumenteranno fra i 3,7 e i 4,8 gradi, e lo scenario di una catastrofe climatica potrebbe essere a questo punto realistico e irreversibile.
Sergio Castellari, delegato del governo italiano all’Ipcc, ha spiegato che l’Italia e l’Unione Europea sono tra le realtà “più avanzate” al mondo nella lotta al surriscaldamento globale, e ha aggiunto che il nostro paese “segue le direttive europee sul 20-20-20”, ossia ridurre del 20% le emissioni di gas serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo da fonti rinnovabili entro il 2020.
Passando a quelli che sono considerati i paesi meno virtuosi nel campo delle emissioni, si punta il dito verso i paesi emergenti, primo tra tutti la Cina, che sta vivendo un vero e proprio boom economico. Mentre i paesi occidentali, di antica industrializzazione, hanno da tempo avviato un processo di riduzione delle sostanze inquinanti rilasciate nell’atmosfera, la Cina cresce e consuma energia elettrica a ritmi molto elevati, con un impatto molto alto sull’ambiente. Nel 2011 è stato il primo produttore mondiale di Co2, con oltre il 26% del totale delle emissioni.
In parte la diminuzione delle emissioni inquinanti in occidente può essere ricondotta alla crisi economica globale, che ha avuto ripercussioni negative sulla produzione industriale (e quindi sul consumo di energia in generale) e in parte al fatto che molte industrie europee e americane hanno spostato gran parte delle loro produzioni in Cina, che quindi produce e inquina per conto di altri. Se si considera invece il livello di emissioni pro capite, scopriamo che la Cina ne emette appena un quarto rispetto a quelle degli americani e un terzo rispetto agli europei. Nel Paese asiatico vivono oltre un miliardo e 300mila persone, ma i consumi di queste sono molto inferiori ai nostri, e sono 700 milioni i cinesi che abitano nelle regioni rurali e che vivono con meno di tre dollari al giorno.
Ma anche in Europa c’è chi inquina e si oppone al taglio delle emissioni di gas serra. È la Polonia, la cui economia cresce a un ritmo del 2% annuo, e che continua a fare affidamento sulle proprie superinquinanti centrali a carbone, infischiandosene di ogni normativa europea. Secondo alcuni dati presentati da Greenpeace, nel 2013 la combustione del carbone nell’Ue ha provocato 22.300 morti premature, più di 5 mila solo in Polonia, dove si è registrato il dato più alto.
Secondo Andrea Boraschi, responsabile della campagna “Energia e clima” di Greenpeace Italia, “il carbone è una delle principali cause di avvelenamento dell’aria. Per salvare i nostri polmoni dobbiamo mettere fine all’era del carbone e avviare una radicale rivoluzione energetica”. La soluzione più logica sembrerebbe quella delle energie rinnovabili, anche se queste non sono ancora sfruttate su una scala sufficientemente ampia, a causa di incerte politiche ambientali e dei costi piuttosto alti, pur in diminuzione.

IL CASO
La vita sotto un treno e la gioia dei vigliacchi

81.304 letture al 27 agosto 2016 (Pubblicato l’11 gennaio 2016)

di Ruggero Veronese

Sono le 8,05 in stazione, a Ferrara. Una cinquantina tra viaggiatori e pendolari se ne stanno fermi e infreddoliti sulla banchina ad aspettare il proprio treno, in quello che sembra un normalissimo sabato di inizio gennaio. In lontananza si sente il fischio del Freccia Argento che sfreccia da Venezia a Lecce, pronto a oltrepassare in pochi secondi la città. C’è chi fa qualche passo indietro per non essere sballottato dallo spostamento d’aria e chi continua a leggere il giornale senza badare al resto. Come ogni mattina.
Poi succede qualcosa.
Un ragazzo di colore prende lo slancio e si lancia contro il treno in corsa. Vuole farla finita.

L’impatto è devastante: il ragazzo morirà pochi minuti dopo, appena arrivato all’ospedale di Cona dopo la corsa disperata dell’ambulanza.
Aveva 28 anni, era nigeriano: questo è quello che sappiamo di lui. Non c’è altro.
Sappiamo solamente che sabato mattina, alle 8,07,un ragazzo di 28 anni ha scelto di morire lanciandosi contro 450 tonnellate di acciaio lanciate a 200 km orari. E che non ci potrà mai raccontare chi era, cosa faceva o il perchè del suo gesto.

È per questo, sapete, che sto così male quando leggo le reazioni a questa notizia. Perché noi non sappiamo niente, assolutamente niente su quella vita che ha cessato di esistere. Eppure non sembrano pensarla così decine, forse centinaia di miei concittadini che hanno festeggiato più il suicidio di uno sconosciuto che la vittoria in trasferta della Spal.
E vorrei dire chiaramente quello che penso: alcuni commenti comparsi sui social network o giunti (e censurati) sulle testate ferraresi non sono nemmeno degni di essere definiti umani. Eccone alcuni esempi:
– “e parte subito il brindisi” (taggando gli amici)
– “Posso unirmi ai festeggiamenti?” (con replica: “più siamo e più ci divertiamo”)
– “Speriamo sia un negro di merda”. (poi, dopo aver letto l’articolo) “Siiiii un mardar in meno… alti i bicchieri”
– “I negri ormai ci hanno costretto a guardarci sempre intorno! Uno in meno non guasta”
– “Una buona scelta”
– “C’è gente che non è proprio tanto coerente… quando si parla di questi individui che buttano il cibo che gli viene dato che gli danno alloggi cellulari e soldi tutti a criticare di mandarli via etc… una volta tanto che uno decide di togliersi dai maroni spontaneamente tutti a dire poverino… ma poverino cosa?? Troppi falsi moralisti…”

C’è anche chi chiede di interrompere i festeggiamenti ma il suo ‘ragionamento’ è sorprendente: il dramma non è la morte di una persona, ma il ritardo e il disagio per i viaggiatori: “Visioni orribili per chi assiste, decine di persone che vengono coinvolte per venire sulla scena, per ripulire, enormi disagi per chi viaggia verso Lecce, messaggi impliciti connessi a un episodio del genere. Penserei a questo prima di dire che è “meglio così””.

Verrebbe quasi voglia di scrivere i nomi degli autori di messaggi come questi, perché se non faranno mai i conti con la propria morale almeno li dovrebbero fare con quella del prossimo. Ma per ovvie ragioni di privacy resteranno anonimi e nascosti a gioire della morte altrui. Dei vigliacchi sono e dei vigliacchi resteranno.
Eppure me le ricordo tutte quante le loro facce, tutte sorridenti nelle loro piccole foto accanto ai loro piccoli commenti razzisti. Vedo ragazzi che brindano con gli spritz nei locali notturni e ragazzine che fanno la bocca da papera mentre si scattano i selfie con gli iPhone, così come vedo professionisti in giacca e cravatta dallo sguardo cordiale e madri di famiglia che si fanno fotografare mentre abbracciano teneramente i figli. Gente che evidentemente ce li avrà anche dei sentimenti, laggiù da qualche parte, ma che nonostante questo passa il sabato a brindare “alla morte del negro”. E non riesco a capirne la ragione.

Tutto questo è orribile. Io ci ho messo un po’ ad abituarmi all’indifferenza di fronte alla morte – perché in questo lavoro a volte bisogna diventare anche un po’ così – ma la gioia no, quella mai. Quella non può avere alcun senso, funzione, giustificazione o utilità. E mi fa tremendamente paura.

Allora mentre si avvicina questo terribile scontro di civiltà che ci avvelena i cuori – contro l’islamismo, contro i migranti, contro la Cina, contro il mondo intero -, continuo a chiedermi se non stiamo forse gettando alle ortiche quei valori che probabilmente ci rendevano per davvero un posto migliore, in questo mondo allo sbando. Che senso ha lottare per i valori dell’Illuminismo quando siamo i primi a dimenticarli? Che senso ha scontrarsi contro i musulmani se non sappiamo neanche più cosa vuol dire essere cristiani? Non vi rendete conto che oltre a difendere la vostra cultura e la vostra religione dagli attacchi esterni le dovete difendere anche da voi stessi? Dalla vostra egoistica tentazione di trasformarle in una semplice scelta di casacca, in un tifo da stadio svuotato da ogni concetto o insegnamento?

Ieri un ragazzo di 28 anni è morto, e la morte non si festeggia: questo è quello che sappiamo.
Su tutto il resto, come direbbe Wittgenstein, si può solo tacere. E qualcuno dovrebbe farlo per davvero.

 

L’OPINIONE
Semplificazione, rimedio per molti nostri mali

18.590 letture al 27 agosto 2016 (Pubblicato il 1 ottobre 2014)

In tempi di confusione, cosa c’è di meglio che mettere un po’ d’ordine?
Intendiamoci, non l’ordine di infausta e terribile memoria, ma quello che potrebbe garantirci un po’ più di serena convivenza e un miglior funzionamento dello Stato. Come? Attraverso regole nuove, duttili, intelligenti. Comprese e condivise.
Questa almeno è la tesi di Cass Sunstein, giurista – insegna Diritto all’Harvard Law School, negli Usa – e “studioso della razionalità e dell’irrazionalità dei nostri comportamenti economici” recita il risvolto di copertina del suo ultimo libro, “Semplice”, edito quest’anno in Italia da Feltrinelli.
Sunstein ha diretto, su incarico di Barack Obama, l’Office of Information and Regulation Affair (Oira) per ripensare radicalmente il modello di governo su cui si reggono gli Usa.
Compito immane, tutt’altro che concluso. Tuttavia, il libro narra l’esperienza di tre anni, dal 2009 al 2012, di Sunstein alla guida di questo ufficio, creato nel 1980, e dei notevoli passi avanti percorsi nel semplificare leggi e regolamenti in molti campi della vita civile: dalla sicurezza nazionale alla stabilità finanziaria, dalla discriminazione sessuale all’assistenza sanitaria, all’energia, all’agricoltura alla sicurezza alimentare e in altri ancora. Insomma, un ufficio potente, senza il cui nulla osta nessuna importante regolamentazione può essere rilasciata dall’amministrazione americana.
L’Oira – che non lavora in solitudine, ma al servizio del presidente e in stretta collaborazione con il suo ufficio esecutivo – ha supervisionato 2 mila regole emanate dalle agenzie federali ed ha introdotto una notevole quantità di norme e regole che, afferma Sunstein, hanno salvato migliaia di vite e prodotto notevoli benefici economici: dal 20 gennaio 2009 al 30 settembre 2011, ben 91, 3 miliardi di dollari Tutto questo perché, prima di emanare i provvedimenti, ci si è posti qualche domanda essenziale: se la gente li capisce, come farli conoscere all’opinione pubblica, quanto costa applicarli, quante persone potranno trarne vantaggio e così via.
Introdurre regole nuove e semplificatrici potrebbe far bene alla realtà italiana? Certamente. Le leggi da noi sono troppe e scritte spesso in modo incomprensibile, le norme attuative sono lunghe, noiose e difficili da applicare; i procedimenti amministrativi sono viziati da ripetitività, sovrapposizioni, lungaggini, complicanze di vario genere, la nostra burocrazia è tra le peggiori del mondo, per non parlare della corruzione e dell’illegalità che si manifestano ovunque.
Se la memoria non mi inganna sono stati pochi i tentativi importanti di semplificazione legislativa. Ricordo ad esempio il dizionario che rendeva più comprensibile il burocratese della pubblica amministrazione, voluto dal ministro Cassese. L’introduzione delle autocertificazioni e della firma digitale, l’informatizzazione di alcuni procedimenti, la stagione delle liberalizzazioni hanno rappresentato alcuni passi in avanti.
Ma una vera e propria rivoluzione non è avvenuta: soprattutto, quel che manca nel nostro Paese è la propensione mentale a rendere più semplici le basi della convivenza e del rapporto tra il cittadino e lo Stato. Aggiungiamo l’ostinato rifiuto di molti a rispettare le regole, ed ecco perché continuiamo a farci del male.

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Trivelle e terremoti: relazioni dubbie, previsioni incerte. Ma la prevenzione è possibile e doverosa

(Pubblicato il 17 aprile 2014)

“Considerando l’attività nei campi di Cavone e Casaglia, le caratteristiche geologico-strutturali e la storia sismica della zona, la commissione ritiene che sia molto improbabile che la sequenza sismica dell’Emilia possa essere stata indotta (cioè provocata completamente dalle attività antropiche)”. E’ uno stralcio del rapporto Ichese, del quale si è fatto un gran parlare in questi giorni.
Però, qualche pagina più avanti, nelle conclusioni, si legge anche: “Lo studio effettuato non ha trovato evidenze che possano associare la sequenze sismica del maggio 2012 in Emilia alle attività operative svolte nei campi di Spilamberto, Recovato, Minerbio e Casaglia, mentre non può essere escluso che le attività effettuate nella concessione di Mirandola abbiano potuto contribuire a innescare la sequenza”. Dunque, nello specifico caso di Mirandola, non si esclude che la trivellazione del sottosuolo abbia potuto concorrere a causare il rovinoso terremoto che due anni fa ha sconvolto l’Emilia. E anche laddove (Cavone e Casaglia) si giudicano “improbabili” le connessioni, la formula utilizzata è di grande cautela: è infatti esplicitato che il termine “indotta” – riferito alla sequenza sismica – deve essere inteso come “provocata completamente”. Perciò nemmeno in quei casi si può escludere l’attività estrattiva come concausa.

Al riguardo sono necessarie alcune puntualizzazione e alcune riflessioni. L’interesse sul fronte politico, ecologista e sociale si è recentemente concentrato sulle cause del terremoto che ha scosso l’Emilia-Romagna nel maggio 2012. Un articolo, pubblicato nella rivista Science l’11 aprile (Edwin Cartlidge, 2014), ha anticipato di qualche giorno la divulgazione del rapporto Ichese (International commission on hydrocarbon exploration and seismicity in the Emilia region). La commissione, istituita alla fine del 2012 su richiesta del commissario per la ricostruzione post-sisma Vasco Errani per verificare le possibili relazioni fra la produzione di idrocarburi e i terremoti avvenuti nel maggio 2012, è costituita da tre scienziati stranieri (il coordinatore Peter Styles, professore di Geofisica applicata alla Keele University, Ernest Huenges, Stanislaw Lasocki), due scienziati italiani (Paolo Gasparini, Paolo Scandone) e da Franco Terlizzese, ingegnere della direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del ministero dello Sviluppo economico.

La commissione Ichese, sulla base di considerazioni sismo-tettoniche, ha analizzato un’area per un’estensione di circa quattromila chilometri quadrati sulla quale ricadono tre licenze di esplorazione del sottosuolo (Mirandola, Spilamberto, Recovato). Sono state prese in esame anche due aree limitrofe: il “serbatoio di Minerbio” e il campo geotermico di Casaglia nel comune di Ferrara. L’articolo di Science aveva già riportato in anteprima parte delle conclusioni della commissione, ma non presenta dati scientifici né discute quelli pubblicati nel rapporto Ichese. L’articolo è fondamentalmente di divulgazione scientifica. Il rapporto Ichese presenta invece il quadro geologico dell’area esaminata, i dati sismici e la discussione di questi. Le conclusioni dell’analisi scientifica sono presentate a punti e caratterizzate dall’aggettivo “improbabile” (“molto improbabile”, “estremamente improbabile”).

L’improbabilità (ridotta possibilità, scarsa probabilità che qualcosa ha di accadere) è un fattore sempre presente nelle scienze. L’improbabilità ha profondi aspetti epistemologici con il “Principio di indeterminazione” di Heisenberg. Le scienze sono consapevoli dell’impossibilità di pervenire ad una conoscenza della realtà fisica completa, pienamente deterministica. Nessun medico ci potrà mai assicurare che prendendo i farmaci prescritti il tumore scomparirà, per sempre. Nessun economista ci assicura un guadagno del dieci percento acquistando le azioni di quella società. Questa improbabilità è presente anche in filosofia, statistica, economia, finanza, psicologia, sociologia ed ingegneria. Se sappiamo che le scienze sono indeterminate, perché abbiamo la necessità di volere a tutti i costi risposte certe? Come possiamo pretendere di prevedere i terremoti? Perché continuiamo a cercare il probabile nell’improbabile? Perché ci ostiniamo a discutere dati scientifici invece di capire perché molti edifici di nuova realizzazione non hanno resistito alle scosse sismiche?

Ciò che è lecito desiderare e razionale domandare è che le scuole dove vivono i nostri giovani e così gli ospedali dove soggiornano i nostri familiari siano costruiti con tecniche anti-sismiche. Ed è doveroso che la nostra storia incorporata nel patrimonio architettonico ed ambientale venga salvaguardata dalla tecnologia anti-sismica.

Auspico che i politici prendano posizioni forti quali “cancellazione degli abusi edilizi in zone sismiche”, “no agli edifici pubblici costruiti senza seguire le norme sismiche“, “sì alla messa in sicurezza degli edifici storici e monumentali”, “no alla segretezza tecnologica delle attività delle grandi industrie (chimica, metallurgia, energia nucleare)”.

Suggerisco un principio di determinazione: preveniamo i danni alle persone senza farci condizionare dell’impossibile previsione dei terremoti.

NOTA A MARGINE
Prendersi cura del creato, tra preoccupazione e speranza

(Pubblicato il 26 giugno 2015)

Chapeau agli istituti Gramsci e di Storia contemporanea di Ferrara per l’incontro di martedì 23 giugno dedicato all’enciclica di papa Francesco “Laudato si’ sulla cura della casa comune”, che porta la data del 24 maggio scorso.
Intense e profonde le riflessioni di Piero Stefani e Massimo Faggioli, cui va il merito di essere andati dentro il testo con competenza chirurgica.
Sta diventando una piacevole consuetudine quella dei due istituti ferraresi diretti da Fiorenzo Baratelli e Anna Quarzi, che stanno regalando a Ferrara momenti d’inusuale intensità e libertà, per essere realtà laiche, su temi e aspetti di carattere ecclesiale. Singolare l’appello in chiusura lanciato dallo stesso Baratelli alle parrocchie con vero fare pastorale e interessante la presenza nella strapiena sala del convento del Corpus Domini in città, di sacerdoti diocesani che hanno assistito all’incontro senza perdersi una virgola.
Non pretendo di mettere in fila i numerosi temi messi in luce, tante sono state le tastiere culturali (biblica, filosofica, storica, letteraria, teologica), tutte giocate con alta abilità solistica dai due studiosi ferraresi. Solo qualche personale, del tutto parziale, sottolineatura. È stato posto in evidenza il carattere non propriamente organico del testo, evidentemente risultato di diverse mani, ma una prima cosa che colpisce, almeno me, è una sensazione di particolare allarme e preoccupazione che papa Francesco trasmette sulle condizioni del creato.
L’autorevole indice è puntato su un sistema di sviluppo più volte chiamato “tecnoscienza” o “tecno-economico” e pressoché costantemente definito “irresponsabile”. Il termine ricorre ben sette volte nell’enciclica e sempre accostato al modello di crescita partorito dal ventre occidentale. Avrebbe potuto chiamarlo “sistema capitalistico”, se l’espressione non risentisse troppo di echi marxiani, con tutti i rischi del caso. Un paradigma dal quale secondo il pontefice occorre fuoriuscire prima che sia troppo tardi, perché il pianeta non potrà reggere a lungo gli attuali ritmi di sfruttamento delle risorse, i livelli di spreco e consumo compulsivo che sta generando e le drammatiche conseguenze che scarica sull’ambiente e, soprattutto, sugli esclusi, i poveri, gli ultimi.
L’ancoraggio filosofico di tale risoluta analisi è al pensiero di Romano Guardini in “La fine dell’epoca moderna” (1950), cui spesso seguono citazioni di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, verificabili nell’apparato delle note. L’impressione, come spiegato bene dai due studiosi ferraresi, è che il post-ideologico papa argentino si collochi nel solco di un pensiero magisteriale sostanzialmente negativo, o comunque fortemente critico, verso la modernità. Non nel senso che Francesco non parli di cose attuali, o non sia sufficientemente sintonizzato con i nodi cruciali del tempo presente, come hanno puntualizzato alcuni interventi durante il dibattito, ma perché l’impostazione e il portato essenziale della sua analisi lo conducono alla stessa severità di analisi e giudizio, quasi senza appello, dei suoi due predecessori.
Ne deriva un elemento di forte preoccupazione, angoscia e monito, che, di fatto, fa da contrappunto allo slancio di gioia e speranza che pure è presente nella sua predicazione (Evangelii Gaudium) e nella stessa enciclica. Una ferma opposizione verso una modernità del cuore vuoto della persona (“Abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini”, n. 203), che si spinge fino a contemplare esiti di “decrescita”, perché si possa crescere in modo sano in altre parti del mondo (n. 193).
Non è forse la riproposizione del modello della “decrescita” un rientrare nel campo dell’ideologia da parte di un papa che ne pretende la definitiva fuoriuscita? La cifra di questo dilemma l’ha resa in particolare Faggioli. Le reazioni statunitensi al documento non sono state delle migliori e il prossimo viaggio a settembre di Bergoglio negli Usa potrebbe rivelarsi un problema.
Contrariamente alle apparenze, le critiche non vengono solo dal versante repubblicano, dalla destra, da teocon e tea party, ma più trasversalmente da una società che considera il proprio modello di sviluppo come espressione della cultura del “self made man”. Un sistema in buona parte riconducibile in radice sul doppio significato del termine tedesco “beruf” (lavoro-vocazione) che, si potrebbe dire weberianamente, sorregge eticamente (l’ascesi intramondana protestante) lo spirito del capitalismo.
In questo senso si apre una forbice fra l’impostazione-soluzione radicale di papa Francesco (non c’è altra strada che la fuoriuscita, prima possibile, dal modello della tecnoscienza) e le (eventuali?) soluzioni economiche, scientifiche, tecniche e politiche, per uno sviluppo più equo e sostenibile, in ottica certamente disintossicata dalla fiducia nell’inarrestabile linea retta del progresso.
In sostanza la domanda è: c’è ancora spazio per la razionalità (ecco la modernità) in tutto questo, o c’è solo il postmoderno lavoro della religione e della spiritualità, per quanto francescana, verso un’inversione di 180 gradi degli stili di vita? Del resto lo stesso Jürgen Habermas, da sinistra, scrisse già anni fa che fra i sistemi economici nessuno come quello occidentale ha prodotto ricchezza e benessere su così vaste dimensioni e fra gli esperti non c’è unanimità sulle valutazioni effettivamente positive della decrescita. Vengono in mente anche le parole di Edmondo Berselli nel suo libro postumo “L’economia giusta” (2010), il quale ricordava che alle nostre spalle c’è un passato di redistribuzione e di correzione delle ingiustizie firmato dalle migliori tradizioni di pensiero delle democrazie cristiane e delle socialdemocrazie europee. Su quanto di quel pensiero sia rimasto sulla carta è lecito discutere, ma rimane che quella elaborazione è parte importante della cultura continentale.
Un ultimo cenno merita la riflessione sui poveri, retrocessi nella storia, almeno recente, del magistero papale, da potenziale soggetto storico di riscatto sociale a semplice termometro dei disastri prodotti dal sistema della tenoscienza. Un punto sul quale non da ora Stefani richiama l’attenzione sulla predicazione di Bergoglio, che si ripresenta puntuale anche nella sua enciclica. Segno che nel puntiforme mondo globale e nella baumaniana società liquida i soggetti storici di riferimento sono tramontati e che è oggettivamente difficile individuare nuove forme di interlocuzione e di rappresentanza?
Il tema c’è tutto ed è aperto alla discussione libera, senza pregiudizi e disinteressata, come stanno proponendo con merito gli istituti Gramsci e di Storia contemporanea di Ferrara.

desiderio-previsioni-futuro

LA RIFLESSIONE
Essere, fare, consumare: tre costellazioni di senso per la società del domani

(Pubblicato il 3 febbraio 2016)

Il bisogno fondamentale dell’uomo è agire in un ambiente controllabile che consenta di dar senso alla propria vita. Questa esigenza emerge con forza particolare nella nostra società. La potenza delle tecnologie consente ormai da tempo uno stock produttivo complessivo, che in linea di principio sarebbe più che sufficiente a coprire i bisogni materiali più urgenti delle persone; purtroppo questa ricchezza non è distribuita in modo equo, anzi le differenze tra chi ha troppo e chi non ha nulla diventano sempre più ampie e drammatiche. Viviamo in un mondo che predica l’efficienza produttiva, ma allo stesso tempo spreca enormi quantità di risorse e di beni, proprio a causa della totale inefficienza dei meccanismi che dovrebbero garantire anche l’equità e la giustizia nell’allocazione delle risorse generate. Viviamo in un mondo materialista, dove l’eccesso di consumo produce patologie altrettanto gravi e drammatiche della carenza.
In questo mondo globalizzato la domanda di senso sembra diventare sempre più forte, aumenta insieme al crescere esponenziale dei flussi informativi e dei beni circolanti a livello planetario: con l’incremento della conoscenza sembrano anche crescere i dubbi e le perplessità ai quali le istituzioni sociali canoniche sanno offrire soluzioni sempre meno funzionali. L’argomentazione razionale, base della democrazia laica, sembra offrire sempre meno strumenti per affrontare con successo una complessità diventata ingestibile.

Ognuno, in questo mondo, cerca la felicità a proprio modo. Lo può fare, tuttavia, all’interno di un orizzonte di senso che, dopo il disincantamento dal mondo segnalato da Max Weber e la cosiddetta fine delle ideologie, è diventato radicalmente problematico. Si tratta di una sfida – dar senso alla propria esperienza di vita in un ambiente controllabile da un punto di vista soggettivo – che riguarda ogni persona, a prescindere dalle differenze di razza, religione, etnia e nazionalità, una sfida che molti pensano di eludere aderendo più o meno acriticamente a modelli già disponibili. Con sempre maggiore evidenza ci si accorge che essa non può più essere dominata semplicemente attraverso l’informazione e l’argomentazione razionale, attraverso la scienza e la tecnologia, poiché investe aspetti molto più profondi e problematici.

Per alcune persone la ricerca di senso coincide con la scoperta dell’unicità del proprio essere: la felicità è uno stato del cuore e della mente, che si trova dentro ognuno di noi a prescindere da ogni condizionamento esterno. Quello che succede “lì fuori” è complessivamente poco importante poiché l’attenzione è focalizzata sulle componenti interiori, soggettive e personali, sul modo con cui osserviamo il mondo piuttosto che sul mondo stesso: si tratta di una via contemplativa che accompagna da sempre ogni tipo di civiltà, manifestandosi in varie forme di misticismo, di trascendenza, di magia naturale, di religiosità vissuta in prima persona.
Questa latente spiritualità (comunque questo concetto sia definito), per lungo tempo bollata come irrazionalità e superstizione, è in crescita costante in tutto l’occidente. A partire dalle prime sperimentazione di inizio ‘900 e dagli impulsi creativi degli anni ’60, trova da decenni una sponda ulteriore in una certa interpretazione della scienza olistica e della fisica quantistica. Poco importa ai fini della discussione presente che le manifestazioni osservabili siano le più diversificate, come dimostra il proliferare di sette pseudo religiose, la crescita delle comunità intenzionali, la diffusione di discipline e filosofie orientali, il ritorno dello sciamanesimo, l’uso di sostanze chimiche per esperire stati di coscienza alternativi e, più importante, il riaffermarsi delle grandi religioni. Resta il fatto che dietro a questi fenomeni si cela una ricerca di senso che può essere autentica, da leggere forse come un tentativo di coltivare una dimensione differente da quella promossa dal mainstream, calcolatore e materialista. In questa prospettiva il lavoro – componente centrale della società industriale oggi in drammatica crisi – è un processo che serve per lo sviluppo interiore e per garantire eventualmente le condizioni minime che consentano di perseguire l’evoluzione personale.

Per altre persone la ricerca di senso coincide principalmente con il bisogno di agire nel mondo e di cambiarlo in modi coerenti con la volontà: il fare rappresenta da sempre un modo per realizzare se stessi, per superare l’inquietudine e per fuggire dai dubbi che la mente vagabonda e non disciplinata pone agli uomini. Questo approccio, fortemente radicato nella cultura occidentale, con la sua enfasi sul lavoro e sul successo, ha rappresentato una formidabile spinta nel passato recente e anche oggi è, per molte persone, fonte irrinunciabile di senso. Nel ‘fare’ artigiani, piccoli imprenditori, professionisti, lavoratori, scienziati (etc.), trovano la ragione della loro vita, non per il guadagno monetario, ma per l’intrinseca soddisfazione del lavoro ben fatto, per il gusto della creatività applicata, per la sete di conoscenza, per il riconoscimento della propria bravura e del proprio mestiere. Un fare che in molti casi viene premiato dalla società in modo esplicito, seppure in proporzioni molto variabili da luogo a luogo, da persona a persona. Il fare riporta tanto al tema del successo quanto a quello del dovere, dimensioni entrambe fortemente associate allo spazio del senso: bisogna agire, primeggiare, raggiungere obiettivi, costruire e realizzare qualcosa nel mondo “lì fuori”, ottenere il riconoscimento e l’invidia degli altri a conferma del proprio essere vincenti. L’homo faber da senso alla vita attraverso l’esercizio della sua facoltà di trasformare l’ambiente in cui vive, con l’impegno per un mondo migliore, la lotta contro l’ingiustizia, il lavoro incessante per tutelare i diritti, la libertà, la natura, la patria.

Per molte persone il senso della vita si risolve essenzialmente nell’avere. Il consumismo nel quale viviamo e siamo cresciuti è uno stile di vita che si fonda su un assunto fondamentale: la realizzazione personale e spirituale è (e deve essere) ricercata attraverso il consumo; per far questo è indispensabile che una mole sempre più grande di prodotti sia realizzata, acquistata e sostituita a un ritmo sempre più veloce. Consumare è l’azione quasi magica che  garantisce nello stesso tempo la prosperità della società e la felicità dell’individuo. Nelle società occidentali questo è il mantra fondamentale: consumo dunque sono. Pubblicità ormai associata a ogni tipo di comunicazione, obsolescenza programmata e moda sono i pilastri su cui si fonda. L’homo consumer è un pozzo di desideri senza fondo che agisce per massimizzare la propria felicità attraverso la ritualità del consumo; egli trova per ogni problema la specifica soluzione all’interno di un mercato potenzialmente infinito; beni e servizi consentono di affrontare e risolvere (per quanto?) problemi di infelicità, cattivo umore, difficoltà relazionali, sviluppo personale, crisi familiari, sofferenza, ricerca di senso e significato. Basta essere debitamente informati e pagare. Il lavoro, in questa prospettiva, serve principalmente per ottenere i soldi sufficienti per entrare nel circuito del consumo creatore di senso, a prescindere dalla qualità intrinseca e dagli effetti che esso produce nel mondo.

In ogni persona possiamo riconoscere combinazioni diverse e mutevoli di questi tre tipi ideali; allo stesso modo i tre tipi variamente si intrecciano, si mescolano, si incontrano e si scontrano nella società dando luogo ad un mélange variegato. Persone ascrivibili a uno di essi si trovano in tutti gli strati e le classi sociali, in tutti i gruppi, in tutti i territori, in proporzioni però assai differenti. Pochissimi probabilmente coloro che ricercano coscientemente un esperienza autentica centrata sull’essere, discretamente presenti i secondi, tantissimi i terzi, poiché in questo universo ritroveremo tutti quelli che perseguono non solo il consumo per il consumo, ma anche il consumare per avere e il consumare per essere.

Una certa vulgata new age ampiamente diffusa parla di un risveglio della consapevolezza a livello planetario, di una nuova spiritualità: uomini e donne dell’era dell’acquario dovrebbero essere gli esempi di quella nuova umanità evoluta, capace di vivere in modo olistico in un universo di pace e prosperità. Almeno a sentire i media, il mondo sembra però andare in un altra direzione, anche se qua e là non mancano dei segnali positivi.
Non sarà facile nel futuro prossimo trovare un’equilibrio, ma se iniziamo a considerare noi stessi e ogni persona come soggetti in cerca di senso tutto sarà più facile. Proviamo a spegnere il rumore di fondo che affolla di pensieri la nostra mente per abbracciare il presente liberi dall’ingombro di un ego ipertrofico, agiamo con coscienza e consapevolezza, consumiamo meno e in modo più responsabile. Saremo più felici e i risultati, poco alla volta, arriveranno.

ELOGIO DEL PRESENTE
Se vivessimo fino a 150 anni

(Pubblicato il 15 febbraio 2016)

Se vivessimo fino a 150 anni cosa cambierebbe nella nostra vita? Tra le tendenze discusse qualche settimana fa al World Economic Forum di Davos l’ipotesi che la durata della vita si sposti ben oltre il traguardo del secolo. L’aumento delle attese di vita è ormai costante da ormai un secolo: la tendenza in atto in tutti i Paesi del mondo è dovuta ai progressi medici e scientifici e agli studi biogenetici. Ciò ci ricorda che i limiti sono sempre mobili e segnati in primo luogo dalle possibilità offerte dalla scienza, con buona pace di coloro che considerano i valori eterni e fondativi della convivenza sociale.
Il traguardo di un allungamento consistente della esistenza propone già in un futuro prossimo questioni relative alla destinazione delle risorse pubbliche e all’organizzazione della vita sociale e anche nuove sfide per l’economia.
Quali sono le implicazioni? In un sondaggio fatto dall’World Economic forum tra i 2500 partecipanti, il 58% dice che i matrimoni dureranno di meno e si divorzierà di più; il 54% prevede che i figli si faranno più avanti negli anni. Gli individui si abitueranno al cambiamento, svilupperanno capacità di adattamento, ci sarà maggiore flessibilità e apertura al nuovo.
E’ piuttosto facile immaginare che la vita lavorativa si allungherà ulteriormente. Ma se le opportunità di lavoro sono già oggi erose dalle tecnologie digitali, quale lavoro attenderà i nostri nipoti alla soglia degli 80 anni? Molta letteratura ha sottolineato che la spinta alla distruzione creatrice che ha segnato le precedenti fasi dell’innovazione, è venuta meno: le tecnologie sono destinate a distruggere più lavoro di quello che creano. Soprattutto tendono a sostituire una larga parte di posizioni intermedie e a rendere rapidamente obsolete molte competenze.
Certo nella prospettiva di una lunga vita cambierà il rapporto con la formazione e l’apprendimento nel corso dell’esistenza. Imparare sarà una necessità primaria per tutti, sarà una condizione per stare al passo con le tecnologie che sempre di più entreranno nella quotidianità e sarà una condizione per poter stare all’interno di spazi comunitari che cambieranno sempre più velocemente. A dire il vero a questo sarebbe meglio pensare fin da oggi.
Le diseguaglianze attraverseranno più ancora di oggi i rapporti tra le generazioni. Le reti di protezione sociale probabilmente non saranno più solide. Rischi di marginalità colpiranno quegli anziani che alle spalle avranno avuto un lavoro precario. Mentre i super senior avranno bisogno di nuovi servizi: le domande di cura saranno in primo piano. Ma i rischi di un impoverimento diffuso renderanno ancor più urgente e complesso affrontare le questioni redistributive.
E forse non parliamo neppure di uno scenario troppo remoto: già il presente è preoccupante e prospetta molti di questi pericoli.


Maura Franchi vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com