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In questi giorni mi trovavo a Firenze per prendere parte al grande convegno organizzato dall’amica Anna Dolfi, tappa importante delle celebrazioni bassaniane. Il titolo era: “Gli intellettuali/scrittori ebrei e il dovere della testimonianza. Per Giorgio Bassani, “Di la dal cuore””. La tre giorni fiorentina si è svolta nei palazzi prestigiosi della città toscana: il Rettorato di Piazza San Marco, Palazzo Medici-Riccardi, Palazzo Strozzi. Ogni giornata comprendeva 16 relazioni di quaranta minuti l’una con una scansione calibratissima tra interventi di critici notissimi e di giovanissimi studiosi. Talmente fitto il programma da non lasciare spazio né al classico ‘lavarsi le mani’, né alle pause caffè, anche se non di proporzioni simili alle uscite dei lavoratori di certe istituzioni pubbliche. Eppure i ragazzi non mollavano: accampati per terra se le sedie erano finite o ammucchiati negli angoli dove attenti non si concedevano i doverosi bisbigli concessi alla loro età ma di cui invece approfittavano i maturi relatori. E proprio nella Sala Ferri di Palazzo Strozzi, la mitica sala di tanti convegni, dove ancora il ricordo indugiava sulla presentazione che feci di Andrea Camilleri che proprio in quell’occasione rivelò il suo netto distinguo da Berlusconi al potere, mi accingevo a parlare con un nodo alla gola poiché sapevo dalla televisione che da poche ore Donald Trump era stato eletto presidente degli Usa.
E allora decisi di non seguire la traccia della conferenza che tra pochi mesi sarà pubblicata negli atti, ma di portare una testimonianza, quella che comportava il ricordo di una conoscenza dell’ebraismo nata e scandita nel tempo e che mi portò alla comprensione di quel particolare strumento critico che è il dovere della testimonianza nella storia e per la storia: per quel che può valere la mia personale esperienza. Il giorno avanti un giovane studioso Dario Collini, che ringrazio per la generosa disponibilità del testo da lui studiato, citava una frase dal manoscritto di Otto ebrei , il celebre racconto di Giacomo Debenedetti, poi cancellata nell’edizione a stampa: “Quello che […] può addolorare [gli ebrei] nel profondo, è proprio questo: di rimanere un “caso” che graffia sottilmente, come una vellutata zampa di gatto, l’epitelio della ferita recente non del tutto rimarginata […]”.
La coincidenza con il titolo del saggio di Roberto Cotroneo che ha curato l’edizione dei Meridiani delle “Opere” di Bassani, La ferita indicibile salta dunque agli occhi. Ma perché, se questa è la condizione del testimone, i disguidi della storia hanno permesso che la rammentassi proprio nel giorno delle elezioni del più incomprensibile tra i probabili candidati al trono del mondo?
Quindi decisi che il mio intervento poteva e doveva diventare testimonianza da dedicare a chi per primo mi fece conoscere le fondamenta dell’ebraismo: Guido Fink. Con una serie di date:
1938 sono nato nell’anno delle leggi razziali da una famiglia assai numerosa che comprendeva tra gli zii materni, sei, due future medaglie d’oro, un potentissimo gerarca amico di Italo e di Lino Balbo e un altro, mai conosciuto, accoltellato nel 1924, lui fascista della prim’ora da un gruppo di comunisti. Alla fine della guerra ricordo il nonno che ci trascina al Cimitero per scalpellare dalla facciata della cappella di famiglia i fasci che troneggiavano sul timpano. I bombardamenti di Ferrara portano al fallimento l’attività edilizia del nonno e da una solida agiatezza piombiamo in una quasi miseria. La mamma s’impiega al consorzio canapa.
1948 Ci riuniamo nella casa di Guido Fink di fronte alla Sinagoga di via Mazzini. Guido è compagno di mio fratello e ha scritto una commedia che dovremmo recitare: una serie di cavalieri il cui status è rappresentato dalle mutande lunghe di fustagno dei nonni ed io il più piccolo e dalla voce ‘scirlenta’ ero naturalmente la principessa da conquistare con in testa una parrucca di lana blu che la mamma di Fink aveva confezionato da una matassa di lana. Dopo le prime battute siamo presi da un ‘fou rire’ e ci trasferiamo nella camera di Guido dove troneggiano meravigliosi giocattoli. Chiedo a Guido chi gli dava tali bellissimi doni. Mi risponde che era il suo papà. Alla richiesta di sapere dove si trovava un tale padre Guido risponde: “viaggia sempre”. Scendiamo le scale e mio fratello mi fa leggere dove si trovava il padre di Guido, il cui nome era scolpito nella lapide in via Mazzini accanto alla Sinagoga in cui erano ricordati tutti gli ebrei ferraresi che non sono tornati dai campi di concentramento.
E da quel momento nel mio immaginario il nome di Fink, legato a quello di Bassani che fu suo insegnante nella scuola ebraica di Via Vignatagliata quando le leggi razziali li espulsero da quelle pubbliche, si connette con quello di Claudio Varese che mi presta i libri dello scrittore ferrarese fino al 1962 quando, benché febbricitante, assisto alla presentazione del Giardino dei Finzi-Contini con la conseguente polemica sulla figura della ‘vera’ Micòl. Apprendo a distinguere tra diverse anime degli ebrei, alcuni legati a una specie di ferraresità che si fa rancore, altri invece che operano culturalmente nella città per portarla ad un ruolo culturale eccezionale. E basterebbe citare figure come Paolo Ravenna, Giuseppe Minerbi, Renzo Ida e Geri Bonfiglioli tra gli altri che operano nella piccolissima comunità ferrarese mai più ripresasi dopo la Shoah. La conoscenza diretta di Bassani avviene dopo il 1968 quando, ormai inserito nel mondo accademico fiorentino, partecipo alle lezioni che Claudio Varese organizza al Magistero di Firenze per presentare la figura dello scrittore il quale vanta una lunga e straordinaria conoscenza della città già dai tempi della guerra quando fuggito da Ferrara dopo il ’43 si reca con la famiglia a Firenze dove collabora con Carlo Ludovico Ragghianti alla nascita del Partito d’azione e svolge una importante azione resistenziale. Di lì a poco l’arrivo a Roma che diverrà la sua città fino alla morte.

I ferraresi a Firenze sono davvero decisivi per la vita culturale di quella città che ancora si presenta come il luogo determinante per la cultura del Novecento: da Lanfranco Caretti che detiene la cattedra di Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere a quella di Claudio Varese che la occupa a Magistero. E i ferraresi che Bassani descrisse nel racconto Omaggio che apre il suo primo romanzo, Una città di pianura, apparso in “Letteratura” nel 1938 e pubblicato nel 1940 sotto lo pseudonimo Giacomo Marchi in parte si riuniscono nella casa di Varese. Sono Guido Fink e sua moglie Daniela, Lina Dessì, il poeta Rinaldi e ancora Giovannelli o Pinna i compagni di studio e di vita del giovanissimo Bassani a Ferrara. Nel frattempo la mia casa fiorentina per 25 anni diventa quella sui colli di Bellosguardo, dove incontro non solo i protagonisti della stagione dei cosiddetti anglo-beceri ma anche i personaggi legati alla vita dello scrittore ferrarese. L’architetto Berardi, tra i progettisti della stazione di Santa Maria Novella, che costruisce a Bassani la sua casa di Maratea e che gli offre nella sua casa di Fiesole un bune retiro, sposerà la figlia di Arnoldo Mondadori, Mimma, per cui tra le ragioni della pubblicazione finale del Romanzo di Ferrara presso Mondadori sta questa amicizia. A Firenze vivono anche i figli di Jenny Bassani Liscia, l’amata sorella dello scrittore, che s’imparenteranno con la mia vice-madre fiorentina. Frattanto a Ferrara nascono le occasioni di un doveroso e importante omaggio all’autore che ha reso celebre Ferrara. La laurea honoris causa in scienze naturali del 1992; il convegno “Bassani e Ferrara, le intermittenze del cuore”, curato da Alessandra Chiappini e da chi scrive queste note, tenuto l’anno successivo alla Biblioteca Ariostea, che voleva essere l’atto riparatorio che la biblioteca intendeva fare nei confronti dello scrittore allontanato nel 1938 dalla stessa biblioteca a causa delle leggi razziali.
In quegli anni Francesco Guzzinati invita il suo antico compagno di banco al Liceo Ariosto di Ferrara, Giorgio Bassani, a parlare al Rotary di Ferrara della sua vita liceale . Al Liceo Bassani ebbe come compagni di banco e Lanfranco Caretti e lo stesso Francesco Guzzinati, due persone che fino alla fine furono legati di amicizia ‘ferrarese’ con il grande scrittore.
Un’altra intermittenza del cuore è legata alla celebrazione nel 2002 presso la Sinagoga italiana di via Mazzini del quarantennale dell’edizione del Giardino dei Finzi-Contini. In quell’occasione la sorella Jenny racconta e spiega i ‘bocconi’ che si gustano alla cena della Pasqua ebraica ed Enrico Fink, figlio di Guido, ingegnere spaziale che ha scelto di dedicarsi al teatro canta la filastrocca rituale in dialetto ferrarese del Caprét ch’avea comperà il signor Padre.
Ora si stanno per aprire le grandi celebrazioni bassaniane che occuperanno un’intera settimana e si concluderanno con la proclamazione dell’importante premio Bassani voluto da Italia Nostra.

L’inizio dei lavori del Meis, la Fondazione Bassani, la donazione del manoscritto del Giardino dei Finzi-Contini, la ristrutturazione della meravigliosa casa Minerbi, luogo di riunione tra Bassani, Paolo Ravenna e il proprietario della casa Beppe Minerbi, a cui lo scrittore dedicherà la prima edizione de L’airone, che è diventata sede dell’Istituto di Studi Rinascimentali e del Centro studi bassaniani, voluto quest’ultimo dalla generosissima donazione che Portia Prebys ha fatto al Comune di Ferrara e dove si potrà studiare tutto ciò che è stato scritto di e su Giorgio Bassani. Questo è ciò che per ora la città protagonista del suo romanzo ha voluto dedicare al suo illustre figlio.
Ferrara sta per rimarginare la ferita indicibile.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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