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IL FATTO
Incendio colpisce il negoziante antiracket

Colpito un’altra volta il ‘ribelle’ Tiberio Bentivoglio, il negoziante antiracket di Reggio Calabria.
Nel 1992 ha messo in piedi con la moglie Enzala Sant’Elia, un negozio di sanitaria e puericultura, e da subito si è rifiutato di pagare il pizzo ai clan della ‘ndrangheta. E’ stato il primo a ribellarsi pubblicamente, denunciando alle forze dell’ordine i tentativi di estorsione, e la criminalità non ha né dimenticato né perdonato.

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Tiberio Bentivoglio

Nella notte fra domenica e lunedì un incendio, l’ennesimo di cui la sua attività è stata vittima in questi anni, ha distrutto completamente il deposito e la merce della Sant’Elia. Secondo quanto riportato dalle testate locali, quando le fiamme sono state domate dalle squadre dei vigili del fuoco, gli uomini della Scientifica hanno trovato fra le macerie un tappo e i resti di una tanica: le indagini sono in corso e sembrano indirizzarsi verso la pista dolosa e quindi verso un atto di intimidazione.

Ferraraitalia aveva parlato di Tiberio Bentivoglio e della sua scelta di legalità nel settembre 2015, in occasione di un incontro di cui era stato ospite a “La Casona” di Cassana: leggi [qui]

da: Coordinamento Provinciale di Ferrara di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie

Nella notte fra domenica 28 e lunedì 29 febbraio è scattato l’allarme per un incendio di vaste proporzioni che ha completamente distrutto il deposito della Sanitaria Sant’Elia, il negozio che Tiberio Bentivoglio e la moglie Enza gestiscono da anni a Reggio Calabria, nonostante le minacce dei clan.
Le cause del rogo sono non sono ancora certe, ma secondo quanto riportano le prime notizie, gli uomini della Scientifica intervenuti sul posto avrebbero trovato fra le macerie un tappo e i resti di una tanica. Le indagini sono in corso.

Tiberio Bentivoglio ha deciso di non pagare il pizzo alla ‘ndrangheta per la sua attività, inaugurata il 25 aprile 1992: la Sant’Elia, un negozio di articoli sanitari e puericoltura.
A Reggio Calabria è stato il primo a dire pubblicamente no al pizzo. E i clan non glielo hanno perdonato. Da allora si sono susseguite “le punizioni”, come le chiama lui, perché “si arrabbiano quando c’è qualcuno che non si comporta come gli altri e va dai Carabinieri”. In questi anni atti intimidatori, incendi, telefonate minatorie: in tutto sono più di 40 le denunce che ha sporto e sette gli attentati che ha subito, uno persino alla sua vita, nel febbraio 2011, da allora vive sotto scorta.
Nel 2010, anche grazie a Libera e al suo referente regionale Mimmo Nasone, è nata “Reggio Libera Reggio”, un’associazione per il consumo critico che raggruppa realtà commerciali e vuole “sensibilizzare le persone a fare i propri acquisti nei negozi che ci hanno messo la faccia contro il pizzo”.

Il Coordinamento Provinciale di Libera di Ferrara ha conosciuto Tiberio e ha ascoltato la sua testimonianza durante un incontro organizzato a settembre 2015 in collaborazione con la cooperativa sociale Meeting Point.
Tutti i volontari sono rimasti colpiti dalla figura di Tiberio, che ha condiviso con noi la storia della sua scelta di vita, stare dalla parte della legalità, portata avanti a testa alta, con la dignità di chi sa in fondo al suo cuore e alla sua coscienza di aver fatto la cosa giusta.
“È in momenti come questo che bisogna fare fronte comune davanti alla prepotenza criminale, circondando Tiberio ed Enza Bentivoglio con la nostra solidarietà, che può e deve tramutarsi in impegno, generando aiuti concreti per ripartire, ancora una volta, ancora con maggior coraggio”, afferma Donato La Muscatella, referente per il Coordinamento di Ferrara di Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.
In questo difficile momento il Coordinamento Provinciale di Ferrara di Libera, il Presidio Studentesco Giuseppe Francese e il Presidio Barbara, Giuseppe e Salvatore Asta del Centopievese, vogliono quindi esprimere con forza la propria vicinanza a Tiberio Bentivoglio e a sua moglie Enza, perché non perdano proprio ora la speranza e il coraggio che li hanno animati in tutti questi anni: la battaglia per un’economia e una cultura di legalità è lunga e difficile, ma vale la pena combatterla, non siete soli, noi siamo al vostro fianco.

COORDINAMENTO PROVINCIALE DI LIBERA DI FERRARA
PRESIDIO BARBARA, GIUSEPPE E SALVATORE ASTA DEL CENTOPIEVESE
PRESIDIO STUDENTESCO GIUSEPPE FRANCESE DI FERRARA

IL RICORDO
Umberto Eco, i fumetti e la regina Loana

di Gian Luigi Zucchini

La scomparsa di Umberto Eco ha movimentato i computer di tutto il mondo. Pertanto tra rievocazioni e ricordi di tanti personaggi, anche importanti e famosi, questo mio breve scritto non vuol essere altro che una riflessione come ricordo per un docente con cui, insieme ad altri, sono stato in diverse sedute di laurea; e di cui ho anche ascoltato varie lezioni, che erano spesso una divertente passeggiata nei diversi meandri della cultura, oppure un gioco di incroci dove memoria, intelligenza, acume critico e levità di linguaggio concorrevano a tener vivo l’interesse anche degli studenti meno attenti.
Mi capitava, quando avevo un po’ di tempo, di entrare di soppiatto nell’aula dove lui faceva lezione e sedermi in fondo, ad ascoltare, soprattutto quando sapevo che avrebbe trattato certi argomenti, come per esempio il fumetto, o la letteratura rosa, o il romanzo d’appendice: tutta merce di scarto, se non addirittura di rifiuto. I cascami della cosiddetta cultura popolare, per di più banale, quindi da non prendersi neppure in considerazione. Invece Eco li ha trattati con un garbo e una finezza critica tali che, da cosucce da niente, sono divenuti ambiti di studio e di ricerca per molti, anche per me, che – debbo confessarlo – in un primo momento mi sentivo abbastanza turbato per quelle scorribande così fuori dalle consuetudini accademiche. Accadeva, infatti, a persone più o meno della nostra età, di ricordare le cautele che genitori, insegnanti, pii catechisti e candidi curati, raccomandavano circa queste pubblicazioni, spesso anche condannandole perché largamente ‘diseducative’, mentre ora se ne discute addirittura nelle aule universitarie e si fanno tesi di laurea su Topolino o Tin Tin o il duo Cino e Franco.

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Umberto Eco

Tuttavia, anche per non attardarmi su argomenti ormai dilaganti sui media, scarto subito citazioni relative al ‘Nome della Rosa’, alla vastità di pensiero del professore e alle sue acutissime introspezioni nella filosofia medioevale e nella semiologia, e mi rannicchio in qualche angolino un po’ oscuro, in compagnia di alcune letture che, non molto citate nelle celebrazioni e nei corsivi di rito, hanno offerto a me occasione di riflessioni disordinatamente leggere, eppure culturalmente vaste e forse anche profonde. Furono intanto alcuni saggi sulla cosiddetta ‘letteratura per signorine’, altrimenti detta ‘rosa’, in particolare un’analisi sulla produzione di Carolina Invernizio, Matilde Serao e Liala, in un libretto edito dalla Nuova Italia nel 1979 con ampia introduzione di Eco, che lo stesso aveva allegramente intitolata “Tra donne intorno al cor mi son venute…”. Poi soprattutto il ‘romanzo illustrato’ “La misteriosa fiamma della regina Loana”. Qui si incrociano evocazioni musicali, con le canzonette del Trio Lescano o del Quartetto Cetra, le tronfie immagini del Fascismo, con manifesti, inni, rimette esaltate e idiozie pedagogiche, in cui, per far apprendere ai piccini di prima elementare le più ostiche regole ortografiche, si usava esemplificare con ‘gagliardetti’, ‘camicie nere’, ‘mitraglia’, ‘duce’, ecc. Ma c’erano anche i fogli di soldatini che evocavano Les Images d’Epinal e i fumetti con l’elegantissimo Fantomas, le varie avventure di Topolino, tra Legione Straniera e polizia americana. Su tutto questo nel libro, in particolare sui fumetti, Eco scrive interessanti riflessioni, come per esempio: “Mi sarò forse avvicinato a Picasso sullo stimolo di Dick Tracy?”
E, interrogandomi a mia volta, mi chiedo: le stampe popolari d’Epinal, o certe caricature di Jacovitti, non mi avranno forse un tempo avvicinato meglio a Honoré Daumier o alle sapide deformazioni espressionistiche di Otto Dix?
Ecco, chi l’avrebbe mai immaginato un tempo, quando le maestre requisivano questi documenti costruiti per le fantasie infantili, e li buttavano nel fuoco? Non c’era già lì, in quell’incomprensione verso il libero respiro della cultura della storia, un’inconsapevole valorizzazione dei roghi hitleriani, un valutare l’arte secondo modelli già prefigurati, eliminando quella troppo divergente, già vergognosamente definita ‘arte degenerata?.
“Era sui fumetti che probabilmente mi costruivo faticosamente una coscienza della storia”, scrive ancora Eco. Ed è probabile che la misteriosa fiamma della Regina Loana avesse già in quei momenti cominciato a bruciare nell’ancora infantile fucina dello scrittore, per diventare addirittura un grande rogo, che ha ravvivato tra il millennio scorso e quello appena iniziato il focherello della nostra ormai agonizzante fantasia con i due potenti combustibili della cultura e della ragione.

LA SEGNALAZIONE
Uomini visti dalla parte dei cani. Imperdibile Paolini al teatro Comunale

Contastorie come lui in giro non ce n’è altri. Stavolta Marco Paolini rilegge Jack London e, in “Ballata di uomini e cani”, attraverso la metafora della Grande Frontiera, mentre ci fa appassionare all’epopea dell’età dell’oro e ci rende partecipi della disperata ebrezza dei cercatori, in fondo in fondo parla a noi, ai tempi presenti e rivela i tic e le ansie di un’epoca – la nostra, appunto – costellata da esseri traviati, ora come allora: qualcuno all’inseguimento di un nuovo orizzonte di vita, altri più stoltamente abbacinati dal miraggio della ricchezza e pronti per essa a rinunciare a ogni cosa, sentimenti e dignità, fino al sacrificio ultimo della vita stessa.
Ma pure di altri uomini traccia il profilo. Uomini il cui passo è agitato dallo spettro della miseria e della disperazione. E la cui tormentata marcia di fuga è inevitabile. Così, in filigrana, si disegna l’odissea dei migranti, di coloro che, reietti come cani ma come i cani utili e asservibili, sono alla ricerca di un porto sicuro, attraversano le intemperie e patiscono il gelo della vita senza mai perdere la speranza. E ostinatamente proseguono il cammino.

La narrazione si gioca anche sull’ambivalenza dei sentimenti, lo scambio e la commistione dei ruoli. L’allegoria rende bestiali gli umani e umane le bestie, e viceversa, in ribaltamenti continui. E in questo ubriacante caleidoscopio, alla fine sono i cani che ci osservano e ci giudicano. E scorgono l’assurda ostinazione dell’uomo moderno, costretto da sé medesimo ad andare avanti senza requie, all’inseguimento di un imprescindibile obiettivo.

Alterna drammaticità e ironia, Paolini, com’è nelle sue corde. Gioca sui paradossi, come quello dei pionieri che intimano agli indiani di tornarsene a casa loro… E’ sarcasmo: una provocazione fatta con lo sguardo puntato sull’intolleranza e le mistificazioni del nostro presente. Fa il verso alle prepotenze di chi cela debolezze e fragilità alzando la voce e il tiro. Riporta il filo della narrazione al presente e alla realtà. E parla così di sacrifici e di vittime vere: ostaggi della storia, non dei miraggi. Allude ai morti sui quali nessuno può versare lacrime, freddi numeri buoni solo per le statistiche.

Affiora così, narrato sul palco e non solo evocato, l’irrealizzato sogno di riscatto di Zaer, “saldatore errante dell’Asia”, ragazzo sfuggito a guerra e miseria che ultima tragicamente la sua fuga verso la libertà travolto sul selciato di una strada nostrana dopo essere scivolato dal camion nel quale aveva cercato rifugio. Nel suo diario, ritrovato e tradotto, sono espresse parole che poeticamente testimoniano la consapevolezza della fragilità della vita. Paolini le canta, nella sua conclusiva originale appendice al testo di London, e rende così omaggio alla diaspora di questo nostro secolo. Ne fa un manifesto contro l’ingiustizia e l’incomprensione che colpisce uomini trattati da cani. E si pone dichiaratamente dalla parte delle vittime quando, infine, al pubblico confessa: in queste storie io sono sempre stato il cane. Usato, scacciato, bastonato.

In un proscenio essenziale e suggestivo, con la sua sola presenza l’attore regge magistralmente la scena. Ma non è solo. Gli orchestrali che danno note e ritmo ai racconti (Macchia, Bastardo e Preparare un fuoco) sono ben più che un complemento. Il canto finale di commiato dal pubblico, affidato a Lorenzo Monguzzi, è la voce ostinata e contraria di chi non si rassegna e sommessamente sussurra: “a tutti piace chiudere la porta, ma io vorrei tenerla aperta”. E’ ciò che prima o poi ci auguriamo di riuscire a fare davvero.

Chi può, non perda l’occasione per vedere questo spettacolo. Oggi alle 16 al teatro Comunale di Ferrara c’è l’ultima rappresentazione.


[La foto è di Marco Caselli Nirmal]

LA NOTA
Discorso per la terra

Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in maniera tale che non riescono a vivere né il presente né il futuro. Vivono come se non dovessero mai morire e muoiono come se non avessero mai vissuto. Dalai Lama

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Copertina Internazionale

Tre parole e un nome, José Pepe Mujica, classe 1935, quarantesimo Presidente dell’Uruguay dal 1 marzo 2010 al 1 marzo 2015. Un uomo che ha fatto parlare di sé, anche se non se ne è mai scritto abbastanza, per uno stipendio da presidente, all’epoca del mandato, di circa 8.000 euro al mese, di cui il 90% donato a organizzazioni non governative e persone bisognose; per il viaggiare alla guida di un Maggiolino del 1987; per la scelta di vivere in una piccola fattoria alla periferia di Montevideo, anziché nel palazzo presidenziale. Con un passato da comandante guerrigliero del movimento dei Tupamaros, arrestato e poi liberato per un’amnistia, Mujica è stato prima ministro e poi presidente molto popolare, per la sua vicinanza alla gente, al popolo, alla vita normale. Paladino della sobrietà, concetto per lui ben diverso dall’austerità (termine che considera “prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro” e quindi spesso senza dignità), l’ex presidente uruguayano ammette la necessità di consumare, ma senza lo spreco, terribile piaga. Perché quando si compra una cosa, non la si compra con i soldi, ma con il tempo della vita servito a guadagnarli. Ecco perché oggi, vi riproponiamo due discorsi di Mujica che invocano rispetto per la terra e per il tempo prezioso della nostra vita. Due momenti intensi da riascoltare.

Uruguay's president Jose Mujica waves at the press upon his arrival at La Moneda presidential palace in Santiago, on March 10, 2014.
Jose Mujica, 10 Marzo 2014.

Il primo discorso è quello fatto al Summit Rio+20, il 5 luglio 2012 (vedi), quando Mujica sfidava una platea attonita (e impettita nella sua rigida uniforme diplomatica) dicendo che: 
”…. la sfida che abbiamo davanti è di dimensioni colossali e la grande crisi non è ecologica, è politica! L’uomo non governa oggi le forze che ha sprigionato, ma queste forze governano l’uomo… e la vita! Perché non veniamo alla luce per svilupparci solamente, così, in generale. Veniamo alla luce per essere felici. Perché la vita è corta e se ne va via rapidamente. E nessun bene vale come la vita, questo è elementare. Ma se la vita mi scappa via, lavorando e lavorando per consumare un plus e la società di consumo è il motore, perché, in definitiva, se si paralizza il consumo, si ferma l’economia, e se si ferma l’economia, appare il fantasma del ristagno per ognuno di noi. Ma questo iper consumo è lo stesso che sta aggredendo il pianeta.

Però loro devono generare questo iper consumo, producono le cose che durano poco, perché devono vendere tanto. Una lampadina elettrica, quindi, non può durare più di 1000 ore accesa. Però esistono lampadine che possono durare 100mila ore accese! Ma questo non si può fare perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e dobbiamo sostenere una civilizzazione dell’usa e getta, e così rimaniamo in un circolo vizioso…..”. Un messaggio ai governi per ripensare le loro priorità. Inascoltato? Non da tutti, qualcuno sta riflettendo, noi per primi. Consumare meno e meglio, senza che questo significhi tornare all’età della pietra, un invito a non sprecare il nostro tempo e a passare la nostra corta vita a pagare rate continue per beni spesso inutili, case e macchine sempre più di lusso. Solo nella nostra infanzia, non poi tanto lontana, le cose si riparavano, con cura a attenzione. Oggi si butta, tutto. Il mercato fa sì che costi meno ricomprare che riparare. E montagne di rifiuti ci sovrastano.

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Green report

Il secondo discorso di Mujica, di soli 45 secondi, manda lo stesso identico messaggio, con semplicità: una critica che cerca di dare soluzione, in un piccolo video realizzato quando il regista Arthus Bertrand lo ha intervistato per il suo documentario “Human” (vedi), di cui abbiamo parlato (leggi). Anche qui si invita ancora a pensare a una sola cosa, a non sprecare: “Quello che stiamo sprecando”, spiega Mijuca, “è tempo di vita perché quando io compro qualcosa non lo faccio con il denaro, ma con il tempo di vita che hai dovuto utilizzare per guadagnare quel denaro. L’unica cosa che non si può comprare è la vita. La vita si consuma. Ed è da miserabili consumare la vita per perdere la libertà”. Quella libertà oggi toltaci da un mercato concorrenziale spietato, che non abbiamo saputo domare e che oggi ci governa come vuole. Abbiamo perso il controllo della nostra stessa creatura. Come l’ex presidente uruguayano ricordava anche a Rio, non è povero chi possiede poco, ma veramente povero è chi necessita infinitamente tanto, chi desidera e vuole sempre di più. Bisogna rivedere il nostro modo di vivere, lo sviluppo non può essere contro la felicità, ma deve essere in suo favore. In favore dell’amore per la terra, per le relazioni umane, a cura dei bambini, l’avere amici e tempo per loro, il possedere l’indispensabile, tutti, perché il primo elemento dell’ambiente è l’uomo e la felicità umana. Io ci sto pensando, sempre di più.

LA SEGNALAZIONE
Il Novecento e la seduzione dell’antico

di Maria Paola Forlani

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Foto di Tiberio Zucchini

La mostra “La seduzione dell’Antico. Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto” a cura di Claudio Spadoni narra l’ininterrotto richiamo dell’antico lungo tutto il nostro secolo.
Ecco allora che le opere esposte al Mar – Museo d’Arte della città di Ravenna fino al 26 giugno 2016, di grandi protagonisti italiani e stranieri, attraversano l’intera storia del Novecento documentando la ripresa della tradizione in una restituzione moderna di modelli e valori dell’antico: talora attraverso la citazione esplicita, in forma evocativa o come pretesto per una rilettura inedita di opere e figure mitizzate del passato, altre volte con la riproposizione in veste di icone contemporanee, fino a operazioni ironiche o dissacranti.
Il clima italiano fra le due guerre non è certo propizio alle avanguardie. Esso rimane sostanzialmente provinciale. Ad aggravarlo sono le mitologie nazionalistiche agitate dal Fascismo, che conquista il potere nel 1922. Il clamore delle manifestazioni futuriste, relativamente vicine nel tempo, va ormai spegnendosi: scomparso Boccioni, ritiratosi Carrà, che dopo l’esperienza della pittura metafisica si rivolge a una pittura caratterizzata da una severa sintesi arcaizzante, abbandonato virtualmente anche da Severini, che riconduce il proprio linguaggio in una diversa sfera di interessi, al Futurismo vengono a mancare dei contributi più qualificati.
Così alle speranze degli innovatori, si sostituisce un desiderio di ripensamento e di revisione dei valori ritenuti tradizionali. Quel vasto fenomeno che passa sotto il nome di “retour à l’ordre” e che investe tanta parte dell’arte europea si manifesta in Italia subito dopo l’armistizio. Nel novembre del 1918 viene pubblicata a Roma a cura di Mario Broglio, la rivista “Valori plastici”, alla quale collaborano fra gli altri Carrà, Savinio e De Pisis. “Valori plastici” insiste sulla necessità di un ritorno alla linea italiana e propone quali modelli Giotto e Masaccio.
Ѐ in quest’aria di restaurazione che nasce il Novecento. Il movimento viene fondato a Milano nel 1922. La denominazione di Novecento è coniata da Anselmo Bucci (1887-1955) e fra i primi aderenti si contano: Leonardo Dudreville, Achille Funi, Pietro Marussig, Emilio Malerba, Ubaldo Oppi e Mario Sironi.
È una denominazione ambiziosa, che sottintende il proposito di associarsi alle grandi epoche storiche – come dire: il Quattrocento, il Cinquecento – con ciò rendendo palesi gli intenti conservatori. Carlo Carrà dimostra ai tanti adepti di una tradizione malintesa quale fosse l’autentica lezione di Giotto e dei primitivi: un sapiente governo dei rapporti di linee, forme e colori nello spazio, una disciplina costante vissuta in pari tempo a livello artistico e morale. L’agire di Carrà nelle stagioni fra le due guerre illumina la misura raggiunta dal proprio linguaggio, la sua volontà cioè di costruire l’immagine sul dettato di una geometria ideale, capace comunque di assorbire i moti dell’animo, le variazioni del sentimento, l’urgere dell’emozione, per fissarli in un ordine superiore e incontaminato dall’accademismo esistenziale.
Dopo essere stato un pioniere delle avanguardie, Carrà avverte il bisogno di un ripensamento e di una revisione, soprattutto di ricondurre l’opera a quella ‘durata’ che l’artista riconosce appunto negli antichi. Sironi e Carrà: due casi, cui pochi altri s’aggiunsero.

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Foto di Tiberio Zucchini

Morandi, nell’ambito della nota limitatezza dei soggetti – le composizioni con bottiglie e pochi paesaggi – ha saputo condurre il processo di interiorizzazione dell’immagine fino ai gradi più profondi, legittimandolo poeticamente attraverso sottili e sempre rinnovate combinazioni spaziali e rapporti tonali con un rigore morale : “una lunga instancabile, solenne ‘elegia luminosa’ – com’ebbe a dire Roberto Longhi – una così poetica ricognizione del mondo di natura da non trovar pari nel cinquantennio che gli toccò attraversare con la sua ombra densa di alto, austero viandante la cui ‘vox clamantis’ raggiungeva anche le plaghe più desertiche dell’arte che gli fu contemporanea”.
Con Campigli poi, all’arte italiana viene proposta una nostalgia di moduli arcaico-micenei passati attraverso la raffinatezza di un gusto coltivato nella temperie parigina: una magistrale eleganza di ritmi in un’aria di ‘tempo perduto’; con De Pisis, la miracolosa facoltà di concludere nel volgere rapidissimo di una ‘scrittura’ stenografica il senso poetico di un paesaggio, di una figura, di un interno, colti all’improvviso e fissati nella retina un istante appena sufficiente per essere eternati.
La mostra ravennate attraverso una sequenza di sezioni tematiche, presenta oltre 130 opere di grandi protagonisti e di alcuni ‘outsider’ particolarmente significativi, oltre ad un video di Bill Viola.
A introdurre la prima sezione, che riprende le parole di Carrà “Quel non so che di antico e di moderno” sono opere notissime come “Il figliol prodigo” di Martini, “Il vecchio e il nuovo mondo” di Savinio, “Composizione metafisica” di De Chirico, “Bagnanti” di Carrà, “Maternità” di Severini.
Attraverso le opere rappresentate in questa sezione, che coprono quasi l’intero arco del Novecento, si comprende come il tema della seduzione dell’antico non alluda a un recupero di temi o forme del passato in chiave nostalgica, ma si riferisca piuttosto a un’inconsapevole o deliberata rielaborazione di forme classiche che si trasformano in temi nuovi e originali.
L’ultima sezione racconta la sorprendente continuità dalle neoavanguardie al postmoderno attraverso alcuni grandi esponenti del rapporto tra Modernità e Antico, con opere e installazioni. L’Antico – rappresentato dall’arte classica e rinascimentale – è ormai veramente lontano e il distacco inevitabile.

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Foto di Tiberio Zucchini

Ecco allora Luigi Ontani, poetico Narciso, che si cala nei modelli del passato; gli stessi modelli proposti in chiave concettuale anche da Giulio Paolini con la sua scultura, intitolata “Mimesi”: due busti classici di Ermes posti in posizione speculare, si guardano e sembrano interrogarsi l’un l’altro.
Non di minore importanza Andy Warhol con la “Nascita di Venere di Botticelli” in versione pop e l’istallazione di Pistoletto nella quale una copia della “Venere con mela” dell’artista neoclassico Bertel Thorvaldsen, sembra lentamente avanzare verso un cumulo di stracci colorati.

ORIZZONTI
Cittadinanza attiva e tecnologie digitali: la nuova frontiera è l’internet delle cose

Il dibattito attorno alla privacy che vede schierati Apple contro Fbi suscita mille domande, alle quali probabilmente non siamo ancora in grado di dare risposte sufficientemente esaustive. Questo accade soprattutto a causa della crescita esponenziale ed estremamente veloce di internet che, negli ultimi anni, una volta raggiunti i tre miliardi di utenti nel mondo, è divenuta sinonimo di innovazione ma anche sintomo di complicazioni. Il web è un ambiente molto complesso, in perenne cambiamento e piuttosto ostile verso i più ‘pigri’ che ancora stentano ad avvicinarsi. Ma il fatto è che più questi tardano l’approccio più rischiano di non riuscire a colmare il gap e a mettersi al passo con le evoluzioni tecnologiche della rete. In un Paese come il nostro – dove le più recenti statistiche Istat indicano che un italiano su cinque supera i sessantacinque anni – un tema come questo dovrebbe essere al centro dell’interesse collettivo. E’ urgente un’opera di sensibilizzazione verso l’utilizzo delle nuove risorse digitali e la conoscenza delle dinamiche della rete, non solo nelle scuole ma anche per gli anziani, in particolare per quella generazione che più si allontana anagraficamente dai nativi digitali.

Tutto ciò è importante soprattutto nell’ottica dell’inevitabile transizione in rete di ogni nostra pratica quotidiana, un futuro che ha già anche un nome: ‘Internet delle cose’. Per ora siamo entrati nell’epoca della condivisione, dell’iperconnettività, della reputazione digitale (che su internet diventa un tassello importante, da non sottovalutare); e non è un caso se nella miriade di informazioni alle quali possiamo accedere in ogni momento e in ogni luogo prestiamo maggiormente attenzione alle recensioni, ai consigli degli utenti della rete, come non è un caso che i social media siano diventati contenitori dove potersi riunire e discutere anche e soprattutto di quelle tematiche che riteniamo essere più importanti poiché si ripercuotono nella nostra vita reale. Su Facebook nascono così gruppi dove poter organizzare ritrovi per la cura del proprio quartiere, del verde pubblico, creare eventi o manifestazioni, comunicare disagi e criticità, mentre Twitter diviene il canale privilegiato attraverso il quale interagire con enti pubblici e privati per segnalare e risolvere problemi in breve tempo. E navigando sul web si trovano infinite altre realtà, piattaforme, applicazioni nate e utilizzate per un unico scopo: andare verso una cittadinanza che sia davvero attiva, partecipe e – cosa più importante – sempre più ‘padrona’ della tecnologia. Una cittadinanza che sfrutta questi nuovi strumenti a suo vantaggio e non si lascia assoggettare da un mondo che, se non conosciuto, rischia davvero di creare alienazione piuttosto che innovazione.
Ecco quindi che la tecnologia, se utilizzata nel modo corretto, può contribuire in maniera sempre più positiva alla creazione delle ‘smart cities’, le città intelligenti: realtà urbane in grado di gestire le miriadi di informazioni prodotte dai propri cittadini, i quali diventano veramente gli utenti finali. Città in grado di creare e migliorare i propri servizi mediante il mondo digitale, luoghi reali dove l’interazione virtuale diviene veicolo di diffusione di cittadinanza attiva distribuita su larga scala e dove il web diviene il mezzo democratico alla base di un rinnovato accordo tra popolazione, amministrazione e politica.

Proprio di questo si è parlato nei giorni scorsi in un interessante videoconferenza dal titolo “E-participation: le tecnologie digitali e mobili per rinnovare l’alleanza tra cittadini e pubblica amministrazione”, organizzata da Fpa, società specializzata in relazioni pubbliche, comunicazione istituzionale e percorsi di assistenza alle pa nei processi di innovazione. Tra i relatori del seminario Alberto Muritano, Ceo di Posytron, società di consulenza Ict particolarmente attenta alla creazione di piattaforme web per le pa che siano in grado di integrare molteplici servizi interattivi per il cittadino nell’ottica dell’Internet delle Cose. Tra queste spicca ePart, un social network divenuto simbolo dell’interazione cittadino-pa: una moderna web app attraverso la quale gestire il flusso di informazioni in maniera estremamente bidirezionale.
Già attiva in molti comuni sparsi in tutto il suolo nazionale, ePart consente di creare una vera e propria mappa delle problematiche di ciascun paese e migliorare di conseguenza l’efficienza dei servizi: in questo modo, ogni utente (iscritto o no) può segnalare le criticità riscontrate che, attraverso un attento sistema di filtraggio, vengono immediatamente smistate e visualizzate dagli uffici di competenza dei vari comuni; questi a loro volta possono gestire con maggiore attenzione la risoluzione del problema stesso. Una soluzione che, se diffusa capillarmente, può essere in grado di facilitare molti di quei processi che oggigiorno richiedono sforzi e tempistiche spesso disumani.
Un esempio di successo nell’utilizzo di questo ‘urban social’ è stato illustrato da Antonio Scaramuzzi, Responsabile Servizio Sistemi Informativi e Telematici del Comune di Udine, città che ospita centomila abitanti e novecento dipendenti comunali, inserita su ePart dal gennaio 2011. A oggi sono circa tremila i cittadini (registrati e non) attivi sulla piattaforma e quarantadue gli operatori comunali (divisi tra sette dipartimenti) pronti ad occuparsi delle segnalazioni. Secondo Scaramuzzi questa sperimentazione ha portato notevoli benefici: oltre alla riduzione della distanza tra i ‘palazzi’ e la popolazione, significative sono state le migliorie sul versante dei costi e tempi di operazione, entrambi sensibilmente ridotti, oltre alla concreta possibilità di avere una mappatura costantemente aggiornata della situazione cittadina.

Insomma piccoli ma incoraggianti segnali, sintomo che fortunatamente qualcosa anche in Italia si sta facendo e un discreto numero di cittadini si dimostrano interessati a queste novità. Compito di tutti è dare continuità a questo interesse, anche se la strada è ancora tutta in salita e non è più il tempo di sottovalutare tali innovazioni: un adeguato sistema infrastrutturale e una diffusa educazione digitale sono e devono essere priorità assolute per il nostro domani.

L’EVENTO
Promess* Spos*: la terza edizione del Tag Festival a Ferrara

“Speravamo che il 26 febbraio fosse tutto finito, ma non è così”, anzi “stiamo navigando a vista” ed “è anche nel nostro interesse cercare di affrontare il tema senza creare ulteriori ostacoli”: queste parole del presidente nazionale di Arcigay Flavio Romani – lunedì mattina durante la conferenza stampa di presentazione del programma – dipingono il non facile clima nel quale è stato organizzato e si terrà “Promesse…e sposi”, il Tag-Festival di Cultura Lgtb, arrivato alla sua terza edizione, a Ferrara il 26, 27 e 28 febbraio.
Gli fa eco Massimiliano De Giovanni, presidente Arcigay Ferrara: “organizzare un festival come questo in questo dato momento storico non è facile”. E dal canto suo anche Massimo Maisto, vicesindaco di Ferrara e assessore alla cultura con delega ai giovani (proprio dai capitoli della cultura sono venuti i 3.000 euro contributo del Comune all’iniziativa), afferma che: “speravamo di trovarci qui a festeggiare una nuova legge”, invece “purtroppo il festival si terrà nel pieno di un dibattito” che, secondo il suo personale parere, è “una delle pagine più brutte della politica italiana” perché “si fanno tatticismi sulla vita e sulla pelle delle persone”.
Ecco allora che ad aprire il Tag Festival venerdì pomeriggio pare non sarà più la senatrice Monica Cirinnà, che ha legato indissolubilmente il suo nome al disegno di legge sulle unioni civili. Gli organizzatori sono in attesa di un nome alternativo: “Spero che verrà qualcun altro del Pd a spiegarci la situazione in Senato”, ha affermato Romani. Incalzato dai giornalisti, a proposito delle recenti affermazioni di Renzi sulla strategia per l’approvazione del ddl, il presidente nazionale di Arcigay spiega che, nonostante la comprensibile “amarezza”, la strada dell’alleanza trasversale con Sel e Movimento Cinque Stelle è ancora “l’unica”: “si vedrà articolo per articolo chi vota cosa e chi boccia cosa”. “Cercare l’alleanza con Ncd – continua Romani – significherebbe fare una legge di civiltà con il partito più omofobo d’Italia, che questa legge non la vuole”.

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Un momento della conferenza stampa

In un momento così delicato diventa ancora più necessario e importante, secondo gli organizzatori, approfondire le tematiche legate alle persone, alla comunità e alla quotidianità lgtb con “un programma di altissimo profilo”, secondo De Giovanni, che spazierà dall’ideologia gender all’omogenitorialità, dal bullismo omofobico nelle scuole al confronto con la religione.
Particolarmente importante l’appuntamento di sabato mattina alle 11: Ketty Segatti della Regione Friuli Venezia Giulia e Dario Accolla de Il Fatto Quotidiano illustreranno i “dati sconcertanti” del “primo studio scientifico di carattere internazionale” sul bullismo che ha coinvolto 2.138 studenti degli istituti superiori del Friuli Venezia Giulia, ha spiegato Luca Morassutto (avvocato di Articolo29 e nuovo componente del direttivo Arcigay di Ferrara). Seduti fra il pubblico ci saranno anche studenti di “diverse classi degli istituti superiori cittadini”, ha sottolineato l’assessora alla pubblica istruzione e alle pari opportunità Annalisa Felletti: “riteniamo utile la partecipazione dei ragazzi come segmento della cittadinanza su cui è importante lavorare sul piano della sensibilizzazione” per “educare alle differenza valorizzandole, non livellandole”.
Sabato pomeriggio la filosofa Michela Marzano e la teologa ed ex monaca benedettina Benedetta Selene Zorzi affronteranno insieme alla giornalista Caterina Coppola la fantomatica ‘ideologia del gender’, che Romani ha definito “una macchina di terrorismo psicologico, soprattutto all’interno delle scuole”. Domenica mattina, lo psicoterapeuta familiare Federico Ferrari, la bioeticista Micaela Ghisleni e Cristina Gramolini, tra le fondatrici dell’associazione nazionale Arcilesbica, parleranno invece di omogenitorialità e nuovi modelli famigliari.
Domenica pomeriggio dalle 16 circa, infine, si parlerà di religione e dei dilemmi con cui si confrontano i credenti gay, ma non solo: “non per fare polemica, per trovare punti di contatto”, ha affermato Massimiliano De Giovanni. Don Bedin, “rappresentante di una Chiesa madre e non matrigna, non potrà venire, forse perché la matrigna si è mossa”, ha scherzato un po’ provocatoriamente Flavio Romani. Arriverà però appositamente da Barcellona, dove si è trasferito dopo essere stato sospeso dal sacerdozio in seguito al proprio coming out, Krzysztof Charamsa, teologo ed ex insegnante al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum e alla Pontificia Università Gregoriana. Dialogherà con lui il magistrato, credente e omosessuale, Eduardo Savarese, autore del volume “Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma”.
Ci sarà naturalmente spazio anche per il divertimento e “l’autoironia, che è uno dei nostri punti forti”, ha scherzato Romani. Venerdì pomeriggio alle 18 alla Sala Boldini, Veronica Pivetti presenterà il suo film d’esordio “Né Romeo né Giulietta”; alle 21,30 Mikaela Capucci di Mikamale Teatro salirà sul palco della Sala Estense con “L’importanza di lavarsi presto”: Suor Melodia, le sue orazioni ‘riparative’ e proposte ‘rieducative’ per lesbiche, gay e transessuali faranno trascorrere un’ora e mezza di sfrenata allegria. Sabato sera toccherà ad Alessandro Fullin e al suo il suo “Fullin legge Fullin” e, dalle 23, al party La Cage Aux Folles all’Arci Bolognesi. Infine, domenica dalle 18.30 Fabio Canino racconterà la genesi del suo nuovo romanzo distopico “Rainbow republic”, che racconta la rinascita economica della Grecia grazie alla partecipazione e al sostegno della comunità gay.

Il programma aggiornato sul sito www.tagfestival.it

PARADOSSI
“Io, insegnante di geografia di Ferrara con 18 classi e 400 studenti…”

Diciotto classi divise in due scuole (e altrettanti Consigli di Classe ai quali presenziare), di cui una con ben tre sedi da raggiungere e solo due con parcheggio, per un totale di circa quattrocento alunni da gestire: è questa la denuncia di Enrico Gherardi, docente di ruolo di geografia nella Scuola Secondaria Superiore di Ferrara. Un problema che secondo il professore non riguarda solamente la gestione interna dei vari istituti ma anche la sua materia, tanto importante quanto sempre più bistrattata negli ultimi decenni dalle ultime riforme scolastiche.

Proponiamo di seguito la video-denuncia integrale inviataci dal prof. Gherardi.

Bollicine nel fango

Sembrano secoli ormai. È passato tanto, troppo tempo da quel giorno. Però mi ricordo tutto, e se chiudo gli occhi posso sentire ancora gli odori di quella mattina di festa.
Era il trentuno dicembre del 1982 e avevo compiuto i miei sospirati diciott’anni già da qualche mese, in agosto per la precisione. Ovviamente era ancora fresca in tutti noi la gioia della finale dei mondiali vinta contro la Germania.

Apro una parentesi: l’estate di quell’anno fu una delle più felici della mia vita, sicuramente la più spensierata. Ricordo la vigilia di Ferragosto nella spiaggia di Gabicce, era ormai buio ed eravamo tutti intorno a un falò in attesa che partissero i fuochi dai barconi al largo. Io ero con Adina (in realtà il nome era un altro, simile ma assai difficile da pronunciare), era tedesca e aveva vent’anni, era bionda, alta e… si sarebbe sposata in settembre con un suo coetaneo di Colonia, la città dove abitava. Lei non spiaccicava una parola d’italiano e io altrettanto di tedesco, però i gesti e gli sguardi erano più che sufficienti e stavamo abbracciati come due innamorati. Il giorno dopo poi sarebbe ripartita per Colonia e naturalmente non l’avrei più rivista. Guardavo lei, guardavo la sua amica, che sospettavo essere lesbica perché aveva rifiutato la corte di tutti i maschietti del gruppo, e guardavo i miei amici spalmati sulla sabbia come me, come me rallegrati da una buona dose di birra che, a parte il far girar la testa, ci costringeva a ripetute missioni tra i cespugli tutt’intorno per svuotare vesciche sempre piene. Fissavo il fuoco e desideravo che quella notte durasse per sempre. Poi l’estate finì e ricominciò la scuola. Per me era l’anno della maturità, ancora un ultimo sforzo e una volta diplomato sarebbe arrivata finalmente la libertà… almeno pensavo.

Comunque torniamo a quella mattina della vigilia di Capodanno.
Mi ero svegliato presto e avevo chiesto a mia madre di prestarmi la macchina perché mi serviva per andare a fare spese per la festa che stavo allestendo col resto del gruppo, ero fresco di patente e mia madre acconsentì a malincuore. Del resto in quel periodo ero l’unico patentato tra i miei amici e la disponibilità di una macchina divenne per noi fondamentale. Addentai una fetta di ciambella che mia nonna aveva appena sfornato e ingollai al volo un sorso di latte direttamente dal cartone, afferrai le chiavi della 127 e uscii. Ricordo ancora la voce accorata di mia nonna che mi seguiva per le scale dicendomi: “Mi raccomando, stai attento! Vai piano con la macchina, che non la conosci ancora bene!”

Il cielo su Ferrara era coperto, come al solito. La pioggia cadeva a intermittenza ormai da giorni e, anche se non faceva troppo freddo, l’aria era umida e pungente. Tutto sommato, del tempo non mi fregava un granché: la festa era al coperto e io e i miei amici sapevamo che niente ci avrebbe rovinato la serata, nemmeno il diluvio!
Passai a prendere Andrea, il mio migliore amico, insieme andammo da suo cugino Marco. Marco abitava con la madre e la sorella in una casa enorme, con un grande cortile in fondo al quale si ergeva un capannone che all’inizio serviva come magazzino per macchine agricole, e che dopo alcuni anni, trasferite le attrezzature in campagna, trasformammo completamente facendolo diventare il nostro quartier generale. Ogni sera e ogni fine settimana ci trovavamo tutti lì, a bere una birra, a giocare o anche solo a fare niente, bastava esserci. Lì ci facevamo le feste, ci portavamo le ragazze, ascoltavamo la musica e, ogni tanto, qualcuno preparava un rilassante e innocuo spinello che democraticamente passava a tutti gli altri.

Avevamo organizzato tutto nei minimi particolari, già due mesi prima avevamo iniziato a spargere la voce tra le varie “cumpa” di periferia con cui avevamo rapporti di buon vicinato. Negli altri gruppi c’erano vecchi amici d’infanzia o ex compagni di scuola o semplicemente gente conosciuta in precedenti feste e poi rimasta in contatto con alcuni di noi. Lo scopo ultimo era procurare più ragazze possibili, meglio se carine: a tal proposito potevamo considerarci più che soddisfatti poiché, dalle adesioni ricevute, prevedevamo la partecipazione di un’ottantina di persone, di cui più della metà erano ragazze. Avevamo distribuito decine di biglietti, ognuno dei quali significava un incasso anticipato di diecimila lire, coi soldi avremmo comperato i cibi e le bevande per la festa, e il denaro che fosse avanzato l’avremmo speso in dischi e luci strobo.

All’epoca locali da ballo e discoteche erano roba da “anziani”.
Per noi e i nostri coetanei era più divertente farci la discoteca in casa organizzando feste private dove puntualmente conoscevamo e intortavamo ragazze nuove.
Per la musica erano anni importanti: c’era il rock delle ‘band immortali’, stava nascendo il pop della new wave inglese, mentre il funky americano dominava ancora le piste da ballo, poi lo ska, il reggae e qualche residuato di punk. Questo era il menù musicale delle nostre feste e più in generale delle nostre serate in compagnia. Andare ai concerti era un’abitudine costosa, ma irrinunciabile: si risparmiava sul cinema e la pizza, però quando gente come The Police o i Simple Minds capitava a fare concerti nei paraggi noi dovevamo esserci, con buona pace dei nostri vecchi.

Quel giorno io, Andrea e Marco andammo al supermercato a procurarci tutto l’occorrente. Uscimmo con tre carrelli carichi e ancora mi sorprendo per come siamo riusciti a far stare tutto nella 127 di mia madre.
Stipati all’inverosimile, ci stavamo dirigendo a casa di Marco quando per strada vedemmo un ragazzo che camminava quasi barcollando. Lo riconobbi, era Simone, un mio vecchio compagno delle medie, abitava nel nostro quartiere e per qualche tempo ci eravamo frequentati. Mi fermai, scesi dalla macchina e gli andai incontro. “Ehi vecchio come stai?” gli dissi.
“Ma ciao! Bene, te come va?” mi rispose.
“Tutto regolare Simo. Senti, ti ho visto e mi sono chiesto che facevi stasera… Noi organizziamo la festa da Marco, se vuoi passare noi siamo lì. Ti garantisco che faremo un gran casino”.
“Beh, ti ringrazio, è che stasera sarei a un’altra festa. Però magari dopo la mezzanotte mi libero e faccio un salto”.
“Ok! Senti: se poi passi e ti porti dietro qualche donzella ti offriamo doppia consumazione. Ci stai? Mi raccomando ci conto!”
“Vedrò cosa posso fare, ciao!”

Simone aveva diciannove anni, era un bel ragazzo, alto, con i capelli castani, ricci, portati lunghi sulle spalle. A scuola, almeno finché non si era ritirato, aveva fatto sfracelli con le ragazze. Qualche anno prima era conosciuto da tutti per la sua fama di ‘bello e maledetto’: arrivava con la sua moto e tutte le ragazze se lo mangiavano con gli occhi. Tra noi c’era chi non lo sopportava proprio. Non io.
Ci conoscemmo alla Tasso, io facevo la terza media e lui capitò nella mia classe come ripetente. Un pomeriggio, nel cortile della scuola, mi salvò da un sicuro pestaggio dopo una discussione con tre ‘cremini di piazza’. Da quella volta iniziammo a vederci spesso: mi insegnò a giocare a carambola in un baraccio di un suo lontano parente in fondo a Via Arginone, mi fece fumare il mio primo spinello dietro una siepe nei giardini dell’Acquedotto e mi fece condividere la sua particolare passione per i fumetti horror.
Parlavamo di tutto, gli argomenti spaziavano dalle tipe che te la danno subito all’estinzione delle tigri siberiane, da Alan Ford e il Gruppo Tnt a Baudelaire, Rimbaud e tutti gli altri maledetti.
Lui invidiava il mio talento a disegnare, io il suo coraggio.
Un giorno lo presentai ai miei amici, ma Simone era un solitario e preferiva starsene per i fatti suoi. Ancora oggi non so proprio perché mi prese in simpatia. In compenso usciva con un sacco di ragazze e spesso me le presentava.
Una sera mi fece conoscere Anna, un tipetto tutto pepe di un paio d’anni più grande di me. Era una biondina graziosa con due occhi chiarissimi dall’apparenza innocente, in realtà una punk scatenata, pazza per i Sex Pistols e i Clash. La prima ragazza che mi fece finalmente comprendere cosa volesse dire baciarsi con tutta la lingua.
Poi Simone cambiò, cominciò a frequentare quelli di Via Formignana, tossici convinti. Ci vedemmo sempre di meno fino a perderci di vista, per poi incontrarci casualmente in quella vigilia di Capodanno.
Ci salutammo, io me ne tornai nella 127 mentre sentivo su di me le occhiate perplesse dei miei due compagni, Simone si girò e proseguì il suo cammino. Quella mattina fu l’ultima volta che lo vidi.
La giornata proseguì frenetica. I preparativi per l’imminente serata erano la nostra unica preoccupazione. Ricordo che avvisai i miei che non sarei tornato per il pranzo e che sarei rimasto da Marco a sistemare il locale fino al tardo pomeriggio, sarei poi passato a casa a ora di cena a cambiarmi per la festa. Ci trovammo tutti lì, tutti noi della vecchia guardia: Andrea, Mek, Gepry, Mauro, Ruggy, Willy, Robur, Flipper, Carion, Forla, Ricci e io. In cuor mio però mi dicevo: “Ne manca uno…”
L’avevo incontrato proprio quella mattina.

Lavorammo sodo perché tutto fosse pronto per le nove di sera, l’ora ufficiale d’inizio della festa.
E forse fu proprio quel pomeriggio il momento più bello di quel Capodanno, più della sera e della notte di baldoria che ci aspettava, più delle ragazze e delle sbornie che sarebbero arrivate. Quel pomeriggio, forse come mai prima d’allora e come non sarebbe mai più stato dopo, ci sentimmo fratelli.
Non potrò mai dimenticare quella notte, la festa fu un successone, arrivarono più di un centinaio di persone e, tra esse, tantissime ragazze nuove. Ci sentivamo i padroni del mondo, e forse in quel piccolo angolo di mondo che avevamo trasformato nel nostro regno del divertimento lo eravamo per davvero.
Io feci pace con Isabella, la mia ex. Ci baciammo fino a un quarto d’ora dalla mezzanotte poi scattarono i festeggiamenti: il 1983 era iniziato!
Bastarono qualche birra e qualche liquore di troppo e io e Isabella ci mandammo nuovamente e reciprocamente al diavolo, stavolta in modo definitivo. In verità ero segretamente e disperatamente innamorato di Roberta, una morettina pallida e magrolina conosciuta un anno prima ad una festa di carnevale. Era di Tresigallo, ma i suoi si erano trasferiti in città da qualche anno. Portava i capelli corvini raccolti in un cerchietto di madreperla, i suoi grandi occhi neri dal taglio vagamente orientale e le sue labbra carnose facevano da contrasto con le lentiggini che ricoprivano il nasino a patata. Non era appariscente e per diverso tempo nessuno del gruppo se la filò più di tanto. Nonostante ciò, quando la vidi quella prima volta, la trovai subito bellissima. Quello con Roberta fu un vero e proprio colpo di fulmine, il primo e unico, purtroppo non corrisposto, credo. Un amore comunque destinato a rimanere platonico, poiché all’epoca, se pur tra alti e bassi, stavo con Isabella e decisamente non ero il tipo che ci provava con tutte. Roberta poi era una ragazzina assai timida, parlava poco e arrossiva facilmente, era costantemente controllata dai suoi e usciva di casa raramente. Lo shock arrivò nell’aprile del 1982, quando venni a sapere che Mek e Roberta s’erano messi insieme. Da quel giorno ebbi la certezza d’amarla, ma mi convinsi pure che non sarebbe mai più potuta essere mia.

Erano le tre di notte quando Andrea e Ruggy mi trovarono steso a terra nel cortile davanti all’ingresso del capannone. Sbronzo come poche altre volte nella mia vita, mi ero addormentato con la faccia semisommersa in una pozzanghera.
Fuori c’erano cinque gradi sopra lo zero e io avevo addosso solo un paio di jeans e la camicia, ero in uno stato pietoso: col respiro facevo le bollicine nel fango!
Mentre mi raccoglievano per portarmi al coperto e risparmiarmi una probabile polmonite, io chiamavo Roberta e piangevo. Mi tennero in disparte e ci misero un po’ per calmarmi. Ma alla fine mi passò, ci unimmo agli altri e Andrea e Ruggy non dissero niente a nessuno. Quell’episodio rimase una cosa tra me e loro, Mek non lo venne mai a sapere.

Il giorno seguente eravamo devastati!
Fortunatamente le scuole avrebbero riaperto dopo la Befana e noi avremmo avuto tutto il tempo per recuperare.
Ci ritrovammo da Marco nel tardo pomeriggio: ci eravamo ripromessi di ripulire e riordinare il capannone dagli effetti della bolgia di qualche ora prima, ma nessuno di noi era a posto, c’era chi aveva un tremendo mal di testa, chi continuava a entrare e uscire dal bagnetto in fondo al cortile, e chi come me era febbricitante e con la gola arsa dalla sete.
Per tutto il giorno, il prezzo da pagare per aver passato una notte di bagordi l’avremmo scontato nella testa e nello stomaco; ed era un conto parecchio salato! Vedere le bottiglie di liquore rimaste mi dava la nausea e avevo un continuo, assillante bisogno di bere acqua
Poi all’improvviso arrivò Forla, aveva un’espressione strana, capimmo che doveva dirci qualcosa.
«Che c’è Forla, che è successo?» lo incalzò Ruggy. Forla fece un sospiro, era scuro in volto, aspettò che tutti noi lo guardassimo con la massima attenzione, infine parlò: «Sentite gente, l’ho saputo adesso per radio… Simone è morto!»

Rimasi col bicchiere di carta pieno d’acqua in mano a guardare la faccia di Forla che, dette quelle parole, si sedette sul divano e rimase a testa bassa senza aprir più bocca. Non avevo più sete. Sentii la mia voce esclamare che non era possibile, che l’avevo incontrato la mattina precedente dopo tanto tempo e che c’eravamo pure parlati, ma quelle parole non uscirono mai dalla mia bocca. Rimasero nella mia testa e ci rimasero a lungo. Sapevo che si bucava, tutti lo sapevano, eppure ero fermamente convinto che ne sarebbe uscito, che si sarebbe salvato. O forse, crederlo mi aveva fatto comodo, mi era servito semplicemente per alleggerire la coscienza.
In realtà non avrebbe mai potuto salvarsi, non senza il nostro aiuto. In realtà gli avevamo voltato le spalle, avremmo dovuto fermarlo, riempirlo di botte se necessario. Magari non sarebbe cambiato niente, ma avremmo dovuto comunque provarci, io per primo. Invece non facemmo nulla, se non commiserarlo.

Simone era orgoglioso, era impavido e amava le sfide e l’avventura.
Simone era fragile, solo e insicuro, e non si fidava di nessuno.
Simone aveva perso i genitori da bambino e viveva con i nonni. La scuola non faceva per lui, non accettava ordini e fece del suo meglio per farsi cacciare. Iniziò a lavorare a sedici anni, coi primi guadagni si comprò una Cagiva 125, poi a diciotto passò alla RD 350, la moto più desiderata di tutte all’epoca.
Eppure per lui mancava sempre qualcosa, aveva un buco nero che non riusciva mai a riempire, lo capivo dalle tante confidenze che ci facevamo nelle serate birraiole dalla Gigina. Mi diceva che Ferrara gli stava stretta, che appena avesse messo da parte un po’ di soldi e fosse stato maggiorenne sarebbe andato via per sempre, mi parlava del Venezuela e di un suo improbabile cugino che abitava là. Non so quanto di quello che diceva fosse vero, ma so che mi piaceva ascoltarlo, era bravo a raccontare.
Anche se per breve tempo, Simone fu per me un vero amico, e credo di esserlo stato anch’io per lui, forse l’unico amico che abbia mai avuto. Almeno finché non conobbe colei che se lo portò via per sempre: si chiamava eroina!
La stessa che si portò via una decina di miei coetanei. Amici, compagni di scuola o semplici conoscenti, chi prima e chi anni dopo, se ne andarono tutti. Tutti allo stesso modo: accartocciati in qualche angolo sporco della città.

Il giorno dopo andai all’edicola sotto casa a comprare il Carlino: era il 2 gennaio 1983, i giornali riferivano gli avvenimenti risalenti alla notte di Capodanno poiché il primo dell’anno le testate non erano uscite. Sfogliai il giornale andando direttamente alla cronaca di Ferrara e vidi il titolo: “Giovane trovato senza vita la notte di Capodanno”.
Lessi l’articolo: “Alle prime luci dell’alba del nuovo anno una pattuglia di Carabinieri ha trovato il corpo senza vita di un ragazzo. Era rannicchiato ai piedi di una panchina nel parco adiacente ai Rampari di San Paolo in zona Acquedotto, si tratta del diciannovenne Simone B. residente in via Vignatagliata. Dai primi accertamenti pare che il decesso sia avvenuto per overdose di eroina. La scena ai Carabinieri è apparsa subito in tutta la sua drammaticità: il giovane giaceva esanime da alcune ore a pancia in giù sul terreno ghiaioso ai margini di una panchina col volto immerso quasi completamente nel fango di una pozzanghera e un giubbotto adagiato su un fianco, nel braccio era ancora infilata la siringa, le ginocchia piegate…”

Per un momento mi mancò il respiro.
Forse quella notte Simone fece sul serio un salto alla festa.
Forse quella notte venne a trovarmi per l’ultima volta, per l’ultima burla del destino.
E insieme, per un po’, ci divertimmo a fare le bollicine nel fango!

ALTRI SGUARDI
Le cose che i bambini mangiano e quelle che i grandi si bevono

Certi bambini mangiano molte cose ma, quando si tratta di bere, “non se le bevono tutte”.
Certi adulti mangiano poche cose ma quando si tratta di bere, spesso “se ne bevono molte”.
Mi spiego meglio…

A scuola, ci sono giorni in cui certi bambini mangiano soprattutto ciò che hanno nell’astuccio: ad esempio, diversi di loro si nutrono di colle, di gomme e di matite.
Secondo le mie osservazioni etologiche, ognuno segue varie tecniche di degustazione ed ha le proprie preferenze in fatto di forma e di marca.
Le matite che piacciono di più ai bambini sono quelle senza gomma sopra; esse vanno mordicchiate lentamente lasciando che il legno di pioppo rilasci il suo succo rinfrescante.
Non bisogna metterle in bocca dalla parte della punta, ma dalla parte opposta (anche se qualche buongustai@ preferisce prima predisporre il palato col sapore della grafite e poi mordere il legno).
Le colle stick vanno affrontate con tecnica da sommelier: prima si toccano velocemente con la punta della lingua per sperimentare il nuovo sapore, poi si può procedere con leccate più decise come se si mangiasse un gelato.
Il sapore della colla infatti varia se è nuova, se è a metà o se è quasi alla fine; naturalmente lo strofinio protratto sulla carta sembra modificare il suo gusto che, a seconda del tipo di supporto, può diventare via via più intenso.
Il galateo scolastico infine consente ai bambini di mangiare la gomma con le mani: essa va prima sminuzzata con le dita facendone delle briciole che poi devono essere lasciate a decantare sul banco, quindi vanno raccolte con la pressione del dito indice (inumidito prima in bocca), infine ingerite lasciandole per qualche minuto sulla lingua prima di deglutirle.

Davvero certi bambini mangiano molte cose ma non se le bevono tutte…
Infatti quando i bambini osservano che non ho i capelli, io gli racconto la storia della strega Seimenda (cattivissima perché è doppiamente Tremenda) e del sortilegio che mi ha fatto: lei, essendo molto ma molto invidiosa del colore unico dei miei capelli, con un incantesimo me li ha resi invisibili. Solo ogni notte, a mezzanotte, essi tornano incredibilmente visibili allungandosi a dismisura tanto che nessuno, se mi incontrasse, mi riconoscerebbe; purtroppo però la ricomparsa dura solo fino all’alba… e così tutte le notti.
Alla fine della storia, che hanno ascoltato attenti partecipi e divertiti, mi si avvicinano uno alla volta ed indicandomi mi dicono: “Tu non hai i capelli”… quasi a volermi dire: “Questa bella favola ha catturato la nostra attenzione ma la realtà è tutta un’altra cosa”.
Invece certi adulti mangiano poche cose ben selezionate ma quando si tratta di bere, spesso “se ne bevono molte”.
In ambito scolastico, fra gli argomenti che certi adulti si bevono, ci sono soprattutto quelli confezionati con parole “dolcificanti” oppure con vocaboli “esaltatori di sapidità”: bevande tipiche di questo tipo sono la “buona scuola”, l’ “organico potenziato”, la “valorizzazione del merito”, l’ “alternanza scuola-lavoro”, lo “school bonus”.
Certi grandi non guardano attentamente gli additivi che mettono in queste bevande e così le mandano giù senza accorgersi che la scuola invece di essere “buona” è “cattiva” perché edulcorata artificialmente per nascondere la puzza di incostituzionalità e di competizione, che l’organico non è “potenziato” ma “impotente” a risolvere gli obiettivi dichiarati, che la valorizzazione del “merito” in realtà corrisponde alla incentivazione della “ruffianeria”, che l’ “alternanza” scuola-lavoro può diventare “sfruttamento” degli studenti e che lo school “bonus” diventa il “malus” della maggior parte delle scuole collocate in ambienti meno “ricchi” di altri.
Consiglio a chi trangugia così avidamente di fare attenzione alla propria salute poiché c’è il forte rischio di “non avere più il fegato” per esprimere le proprie convinzioni e di “perdere di vista” il vero senso della scuola pubblica… infatti se si rivolgessero a chi si disseta con l’acqua della sorgente costituzionale si accorgerebbero pure loro che: “Questa bella favola ha catturato la nostra attenzione ma la realtà è tutta un’altra cosa”.

FRA LE RIGHE
L’amore “Adesso”

Se esistesse, il ‘curriculum vitae amatoriae’ dovrebbe essere un allegato alla carta d’identità. Il curriculum sentimentale conterebbe più del codice fiscale, più della denuncia dei redditi perché avrebbe un valore preventivo contro le brutte sorprese. Ma se anche Lidia e Pietro se lo fossero scambiati prima di tutto, prima di adesso, non si sarebbero forse trovati lo stesso al punto in cui sono? Ciascuno con il proprio tormento non scritto?

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Adesso di Chiara Gamberale

E se l’ostacolo alla felicità fossero proprio le persone che quella felicità la stanno cercando? Se fossimo noi a non saper stare senza quella condizione di ricerca e tensione continua? Una condanna eterna e intrinseca contro la quale Lidia ha costruito una sua consapevolezza: che dolore e felicità esistono e sono insegnamenti. Non si scansano, ti afferrano. Quando? Adesso.
Non servono l’affanno, lo schianto ripetuto contro gli altri e la negazione di ciò che si è e di tutto ciò che viene da dentro, mischiato tra paure, alibi, scorciatoie, legami, passato e presente.
Lidia si conosce, sa che un cuore ammaccato ne genera un altro, è convinta che investire l’amore di tutto, ma anche di niente, dia lo stesso risultato: la fine. Lidia sa, perché lo ha subito da un ex marito che non sarà mai veramente ex, che la paura dell’amore svuota la vita e fa perdere in inutili giri a vuoto.
Pietro sembra un gigante, ma di paura ne ha tanta: paura di capire il proprio passato, di rivederlo, riviverlo attraverso i luoghi e le persone che non ci sono più; paura di arrivare a se stesso come ci è arrivata Lidia in poco tempo. Pietro è impassibile di fronte a ciò che dovrebbe scuoterlo, di fronte ai limiti che non può ammettere a se stesso, in una farsa di equilibrio che non esiste. Con una come Lidia, che interroga se stessa e gli altri in uguale modo, qualcosa si infrange. È un piatto che viene sbattuto a terra in una sera d’estate, è un tonfo che finalmente arriva anche per lui, così bravo a gestire tutto ciò che non abbia a che fare con l’amore.
E Lidia, navigante e naufraga tra la vita ‘immaginata’ e la vita ‘quella vera’, ha bisogno di andare verso quell’arca senza Noè con gli amici che sono una boa quando le onde travolgono.
Ma dopo la fuga, solo adesso è il momento in cui rimanere e vivere.

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Chiara Gamberale

Adesso, Chiara Gamberale, Feltrinelli editore, 2016.

L’INTERVISTA
Marcello Darbo: l’arte come faticoso cammino

Originario di Codigoro, dove è nato nel 1957, e laureatosi in Scienze politiche a Bologna, Marcello Darbo è attivo artisticamente dal 1982: prevalentemente autodidatta, segue nel 1985 i corsi dello scultore codigorese Massimo Gardellini. Nel 1993 viene selezionato fra i dieci pittori di nuova tendenza della giovane arte italiana all’interno del “Circuito Giovani Artisti Italiani” per la Biennale Giovani di Kualalampur. Nel 1994 poi partecipa alla rassegna “EUROPA-AMERICA ‘360’ E-VENTI”(Roma/New York), 180 artisti segnalati da 60 critici italiani. Fra le sue attività personali si segnala anche la partecipazione nel 1992 al Centro Attività Visive del Palazzo dei Diamanti di Ferrara.

Marcello Darbo
Marcello Darbo

Darbo, come artista da anni protagonista nell’arte contemporanea, quella che a volte hai chiamato la ragnatela del nostro tempo, un approfondimento?
La ragnatela è, come noto, uno spazio dove qualcuno si trova a suo agio, fermo nel suo buco e prospera, mentre chi si muove resta invischiato nell’invidia, mista a mediocrità e provincialismo di ritorno di una massa di persone sbagliate al posto giusto. Pensate che un sedicente critico di Ferrara, guardando i ritratti che stavo facendo in quel periodo, mi disse che il ritratto è obsoleto. Allora gli ho mostrato il cavalletto con una tela bianca e gli ho detto che prima dire certe cose, doveva venire lui alle 9 di sera in inverno, al freddo e lavorare, lavorare e lavorare. Poi ha visto alcuni schizzi di mio figlio e, senza sapere che erano suoi, ha detto che quelli si erano interessanti. Prima di uscire dallo studio ha visto certe mie carte dada dove lavoravo con il mistero della macchia e del caso ed è rimasto entusiasta, quasi intimandomi di fare solo quelle cose. L’ho accompagnato volentieri alla porta.

Marcello, oggi avanguardia o retroguardia?
Questa storia dell’avanguardia ha strapazzato gli strapazzabili. E’ ovvio che non c’è avanguardia senza la retroguardia e anche che l’avanguardia a tutti i costi ha prodotto tanti cani che pensano di essere artisti perchè fanno qualcosa di mai fatto sinora. Che so: mettere insieme spago, sassi e fil di ferro, oppure fare delle pile di cassetti. A me, invece, sembra ovvio che se certe cose non sono mai state fatte prima è perchè non valgono nulla. L’artista si muove sulla ‘linea dell’arte’ che va dalle grotte del Perigord a Caravaggio, da Giotto all’arte povera, cercando di reinterpretare il tutto in un suo personale e faticoso cammino. L’Arte è fatica, è lavoro, non legare dei pupazzetti ai rami di un albero. Siamo arrivati alla sublimazione della merda d’artista e i risultati non possono che essere pretenziosamente deludenti e fetidi.

Ferrara ‘città d’arte’: mito o mistificazione?
Definirei Ferrara Città d’Urto, per la decadenza che permea ormai le azioni di una classe politica che vorrebbe staccarsi dalla gente e vivere in pace. Barche di cemento nel fossato del castello, La Montedison a un kilometro dal centro, mentre l’ospedale a dieci kilometri, inaccessibile. La casa di Biagio Rossetti, primo urbanista occidentale, trasformata in sala espositiva degli architetti americani. Un Sindaco che vuole chiudere Palazzo dei Diamanti. Non mi stupirei se facessero a Bologna la nuova stazione di Ferrara.
Ferrara è bella perché ancora i muri delle case reggono.

Mostre prossime venture?
R – Mostre ‘prossime s-venture’? Sì, una a Bondeno, grazie all’ultimo mecenate rimasto nel ferrarese: Daniele Biancardi. Il titolo è “Rifugi per l’Umanità”: umanità che scappa dalle guerre e dalla fame, piccoli quadri rossi e sculture pop fatte con i coperchi dei barattoli. Sembrano case tibetane. Naturalmente ci sarà la casa dei  Cristiani e dei Musulmani, quella degli Ebrei e dei Palestinesi, la parte umana dell’umanità, il resto sta sotto e di molto a balene, gorilla, delfini, orango, elefanti, tutti animali sociali che vivono senza uccidersi.

Mostre
1977 Memmingen(Germania) su invito della Associazioe Italo-Tedesca
1988 Firenze
1998 Kaufbeuren (Germania)
2000 Personale al’Istituto di Cultura Casa Cini di Ferrara
2002 Palazzo Borromeo di Cesano Maderno e poi ancora Kaufbeuren (Germania)
2006 “La bicicletta rossa”, Museo del Risorgimento di Ferrara
2007 “Ginestre”, Torre di Cento
2010 “Dove è pietà”
2012 Casa del Boia, Ferrara
2014 “Vite di frodo”

Hanno scritto di lui: Sergio Altafini, Serena Simoni, Gilberto Pellizzola, Erwin Byrnmeyer, Franco Patruno.

Penne migranti

DSCN7639-1-740x464La letteratura italiana dell’emigrazione ci porta alla riscoperta delle nostre origini e delle dolorose condizioni di vita dei nostri connazionali emigrati in altri Paesi a inizio del secolo scorso. Capire attraverso pagine dimenticate come i nostri italiani hanno vissuto da emigranti aiuta a comprendere cosa vive chi oggi cerca una via d’uscita in una terra chiamata Italia.
La diversità è sempre fonte di grande ricchezza e anche i nostri antenati sono passati per fasi e momenti molto simili a quelli che stanno vivendo molti immigrati di oggi. Scrivere può sicuramente aiutare a capire situazioni e risolvere problemi. Se questo vale sempre, può valere ancor di più quando si arriva in un paese straniero, dove si ha bisogno di integrarsi e buttare sulla carta i propri pensiero e le proprie preoccupazioni.

La letteratura dell’emigrazione, ieri e oggi

pascal_dangeloNegli ultimi anni, l’Italia e l’Europa sono attraversate da spinte razzistiche e dal rifiorire di rivendicazioni etniche regionali che spesso, attraverso richieste di autonomia, sembrano vanificare tutti gli sforzi compiuti alla ricerca di un’identità europea forte. Un’immigrazione incontrollata legata a fenomeni di crisi mondiali non sta certo aiutando. D’altra parte, la realtà dei nostri paesi sembra andare in direzione opposta: i flussi migratori continui mettono ciascuno di noi di fronte a una realtà multiculturale e, quindi, a un “meticciato” vero e proprio. I pareri sono discordi, non solo fra gli intellettuali, ma anche fra i politici e la gente comune: in generale si oscilla fra coloro che cercano di imporre un’assimilazione dei nuovi gruppi etnici alla cultura popolare dei paesi ‘ospiti’ e coloro che, spesso a ragion veduta, propongono un interessante e costruttivo ‘meticciato culturale’, ossia di “creolizzare l’Europa”. Una ‘creolizzazione’ che nasca dall’incontro di realtà differenti e che possa garantire un dialogo e un confronto fra culture. Inutile dire che, intellettualmente, questa pare la soluzione migliore, anche se di non facile realizzazione, richiedendo un’apertura mentale spesso inesistente in paesi abituati, come il nostro, a essere terra di emigrati e non di immigrati.
In tale ottica di apertura, Armando Gnisci, docente di letterature comparate, ha iniziato a interessarsi di letteratura della migrazione fin dal 1991, di una letteratura veicolo della voce dei popoli e dei migranti che, talora, si può essere più disposti ad ascoltare rispetto ai racconti per le strade. Gnisci fa conoscere in Italia ciò che in altri paesi già esiste da tempo: si pensi a Salman Rushdie in Inghilterra o a Tahar Ben Jelloun in Francia. In questi casi siamo nel quadro di un’eredità di passato coloniale, la situazione italiana è particolare e originale, proprio per la mancanza di una significativa storia coloniale. Lo scrivere in italiano nasce dunque da un elemento affettivo, da un vero e proprio amore, oltre che dalla curiosità, per la lingua di Dante, che nulla hanno a che vedere con eventuali retaggi passati. Pura passione.

9560457Con il termine ‘migrant writer’ si indica generalmente la produzione letteraria di scrittori stranieri che hanno scelto di esprimersi nella lingua del Paese “ospitante”, ma secondo Gnisci la letteratura della migrazione comprende tanto le opere scritte in italiano da immigrati quanto quelle di italiani emigrati in tutto il mondo. C’è anche chi, come Raffaele Taddeo, preferisce parlare di ‘letteratura nascente’ – per la novità e la sua fresca forza eversiva – o di ‘letteratura della creolizzazione’ – per il suo carattere di pluralismo culturale, che diviene lo spazio ove le culture si mescolano e si aprono al confronto e al dialogo. Indipendentemente dal termine che si voglia utilizzare, questa letteratura si caratterizza per i temi, come emarginazione sociale e razzismo, e per alcuni elementi come l’autobiografismo e l’ibridismo linguistico.

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In Italia, i primi testi scritti in italiano da immigrati  comparsi nelle librerie sono: “Chiamatemi Alì” del marocchino Mohamed Bouchane (Ed. Leonardo), “Immigrato”, del tunisino Salah Methnani (Ed. Thoeria) e “Io, venditore di elefanti” del senegalese Pap Khouma (Ed. Garzanti).In questa prima fase i testi sono scritti a quattro mani, poiché gli autori ancora non padroneggiano perfettamente l’italiano. La seconda fase vede apparire una scrittura femminile. Siamo nel 1993, quando esce “Volevo diventare bianca” dell’algerina Nassera Chohra o nel 1994, anno di “Lontana da Mogadiscio” della somala Shirin Razanali Fazel. Nel 1995 esce la prima edizione del Premio Ek&stra, concorso letterario per immigrati, nel 1996, Maria De Lourdes Jesus, che conduce il programma radiofonico “Permesso di soggiorno”, pubblica l’autobiografico “Racordai. Vengo da un’isola di Capo Verde”. La terza fase si ha nel 2000, quando la Fiera del Libro di Torino organizza incontri sulla nuova dimensione multietnica e multiculturale di un’Europa che si presenta ormai come “un mondo pieno di mondi”. Da qui nasce una nuova fase con successo di pubblico.

Carmine D’Abate, John Fante e Pascal D’Angelo

fumetto_itcteatro_pngSe l’Italia accoglie oggi tanti scrittori che, per amore della nostra lingua e per desiderio di comunicare la loro esperienza, si sono cimentati nella produzione letteraria in lingua italiana, esiste anche un’importante letteratura italiana dell’emigrazione, con una sua identità e tradizione, troppo spesso dimenticata. Gilberto Bonalumi dell’Istituto di relazioni internazionali ha detto che “quando i libri di storia verranno riscritti, si scoprirà che la diaspora italiana nel mondo è stata uno degli avvenimenti più significativi del secolo che muore. Il numero degli italiani che operano in ogni angolo della terra supera persino la popolazione attualmente residente in Italia”. Anche Furio Colombo ha sottolineato quanto tale diaspora sia (stata) importante, oltre a quella ebraica, a differenza del popolo ebraico però, l’Italia non si è mai interessata al destino degli italiani che vivono nel mondo e ha sempre percepito questa radice culturale trapiantata all’estero, come un qualcosa di povero, di non significativo, che ha perso la sua origine.

Ora, anche il campo della letteratura dell’emigrazione di lingua italiana o di italiani che si sono espressi nella lingua del Paese ospite è spesso dimenticato, oltre che inesplorato. Molti autori presentano affinità evidenti con gli scrittori che oggi vengono definiti come “migranti” tanto nei temi che nella scrittura. E non si tratta solo di opera aventi carattere di testimonianza di documento, ma di esempi di cultura, di ricerca dell’identità e di opere di grande valore letterario. Si pensi a Carmine Abate, scrittore italiano di origine arberësh, figlio di emigranti e a sua volta con un passato di emigrazione in Germania. Abate spiega di aver iniziato in Germania per combattere contro le ingiustizie dell’immigrazione, denunciandole attraverso poesie e racconti. Le sue opere sono il racconto di tante migrazioni: quella degli albanesi in Italia e quella degli italiani all’estero. Quest’ultima ha lasciato poche tracce nella letteratura, se si escludono opere come “Libera Nos a Malo” di Meneghello. Eppure esiste molta letteratura dell’emigrazione di lingua italiana o di scrittori di origine italiana. Si pensi a italo-americani come Joe Pagano, Pascal D’Angelo, John Fante, Pietro Di Donato, Nino Ricci e Helen Bartolini. “Avendo noi alle spalle una lunga storia di emigrazione – sottolinea Abate – dovremmo essere più solidali con chi viene da fuori. Ma sta proprio qui la spina. Chi viene da fuori ci ricorda troppo chi eravamo, chi erano i nostri padri, i nostri nonni. E noi invece vorremmo dimenticarlo. Forse se riuscissimo a rivalutare la nostra emigrazione e i nostri emigranti, a vederne gli aspetti positivi, il nostro atteggiamento nei confronti degli stranieri in Italia cambierebbe”.

2008-09-22_pascal_dangeloAnche John Fante fa parte di quegli italiani un poco dimenticati, ma che oggi sembra riemergere presso il grande pubblico, anche grazie ad alcune iniziative editoriali di alcuni importanti quotidiani italiani e alla riscoperta da parte di numerosi adepti della scrittura realista.
Fante nasce nel 1909, nell’“Italia dell’America dell’Ovest”, come veniva battezzato il verde Colorado dai primi emigranti italiani che approdavano a queste montagne. E gli italiani che arrivavano in queste terre erano montanari. John Fante con le sue origine abruzzesi (i genitori provenivano da Torricella Peligna) è uno degli scrittori che ha maggiormente contribuito alla diffusione della cultura italo-americana negli Stati Uniti.

Nel 1938, pubblica il suo primo romanzo, “Aspetta primavera, Bandini”, l’anno successivo “Chiedi alla polvere”. Dopo aver lavorato a Hollywood come sceneggiatore, pubblica altri tre romanzi: “Full of Life” (1952), “La Confraternita del Chianti” (1977) e “Sogni di Bunker Hill” (1982). Alla sua morte, avvenuta nel 1983 a Los Angeles, escono “Un anno terribile” e “A ovest di Roma”. Sarà Charles Bukowski a segnalare al grande pubblico dell’ultimo decennio questi “scritti con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore…”. aspetta%20primavera

Da non dimenticare poi Pascal D’Angelo, che rappresenta un caso di letteratura della migrazione dimenticata, se non fosse per la riscoperta e la pubblicazione in Italia di “Son of Italy” (Ed. Il Grappolo), nel 1999. D’Angelo, che costituisce un vero fenomeno letterario, nacque a Introdacqua in Abruzzo nel 1894, per sbarcare poi a soli 16 anni a New York, raro caso di italiani immigrato in grado di leggere e scrivere. Impostosi uno studio ferreo dell’inglese, Pascal conobbe Mark Twain, che lo accolse sotto la sua ala protettrice, facendo conoscere il nuovo e giovane autore al pubblico americano. I due inventarono insieme una nuova forma di pubblicità letteraria: misero in scena una vera e propria tournée itinerante e uno spettacolo che desse risalto alle loro opere. Pascal si specializzò nel “Blatherskite” ossia in una specie di parodia di un discorso insensato. Nel 1924, pubblicò l’autobiografico “Pascal D’Angelo: Son of Italy”.

Ma non fu solo lui a scrivere sulla vicenda degli italiani in cammino. Luigi Ventura, nel 1886, scriveva “Peppino”, il primo romanzo sulla diaspora peninsulare. Risale al 1921, “The Soul of an Immigrant” di Constantine Panunzio. Il 1935 è l’anno del “The Grand Gennaro” di Garibaldi Lapolla. E ve ne sono molti altri. D’Angelo resta forse il più memorabile per aver trasformata una poesia autodidatta in una vera opera d’arte realista e toccante e per avere avuto la forza e la bellezza di dire che “quando scende la notte e il lavoro si ferma, badili e picconi restano muti e la mia opera è perduta, perduta per sempre. Se però scriverò dei bei versi, allora quando la notte scende e io poso la penna, la mia opera non andrà perduta. Resterà qui, dove oggi voi potere leggerla… Invece nessuno né oggi né domani leggerà mai quello che ho fatto col badile”. E così è. Oggi leggiamo e rileggiamo le righe di un grande autore che ha saputo descrivere con tanto realismo e pathos la vita e le sofferenze dei nostri migranti. Perché anche noi siamo stati migranti.

Da leggere

fante_annoterribileJohn Fante, Un anno terribile, Fazi Tascabili, 2001

Il libro, il più bello di Fante, racconta la storia del giovane Dominic Molise, figlio di un muratore italiano disoccupato, nella città di Roper, Colorado. Il protagonista, alla ricerca di un’occasione di riscatto dalla condizione proletaria della famiglia, incontra tutte le miserie quotidiane della vita di migrante in America, mettendo in scena tutto il mondo italiano qui trapiantato. Pagine toccanti, la storia di un ragazzo che non riuscirà a realizzare il suo sogno, in un Paese freddo e difficile, con un padre povero e incapace di aiutarlo.

Claudio Camarca, Migranti, Verso una terra chiamata Italia, Rizzoli, 2003

Le storie di uomini e donne che ogni giorno, per diverse vie, cercano di entrare in Italia nella speranza ed alla ricerca di una vita migliore e che spesso finiscono in campi profughi o a vivere una vita fatta di clandestinità ed accattonaggio. 9788817872027B

Per approfondire

El Ghibli – Rivista di Letteratura della Migrazione, clicca [qui]

NOTA A MARGINE
Idee, innovazione, futuro: le conferenze di Ted nei cinema di tutto il mondo

Palloni gonfiabili, simili a piccole mongolfiere, connessi tra loro via internet e in grado di sorvolare le zone più remote e irraggiungibili del mondo; racchiudere tutto, proprio tutto il codice del Dna di ogni singolo essere umano in una raccolta di 175 libri ciascuno; essere responsabili di oltre settanta ore di tv a stagione, amare il proprio lavoro e nonostante ciò trovare il tempo di dire sì ai propri figli. Questo e molto, molto altro, è Ted, il tradizionale ciclo di conferenze che annualmente si svolge a Vancouver e che negli ultimi anni ha spopolato in tutto il globo. La filosofia è semplice: ideas worth spreading, ovvero idee che vale la pena diffondere. Brevi ma intensi speech tenuti dalle personalità più innovative e brillanti del pianete in pillole di 18 minuti ciascuna, liberamente consultabili dal web e nelle quali vengono trattate le tematiche più svariate e interessanti che compongono il nostro globo, partendo da tre parole chiave: Technology, Enterteinment, Design. Ted, appunto.

Tutte le idee più geniali che interessano il nostro presente e il nostro futuro racchiuse quindi in una piattaforma che, nel tempo, ha raccolto oltre 8 milioni di fan e che martedì 16 febbraio è sbarcata per la prima volta via satellite in migliaia di cinema in tutto il mondo. A Ferrara la prima sessione di Ted2016 è entrata nelle sale del Cinema Apollo – “amico” di lunga data delle videoconferenze grazie alle passate proiezioni nell’ambito del festival di Internazionale – in lingua originale e in differita di ventiquattro ore rispetto alla conferenza che si sta svolgendo in questi giorni proprio a Vancouver.
‘Dream’, sogno, è la parola che viene accostata all’edizione 2016 dell’evento, perché “domani è un giorno promettente e pieno di possibilità”. Una di queste possibilità è stata illustrata da Astro Teller, capo di ‘X’, il laboratorio segreto di Google che attraverso la Moonshot Factory cerca di affrontare e risolvere grandi problemi: tra questi collegare in rete i quattro miliardi di abitanti del nostro pianeta che non hanno accesso a internet mediante i palloni gonfiabili prima citati, un folle e ambizioso progetto che solo l’eccentrico team X può prefigurarsi di realizzare in meno di dieci anni. A condividere la scena del teatro di Vancouver anche un italiano, lo scienziato Riccardo Sabatini, che nell’invitare sul palco una persona si trova davanti un’intera libreria: è questo il lavoro della Quantum Espresso Foundation, società da lui fondata e riuscita a ricostruire l’intera sequenza di un Dna umano in quasi trecentomila pagine, una tecnologia in grado di leggere il genoma per poter prevedere così il viso, il colore degli occhi e della pelle di una persona e così via. Si tratta di medicina personalizzabile, tanto estrema ma quantomai utile, come affermato dallo stesso Sabatini, per poter fare grandi passi in avanti nello studio di tante malattie.
E poi ancora i profondi interventi di un filantropo e imprenditore – Dan Pallotta – il quale ha ricordato quanto sia importante non far diventare i sogni fissazioni e di quanto questo nostro mondo necessiti di tornare ad essere curioso – e di Shonda Rhimes – conosciutissima sceneggiatrice e madre di serie tv del calibro di Grey’s Anatomy e Scandal, protagonista di un esperimento: dire sempre di sì ai figli e a tutte le cose che la spaventano nonostante il lavoro, che per quanto possa essere soddisfacente troppo spesso non ci permette di farlo.
Negli intermezzi spazio alla giovanissima scrittrice (dieci anni!) Ishida Katyal per ammonire gli adulti che non è più tempo di chiedere ai figli cosa vogliono fare da grandi ma cosa al contrario vogliono essere in questo momento e, infine, le melodie raga del compositore premio Oscar per The Milionarie A. R. Rahaman e la toccante performance di danza di Bill T. Jones, il quale alla venerabile età di sessantaquattro anni ha messo in scena 21 pose per illustrare lo sfondo del silenzio.

Insomma, sette preziosi interventi per dimostrare bellezze ed opportunità che la terra offre e potrà offrire. Un palco che nella sua storia ha visto avvicendarsi personaggi come Bill Clinton, Sergey Brin e Larry Page, Bill Gates e Jimmy Wales, e che inaugurando questo nuovo anno di conferenze promette interessanti novità. Un fenomeno in costante aumento e spesso uscito dalla sua sede canadese sbarcando in numerose località mondiali, Italia compresa (molti interventi sono consultabili anche su YouTube). In attesa del prossimo anno, tutto il mondo Ted è consultabile al sito ufficiale e, nello specifico, gli interventi della serata di martedì a questo indirizzo web.

IL DIBATTITO
Gli errori della sinistra nell’era del turbocapitalismo 2.0

Se si prende per buona la distinzione di Norberto Bobbio tra destra e sinistra (1994), e non pare ci siano buoni motivi per non farlo, la prima è tradizionalmente portatrice dei valori di libertà, mentre la seconda di quelli della giustizia.
Dovremmo perciò trovare nel campo culturale della destra impegno e attenzione per rimuovere prioritariamente gli ostacoli alle libertà personali, a partire dalla libertà d’iniziativa in campo economico. Quelle che tanta letteratura nelle scienze sociali e storiche ha chiamato le libertà borghesi. In quello della sinistra, invece, dovremmo trovare pari determinazione per affermare in primo luogo l’uguaglianza, la riduzione delle distanze, delle differenze.
Se fosse così, in un mondo nel quale ogni indagine e osservatore puntano il dito su distanze sociali ed economiche mai viste prima, ci si aspetterebbe, più o meno ovunque, la vittoria politica delle sinistre a mani basse. E invece non avviene, almeno non in misura schiacciante. Senza contare che laddove in Europa sono al governo più d’uno avrebbe dei dubbi nel definirle tutte ‘Sinistra’.
C’è, infatti, chi per sinistra intende che “anche i ricchi devono piangere” e chi, invece, al posto di un piagnisteo generale preferisce il modello più riformista di “tosare la pecora” capitalista, perché se si ammazza l’ovino poi non rimane più nemmeno la lana da redistribuire.
E’ il compromesso fra capitale e lavoro di cui parla anche Habermas in “Crisi di razionalità nel capitalismo maturo” (1973), in cui smentisce – come prima di lui Weber – l’analisi ortodossa marxista basata sul binomio struttura-sovrastruttura: non è per via razionale (cioè per lo scoppio endogeno delle contraddizioni economiche allevate dentro di sé: la struttura) che entra in crisi il capitalismo, ma per deficit di legittimazione, spostando così l’asse dell’analisi a quella che Marx avrebbe definito la sovrastruttura (per lui non determinante) del sistema socioculturale.
Ma allora perché se tutte le premesse sociali ed economiche ci sono la sinistra fatica ad imporsi sul piano politico?
Giuseppe Berta ha provato a dare una spiegazione nel suo “Eclisse della socialdemocrazia” (2009).
Osservando la parabola delle sinistre europee, principalmente nelle due declinazioni britannico-laburista alla Tony Blair e tedesca, lo studioso e docente bocconiano ha ravvisato due punti limite di quelle esperienze.
Nel tornante storico decisivo della globalizzazione dell’economia e dei mercati, sostanzialmente nel passaggio di secolo tra il XX e il XXI, la socialdemocrazia avrebbe compiuto l’errore fatale di credere che semplicemente assecondando un capitalismo che con la caduta delle barriere aveva messo il turbo ci sarebbe stata ricchezza per tutti.
Da qui la scommessa, blairiana e non solo, di puntare politicamente sugli skills, le capacità, su un deciso sforzo di formazione, per cogliere tutte le opportunità dell’economia della conoscenza, piuttosto che giocare difensivamente sui sussidi e altri strumenti del tradizionale asse Trade Unions – Labour. Da qui anche la stagione, tuttora in corso, di politiche del lavoro che chiedono cambiamenti, specie sul versante dell’offerta piuttosto che a quello della domanda, nel nome della flessibilità e della capacità di adattamento pretesa, e imposta, da mercati sempre più imprevedibili, volatili, just in time e delocalizzabili da un giorno all’altro secondo le convenienze.
La crisi, altrettanto globale, scoppiata tra il 2008 e il 2009, avrebbe rappresentato il capolinea (l’eclisse) di una socialdemocrazia teorizzata e declinata nella “Terza via” (Giddens), oltre che la fine politica del New Labour di Blair.
L’eccesso di fiducia in un sistema capitalistico che prometteva ricchezza illimitata, tutta giocata sul terreno delle opportunità piuttosto che su quello giudicato arcaico delle garanzie, nonché artificialmente basata sulla storica caduta del muro di Berlino che aveva bloccato il mondo novecentesco (la fine della storia), avrebbe fatto perdere di vista i mali di quel sistema. E dunque, lasciato correre a briglia sciolta, il capitalismo si è schiantato contro un nuovo muro di carta, più effimero ma non meno velenoso: quello della bolla finanziaria.
Luciano Gallino è stato fra quelli che con puntualità e linearità hanno descritto le radici di questa illusione, contestualizzando lucidamente in questa crisi strutturale del capitalismo anche le conseguenti, per nulla inevitabili, politiche del rigore che tuttora stanno abbattendosi sui sistemi di welfare, da sempre concettualmente strumento innanzitutto valoriale della cultura della giustizia sociale.
Sul versante del retroterra elettorale della sinistra, si è poi assistito al progressivo formarsi della società dei “due terzi”: quella che già Braverman in “Lavoro e capitale monopolistico” (1974) descrisse come l’evoluzione terziarizzata della società capitalistica dei servizi, più che delle fabbriche. Senza contare che ciò che Pasolini definiva il sottoproletariato urbano delle periferie oggi è sempre più serbatoio (tirato come le corde di un violino) delle nuove destre con venature localistiche, egoistiche e xenofobe, in preda alle nuove paure dell’insicurezza, ai contraccolpi di politiche dell’integrazione etniche, ormai a corto di respiro e di risposte e alle prese con la coperta sempre più corta di un welfare assediato dal mantra del rigore e del risparmio.
Il filosofo Remo Bodei lo scorso 29 febbraio, proprio a Ferrara, ha ricordato i pericoli di un sistema capitalistico che col processo di automazione 2.0 ha accelerato a dismisura le potenzialità della produzione, espellendo lavoro ben oltre le capacità legislative di crearlo all’interno degli inadeguati spazi nazionali, nonostante tutte le possibili flessibilità.
E il sociologo Bauman in una recente intervista su L’Espresso (18 febbraio 2016) parla dell’era di internet (ulteriore sfondamento sul terreno immateriale del sistema di produzione globale) come di un mondo sì a portata di dito, ma nei termini non di una comunità, bensì di una realtà sempre più puntiforme, isolata, che intrattiene rapporti virtuali e in cui, per tornare al tema, prevalgono le ragioni della distanza, della differenza, di un’inarrestabile diversità plurale, policentrica e conflittuale.
Lo stesso storico Massimo Faggioli, in una recente riflessione sul dibattito attorno alle unioni civili, riflette come l’ambito dell’affermazione dei diritti civili si affermi – più o meno ovunque in Occidente – a scapito e prescindendo ormai dalle diseguaglianze economiche e sociali.
Tanto che Bauman conclude emblematicamente la sua intervista: “Bello, giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra? Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della sinistra?”.
L’impressione è che se si vuole che quel tempo imperfetto usato da Bauman (“era”) continui a essere un indicativo presente (“è”), occorre molto di più che una vittoria alle elezioni.

L’APPUNTAMENTO
Un altro mondo è possibile: dal mutualismo alla sharing economy

La crisi ha indotto molti a mettere da parte il galoppante individualismo e riscoprire il valore delle relazioni, il senso della solidarietà, il concetto di mutualità, il reciproco aiuto, la disponibilità a spenderci per gli altri e l’umiltà di chiedere agli altri senza eccessivi imbarazzi, in una ritrovata dimensione di civile reciproco sostegno. Siamo diventati più sensati e meno frivoli, guardiamo più all’essenza e meno all’effimero.
Significativo è il progressivo affermarsi – in ambiti ancora minoritari, ma in costante crescita – di una economia basata sul fondamento del baratto, che valorizza saperi e competenze e si orienta sul bisogno reale, piuttosto che ridurre tutto a termini monetari, con il prezzo quale unico indice di misurazione e il denaro come solo strumento di remunerazione.
La cosiddetta ‘sharing economy’ è l’esempio più dirompente di questa ritrovata sensibilità comunitaria e la dimostrazione che qualcosa sta cambiano: prestare, scambiare, condividere sono i verbi della nuova economia. Mettere a disposizione, superare gli egoismi regala una gioia nuova: il piacere della solidale complicità.

Il prossimo appuntamento del ciclo Chiavi di lettura organizzato di Ferraraitalia ha per tema proprio l’economia di scambio. Titolo: “Solidali e felici: dal mutualismo alla sharing economy, un altro mondo è possibile”. Le cose stanno cambiano velocemente e gli orizzonti che si dischiudono potrebbero essere gravidi di sorprese interessanti. Coworking, bike sharing, car sharing, car pooling, couchsurfing, hospitality club stanno diventando espressioni che designano nuovi stili di vita. Ne parleremo insieme valutando punti di forza e criticità. E soprattutto verificando se questo vento nuovo sta riorientando non solo i nostri consumi ma, quel che più conta, le nostre coscienza.

 

Appuntamento lunedì 29 febbraio alle 17 nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea

Solidali e felici
dal mutualismo alla sharing economy: un altro mondo è possibile

 

L’INTERVISTA
Il peso delle parole

Le parole hanno un peso, una storia, una loro precisa collocazione nel contesto di una frase, di un testo, della vita delle persone.
Puttana, violenza, aggressione, sono tre termini che ricorrono nella vita di tutte le donne, traducibili in ogni idioma esistente, applicabili a ogni stato socioeconomico, declinabili all’infinito e sempre portatori di una valenza negativa.
Dominio, potere, controllo, sono tre termini che ricorrono nella vita di tutti gli uomini, anche questi sono traducibili in tutte le lingue, sono ugualmente applicabili a ogni stato socioeconomico, sono declinabili all’infinito, ma la loro valenza può essere varia, non necessariamente negativa.
Il peso delle parole è uguale al peso delle azioni e, applicando questo assioma al fenomeno della ‘violenza sulle donne’, lo scenario che si apre davanti ai nostri occhi è spaventoso. Per i numeri sciorinati, che pure sono importanti (nel 2014 il 31,5% delle donne ha subito violenza fisica e una percentuale che nemmeno l’Istat può calcolare con precisione, ma che si aggirerebbe intorno al 64%, ha subito violenza psicologica), ma soprattutto perché ci muoviamo in un mondo palesemente violento e violentemente giustificato.

#DearDaddy, guarda il video

Capire il fenomeno della ‘violenza sulle donne’ non è cosa semplice, da decenni ci si impegnano sociologi, psicologi, scienziati di ogni sorta e le risposte sono eterogenee, spaziano dalla crisi dei ruoli familiari a quella economica, passando per la fisiologia e la sociodinamica. Ma mentre gli scienziati studiano e i governi glissano, ogni cinque minuti una persona – che potrebbe essere nostra sorella, nostra amica, nostra figlia – subisce una forma di violenza perché donna. E non c’è centro antiviolenza, casa famiglia, centro studi sulla donna, ministero o corpo di polizia che possa farci venire a capo di questo fenomeno.

“Per affrontarlo in maniera realistica, efficace, bisognerebbe condurre una rivoluzione culturale. L’alternativa sarebbe ritornare indietro del tempo all’epoca della caverna e della clava. Lavorando da lì si potrebbe ricostruire un equilibrio corretto nel rapporto fra uomo e donna”, ha detto Francesco, operatore del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara. Lui, Laura e Alessandra sono impegnati da tempo ad accogliere uomini che hanno praticato violenza, che hanno percepito la necessità di capire se stessi e trovare una soluzione a un problema che – alla meglio – coinvolge la vita di tre persone: l’uomo, la sua vittima e chi è loro accanto, sia esso un figlio, un parente o un amico. Senza valutare le implicazioni sociali della questione.
“Noi lavoriamo molto sul modo in cui la donna viene percepita, sia nei rapporti di coppia che proprio all’interno della società. Il problema è che la figura della donna nella nostra società quasi sempre risponde a dei modelli imposti e anche gli esponenti di rilievo del mondo femminile spesso ricalcano e presentano la loro adesione a tali modelli”. Modelli ovviamente imposti da maschi.

Nel giorno della quarta edizione di “One Billion Rising”, manifestazione planetaria contro la violenza di genere, vale la pena raccontare un pezzo di questa realtà da un punto di vista che definirei insolito, non per la sua stessa esistenza, ma perché non è praticamente mai oggetto di narrazione e riflessione: quello di chi la violenza sulle donne la vive per interposta persona, attraverso i racconti di chi la attua. Il Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara fa parte di un network di centri di ascolto e sostegno, che dal 2013 si occupa di accogliere gli uomini che hanno comportamenti violenti nei confronti delle loro compagne o ex compagne.
“Il Centro di Ferrara prende a modello Alternative to Violence, centro che opera a Oslo dagli anni Ottanta. I fondatori della scuola, docenti ai corsi di formazione che abbiamo seguito, ci hanno raccontato di come la loro esperienza sia nata grazie al rapporto e allo scambio con il percorso femminista in Norvegia e che, anche se oggi c’è una realtà molto grave per numero di episodi di violenza, lì c’è una grande consapevolezza circa la necessità della denuncia personale alle autorità competenti, ma anche della denuncia sociale. Gli episodi di violenza ci sono ovunque, ma nei paesi del Nord Europa viene riconosciuta come cosa da denunciare, nel nostro Paese si tace a livello personale e si giustifica a livello sociale. Siamo figli di un percorso culturale molto diverso”.

Fra il novembre 2014 e ottobre 2015 si sono rivolti al Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara 35 uomini, di questi 19 hanno iniziato il percorso proposto dagli operatori. Il primo passo è una telefonata. “Solitamente chiamano uomini che sono stati abbandonati dalla compagna-vittima, che quindi si ritrovano soli, arrabbiati e incapaci di guardare avanti. Spesso a farli arrivare qui è la volontà di riconquista della donna. Lo stesso vale per quegli uomini che si rivolgono a noi su spinta della donna, che cerca di farsi promotrice di un cambiamento. – ha spiegato ancora Francesco – Cosa li porti qui in realtà diventa marginale: per noi l’importante è poter fermare il circolo vizioso, fare in modo che la violenza cessi e accompagnare queste persone in un percorso di auto-consapevolezza. Il momento decisivo nella storia personale di ciascuno è chiamare, crediamo che sia la cosa più difficile per ognuno di loro. A seguito del primo contatto solitamente c’è un colloquio singolo, soprattutto per valutare il reale coinvolgimento dell’uomo, capire il tipo di violenza che ha agito, valutare assieme a a lui la possibilità di intraprendere un percorso. Un percorso che inizia con una serie di colloqui individuali, successivamente si arriva alla fase più significativa e spinosa: far accede l’uomo a un gruppo di altri uomini che hanno intrapreso un percorso analogo al suo. Qui egli si dovrà confrontare, imparare ad ascoltare gli altri, mettersi in gioco, sentire critiche e giudici senza subirli, prendere le proprie posizioni e difenderle senza aggredire, incominciare a comportarsi in maniera più rispettosa con se stessi e con l’altro, con le donne. In ogni incontro abbiamo sempre due mediatori, uno è donna, proprio perché così viene data la possibilità di capire qual è il ruolo e l’importanza della donna, ascoltarla, confrontarsi con lei senza partire dal presupposto donna = serie B”.

E’ lecito chiedersi se gli uomini che si rivolgono al Centro davvero riconoscono nel dialogo e nel confronto la parità? “Onestamente no, dipende dagli uomini, da qual è la loro storia”, ha raccontato Alessandra, che segue i gruppi psico-educativi con il presidente dell’Associazione, Michele Poli. “Alcuni probabilmente riescono ad arrivare a un certo punto, ad avere maggiore consapevolezza, altri fanno fatica. Il nostro obiettivo primario e comune è che si interrompano le violenze, ma sul modo di vedere la donna, di relazionarsi ad essa, a qualunque ruolo ricada, è molto più difficile. Lavoriamo sugli approfondimenti sul vissuto della persona, perché ognuno di loro è tenuto a raccontarsi agli altri, in questo modo si riesce a creare confronti costruttivi, ma la donna – in quanto tale – resta sempre il nodo da sciogliere”.

Secondo gli operatori del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti di Ferrara, dei 19 gli uomini presi in carico in un anno e che hanno sostenuto almeno il primo colloquio conoscitivo, 17 hanno dichiarato di aver subito o di aver assistito a violenza, soprattutto da parte del padre. “Si tratta di un dato importantissimo, tenendo presente che nella ricerca Istat del 2015 sul tema, un dato riguardava la trasmissione dei modelli: quando i bambini avevano assistito a fenomeni di violenza fra genitori, i maschi hanno perpetrato i modelli del padre, le bambine quelli della madre”. Quindi il fenomeno cresce a livello esponenziale. La rivoluzione culturale si può instillare nella società, partendo dai bambini? “E’ difficile perché per quanto si vogliano costruire diversi riconoscimenti di ruolo, resistono degli stereotipi fissi, immobili: alle bambine il ferro da stiro, ai bambini il fucile come giochi.”.

Con modelli e stereotipi così radicati diventa difficile individuare strumenti efficaci per interrompere il fenomeno. “Secondo me servirebbe più cultura femminile. Cultura al femminile: leggere le scrittrici, scoprire le pittrici, le artiste, le filosofe, far emergere un ruolo della donna che è stato nascosto per secoli. – ha detto Francesco – Questo possibilmente con la collaborazione degli uomini, che è la cosa più dura da ottenere. Da maschio posso dire che noi abbiamo molta paura delle donne, della possibilità che voi siate molto meglio di noi. E’ una paranoia, non un problema, ma è frutto di secoli di dominio, di controllo. Il maschio è innamorato del controllo e la violenza diventa l’estrema ratio di questo controllo. Quando scopro che la mia partner, che io credo che sia mia, trascende il mio controllo vado nel panico, mi destabilizzo e questo scatena la consapevolezza spaventosa della mia impotenza e quindi… la meno, per sentirmi di nuovo maschio, per sentirmi di nuovo saldo nel mio ruolo di potere, per ristabilire il mio ordine rispetto alla nostra relazione. E’ molto banale ma è così.”.

Lo strumento principale per portare a casa una vittoria sociale così importante sarebbe il dialogo. Questo termine andrebbe sostituito a controllo e potere, ma non è un fatto da poco conto. “Nella violenza il meccanismo mancante è l’ascolto. Imparare ad ascoltare, comprendere le ragioni dell’altro sarebbero passi fondamentali e risolutivi. Sembra una cosa semplice e semplicistica, ma come tutte le cose semplici risulta essere la più difficile da mettere in atto, soprattutto perché parliamo di relazioni in cui il coinvolgimento emotivo è importante”, ha aggiunto Francesco. Utilizzare il dialogo come strumento di parità e crescita è una cosa che si può insegnare ai bambini, come una buona prassi culturale di base, come imparare a scrivere. “Noi in genere facciamo lavoro nelle scuole e lavoriamo nei licei a 14, 15 anni; portiamo una riflessione sul riconoscimento della violenza, che è una cosa molto difficile poiché ammanta la cultura, il quotidiano. Non è solo fatta di me che ti sparo, ma anche di te che mi parli e io non ascolto, è la frase buttata là che discredita quello che stai dicendo o facendo, è il mio minimizzare il tuo problema perché non lo reputo come tale”. Questa è violenza e, in questo senso, siamo tutti violenti. Invece insegnare il dialogo, praticare e insegnare la comunicazione non violenta, sarebbe risolutivo. Così come risolutivo sarebbe imparare che non si ha il controllo di niente e di nessuno. “Dobbiamo imparare ad accettare l’impotenza, ma noi non siamo stati educati in questo senso, non riusciamo ad accettarci come impotenti nella relazione, soprattutto l’uomo non può percepirsi come tale. Invece è nella natura delle cose non avere il controllo, eppure questo è vissuto come un fallimento: l’impotenza cozza con quello che ci viene propinato ad ogni livello. – ha spiegato Laura – Per esempio, in una relazione un donna che non si alinea alle idee e decide di andarsene scatena l’impotenza e per l’uomo è difficile accettare di non poter aver controllo sulle sue scelte e di accettare questa impotenza come una cosa che sta nella nostra natura.”

Questa ipercitata, ostentata, a volte millantata parità può essere quindi “il problema”? “Non è il problema, ma probabilmente problematiche sono le modalità in cui essa si è realizzata e si realizza tuttora. – ha raccontato Laura – La parità è stata vissuta come un’imposizione, non c’è stata una evoluzione comune dei generi. Penso al femminismo che ha raggiunto conquiste importantissime grazie alla riflessione delle donne fra di loro, ma non sono frutto di una comune evoluzione della comunicazione fra uomini e donne. I traguardi di parità e integrazione raggiunti non sono stati il frutto di richieste fatte da uomini e donne, assieme, in maniera condivisa. Sono state in qualche modo “imposte” all’universo maschile e non riconosciute necessarie da parte degli uomini. Questi accettano la regola della parità, ma non avendola partecipata non è detto che la rispettino. La parità della donna, della sua figura nel sociale, dovrebbe essere vista come conquista anche da parte dell’uomo, finché questo non la vedrà come una conquista anche per se stesso rimarrà imposizione e quindi potrà ancora portare all’espressione dell’impotenza, che si traduce quasi automaticamente in violenza.”

“Qualcuno non ce la fa a sostenere il confronto e quindi non ce la fa ad agire il cambiamento. – conclude Alessandra – Altri fanno un percorso magari doloroso e lungo, ma ad un certo punto la consapevolezza del cambiamento prende forma, fornendo una nuova visione della propria vita di relazione, anche con le donne, magari anche con la propria compagna o ex compagna”. Quindi, utilizzando le giuste parole possiamo tutti alimentare il cambiamento e la speranza.

NOTA A MARGINE
La musica del Cosmo (ovvero le onde gravitazionali spiegate ai bambini)

Sono passati tre giorni da quando è stata annunciata e ribattuta dalle agenzie milioni di volte la notizia che, pare, rivoluzionerà le teorie e la ricerca scientifica sul cosmo: parliamo della conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali, mistero ipotizzato da Albert Einstein cento anni fa, la cui presenza sarebbe stata dimostrata da un’equipe internazionale di scienziati dopo decenni di studi.

Alzi la mano chi ha capito al volo di cosa parlassero le riviste scientifiche, i giornali tutti, i tg e i notiziari alla radio. Noi teniamo la mano abbassata. E per chiarirci le idee e comprendere quale portata potrebbe avere una simile scoperta ci siamo affidati in prima battuta a un video divulgativo della Phd Comics, una struttura che produce mini-documentari Ideati da nerd di ogni sorta! Poi, inquadrato il tema, siamo passati alle riviste scientifiche.

Ciò che abbiamo compreso è che le onde gravitazionali sono increspature dell’universo che si creano per la stessa massa delle “cose” che in esso si muovono: stelle di ogni genere, buchi neri e galassie. Secondo la teoria delle onde gravitazionali, per fare un esempio a noi vicino, la Terra gira intorno al Sole non per l’effetto della forza di gravità solare che – come si urla spesso nei film di fantascienza degli anni ’80 – sarebbe fortissima, ma perché il Sole che è un corpo pesante piega l’universo intorno a se, costringendo così i pianeti del sistema a stargli addossati nella rotazione. Quindi, quando grandi masse si muovono interagendo fra loro, causano deformazioni dell’universo, creando onde gravitazionali. Queste viaggiano attraverso il cosmo e arrivano a noi sotto forma di vibrazioni portando la voce di eventi lontanissimi nello spazio e nel tempo.

L’annuncio della scoperta degli effetti della onde gravitazionali fa seguito all’osservazione di un evento cosmico registrato il 14 settembre scorso: la collisione di due enormi buchi neri, con una massa grande rispettivamente 36 e 29 volte quella del Sole, che ruotavano uno intorno all’altro. Si sarebbero avvicinati fra loro alla velocità della luce e alla fine si sono scontrate, generando un unico buco nero che ha per massa la somma dei due e ha emesso una energia pari a tre masse solari, che è arrivata a noi grazie alle onde gravitazionali. Gli scienziati hanno percepito la danza di avvicinamento dei due corpi celesti, testimoniata da un segnale di vibrazione sempre più ampio e frequente durato appena 10 millisecondi. Poi silenzio.

Perché questa “musica” del cosmo sia udibile e misurabile, c’è bisogno che le masse che interagiscono fra loro siano enormi, proprio come due buchi neri e per misurare le deformazioni si utilizza la velocità della luce: se lo spazio si dilata o si restringe, a causa dell’interazione delle masse, la luce del sole avrà una distanza differente da quella misurata in precedenza. Questa è la cosa più difficile da capire: cosa c’entrano i tunnel dei rilevatori Ligo (Laser interfero meter gravitational wave observatory) in Louisiana e vicino Washington con le onde gravitazionali e che cosa significa l’entusiasmo che questa scoperta ha provocato fra gli addetti ai lavori?

Il cosmo è oggetto di teorie, lo studio dell’Universo non può essere empirico e ci si affida alle intuizioni degli scienziati per procedere nella ricerca. Einstein aveva ipotizzato la “teoria della relatività”: la curvatura e la distorsione del rapporto fra spazio e tempo sarebbero state legate alla distribuzione delle masse e dell’energia. Affascinante teoria che destabilizzava l’idea che lo spazio e il tempo fossero lineari, come gli assi della matematica cartesiana. L’aver potuto raccogliere le vibrazioni delle onde gravitazionali ha confermato che il rapporto fra spazio e tempo non è affatto lineare, è soggetto a variazioni, a increspature, e ancora una volta toglie l’uomo dal centro dell’universo e lo relativizza, mettendolo di fronte al fatto che – magari un giorno – attraverso queste stesse increspature sarà possibile raggiungere luoghi infinitamente lontani o tempi diversi da quello in cui viviamo. Ecco, questa è la nuova teoria da confermare o confutare.

Resta la questione dei tunnel: queste strutture di studio, una delle quali presenti a Cascina di Pisa, sono costituite da tubi, chiamiamoli così, all’interno dei quali si fa viaggiare la luce laser per misurare la variazione dello spazio. Quando arriva un’onda gravitazionale, essa contrae lo spazio in una direzione e lo dilata nell’altra. Misurando l’interferenza fra i fasci laser che vengono riflessi da una estremità all’altra i fisici possono misurare in maniera molto precisa se lo spazio si è dilatato o compresso. Le misure sono infinitesimali, parliamo di unità di dieci alla meno ventun metri, e l’effetto delle onde è una vibrazione assimilabile al rumore di fondo del cosmo: gli scienziati del Ligo negli Usa e quelli della Virgo a Cascina, dopo aver raccolto il rumore delle onde, hanno dovuto separarle da tutti gli altri rumori del cosmo per poterle studiare e riconoscere come tali.

Cosa cambia nella nostra vita? Nulla in concreto! Facciamo la spesa come la scorsa settimana e lunedì torneremo a lavoro come sempre, sapendo però che le nostre vite si svolgono in un affascinante sistema universale. E grazie alla caparbia di centinaia di “scienziati pazzi”, visionari che scrutano le stelle, pian piano potremmo capire meglio da dove veniamo, noi essere umani e tutto ciò che ci sta intorno. E un giorno forse qualche nostro pronipote potrà preparare i bagagli per il suo viaggio intergalattico nello spazio o per un’escursione nel tempo, proiettando se stesso in luoghi remoti o in epoche passate. 

LA SEGNALAZIONE
Quello che le donne non dicono

Un’anziana signora non andava là sotto dal 1953. Aveva chiuso per sempre con quella parte di sé, che le aveva procurato in gioventù un’inondazione. E lei era naufragata in un mare di vergona, oltre il pudore, oltre il piacere che aveva finalmente provato. Chiuso per sempre. Dopo tanti anni, praticamente una vita, aveva raccontato la sua storia a Eve Ensler. E si era sentita meglio.
L’inondazione è uno dei “Monologhi della vagina”, sono parole di vita, spesso dolorosa, che non puoi leggere e basta. Sai che non è un testo per la scena, ma è un di velo di Maya che si è squarciato per rivelare l’ignoto, il calpestato, l’intimo. Sai che hai in mano una cosa che ad alcune ha fatto sfiorare la morte, ad altre trovare un’identità, a molte ha dato la possibilità di parlare. Ma quando si tratta di sè non è mai semplice. Chi legge lo sa, e la scelta del testo a cui dare voce è per questo libera, di pancia. Bisogna sentirsela di leggere le parole di una donna bosniaca rifugiata in un campo profughi durante la guerra in Jugoslavia. Anche raccontare un parto, il dolore fisico più bello che una donna possa sentire, è una lettura che mette alla prova, rivivi quando è successo a te o a una tua amica e sai che è proprio così come lo stai dicendo al pubblico.
I monologhi però sono anche pratici, come le donne. Il ‘seminario della vagina’ esiste e non è per niente banale. Ha aiutato le donne a vedersi e più ancora a immaginarsi: chi lo racconta trova finalmente se stessa, chi lo ascolta capisce quanto la paura di scoprirsi possa durare anche tutta la vita.
L’unicità che ciascuna donna ha nel raccontarsi trasforma i “Monologhi” in un dialogo moltiplicato all’infinito fra chi interpreta e chi ascolta. I monologhi sono orizzontali perchè non c’è mai un sentimento che non hai provato, un pensiero che non hai fatto, un timore che non ti ha attraversato e che non sia stato confessato nei testi. Non è un caso se quest’opera dall’America è stato accolta quasi in tutto il mondo ed è ancora rappresentata a distanza di negli anni.

Il gruppo VDay Ferrara crede che si debba continuare a proporre sul terrirtorio i “Monologhi”. È il quinto anno che, in sintonia con gli altri VDay internazionali, le volontarie del VDay Ferrara curano gli spettacoli il cui ricavato sarà devoluto in beneficenza a progetti a sostegno di vittime di violenza. Perché memoria e riflessione non si spengano e perchè ascoltare è anche un po’ curare.
Le donne ne hanno bisogno.

Appuntamento domenica 21 febbraio alle 18.30 presso lo spazio teatrale dell’associazione Ferrara Off.

LA MEMORIA
Fantasia e tenacia: in ricordo di Paolo Mandini che oggi festeggerebbe 73 anni di vita intensa

di Antonio Rubbi

Ci eravamo trovati, giusto un mese fa, amici e compagni, la città nelle sue espressioni che la rappresentavano, sindaco Tagliani in testa, a salutare Paolo Mandini che ci avrebbe lasciati per sempre. Troppo presto e troppo dolorosamente, per Paola e Stefania e per noi tutti. Parlare di lui al passato mi riusciva a stento allora, fatico ad abituarmici ora quando ancora mi pare debba arrivare, attesa e gradita, la sua telefonata per raccontarmi di un fatto della città, del risultato della partita della nostra amata Spal, ma più frequentemente per un fatto politico del giorno , fosse esso inerente a problemi cittadini o nazionali o riguardassero le preoccupanti vicende dell’inquieto e confuso mondo di questi tempi.
Perché con Paolo di politica prevalentemente si parlava. Per lui, come del resto per tutti noi che venivamo della stessa militanza partitica e da una esperienza di vita che se pur distante negli anni era simile nei valori cui si ispirava e nei percorsi da compiere la politica era, ed è rimasta, come una specie di seconda pelle.

paolo-mandiniPaolo per di più le vicende della politica le viveva ancora con la immedesimazione e l’ardore di quando si trovava in prima linea e sentiva di dover dar conto quotidianamente del suo pensiero e del suo operato, benché la condizione del pensionato e i problemi di salute che lo affliggevano gli dovessero suggerire un minor grado di tensione e di coinvolgimento.
Mi ricordava il tempo in cui avevamo operato assieme, un decennio buono in Federazione e poi quasi altrettanto sui banchi del Consiglio Comunale. La stessa voglia di ascoltare e di apprendere, ma anche di confrontarsi senza timore referenziale, sino alla contrapposizione e allo scontro, che non erano stati infrequenti soprattutto negli anni incandescenti dei movimenti giovanili e studenteschi del ’68-’69. C’erano stati momenti in cui davvero avevamo faticato a capirci: il partito dei grandi ancora arcigno e guardingo, culturalmente non pronto ad accogliere le novità dirompenti che tali movimenti proponevano e dall’altro schiere di giovani e ragazze suggestionati da correnti di pensiero e propositi di cambiamenti radicali dello stato delle cose esistenti, rappresentati in una miriade di gruppi e gruppuscoli, partiti e partitini sin li sconosciuti e quasi sempre espressi in nomenclature estreme. Va dato merito a quel gruppo di giovani che si trovavano in quegli anni con Paolo alla testa della Federazione giovanile se, dopo aver tanto battagliato nei cortei, nelle assemblee studentesche, nelle sezioni e nei circoli, con larghissima parte di quei giovani e ragazze sapemmo ritrovarci e riprendere ad operare insieme.
Mi ricordava il Paolo dei dibattiti in Consiglio Comunale ai tempi dell’istituzione dei Consigli di Quartiere per allargare la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica; dell’apertura di nuovi istituti e sedi in città per incrementare interesse e partecipazione a dibattiti culturali in grado di favorire la conoscenza reciproca ed una collaborazione maggiore tra le forze politiche e sociali della città. E infine, l’inizio del suo lungo e insuperabile impegno, come assessore allo sport. Ha ben scritto Fiorenzo Baratelli, suo amico da una vita, che Paolo Mandini è stato il migliore assessore allo sport che Ferrara abbia avuto e gli sportivi ferraresi di ieri e di oggi hanno già dimostrato di riconoscerlo come tale e sono convinto che non mancheranno più significativi attestati in futuro.

Come dirigente politico Paolo Mandini non aveva solo il gusto del dibattito; sapeva bene che occorreva unire a questo anche il momento dell’azione, del fare. Ed in questo era pieno di risorse. Era dotato di una fantasia e di una mente talmente fervida da sfornare a getto continuo idee e proposte. Per tanti versi mi ricordava l’incontenibile Roffi dalle mille trovate. Ero piuttosto io a mantenere un atteggiamento di cautela quando mi sottoponeva certi parti della sua insuperabile fantasia. Perché Paolo lo conoscevo bene e sapevo che se era bravissimo e assolutamente affidabile per tante cose, non era quel che si dice un organizzatore provetto ed era piuttosto disordinato nelle sue iniziative, cosicché, poteva capitare che alcune brillanti idee si arenassero ancora allo stadio della messa in cantiere ed altre languissero in rifacimenti continui e tempi infiniti.
Ma poi era venuto un momento che mi aveva costretto a ricredermi e mi aveva sorpreso sino allo sbalordimento. Era stato quando era andato a prestare la sua opera nel movimento cooperativo ed in talune circostanze aveva avuto l’incarico di portare avanti iniziative di solidarietà internazionale, che interessato e sensibile come era sempre stato per le vicende internazionali, accendevano il suo entusiasmo. In alcune occasioni si era rivolto a me, in quel periodo alla direzione del partito a Roma a dirigere la sezione esteri, ed ero stato ben felice di potergli dare una mano. Era stato relativamente facile far giungere gli aiuti che il movimento cooperativo aveva raccolto per il Fronte di Liberazione di Angola e Mozambico, per l’Anc che in Sud Africa si batteva contro l’apartheid; bastava collegarsi con i reggiani che avevano un canale aperto e che avrebbero facilitato il recapito. Assai più complicato era stato, qualche anno dopo dar seguito all’appello proveniente da Cuba volto ad ottenere materiale di cancelleria scolastica di cui c’era estrema carenza. Come concretamente Paolo avesse fatto non so, ma non troppi mesi dopo nell’ambasciata cubana a Roma era pervenuta una lettera di ringraziamento del governo cubano diretta alla cooperazione italiana.
E infine la faccenda dell’orologio per Mostar. Una storia quasi incredibile. Tra le tante conseguenze tragiche della guerra serbo-bosniaca c’era stata la distruzione a Mostar del famoso e bellissimo Ponte Vecchio sulla Neretva, costruito dai Turchi nel 1556, e successivamente ornato con un enorme orologio murale d’epoca, anch’esso andato perduto. I bosniaci chiedevano aiuto per la ricostruzione dell’uno e il rifacimento dell’altro. Ed era appunto a nome di una cooperativa specializzata di Modena che dichiarava di prendersi in carico il ripristino dell’orologio murario che Paolo stavolta agiva. Come sia andata a finire di preciso non so, quel che so di certo è che continuò ad occuparsene a lungo con tenace impegno.

Era nella sua indole offrirsi ad ogni causa nobile ed aiutare chiunque si trovasse in una condizione di difficoltà e bisogno, fosse una singola persona, una comunità, un popolo intero. Bisogna anche dire che aveva grande facilità e naturalezza di approccio con persone di altri paesi, di altre storie e culture, di altre razze. E questo approccio lo manteneva allo stesso modo per tutti, dai più umili ai più “grandi”, quelli che entrano nella storia. L’avevamo visto a Ferrara portare a passeggio lo sfortunato protagonista della “primavera di Praga” Alexander Dubček, io l’avevo visto nella sede della Coop di Modena farsi amico in un breve pomeriggio un personaggio come Mikhail Gorbaciov che il mondo intero nel periodo della “perestroika” aveva osannato. Si era immediatamente accattivato la sua simpatia e quando si erano salutati si erano pure scambiati una divertita reciproca pacca sulle spalle. Io Gorbaciov lo conoscevo da anni, avevo trascorso con lui giornate e giornate, ma una confidenza del genere non me la sarei permessa.

Nella vita di Paolo non erano mancati i momenti di amarezza. I peggiori furono certamente quelli in cui lui ed un gruppo di compagni ed amici che condividevano lo stesso pensiero e lo stesso atteggiamento avevano ritenuto loro dovere di cittadini e di militanti di una forza politica che della correttezza amministrativa aveva fatto una sua bandiera, denunciare quel sistema di potere che si era costituito attorno alla amministrazione comunale e ad alcune sue scelte, discutibili al massimo ed opache quando bastava per mettere in allarme e che coinvolgeva settori della politica ferrarese del movimento cooperativo, segnatamente la potente Coop Costruttori. Apriti cielo! Contro questi maldicenti “grilli parlanti” e “moralisti a tempo perso” fu condotta una virulenta campagna per isolarli e metterli all’indice. Una condotta tracotante e miope. Un ceto dirigente un po’ meno coinvolto e un po’ più accorto avrebbe all’opposto cercato di indagare più a fondo i motivi di quelle critiche e l’oggetto specifico della denuncia che veniva fatta. Sarebbe stata anche la strada migliore per cercare di suturare la ferita profonda che era venuta a crearsi all’interno dello stesso schieramento. Lo fecero più tardi, quando arrivarono loro alla direzione del partito: Roberto Montanari prima, con nettezza e a modo suo, Mauro Cavallini dopo. Ma poi furono i fatti a parlare: il crac rovinoso della Coop Costruttori, con tragiche conseguenze per migliaia di famiglie e di lavoratori e pesanti ricadute sull’economia argentana e ferrarese, le cause in giudizio nelle aule dei tribunali; il Palazzo degli Specchi ridotto ormai alle sembianze di uno spettro a testimonianza simbolica dello scempio compiuto. Nell’acceso scambio polemico di quegli anni ci saranno state certamente forzature da una parte e dall’altra. A Paolo capitava di trovarsi sopra le righe, non aveva difficoltà ad ammetterlo. Ma riconoscere ora, alla luce di quanto accaduto, chi era nel vero non dovrebbe essere difficile. E’ sperabile allora che qualcuno tra i responsabili senta di dovere quanto meno delle scuse a quanti condussero quelle battaglie di verità?

Il pensiero di Paolo negli ultimi tempi era rivolto, come credo la maggior parte di noi, a cercare risposte dal caotico e mal governato mondo che ci ritroviamo. Come la fermiamo quella orribile marmaglia nera dei fanatici e feroci seguaci del sedicente Califfo prima che si attesti in forze anche davanti all’uscio di casa nostra, in Libia, e pronta a sguinzagliare nei paesi europei i suoi sicari di morte? E come fronteggiamo la massa dei migranti che scappa dai paesi in guerra, fatto salvo il dovere, prima di tutto, di assisterli affinché non anneghino? Seminando paure, alzando sempre più filo spinato, lasciando fare le ronde di razzisti e xenofobi sollecitati ad arte da movimenti populisti e forze di destra che sull’odissea dei migranti intendono procacciarsi popolarità e voti, o piuttosto con una più energica ed unitaria iniziativa europea di intervento nei paesi d’origine, e per regolare e distribuire più equamente, tra i 28 paesi dell’Unione, il loro carico e organizzando i rimpatri di quanti non hanno motivi per restare? Si sfogava con me, ma capivo che su problemi come questi avrebbe voluto confrontarsi in sedi ben più ampie e rappresentative. Cosa pensava la gente bisognava farlo con il contatto diretto, non solo online. E questo si sarebbe dovuto fare anche a proposito di misure del governo che non lo convincevano tanto e delle quali avrebbe voluto dire molto di più di quel che si poteva affidare ad uno smilzo trafiletto di giornale. Ci voleva ben altro spazio per spiegare perché lui ritenesse “liberista” della più bell’acqua la riforma del Jobs Act che si sarebbe voluto far passare come “di sinistra”, e lo lasciavano scettico le riforme costituzionali perché con la motivazione che si superava il bicameralismo si era giunti a proporre una sorta di mini Senato che non si capiva bene che vesti indossasse e che funzioni avrebbe dovuto assolvere nella sua nuova vita. L’unico dato certo che questa riforma vista insieme al progetto di nuova legge elettorale in cantiere ci avrebbe dato tanto una Camera quanto un nuovo piccolo senato di persone nominate dalle segreterie (o meglio da alcuni segretari) di partito producendo uno strappo serio al principio di rappresentatività della sovranità popolare indicato dalla costituzione e quindi al carattere democratico delle istituzioni parlamentari del paese.
Come sorprendersi poi se cittadini ed elettori si staccavano sempre di più dalle istituzioni, dai partiti, dalla politica? Avevamo vissuto entrambi in modo traumatico (penso sia stato cosi per una grande quantità di elettori della nostra regione, soprattutto tra quelli orientati a sinistra) il fatto che alle elezioni regionali dello scorso anno solo il 37 (!) per cento dell’elettorato si fosse recato alle urne. Questo nell’Emilia Romagna, una delle regioni più evolute e democraticamente avanzate dell’intero paese! Ma ciò che aveva ancor più sbalordito è che questo dato non avesse sollevato un’ondata di richieste di spiegazioni, un sussulto degli iscritti e simpatizzanti di partiti di sinistra che la regione l’avevano da sempre guidata, un moto anche di indignazione. Tutto velato, silenziato, archiviato in fretta. A questo era giunta una politica che era andata via via allontanandosi dagli interessi e dai sentimenti di larghe masse popolari e fatta da partiti trasformatisi in semplici comitati elettorali a sostegno del prescelto di turno perché possa ricevere la delega necessaria alla sua personale carriera. Si era ormai parecchio lontani da quella concezione della politica come portato di valori ideali per cui battersi con dedizione a assoluto disinteresse, come opera e servizio nell’interesse della comunità e della sua parte più emarginata in specie, come funzione da esercitare nel pubblico e nel privato con rettitudine ed onestà. Una concezione della politica che non può essere solo dei tempi andati ma che deve essere di ogni tempo. Soffriva per questa piega delle cose ma non disperava che fosse ancora possibile recuperare un modo di fare politica che fosse ancora capace non di carpire qualche voto in più ma di accendere il pensiero e scaldare i cuori.

Oggi Paolo avrebbe compiuto 73 anni. Da come gioiva quando dai periodici controlli medici di Padova tornava con buoni esiti, o si deprimeva quando stabilivano il contrario, si può capire come fosse tenacemente attaccato alla vita e pensasse, sperasse, di festeggiare e questo compleanno e tanti ancora a venire. Lo voleva perché sentiva forte l’affetto dei suoi cari, la simpatia e la solidarietà degli amici, la stima di tanti. Lo voleva perché sentiva di avere ancora tanto da studiare e imparare, tanto da vedere e curiosità da soddisfare, tanto da fare.
Per noi lo doveva perché sentivamo quanto ancora potesse dare a noi tutti e alle cause per cui ha speso una vita. Credo sarebbe lieto di sapere che per quel tanto che ci sarà concesso proveremo a fare anche la sua parte.

Roma, 12 febbraio 2016

 

Antonio Rubbi è stato un esponente di primo piano del Pci sia a livello locale che a livello nazionale. E’ stato segretario della Federazione provinciale del Pci nel decennio delle ‘riforme’ e della grande avanzata del Pci: gli anni settanta. Dopo molti anni di presenza nel Comitato Centrale del Pci, entrò nella Direzione nazionale e fu nominato responsabile della Sezione Esteri, divenendo uno dei più stretti collaboratori di Enrico Belinguer. Ha, inoltre, scritto libri importanti sulle esperienze e occasioni che l’importante e delicata responsabilità gli consentirono. Pubblicò libri su Nelson Mandela, Arafat, sulla Russia di Eltsin, su Enrico Berlinguer. Sono testi preziosi per ricostruire il contesto, i fatti e le scelte di politica internazionale che videro il Pci di Berlinguer attivo e protagonista insieme ai grandi dirigenti del sud del mondo e delle grandi socialdemocrazie europee.

NOTA A MARGINE
Sanità a marcia indietro: calano medici e infermieri, aumentano i precari

di Federico Messina*

Allarmante: è il dato relativo al calo del numero dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e del loro costo, emerso dal resoconto annuale curato dalla Ragioneria dello Stato di recente pubblicazione (15 gennaio 2016). Dallo stesso documento emerge anche che, nel frattempo, l’età degli operatori sanitari cresce. Se l’età media del personale nel 2001 era di 43,5 anni e nel 2014 arriva a 49,7 (uomini 51,7 donne 48,7), le previsioni per il 2019 pronosticano una media di 55,6 anni.
Nel 2014 sono 6.500 dipendenti in meno rispetto all’anno precedente; -2,7% rispetto al 2007. Un calo che prosegue anche nei primi 9 mesi 2015, periodo in cui si registra una contrazione dello 0,92% (altri 6.500 dipendenti circa). Scende anche il costo del lavoro: la sanità si colloca al secondo posto dopo il comparto della scuola. Nel 2014 la spesa complessiva per il comparto sanitario è stata di 39,126 miliardi (-0,9% rispetto al 2013, circa 390 milioni di euro). Il Conto annuale 2014 del ministero dell’Economia evidenzia anche come la retribuzione media per il personale del Ssn sia scesa lievemente (-0,3%) rispetto al 2013.
Calano i medici. I dirigenti medici a tempo indeterminato calano dai 113.803 del 2013 ai 112.746 del 2014 (-1.057), con una età media che è arrivata 52,83 anni (52,2 nel 2013). Lo stipendio medio è stato di 73.019 contro i 73.248 (meno 229 euro).
In calo gli infermieri che nel 2014 sono risultati 26.9149, contro i 271.043 nel 2013 (-1894). Sale anche per loro l’età media che si attesta sui 47,07 anni (nel 2013 era 46,35). In calo anche per gli infermieri le retribuzioni medie: nel 2014 a 32.430 euro contro i 32.528 euro del 2013 (-98 euro).
Crescono i precari: i medici precari sono 7.905, in crescita rispetto ai 7.409 del 2013. Stesso destino per gli infermieri: quelli con lavoro precario erano 9.884 nel 2013, mentre sono diventati 10.934 nel 2014 (1.050 in più).
Nonostante il recente recepimento della direttiva europea sugli orari lavorativi renda necessario un turnover più efficace e l’adeguamento del numero di personale sanitario alle sempre più crescenti esigenze di salute dei cittadini, questi dati evidenziano chiaramente i la politica a marcia indietro del nostro servizio sanitario nazionale. Mentre il ministro della Salute, Lorenzin propaganda nuovi concorsi e assunzioni, nel mondo reale le aziende sanitarie tagliano i servizi.
La normativa europea è stata così trasformata in una sorta di prezioso assist per le deboli casse del Ssn. Sfruttando il pretesto di sollevare il personale sanitario da carichi di lavoro stressanti, in realtà si risparmia sul costo del lavoro, si tagliano gli stipendi di medici e infermieri, portandoli ai livelli inferiori a quelli del 2013. Una spending review all’Italiana, in cui piuttosto che tagliare gli sprechi si preferisce tagliare sul lavoro, sul personale sanitario e dunque sull’offerta sanitaria e sui servizi. È questo dunque un altro passo in avanti verso la privatizzazione?

* specialista in Chirurgia generale, Chirurgia colorettale e del pavimento pelvico

PUNTO DI VISTA
Dimenticare Keynes: l’abdicazione della politica a Sua Maestà l’Economia

La crisi del ’29 e la grande depressione che ne seguì lasciarono due insegnamenti che cambiarono la storia economica del mondo:
– la legge di Say che aveva imperversato nelle università per circa 120 anni fu messa in discussione, l’offerta non creava più la domanda, si potevano produrre tutte le merci che si voleva ma serviva qualcuno che le comprasse altrimenti sarebbero rimaste invendute
– la politica doveva governare l’economia, servivano leggi che tenessero a bada banchieri, finanziari e speculatori.

Si cominciò allora a invertire il paradigma e a studiare la domanda relegando a microeconomia tutto il dibattito sulla produttività delle aziende e la determinazione di prezzi e salari. Keynes inventò finalmente la macroeconomia. E figli di questa intuizione furono il new deal roosveltiano, che prevedeva anche la svalutazione dell’oro, e nel secondo dopoguerra il piano Mashall che gettò le basi per la ripresa post bellica europea. Gli americani infatti capirono che per riavere indietro i prestiti fatti durante la guerra c’era bisogno di ricostruire, spendere, creare le basi del benessere.

Il processo di miglioramento delle condizioni della domanda andò avanti fino agli anni ’80 quando forze opposte e che guardavano al passato non riuscirono a trovare degli uomini che potessero invertire di nuovo il processo e li trovarono, da Reagan a Khol, da Ciampi e Amato a Junker, da Monti a Obama e Draghi, ognuno ha fatto la sua parte e continua a farla. Bisognava abolire leggi come il Glass-Steagall Act e tutte quelle leggi che limitavano la capacità della finanza di guidare le scelte dell’economia nella direzione del profitto a scapito della produzione e del progresso reale. Fu fatto un gran lavoro per promuovere prodotti derivati e di finanza sfrenata che portò guadagni miliardari ad una ristretta cerchia di persone mentre le università furono invase dalla propaganda neoliberista perché venissero accettate pratiche medievali di libero mercato.
Bisognava far arretrare lo Stato dai processi decisionali, ritornare al potere dei privati e soprattutto fare in modo che tutte le energie degli economisti di mestiere fossero dirette non a correggere il sistema ma ad intavolare discussioni di microeconomia che lasciassero intatto il sistema in modo da distrarre il pubblico.

Oggi più nessuno stato applica politiche keynesiane o forse no. C’è un Paese che fa dell’intervento statale la sua forza ed è non a caso la seconda economia mondiale: la Cina.
La Cina oggi è un competitor con cui bisogna fare i conti sempre, ed ha un grande vantaggio nei confronti degli Stati Uniti e soprattutto dell’Europa. Oltre ad utilizzare le armi della moneta di proprietà statale attraverso il controllo della sua Banca Centrale e la direzione politica dell’economia, non ha mai applicato quei criteri di giustizia sociale che i paesi occidentali avevano imparato a difendere e quindi procede a suon di bassi salari e poco stato sociale. Ultimamente alcune riforme si sono imposte a causa della crisi e del calo della domanda esterna, quindi stanno procedendo ad un innalzamento dei salari e delle condizioni di lavoro, nonché all’abbandono della regola dell’unico figlio, al fine di aumentare la loro domanda interna. Insomma l’esperienza cinese ci dovrebbe far riflettere sull’importanza del controllo della moneta e del governo dell’economia keynesiano, che indubbiamente sta funzionando meglio del nostro orientamento liberista, ma anche sull’importanza del nostro stato sociale e delle nostre conquiste salariali che non possono essere sacrificate sull’altare della competizione.

I Paesi occidentali quindi si sono indeboliti perché hanno abbandonato ogni controllo statale e lasciato tutto in mano ai privati, che quindi hanno guardato a ciò che ovviamente guardano i privati: il loro interesse.
Se guardiamo alle aziende italiane che hanno fatto del piccolo e familiare la fortuna della loro nazione e sono state sempre più lasciate a se stesse, vediamo tanti Davide combattere da soli contro Golia. Ma il racconto biblico dà la vittoria a Davide mentre nella vita reale la seconda economia mondiale supportata da una Banca Centrale statale ha già vinto.

Oggi la Cina sta investendo miliardi in Italia e sta comprando tante aziende che lo Stato italiano ha lasciato senza tutela. Le acquisisce e inizialmente magari paga stipendi più alti e impiega qualche persona in più perché ha bisogno nell’immediato di acquisire soprattutto il know how italiano, la genialità, il saper fare e innovare. Ma cosa succederà poi? Hanno forse qualche obbligo i cinesi di lasciare le loro conquiste in Italia e di dare benessere al nostro Paese? Non credo proprio, quando avranno acquisito ciò che avranno voluto potranno spostarsi in qualsiasi altra parte del mondo aumentando i loro profitti.
Potrebbero mai fare quello che stanno facendo se non avessero un piano statale di aiuti, di direzione economica alle spalle? E altrettanto avrebbero potuto farlo se da questa parte ci fosse stato un Paese pronto a difendere le proprie aziende e i propri lavoratori?

Lo smantellamento delle istituzioni occidentali è proseguito persino dopo la crisi del 2007-2008, paragonabile per intensità a quella del 1929. Agli inizi del ‘900 gli Stati capirono il pericolo e agirono di conseguenza, in questa invece non si è fatto assolutamente nulla. Ci sono state interrogazioni, audizioni al parlamento statunitense dove sono stati chiamati ed ascoltate agenzie di rating, amministratori di grandi banche ed è venuto fuori in tutta la sua chiarezza che il sistema economico era stato manipolato, falsato ad uso degli operatori di finanza e contro i cittadini che persero soldi e case. Ma niente. Nessuna conseguenza, anzi i contribuenti sono stati chiamati a ripagare i danni provocati dalle banche mentre coloro che avevano causato il disastro furono impiegati nella nuova amministrazione Obama a continuare la loro opera di controllo della politica.

L’Europa segue e si impoverisce sempre di più. Il continente che ha inventato il mondo ora è diventato terra di conquista, ha ceduto qualsiasi arma di difesa aderendo a trattati che ne impediscono qualsiasi forma di difesa dagli interessi finanziari eliminando ogni tutela e intervento statale. E non solo aziende ma vendiamo anche pezzi di storia, come l’antico Palazzo della Zecca che diventerà un albergo di lusso a guida ovviamente cinese. E mia figlia di 11 anni mi ha chiesto se arriveranno a comprare anche il Colosseo, domanda alla quale non ho saputo rispondere ma forse se ne dovrebbe occupare il mondo accademico se non fosse, purtroppo, che è stato plasmato per lasciare tutto com’è e forse, quando il politico di turno chiederà a loro consiglio su come trattare una eventuale richiesta di acquisto, risponderanno che sì: data la crisi, la mancanza di soldi, il debito pubblico, potrebbe essere una buona idea farlo. Venderlo alla Cina o alla McDonald’s non farà differenza, l’importante sarà far quadrare i conti e non una questione di dignità o di etica. L’importante sarà rimanere all’interno delle regole e dei trattati, del fatto che siano sbagliati non si può discutere.

Insomma, per essere politicamente corretti ed economicamente accettati, dobbiamo continuare a pensare a che colore dare alla tende in un palazzo con le fondamenta di cartapesta.

LA RICORRENZA
Testimonianza sulle foibe, orrido frutto della degenerazione ideologica

Alba del 14 maggio 1945. La salvezza contro l’impossibile. Graziano Udovisi e Giovanni Radeticchio (detto Nini) riescono a risalire dalle viscere della terra e ritornare nel mondo dei vivi.
Ecco la testimonianza di Udovisi, sopravvissuto all’infoibamento quando aveva solo 19 anni.

“…Eravamo in sei. Dopo una lunga notte di tortura ci fecero camminare verso la Foiba, una voragine dal fondo ricolmo d’acqua, nei pressi di Fianona. Camminammo tra rovi spinosi e sassi appuntiti, quasi nudi, riuniti in un assurdo gruppo con il filo di ferro che serrava e segava la carne dei polsi e delle braccia, picchiati con il calcio e le canne dei mitragliatori. Poi, sull’orlo della voragine… il crepitio assordante della mitraglia… Vedo la fiamma uscire dalla canna… Con lo slancio dei miei 19 anni mi butto nell’orrido ‘buco’ prima che la fiamma si faccia pallottola. Volo nell’abisso di calcare… Madonna… Madonna mia…
Cado su di un ramo sporgente che sembra rallenti quel precipitare nell’oscurità e voglia trattenermi… ma subito si strappa e rovina con me… Sono come piombo che cade… Giù, giù, giù in un sepolcro senza fine… Un tonfo… tanti altri tonfi. E l’acqua si chiude sopra sei poveri esseri umani. Sprofondo… annego… soffoco… o Dio.
Mi divincolo, scalcio, strappo con forza il filo di ferro legato al braccio, ai polsi. Annaspando nell’acqua, tocco una grossa zolla d’erba… No, tra le mia dita ci sono dei capelli. Li afferro e tiro verso di me un corpo quasi inerte… E’ il povero Giovanni Radeticchio, che io sollecito sottovoce con il nome di Nini. Gli metto un braccio attorno al collo e lo trascino, nuotando, alla ricerca di qualsiasi appiglio…Il rumore dell’acqua genera lassù, un’imprecazione: ” Maledetti, ancora non siete morti!”
La voce rabbiosa ci arriva da un universo dantesco che ormai avvolge tutto: l’inferno è quaggiù ed è ancor più terrificante lassù, in superficie, sopra la nostra agonia.
Urla e bestemmie giungono sottoterra, nella tomba dei vivi, assieme a una bomba a mano, che va ad esplodere nella profondità. Ancora un’altra bomba, questa volta scoppia a pelo d’acqua. Il viso e la testa sono colpite dalle schegge… le ossa spezzate. Adesso, Nini e io, non osiamo fare il minimo movimento, neanche quello che obbliga il respiro… La nostra tomba di calcare e acqua è ormai fatta di orrido silenzio. Restiamo in ascolto. Anche da lassù, dall’inferno sopra di noi, non giunge alcun rumore.
I nostri carnefici se ne sono andati?! Nini intravede una rientranza nella roccia. Ci trasciniamo. Ci arrampichiamo piano con immensa fatica. Nel buio. Nel freddo. In un tempo cancellato, perchè il nostro tempo è ormai diventato quello dei morti. Come solo Iddio sa, vediamo all’improvviso una fessura di cielo e portiamo in superficie una pietà infinita: per noi che abbiamo l’aspetto dei cadaveri e per i criminali titini.
Mi sono salvato e con me ho tratto a vita un ‘fratello’, Radeticchio Giovanni detto Nini. Sul fondo della foiba, dove sono precipitati, vivi assieme a noi, resteranno, scomparsi nell’acqua: Cossi Felice, Mazzucha Natale, Radolovich Carlo, Sabath Giuseppe. Pace, pace a voi, vittime inconsapevoli di un genocidio”.
(Testimonianza di Graziano Udovisi, sopravvissuto degli eccidi compiuti dai partigiani di Tito)

I politologi e gli storici ricordano che i grandi sconvolgimenti che hanno segnato il destino di masse di uomini, donne e bambini, sono stati originati, sempre e ovunque, da un disegno ideologico, di cui la politica è sempre stata informata. Le Leggi razziali di Norimberga del 1935 furono lo sbocco tragico della teoria e del ‘mito del sangue’ sul quale si esercitarono da L.Jahn fino ad Hitler.
“Il Capitale” di Karl Max generò la Rivoluzione d’ottobre e degenerò, ovunque si sia attestata quell’ideologia, in regimi dittatoriali.
Molti studiosi condividono l’opinione che la base ideologica del razzismo comunista jugoslavo e il know-how operativo (cioè le istruzioni per portare a buon fine le pulizie etniche compiute nell’area balcanica e in quelle del versante orientale dell’Adriatico), siano contenute in quel famoso trattato di pianificazione territoriale e umana che porta il titolo di “Piano di espulsione degli albanesi”. Quest’opera teorico-pratica venne elaborata dal bosniaco Vaso Cubrilovic, uno dei congiurati dell’assassinio a Sarajevo dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando, e presentata nel 1937. Nel secondo dopoguerra Cubrilovic divenne la ramazza che ripulì dell’etnia italiana, con rigore scientifico e in maniera pressochè radicale, tutto il versante orientale dell’Adriatico.
Il Piano dette talmente fama all’autore da fargli meritare più volte la carica di ministro in diversi governi del maresciallo Tito. Il manuale Cubrilovic, venne tradotto, nel secondo dopoguerra, in azioni devastanti, in atti legislativi nelle terre dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Esso si stampò come stimmate sulla pelle di migliaia di esseri umani, di cultura italiana, che vivevano pacificamente da sempre.
L’esodo istriano, fiumano e dalmata non avvenne insomma solo per la rivalsa dei vincitori sui vinti o per l’urto di due mondi culturalmente diversi: le tecniche di quell’esodo erano state minuziosamente pianificate, sul pregiudizio razziale già nel 1937. E così si capirà anche che a determinare tale drammatico evento e a renderlo aberrante non fu solo una questione di ‘foibe’: voragini carsiche, profonde anche 200 metri, usate per gettare i ‘nemici del popolo’, dopo un processo sommario o addirittura con un processo fittizio fatto in data posteriore all’infoibamento…
Riflessioni da “Il Libro Bianco di Antonietta Marucci Vascon, ex Presidente del Consiglio della Provincia di Trieste.

LA NOTA
La Sinistra e il metodo Tafazzi

​È una sindrome dalla quale la Sinistra non riesce proprio a guarire. Chiamiamola miopia o autolesionismo. Ultima brillante prova: le primarie pd per il sindaco di Milano. Il candidato moderato Giuseppe Sala, forte dell’investitura di Renzi, ha ottenuto ieri il 42% dei consensi e la ‘nomination’, peraltro accompagnata da molte polemiche per il voto sospetto di una folta rappresentanza della comunità cinese, che a qualcuno ha rinnovato la memoria delle famigerate ‘truppe cammellate’.
Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino, i due principali antagonisti, hanno raccolto rispettivamente il 34 e il 23% dei voti. Fra loro sono emersi riferimenti ideali e politici affini, dai quali deriva una visione della città, dei rapporti fra le parti sociali, delle alleanze, delle priorità di intervento certamente alternativi a quelli di Sala. Eppure non hanno trovato – o non hanno cercato – il modo di coalizzarsi. Peccato. Perché insieme avrebbero potenzialmente conseguito un bel 57%, un risultato tale da lasciar presagire il successo, anche al netto di qualche defezione: poiché in politica si sa bene che il malpancismo è diffuso e uno più uno quasi mai fa due.

Balzani e Majorino potevano essere artefici di un progetto condiviso e delineare uno schieramento solido, capace di proporsi autorevolmente a sostegno del potenziale futuro sindaco della città. Potevano. Perché invece, naturalmente, ognuno è andato per conto suo.
Naturalmente, perché questa inclinazione a dividersi in mille rivoli pare ormai una connaturata peculiarità della Sinistra. E’ ormai congenita l’incapacità di stare insieme e unire le forze. E questo in palese e tragicomico contrasto con i rituali proclami di coesione che ogni volta vengono espressi, gli appelli all’unità sempre evocata ma mai seriamente perseguita con la necessaria tenacia. E’ un tratto – più propriamente ‘una deformazione’ – che caratterizza la Sinistra, italiana in particolare. Una mostruosità che partorisce sconfitte in serie.
Ci si divide un po’ su tutto, ma soprattutto si compie un errore strategico mortale: non si attribuisce ai temi il giusto indice di priorità, stabilendo con chiarezza e buon senso le questioni e i principi basilari, come tali intangibili perché connessi all’identità politica, e gli elementi di complemento sui quali si può anche dissentire senza per forza dover ogni volta prendere cappello. Si finisce perciò per accapigliarsi un po’ su tutto. Non è chiaro se ciò avvenga per un eccesso di puntiglio, peraltro ben corroborato dalla completa incapacità di mediare, arte invece necessaria a definire quei nobili compromessi che, non solo la politica ma anche la vita, impongono. Oppure se questa litigiosità sia frutto avvelenato di altre peggiori debolezze e sotto il fuoco covi la brace dell’ambizione, sicché il continuo beccarsi sarebbe conseguenza di impronunciabili smanie di affermazione personale, incontenibili e talvolta malcelate dalle affermazioni di principio. Forse c’entrano entrambe le cose. E, comunque sia, la Sinistra riesce sempre a perdere. E quasi sempre facendosi male da sola.

Milano è solo il più recente esempio, ciò che capita lì vale in tutto il Paese. C’è da temere che il medesimo destino attenda impietoso anche i tentativi attuali di aggregazione che in ordine sparso stanno portando avanti i vari Sergio Cofferati da una parte (con la sua ‘Cosmopolitica’), Pippo Civati da quell’altra (e il suo spagnoleggiante ‘Possibile’), e poi reduci di Sel, di Rifondazione e ancora altri insofferenti del Pd, parte dei quali hanno generato una pomposa ‘Sinistra italiana’ che s’è mezza sfasciata due giorni dopo la genesi. Insomma, il rischio è grande. E a dir di molti il destino è annunciato.
Questa drammatica ‘cupio dissolvi’ si manifesta sistematicamente da ormai trent’anni, rendendo la Sinistra tragicamente simile all’emblema dell’autolesionismo, quel Tafazzi, icona creata da Giacomo Poretti, che si prende irresistibilmente a bottigliate nelle zone sensibili per insopprimibile impulso.
Eppure l’Italia avrebbe davvero bisogno di una seria alternativa al Partito democratico di Renzi, di qualcuno che tenesse salde le bandiere dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Per quest’alternativa c’è lo spazio, proprio perché si è creato un vuoto di rappresentanza, ben testimoniato fra l’altro dal sempre crescente numero di cittadini che disertano le urne.
Ma oggi come oggi bisogna riconoscere che l’unica alternativa non moderata al Pd (sempre più simile al Partito ‘marmellata’ della nazione), pur con tutte le sue contraddizioni è il Movimento cinque stelle. La sua natura è ibrida, i riferimenti ideali talora incerti. Ma esprime quantomeno una evidente volontà di cambiamento della politica e dei suoi rituali. Delinea spesso condivisibili obiettivi di progresso. Compie scelte talora apprezzabili e indica candidati autorevoli per le cariche istituzionali. Recentemente è accaduto per la Rai e altri enti. Ma clamorosa fu la proposta (bocciata paradossalmente proprio dal Pd) di uno stimatissimo costituzionalista come Stefano Rodotà (già presidente del Pds, il papà del Pd) a Capo dello Stato. Ecco, quello fu e resta un passaggio particolarmente significativo ed emblematico.
Così, mentre nelle orecchie del popolo di Sinistra risuona ancora lo sgomento grido di Nanni Moretti (“D’Alema, dì qualcosa di sinistra”) tuttora inascoltato dagli attuali ‘dalemoni’, succede che qualcosa di sinistra ogni tanto lo dicano proprio i Cinquestelle, pure così invisi a un’ampia fetta di simpatizzanti della Sinistra per i quali, appunto per questo, restano – spregiativamente – null’altro che grillini. Il cui frinir però si ode.

PUNTO DI VISTA
Il web e l’epidemia del terrore: risposte a dubbi e bufale sui vaccini

di Federico Messina *

Internet è indubbiamente il fenomeno sociologico del secolo, la più grande bolla speculativa del momento. È responsabile della nascita di passioni, comunità e movimenti politici. Un potente mezzo di comunicazione che in Italia è capace di raggiungere 41 milioni di persone di età compresa tra gli 11 e i 74 anni. Basta interrogare l’oracolo Google per ottenere tutte le risposte sulla nostra salute, ma soprattutto quella dei nostri bambini. La ‘saggezza della massa’ diventa saggezza collettiva e muta in gossip alimentato dalle dietrologie. La mutazione viene perpetuata e amplificata con una buona dose di populismo, così che si trasformi in propaganda.
E quando pensavamo di essere immuni dagli slogan populisti della Lega di Salvini, ecco che scopriamo il potere nelle mani dei Cinquestelle, capaci di manipolare la rete piegandola a strumento di terrorismo e propaganda politica. È così che si è propagata l’epidemia della vaccinofobia.
Il virus del terrorismo sanitario iniettato nella rete non è nato ieri, affonda le sue radici fino al 1998 quando un (ahimè) medico inglese, Andrew Wakefield, pubblicò sul “Lancet” uno studio secondo il quale c’era una correlazione tra vaccino trivalente (Mpr: morbillo, parotite, rosolia) e autismo, giungendo alla conclusione che era raccomandabile eseguire le vaccinazioni separatamente, formulazione non esistente in commercio. Dopo il crollo delle vaccinazioni in Inghilterra ci fu un’epidemia di morbillo che causò due decessi. Solo poco dopo si scoprì che il medico in questione aveva degli interessi economici personali con una casa farmaceutica, che su sua indicazione avrebbe prodotto singolarmente i vaccini. Ne seguì la sua radiazione dell’albo dei medici e il ritiro della sua ricerca, ovviamente infarcita di dati falsi.
Da allora la lotta al potere delle multinazionali farmaceutiche porta ad alimentare dietrologie e sospetti, che ruotano attorno a falsità scientifiche e che partoriscono la trappola dello scetticismo nelle vaccinazioni in cui cadono genitori, ma anche medici di famiglia e pediatri.
Solo il 1 ottobre 2015 l’Italia si rende conto che nel periodo 2007-2014 il limite di guardia in termini di percentuale di vaccinazione della popolazione (95%) è stato rotto.
Alla Who (Organizzazione mondiale della sanità), da sempre impegnata nel controllo delle malattie infettive, scattano gli allarmi e a Bologna una bimba di quaranta giorni – in età ancora non vaccinabile – dopo essersi recata con la sua mamma all’asilo del suo fratellino, muore di pertosse. Si scopre poi che in quell’asilo c’erano bambini i cui genitori avevano scelto di non vaccinare.
L’epidemia di terrore si diffonde nella rete e favolistiche organizzazioni salutiste, politici e professori dell’ultim’ora, si ergono a esperti trasformando la scienza in politica, inneggiando a fantascientifici effetti secondari dei vaccini, composizioni chimiche aliene o cancerogene e cospirazioni orchestrate da aziende farmaceutiche.

Con questo articolo, in qualità di medico vorrei dare una risposta scientifica ad alcune delle bufale iniettate nella rete e lo farò utilizzando il linguaggio della rete: le Faq.

È vero che i vaccini causano autismo?
Allo stato delle conoscenze scientifiche attuali non esistono correlazioni tra la comparsa di autismo e le vaccinazioni.
L’autismo è una condizione diagnosticabile solo al termine della prima infanzia, per assenza di funzioni motorie, cognitive e relazionali presenti nei coetanei. Ciò implica che l’autismo potrebbe già essere presente prima dell’età vaccinale, ma purtroppo non è verificabile.

È vero che i vaccini causano effetti collaterali?
Sì, come tutti i farmaci possono dare effetti collaterali da quelli di lieve entità come rossore o dolore al sito di inoculo, febbre, fino anche a rare reazioni allergiche. Del resto però le reazioni allergiche non possono essere prevedibili, in quanto il bambino nei suoi pochi mesi di vita non è giunto a contatto con tutti gli allergeni dell’ambiente. In ogni caso gli operatori sanitari che somministrano le vaccinazioni offrono ai genitori tutte le informazioni necessarie.

È vero che i vaccini contengono tracce di mercurio o metalli pesanti?
In ogni farmaco esistono minime tracce di derivati di lavorazione, in ogni caso inferiori a quelle respirabili nel centro di Milano all’ora di punta o mangiando un pesce pescato.

Perché esistono vaccinazioni obbligatorie e altre raccomandate?
Purtroppo si tratta di un retaggio del passato in cui le vaccinazioni anti pertosse, morbillo, parotite, rosolia ed haemofilus influenzae b, non erano offerte gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) in alcune regioni. Tuttavia a seguito dell’arrivo in Italia di numerosi cittadini extra-europei, nei cui paesi d’origine la politica vaccinale non è così ferrea, è aumentata l’incidenza di malattie infettive che credevamo debellate, ma che i medici sanno bene essere state solo sopite.

I vaccini sono sicuri e proteggono davvero il mio bambino?
Sì. Prima di essere messi in commercio i vaccini superano centinaia di test di sicurezza. Sono fondamentali per proteggere i nostri figli, ma anche altre persone più fragili, compresi bambini troppo piccoli o affetti da gravi malattie come la leucemia, per i quali non è possibile essere vaccinati.

È vero che i vaccini vengono consigliati per fare l’interesse delle aziende farmaceutiche?
Le aziende farmaceutiche sono imprese private interessate a lavorare per ottenere un profitto che però deve essere commisurato ai benefici prodotti, senza trasformarsi in speculazione sul bisogno di salute.
Produrre un vaccino, tuttavia, implica un importante investimento in termini economici, di impiego di tecnologie e di risorse umane, tanto che il numero delle aziende produttrici di vaccini si sta progressivamente riducendo poiché in realtà tale attività non è poi così redditizia.
I soldi spesi dal Ssn per i vaccini, sono soldi spesi bene a fronte dell’indubbio vantaggio apportato in termini di prevenzione e riduzione delle spese di ospedalizzazione che altrimenti si avrebbero.
Anche se molto in ritardo l’Istituto Superiore di Sanità si è finalmente reso conto della latitanza comunicativa che si è creata, così oggi esiste un numero verde chiamando il quale specialisti in malattie infettive, possono dare risposte alle curiosità dei genitori… e se siete fortunati potreste avere l’onore di colloquiare col Presidente dell’Issn in persona.

 

* specialista in Chirurgia generale, Chirurgia colorettale e del pavimento pelvico

 

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LA LETTURA
Ballata per un fuggiasco

E’ un pensiero laterale sui migranti quello che ci regala Gian Pietro Testa, giornalista, scrittore, pittore e molto altro…

 

Ho fuggito la terra bruciata
Dove le sabbie coprono il fuoco
Di un inferno che emerge di giorno
Dal ventre sconvolto del mondo.

 

Ho fuggito l’orrida fine
Dei miei fratelli morti di fame
Ho fuggito il pianto silente
Della donna dall’arido grembo.

 

Mia madre, gli occhi suoi neri
Asciutti di pianto
Vai mi disse vai
Cammina la sabbia infuocata.

 

Vai, mi disse, cammina
Corre verso il sole che cala
Vai, mi disse, cammina
Il nostro è soltanto un addio.

 

E camminai le cento e più leghe
Del mio amaro destino
Camminai il rosso deserto
Il mondo alla fine del sole.

 

E le notti, quelle notti
Il buio rotto dai fallo
A bere un tè bollente
Spiato da mille occhi curiosi.

 

Occhi lucenti senza speranza
Piccoli fari accesi nel buio
Il buio deserto di luce
Vivo se il giorno è già morto.

 

E sopra gli occhi curiosi
Cadevano lacrime di stelle
A cui le volpi chiedevano consiglio
Per sfuggire al nero serpente.

 

Mi avvolgeva una fredda coperta
Ti silenzio pauroso
Brutto da improvvisi lamenti
E si sentiva da fughe lontane.

 

Chi è? Domandavo tremando
Attorno a me danzavano
Ignudi i neri fantasmi del mio
Terrore sei nostro dicevano in coro.

 

Come sarà – chiedevo – il mondo
Alla fine del mondo?
E i fantasmi dicevano
Siamo già alla fine del mondo.

 

Via, gridavo allora non andate lontano
Orribili sagome nere fuggite
Della mia fantasia
E dei miei occhi smarriti.

 

Ho ripreso il lungo cammino
Della speranza e piangevo
La infondo dov’era finito il
Sole c’era infine la vita.

 

Tenevo stretto nel pugno
Una piccola croce di legno
Tieni mi disse mia madre
Stringi la mano ti guiderà lontano.

 

Io aggiunsi ti seguirò col cuore.
Col cuore duro di madre ferita
con tenero cuore di madre lontana
Col cuore, figlio mio, ti seguirò.

 

Ho camminato le cento e più leghe
Del mio cupo destino
Fino alla distesa azzurra
Di un mare omicida.

 

La barca affollata di grida
Piombava nel vortice nero
Di una tempesta a me sconosciuta
E poi salivo in alto verso le stelle.

 

Gridavano gli uomini folli
Gridavano le madri con loro fagotto
Il duro fagotto di tenera carne
L’urlo del mare l’urlo del cielo.

 

Infine approdammo un mattino di sole
Su una spiaggia dorata
Ci misero addosso coperti di carta
Ci dettero il pane duro degli altri.

 

Ma eravamo salvi nel mondo
Al di qua del sole
Poi ci chiusero in un campo spinato
Dove la vita non era più mia.

 

Alzai la mano oltre le sbarre
A chiedere un piccolo soldo
Mille leghe per essere ancora
Soltanto un povero Cristo.

vescovo Negri

IL CASO
Il vescovo Negri verso l’addio a giugno. Ecco dieci domande a cui non vuole rispondere

Monsignor Luigi Negri con ogni probabilità lascerà la carica di vescovo di Ferrara a giugno, in anticipo di qualche mese rispetto alla data di naturale pensionamento, previsto per il prossimo 26 novembre al compimento del settantacinquesimo anno. Questo è quanto trapela da indiscrezioni che circolano in accreditati ambienti vicini alla Curia estense.
Non ci resta molto tempo dunque per rivolgergli le domande che già da un anno e mezzo tentiamo vanamente di sottoporgli. La richiesta di intervista presentata da Ferraraitalia nella tarda primavera 2014 giace ormai sotto molta polvere. Il vescovo è stato più volte cortesemente interpellato. A fare da filtro dapprima è stato don Massimo Manservigi. Per mesi ci è stata confermata la disponibilità, però senza che mai venisse fissata una data “per i troppi pressanti impegni in agenda”. Eppure il monsignore è ciarliero con la stampa. Evidentemente non era gradito l’intervistatore. Poteva essere detto, ma si è preferita la strada dell’ipocrisia, adottando la tattica dello sfinimento. Così si è continuato a posticipare a oltranza, sempre accampando la scusa di temporanee indisponibilità, “non certo di assenza di volontà”…

Nel maggio scorso ci fu una vivace telefonata ultimativa, nella quale dichiaravamo di prendere atto dell’indisponibilità “di fatto” del presule. Ma don Massimo, affranto, ci ricontattò dopo qualche minuto scusandosi per i toni, dovuti allo stress, spiegando che aveva parlato e ottenuto da monsignor Negri la disponibilità certa, ed entro la fine del mese “sicuramente” si sarebbe fatta l’intervista. E infatti siamo arrivati a Natale senza alcuna comunicazione! In quei giorni abbiamo casualmente incontrato il vescovo e, a nostra richiesta, monsignor Negri ha personalmente espresso la propria disponibilità (con un’espressione che in realtà diceva altro), incaricando il segretario don Enrico D’Urso di fissare la data dopo l’Epifania. E’ superfluo specificare come poi siano andate le cose.

E’ un peccato constatare tanta prevenzione e la mancanza di disponibilità al confronto, peraltro proprio da parte di chi dovrebbe fare del dialogo un emblema. Noi dissentiamo spesso dalle affermazioni del vescovo, ma ciò non implica un rifiuto: è attraverso il confronto che individui e comunità crescono e maturano.

Ora, preso definitivamente atto che questo assunto evidentemente non è condiviso, ecco le 10 domande che avremmo voluto rivolgere a monsignor Luigi Negri.
Se deciderà di rispondere (nella vita non si sa mai) noi siamo qui ad accogliere le sue considerazioni.

1. Una delle sue prime esternazioni pubbliche ferraresi ha riguardato la vicenda di Erik Zattoni, il ragazzo che denunciò lo stupro subito dalla madre da parte di un sacerdote. Se la cavò dichiarando che la Curia non si occupava dei rimborsi per casi del genere. Non ha considerato che al di là dell’aspetto monetario quel ragazzo attendesse una parola di comprensione da parte della Chiesa che lei rappresenta? E non ha sentito il bisogno di esprimerla, di porsi – per dirlo secondo un’espressione ecclesiastica – in maniera caritatevole nei suoi confronti?

2. Non le è parso inopportuno (tantopiù dopo avere bollato come “postribolo” il ritrovo dei ragazzi dinanzi al duomo di Ferrara) recarsi a Milano alla presentazione di un libro – del quale peraltro ha scritto la prefazione – di cui autore è l’ex premier Silvio Berlsuconi, pregiudicato e parallelamente implicato in un processo che lo ha visto accusato di induzione e sfruttamento della prostituzione minorile?

3. Parlando di gay e coppie omosessuali ha dichiarato: “Un tempo questi individui erano considerati ‘anomalie’. Se ne ricordino”. Non pare un’espressione benevola. Cosa intendeva dire?

4. A conclusione del sinodo voluto da papa Francesco si è affrettato ad affermare che a Ferrara non cambiava nulla. Temeva che qualcuno fra i suoi sacerdoti potesse prendere sul serio l’esortazione del papa e considerare con misericordia le richieste spirituali di separati e divorziati?

5. In una recente intervista ha affermato che dello Ior non le importa “un accidenti”. Non ritiene, come invece pensa il papa, che i tanti scandali che hanno lambito la banca vaticana, al centro dei peggiori intrighi finanziaria degli ultimi decenni, siano ragione di grande imbarazzo e impongano una radicale e urgente riforma che riporti l’istituto allo svolgimento del proprio compito nel rispetto di regole virtuose?

6. Non le pare anacronistico e provocatorio (oltre che storicamente infondato) additare i crociati come benemeriti difensori della fede cattolica?

7. Ha definito l’Islam “una religione che tematizza la violenza come direttiva teorica e pratica”. I musulmani sono due miliardi nel mondo e la stragrande maggioranza di loro vive in pace a dispetto di un manipolo di fondamentalisti esaltati e criminali. Questo giudizio tranchant non le sembra un’istigazione all’odio razziale?

8. In un’intervista a Panorama ha dichiarato che il politico che più stima è Putin “perché ha le palle”. Non crede che un sacerdote dovrebbe valutare altri attributi?

9. Che giudizio dà di papa Francesco e del suo magistero? Se il pontefice dice “Chi sono io per giudicare”, non fischiano le orecchie a lei che è sempre così sentenzioso e saldo nella difesa delle sue verità?

10. Quando il papa ha invitato sacerdoti e comunità ecclesiastiche a offrire ospitalità ai migranti lei non ha perso tempo per far sapere che in curia non c’era posto per nessuno. Qual è il suo concetto di accoglienza?

PUNTO DI VISTA
Il diritto di avere un figlio

Attorno al disegno di legge sulle coppie di fatto stanno nascendo (o meglio continuando) una serie di discussioni che riguardano alcune tematiche collaterali, spesso importantissime. Peccato che il clima di forte contrapposizione di questi giorni faccia sì che il confronto sia tutt’altro che ricco e fruttuoso.
Fra queste discussioni c’è quella riferita alla questione della stepchild adoption, che però assume una valenza più generale: se avere un figlio sia o meno un diritto ascrivibile a ogni individuo. Lascio una trattazione completa della questione ai professionisti della materia; osservo tuttavia che, se avere figli non fosse un diritto, sarebbe eticamente lecito ogni intervento cogente messo in atto, per esempio da parte di uno Stato, per limitare le nascite. Compresi quelli più drastici quali le sterilizzazioni forzose. Allo stesso modo non ci dovrebbe essere nulla da ridire se si decidesse che i bambini dopo la nascita venissero affidati non già ai genitori naturali, ma a coppie selezionate sulla base di un qualche criterio.
Naturalmente non si tratta di un diritto assoluto, come del resto non lo sono tutti quelli che una società democratica riconosce agli individui che ne fanno parte. Se qualcuno non fosse convinto di questa affermazione, pensi per esempio al diritto alla vita di cui ognuno di noi è portatore, tuttavia nessuno ha nulla da ridire se, in caso di aggressione armata da parte di qualche potenza ostile, alle persone viene tassativamente richiesto eventualmente di rinunciarvi per difendere la collettività. Discorso analogo vale il diritto di proprietà, ecc.
Quali sono quindi i limiti a cui il diritto di avere un figlio dovrebbe soggiacere? Per dirla in breve, tutti quelli che si manifestano quando questo diritto confligge con altri più rilevanti o lede quello di altre persone. Dove la misura della rilevanza è affidata alla legislazione e, caso per caso, al magistrato. Naturalmente non mi sfugge che in questo caso i diritti confliggenti potrebbero essere quelli del figlio, già nato o solo pensato. Si tratta peraltro di questioni che il diritto contempla da tempo e che consentono, per esempio, a un giudice di togliere ai genitori naturali o adottivi la potestà su un figlio minore se dovesse ritenere compromessi i suoi diritti fondamentali. Chiunque volesse impedire che una coppia omosessuale, in quanto tale, abbia o adotti dei figli dovrebbe dimostrare che questa situazione sarebbe sempre e comunque a detrimento dei diritti dei minori coinvolti. Pare però che tale evidenza, nonostante in molti paesi del mondo questa possibilità sia riconosciuta ormai da anni, non sia emersa. Anzi la stragrande maggioranza degli studi effettuati sembra dimostrare esattamente il contrario, al punto che tutti gli ‘esperti’ che si sono pronunciati contro hanno usato formule ampiamente dubitative al riguardo.
Quanto alla questione del cosiddetto ‘utero in affitto’ che viene agitata propagandisticamente come motivo sufficiente per impedire la stepchild adoption occorre rilevare che:
1. La questione eventualmente riguarderebbe, per motivi che dovrebbero essere ovvi a chiunque, esclusivamente le coppie omosessuali composta da due uomini;
2. I dati disponibili a livello mondiale relative ai paesi in cui la pratica è lecita (non l’Italia) indicano che, in un contesto in cui l’adozione per gli omosessuali è ampiamente diffusa, la stragrande maggioranza delle coppie che se ne avvale è eterosessuale;
3. Infine, anche se la questione non è all’ordine del giorno e non riguarda il disegno di legge sulle unioni di fatto, siamo così sicuri che si tratti di qualcosa che debba essere vietato in tutti i casi e non, come ad esempio si è deciso per le donazioni di organi, solo quando avviene in cambio di denaro?