Eppure solo qualche centinaio di chilometri separa l’Alto Adige da Roma capitale (della sporcizia). Non pretendo che, come a Vipiteno, lungo la passeggiata che porta al centro città ci siano i distributori gratuiti dei sacchetti per le deiezioni (vulgo cacca) degli amici pelosi, né che dentro ai vicoletti la pulizia sia tanto accurata che nemmeno una traccia di minzioni (vulgo pipì) post bevute di birra ci riveli la presenza dei giovani gaudenti. E naturalmente lo sconcerto riguarda non solo Ferrara ormai celebre per i vicoli maleodoranti e vomitosi e ora per l’oscena defecazione umana dentro la Cattedrale, né Firenze sporca per le ‘delizie’ culinarie consumate sui gradini delle chiese e dei monumenti che l’hanno (l’avevano) resa capitale del Rinascimento.
Mi dicono amici cari che abitano a Roma in luoghi storici, dove un tempo abitò il più grande scrittore ferrarese del Novecento, che ormai è quasi impossibile camminare per le strade invase dalla sporcizia e dal degrado. Con centri di raccolta dei rifiuti lontanissimi dal luogo in cui si abita e che a forza occorre raggiungere se non si vuole essere sommersi dalla sporcizia, ormi divenuta simbolo della città. Così Pompei chiude, Galleria Borghese è visitabile solo su prenotazione per alcune ore al giorno e, a poco a poco, il mito di Roma inventato nell’Ottocento, la patria comune da cui tutti discendiamo, compresa la Merkel, si frantuma nella stanca parlata romanesca di un popolo ormai indifferente a tutto e a tutti.
Dalle tavole dell’hotel dell’Angelo s’alza un vocio romanesco. Si elogia il cibo, la vista e la frescura e s’inneggia al ponentino che non c’è più e si riapre l’eterno elogio del tempo passato. Ma è tutta colpa della politica o della scelta di una città, dei suoi abitanti e del suo territorio? Come per quel che succede nella mia città a proposito della banca di riferimento. E’ questione di chi l’ha gestita o della connivenza di tutti noi che appena siamo sicuri d’aver raggiunto un traguardo lo dimentichiamo in nome di un prestigio che forse non abbiamo mai posseduto? Tanto è vero che celebriamo non tanto la vera grandezza della nostra storia, vale a dire il cosiddetto Medioevo, quanto in modo quasi ossessivo un Rinascimento complessivamente mediocre, se non ci fossero stati i due più grandi poeti della modernità a celebrare una dinastia complessivamente rozza e inaffidabile.
Queste note, ovviamente amplificate da una specie di ferita mai chiusa sulle magnifiche sorti e progressive che dovrebbero essere all’attenzione e al centro dell’idea di identità che sembra invece sfaldarsi in un degrado e non avere mai fine, trovano un conferma nel prezioso lavoro (che di fatto è una tra le più grandi scoperte di questo secolo) di un antichista inglese celeberrimo, appena scomparso, Martin West, che ha fatto conoscere al mondo alcuni versi tra i pochi sopravvissuti di Saffo: “il mio cuore è cresciuto pesante, le mie ginocchia non mi sostengono/ loro che una volta erano agili per la danza come quelle dei cerbiatti”. Questa potrebbe essere la metafora più evidente del declino di Roma, della sua eredità e anche della condizione umana e intellettuale di chi scrive queste note. C’è una specie di stanchezza, etica prima di ogni altra ragione, che pervade chi per una specie di dovere-diritto ha scelto di lavorare nella storia e per la storia. E ora s’accorge che il disprezzo e l’irrisione è ciò che resta di questa missione così amata e così, ora, disprezzata.
Rendere Roma, Firenze, Ferrara luoghi adatti alla spazzatura reale e metaforica non è solo colpa di chi ci governa e di ogni tipo di mafia, ma è colpa grave e ineliminabile ascrivibile al carattere degli italiani. E certo non basta che Alessandro Gassman proponga una specie di ‘fai da te’ per ripulire Roma. Se non c’è la volontà innata di salvare la bellezza che è la forma più alta di realtà. Perciò italiani, smettetela di fare gli ‘itagliani’!
In un contesto sociale sempre più urbanizzato e sempre più mobile sembra essersi modificato radicalmente il legame delle persone con i luoghi e delle comunità con i territori che abitano; da un lato come ha notato Marshall McLuhan più aumenta la mobilità e in particolare la velocità della mobilità più viene distrutta la possibilità della comunità”; dall’altro gli spazi sono sempre più privatizzati e ridotti a merce, trasformati in mero panorama in alcuni casi, spesso de-classificati a contenitori di beni e di oggetti, ridotti a supporti per il traffico di merci ed informazioni o, peggio ancora, deprezzati e ridotti a discariche delle esternalità della produzione e del consumo. Si dimentica insomma che non possiamo che vivere in un ambiente e che la qualità della nostra vita dipende ampiamente dalla qualità dell’ecosistema in cui viviamo.
L’uomo del futuro che abbiamo imparato a conoscere attraverso l’immaginario cinematografico scaturito dagli incubi visionari di Philip K.Dick rimane un monito e allo stesso tempo una sinistra possibilità. Oggi comunque nessuno può vivere nei circuiti digitali dove viaggia il capitale globale e dove scorrono le informazioni; nessuno può ancora vivere bene nei circuiti della logistica planetaria dove circolano le merci stipate nei container non meno delle persone inscatolate nei charter; non possiamo vivere a lungo e in salute in non luoghi e negli ambienti degradati; per fortuna gran parte di noi vive ancora in uno spazio fisico, in un territorio, in un posto che si può riconoscere come “casa”.
Malgrado si viva sommersi da prodotti materiali e servizi c’è ancora chi resta convinto che la qualità della vita e la salute dipendano anche dalla possibilità di respirare aria pulita, bere acqua pura, godere di buoni paesaggi, mangiare cibi naturali e salubri, coltivare buone relazioni personali, vivere in spazi a misura d’uomo, disporre di tempo libero, conoscere gli altri e conoscere se stessi. Il sistema socio-economico in cui viviamo non nega affatto queste possibilità: lo fa però attraverso la trasformazione dei bisogni in merci e servizi, attraverso il mercato, la privatizzazione e, in ultima istanza (e purtroppo) attraverso la distruzione dell’ambiente, delle culture, dei beni comuni e collettivi.
Emerge con tutta evidenza la miopia di un discorso collettivo tutto centrato sul PIL, sulla crescita, sul teatrino della politica totalmente succube dei poteri forti della finanza, dove la democrazia diventa una rappresentazione rituale e stereotipata, dove la sostenibilità viene ridotta a semplice argomentazione, quasi sempre priva di applicazioni concrete. A fronte di questo c’è l’opportunità per ogni cittadino di cambiare rotta, di uscire dalle conversazioni politicamente corrette, di guardarsi attorno, di pensare e di proporre qualcosa lavorando su ciò che è vicino e di cui ci si può prendere cura direttamente.
Cosa chiedere dunque, cosa suggerire? Cosa serve per costruire qualcosa di meglio a partire dal basso, dal territorio e dalle comunità? In che modo dare senso e contenuto alla massima “pensare globalmente agire localmente”?
Servono spazi ben organizzati dal punto di vista urbanistico, nei quali poter vivere a misura delle fragilità umane partendo dal presupposto che i bisogni essenziali delle persone vengono prima di quelli riconducibili alle merci; un territorio organizzato in modo tale che le fasce più deboli della popolazione, anziani, bambini, diversamente abili e ammalati, possano esercitare l’elementare diritto alla cittadinanza, alla mobilità pedonale, al gioco e alla sicurezza e, in tal modo, possano vivere la propria naturale socialità indipendentemente dall’esistenza di prodotti e servizi a pagamento. Il territorio non può essere regolato dalla logica della speculazione e della corruzione che rappresenta fin troppo spesso il volto visibile del mercato.
Servono luoghi di vita nei quali poter praticare e sviluppare la nostra capacità di contemplazione estetica. Luoghi che valorizzino il patrimonioambientale e culturale, dove si presti grande cura alla qualità urbanistica ed architettonica, alla qualità dell’aria che si respira e dell’acqua che si beve. Non è più sostenibile la vita in territori abbruttiti dai quali si evade di tanto in tanto per godere a pagamento di spazi dedicati ad un benessere momentaneo.
Servono infrastrutture tecnologiche intelligenti, piattaforme diffuse che favoriscano l’apprendimento, che generino capacità, che diminuiscano gli sprechi e che non esproprino le persone dei loro talenti per sostituirli sempre con merci e servizi a pagamento. Le tecnologie abilitanti che si presentano in forma di reti ed autostrade digitali, sistemi di controllo intelligenti, sistemi di coproduzione energetica e quant’altro, rappresentano un modo per attivare il protagonismo e la responsabilità delle persone e un mezzo per rendere le comunità maggiormente protagoniste del proprio destino.
Serve un modo nuovo di guardare ai bisogni delle persone, capace di separare ciò che è essenziale in termini di promozione della libertà e delle capacità personali e dei gruppi da ciò che è indotto dalla coazione al consumo. Il bisogno è sia una carenza che una motivazione, una spinta all’azione: non è più sostenibile che il bisogno venga esclusivamente ridotto ad una funzione della produzione mentre questa dipende dai giochi di una finanza completamente sganciata dalla realtà della vita delle persone. Non è bene che i bisogni vengano definiti in via esclusiva da una casta di professionisti il cui unico scopo è salvaguardare ed ampliare la propria sfera di influenza con i relativi benefici economici.
Serve una conoscenza reale e diffusa del territorio, della cultura e dell’ambiente in cui si vive; spesso è qui infatti che sono presenti straordinari saperi, conoscenze e competenze che non possono essere ridotte al mero folklore o relegate al campo dell’obsoleto; esse costituiscono di per sé potenziali micro agenzie formative non formali che si collocano al di fuori dei circuiti (scolastici) ufficiali. In Italia la ricchezza di questo patrimonio è straordinaria: si tratta di importanti dimensioni di senso che possono acquisire una rilevante dimensione anche economica se si esce dagli stereotipi dei mercati di massa e si osservano con cura le opportunità dei mercati di nicchia. Queste agenzie non formali di apprendimento vanno riscoperte a valorizzate in modi innovativi che vadano oltre la logica del nobile e antico imparare a bottega.
Bisogna riconoscere e valorizzare, accanto all’economia formale, l‘economia informale, conviviale e familiare, che comunica e produce senso attraverso lo scambio di beni e servizi non contabilizzati. È il recupero dell’economia del dono, dell’informalità, della socievolezza che può dare più valore alla vita sociale senza nulla togliere all’importanza dell’economia ufficiale.
Serve una consapevolezza diffusa circa i danni alla salute che sono causati da uno stile di vita dissipativo, dall’alimentazione insalubre spinta dalla corsa al profitto, dal vivere in ambienti inquinati, pensati per le merci e non per gli uomini che, ridotti a consumatori, quelle dovrebbero semplicemente produrre e consumare. Le evidenze sono chiarissime pubblicamente dichiarate dalle agenzie sanitarie ma sempre disattese alla prova dei fatti.
Servono nuove storie, nuove narrazioni e nuovi miti capaci di sostenere un cambiamento di enorme portata che ci investe nel profondo. Bisogna infatti riconoscere che sono le strutture narrative ben più dei numeri e delle statistiche che ci consentono di comprendere il mondo come ben sanno tutti i manipolatori della pubblica opinione, i professionisti dei media e i pubblicitari.
Soprattutto servono persone capaci di motivare ed entusiasmare, di portare modi alternativi di vedere le cose dentro processi decisionali che sono attualmente abbandonati agli interessi della speculazione ed ai meccanismi apparentemente impersonali della burocrazia e della finanza.
Su tutte queste tematiche esiste un ampio dibattito che fatica però a tradursi in pratica; da un lato la comunicazione è soffocata e traviata dalla retorica mainstream; dall’altro troppi attori interessati si sono impadroniti della forma ma non della sostanza di queste argomentazioni: capitale sociale, resilienza, crescita sostenibile, sviluppo di comunità, innovazione sociale, programmazione partecipata, integrazione di politiche locali, governance locale sono le etichetteche ad ondate successive si abbattono sui territori, solitamente senza alcuna consapevolezza dei fini e dei valori che veicolano e dei vincoli che pongono se correttamente applicate; purtroppo basta girare ed osservare lo scempio degli ultimi 20 anni per capire come all’aumentare della retorica della sostenibilità sia aumentato anche e in misura decisamente maggiore il danno prodotto.
Impossibile uscirne? NO, se si riconosce l’impotenza di un pensiero basato sull’unico feticcio della crescita ad ogni costo e sull’idolatria del mercato e del profitto per il profitto;
NO, se si sanno cogliere e valorizzare i semi di cambiamento che già esistono, assumendo consapevolmente un ruolo di cittadini più attivi attenti a quello che abbiamo intorno e vicino.
Intanto, facciamo un sforzo per uscire dai miti dissipativi ed iniziamo ad inventare, costruire e raccontare storie buone e diverse.
Chiediamoci: perché, nella quotidianità, è così difficile dialogare? Perché è complicato capirsi e trasformarsi a vicenda, in particolare tra persone che la pensano diversamente, ossia esprimono posizioni precostituite o ben strutturate? Perché riusciamo in genere a scambiarci solo gli spiccioli delle nostre idee e convinzioni? Una conferma di questa situazione si ricava dai dibattiti televisivi di ogni tipo che, in genere, non sembrano modificare i protagonisti o chi ascolta. Talvolta, anzi, oltre a confermare le reciproche tifoserie, producono un senso di fastidio e di sazietà che vanno a fecondare le radici del qualunquismo. Tema altamente complesso perché implica un intricato numero di fattori: storia, cultura, famiglia, ambiente, particolarità dei soggetti. Proviamo, in estrema sintesi, a proporre solo una scaletta di questioni terminologiche e di merito.
Innanzitutto, dialogo non è la chiacchiera, o la conversazione salottiera, ma neppure una civile pratica del discutere per trovare un accordo. Il dialogo, nel senso antico della nostra cultura europea, è il dialogo filosofico inventato da Platone, la cui opera è tutta dialogica. Nel suo significato originario, il dialogo è un continuo e mai finito movimento del confronto fra pensieri verso una meta di verità che sempre si sposta, si allontana e si complica. E’ naturale la disposizione del soggetto verso questa ricerca? Assolutamente no. Fondamentale è il ruolo che giocano due istituzioni che il cucciolo umano incontra da subito nella difficile costruzione della propria autonomia: la famiglia e la scuola. Queste istituzioni sono sempre immerse nel proprio tempo, da cui ricavano condizionamenti, sfide, rischi e possibilità. Il nostro è il tempo della rete e della globalizzazione. Teniamo, quindi, ferme sullo sfondo queste due cornici importanti che qui ci limitiamo solo a richiamare.
Soffermiamoci, invece, sulla funzione formativa che dovrebbe svolgere la scuola. L’educazione necessaria per imparare a dialogare non ha niente a che vedere con la comunicazione di contenuti o lo svolgimento pedante del programma delle singole materie. Essa va concepita come la convivenza attiva che ritroviamo nei dialoghi di Platone. Riporto una sintetica definizione di questo modo di dialogare proposta da uno studioso del grande filosofo greco: “L’educazione al dialogo in Platone è, innanzitutto, una convivenza: cioè non, alla lettera, un immobile condizione di vite abbinate, come istituzionalmente di un insegnante e di uno scolaro, ma è l’atto ogni volta nascente dell’incontro, del breve o lungo dialogo, nel cui fervore il maestro sfida l’allievo a pensare il suo apparirsi e a dirlo, e al tempo stesso è dall’allievo sollecitato ad approfondire il proprio pensiero. In questo atto, che Platone chiama Eros, Amore, i due viventi si fanno l’un l’altro intimi e accoglienti.” Infatti, non a caso nel “Simposio” vi è una delle definizioni più profonde della parola amore: “L’Amore ci svuota di estraneità e ci riempie d’intimità”. Questo pensiero vivente, esige una scuola viva che solleciti curiosità e passione; e miri a formare individui persuasi e non indottrinati.
Per concludere, un riferimento a due grandi filosofi del novecento che hanno ragionato sul significato non banale del dialogo: Karl Jaspers e Guido Calogero. Quest’ultimo è l’autore di un’opera classica sul tema: “Filosofia del dialogo” (Edizioni Comunità). Evidenzio un passaggio cruciale del suo discorso, là dove dice che la filosofia del dialogo richiede il rispetto di una premessa pregiudiziale: la decisione del soggetto di voler intendere l’altro. Questa premessa è squisitamente etica e si impara solo praticando il dialogo. E qui interviene Karl Jaspers quando ricorda che il dialogo è un atto di vita, una scommessa e una sfida in cui sono in gioco persone concrete e sempre diverse l’una dall’altra. E’ per questo che non è possibile semplicemente insegnare o imitare il dialogo, perché esso consiste nella sua unicità di volta in volta irripetibile. Esiste tra due se-stessi che sono solo questi e non rappresentanti di due generici, e perciò sostituibili, se-stessi. Entrambi i filosofi concordano su due punti. Il dialogo implica la reciproca disponibilità all’incontro, il reciproco riconoscimento. Però, questa dimensione di reciprocità non deve condurre all’annientamento dell’essere-io dell’uno in quello dell’altro. Al contrario, il dialogo si realizza di volta in volta tra due che, pur vincolandosi tra loro, devono continuare a restar due. Infine, la comunicazione esistenziale può accadere e dare buoni frutti solo se si è in grado di mantenersi in una condizione di dolorosa sopportazione della solitudine; cioè in uno stato di attesa, di speranza, perché essa non è sempre disponibile a comando, per cui quando si presenta va colta come occasione e vissuta come dono.
Al termine di questo rapido excursus, spero di aver chiarito che il dialogo è la conquista lenta lungo un processo che non a caso, Jaspers definisce con la bella metafora della lotta amorosa. “Il processo dell’esperienza del vero dialogo è una lotta unica nel suo genere, una lotta che è, ad un tempo, amore. E come amore, questo dialogo, non è l’atteggiamento cieco e indifferente nei riguardi dell’oggetto a cui si volge, ma è l’amore che lotta e che vede con chiarezza. E’ un amore che mette in questione, che crea difficoltà; è un amore esigente, che muovendo da un’esistenza possibile, afferra l’altra esistenza possibile.” Riflessioni utili nel nostro tempo babelico, spesso diviso tra chiacchiere inconcludenti e/o risse distruttive.
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
2/CONTINUA – Torniamo più propriamente ai temi del lavoro dal quale la nostra chiacchierata con Luigi Cattani era partita. Lei sostiene che l’avere introdotto maggiore flessibilità contrattuale non ha giovato all’occupazione e non ha arginato la crisi produttiva.
“Sono i fatti a dimostrarlo. La stagione della flessibilità è stata inaugurata nel ’97 dal governo Prodi con il famoso pacchetto Treu. E la crisi strutturale, guarda caso, coincide proprio con quella fase e dura ormai da 15 anni. Senza volere forzare l’analisi si può tranquillamente dire che quei provvedimenti e quelli di segno analogo che sono seguiti non hanno avuto la capacità di contenere gli effetti devastanti della stagnazione prima e della recessione poi”. Fra i provvedimenti successivi c’è stata la controversa modifica all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, introdotta dal governo Monti sotto la spinta del ministro Fornero. Quali le conseguenze?
“Il provvedimento è stato accompagnato dalla fortissima pressione di Confindustria. L’articolo 18 codifica il principio che il lavoratore non può essere licenziato indiscriminatamente, senza un confronto fra le parti. La modifica ha portato a un imbarbarimento nelle relazioni e nei rapporti di lavoro, inclusi quelli nel comparto pubblico. Ciò è stato possibile all’interno di un quadro generale di destrutturazione dei rapporti sociali di questo Paese”. E l’effetto più immediato?
“Il fatto che il lavoratore ha perso di importanza e non è più percepito come fulcro del processo produttivo”. Ciò cosa comporta?
“Faccio un esempio clamoroso. Il made in Italy è una bella etichetta, ma l’apparenza non basta. Coerentemente con la logica della marginalità del lavoratore molti imprenditori del comparto hanno delocalizzato o terziarizzato la produzione affidandola a manodopera non all’altezza. L’esito è stato drammatico e ha compromesso la competitività e il posizionamento di un settore che rappresentava un nostro indiscusso fiore all’occhiello”. E quindi come si esce dalla crisi?
“Risposta molto impegnativa. Diciamo che ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere. Confindustria andando oltre il mantra della flessibilità e recuperando il proprio ruolo di guida e di stimolo alle imprese, chiamate a investire e innovare. Il sindacato facendo il sindacato, affrancandosi dal ruolo subalterno cui la mancanza di una strategia generale sul mondo del lavoro lo ha relegato in questi anni e garantendo la tutela dei lavoratori in un’ottica di espansione dei diritti individuali e collettivi. Gli enti locali ridando impulso alla spesa pubblica attraverso interventi di riqualificazione della città che mirino alla soddisfazione dei bisogni dei cittadini e che sono possibili anche in questa drammatica congiuntura, che condiziona pesantemente le scelte ma che talvolta diventa anche alibi per l’inerzia. E infine il governo, impegnandosi a recuperare risorse, quelle che oggi per esempio mancano persino per assicurare la cassa integrazione in deroga…” Questi sono gli ingredienti. E la ricetta?
“Deve essere chiaro a tutti che il rinnovamento delle imprese, condizione imprescindibile per recuperare competitività a livello internazionale, richiede investimenti sul processo e sul prodotto. L’olio di gomito dei lavoratori non basta”.
S’intitola “Site specific” il catalogo delle opere di Dani Karavan che il presidente di Italia Nostra di Ferrara Andrea Malacarne ha mostrato questa mattina in conferenza stampa ai giornalisti, per introdurre la proposta di cui si stanno facendo promotori. Realizzare opere in “luoghi specifici”, come fa sempre Karavan, infatti, spiega bene il senso del progetto che Paolo Ravenna e l’artista israeliano avevano immaginato insieme per anni, e che ora può diventare realtà. La loro idea era realizzare un’opera contemporanea specificamente ideata per Ferrara; un’installazione in memoria di Bassani, a ricordo in particolare del “Giardino dei Finzi Contini” e del luogo bassaniano per eccellenza che è via Ercole d’Este. In una parola, creare a Ferrara “il giardino che non c’è”.
Da destra Daniele Ravenna, Andrea Malacarne, Anna Quarzi
“Dopo la morte di Paolo Ravenna” spiega Malacarne “abbiamo pensato che uno dei modi migliori per onorarlo, fosse proprio quello di cercare di portare a compimento questo suo desiderio”. Tra il 2013 e il 2014, Italia Nostra ha invitato Karavan a Ferrara un paio di volte per identificare il luogo ideale in cui porre questa installazione permanente. La scelta è caduta infine sul giardino di Palazzo Prosperi Sacrati, in quanto ha il pregio di essere in una posizione protetta ma visibile da Corso Ercole I d’Este e in stretto contatto con il Liceo classico Ariosto, luogo che con Bassani ha legami storici e ideali strettissimi.
Identificato il luogo, Karavan ha elaborato una prima idea che Italia Nostra ha mostrato in anteprima ai giornalisti, chiedendo gentilmente di non riprodurre le immagini perché il progetto è ancora ad uno stato embrionale e sarà presentato ufficialmente se, e solo se, la proposta verrà accolta e recepita.
Giardino di Palazzo Prosperi Sacrati, vista lateraleGiardino di Palazzo Prosperi Sacrati visto via Ercole I d’Este
Il primo bozzetto elaborato da Karavan mostra l’apertura del muro di cinta che dà su Ercole I d’Este, da cui si può osservare l’opera che è così composta: due quinte in muratura, la prima con un’apertura centrale da cui entra un elemento che potrebbe essere molto probabilmente un binario; all’interno e all’esterno altri elementi evocativi come una scala e una bicicletta, riferiti all’opera bassaniana e in particolare al “Giardino dei Finzi Contini”.
Tra i due muri non si potrà passare, non sarà un luogo accessibile ma visibile da due lati.
C’è l’idea, c’è il bozzetto che Karavan dona gratuitamente alla città, c’è Italia Nostra che sostiene l’iniziativa. “I pareri finora raccolti sono tutti positivi”, ci tiene a sottolineare Malacarne. Il costo si aggira sui 200-300.000 euro, una cifra piuttosto alta che difficilmente le istituzioni possono coprire interamente, soprattutto al giorno d’oggi. Ma i promotori pensano che i costi potrebbero essere facilmente ammortizzati, perché l’opera creerebbe valore aggiunto alla visita della città, fornendo un elemento di qualità e una motivazione in più per il turista. Per raggiungere la cifra necessaria e poter realizzare il progetto entro il 2016, in occasione del centenario della nascita di Giorgio Bassani, stanno anche pensando di attivare iniziative di crowdfunding, in modo da coinvolgere la cittadinanza, le imprese, le fondazioni, anche fuori da Ferrara e fuori dall’Italia, perché Bassani era popolarissimo anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti.
“Passages”, Dani Karavan, omaggio a Walter Banjamin, Port Bou (1990-94)
“Erano due figure diversissime”, ricorda Daniele, il figlio di Paolo Ravenna, “Mio padre, un uomo assolutamente ‘non spostabile’ da via Palestro 31 primo piano, e il vulcanico Dani Karavan che non sta più di quindici giorni nello stesso luogo ed è sempre in giro per il mondo per fare sopralluoghi e seguire la realizzazione delle sue opere. Il solido filo d’amicizia che si era costruito tra loro ruotava proprio attorno ad un nucleo di idee che facevano perno sulla figura di Bassani, e che pian piano si sono andate coagulando attorno all’idea del giardino, un giardino che, diversamente dai tanti luoghi raccontati da Bassani, a Ferrara non c’è. Karavan, fin da quei tempi, immaginava di realizzare ‘il giardino che non c’è’ ma che tutti cercano, in un modo fisicamente individuabile ma che esprimesse anche il concetto del luogo letterario. Quando mio padre morì, io chiamai Karavan per comunicargli la triste notizia e lui mi disse: «Con tuo padre avevamo sognato tanti sogni, almeno uno di questi deve diventare realtà.» A quel punto non ho fatto altro che ricostruire il filo tra Dani Karavan e Italia Nostra per cercare di realizzare quel sogno.” Anna Maria Quarzi, vicepresidente di Italia Nostra, racconta un breve aneddoto: “Ero da Paolo Ravenna, un pomeriggio, lui aveva appena parlato al telefono con Karavan, mi mostrò un catalogo delle sue installazioni e mi disse che avevano un sogno, creare ‘il giardino che non c’è’ a Ferrara.”
“Site specific”, catalogo delle opere di Dani Karavan, a cura di G.Gori, Gli ori ed., 2008
Per dare qualche suggestione rispetto all’artista, Malacarne ricorda due opere di Karavan che Paolo Ravenna amava particolarmente: “Passages”, memoriale dedicato a Walter Benjamin, che si trova nella località catalana di Port Bou, nel luogo in cui lo scrittore avrebbe dovuto salpare per la salvezza ma in cui si consumò invece la tragedia; e una delle ultime opere dell’artista, ossia il Memoriale a ricordo del sacrificio delle vittime del socialismo di Sinti e Rom, che si trova a Berlino, realizzato nel 2012 e che ebbe grande risalto sulla stampa.
“Ci auguriamo che la proposta di Karavan e Ravenna, che Italia Nostra sposa e promuove”, conclude Malacarne, “venga recepita positivamente e sostenuta dalla città nel suo complesso.”
Oltre cento veicoli in transito lungo la centralissima corso Martiri. Questa mattina, fra le 11,30 e le 12,30, abbiamo rilevato il traffico motorizzato sul principale asse del centro storico. Nel salotto monumentale della città sono passati 15 taxi, 14 autobus, 23 furgoncini e camion adibiti a trasporto merce e servizi vari , 54 vetture private.
Quando siamo arrivati in zona e abbiamo percorso la via fra il teatro Comunale e la torre dell’orologio c’erano in sosta sei automobili con il contrassegno in vista sui parabrezza; qualcuna se n’è andata dopo qualche minuto, ma altre hanno preso il loro posto e, in media, il numero delle vetture parcheggiate non è diminuito. Nella piccola piazza Savonarola invece c’era la solita invasione: al nostro arrivo i taxi erano stranamente solo quattro, ma la media si è presto elevata a nove,. Inoltre, accanto hanno stazionano tre o quattro auto private addossate ai basamenti dei voltini e alla statua del predicatore ribelle.
I dati rilevati oggi confermano quelli di una nostra precedente indagine, condotta qualche mese fa e rimasta inedita. Allora i mezzi motorizzati risultarono un po’ di più, circa 120. Una cifra che corrisponde a quella riscontrato stamattina nella prima mezz’ora, fra le 11,30 e mezzogiorno, con 59 passaggi. Mentre dopo le 12 l’appetito evidentemente si è fatto sentire, sicché nei trenta minuti successivi lo scorrazzo si è ridotto a 47 transiti, il 20% in meno.
Nel complesso un notevole contributo lo ha dato la curia, dalla quale sono entrate e uscite una ventina di auto, parecchie di grossa cilindrata, quelle che non piacciono a papa Francesco…
Non sono pochi cento veicoli che solcano il cuore della città, il corso sul quale si affacciano il castello e il palazzo comunale, il duomo e il teatro… La zona, tecnicamente, è definita a traffico limitato, ma sono molti i sostenitori della pedonalizzazione integrale. Ad oggi la realtà dei fatti è tutt’altra.
Mario Zamorani, storico leader dei Radicali, incuriosito dalla nostra presenza, ci vede e ci viene incontro. Appresa la ragione del nostro armamentare con taccuino e macchina fotografica, benedice l’iniziativa e preannuncia per la primavera nuove iniziative volte appunto a ridurre o eliminare integralmente il traffico veicolare.
Da lì a poco incrociamo Ulderico Baglietti, allenatore e storico riferimento della pallavolo ferrarese. Lui è di opinione diversa. Sostiene che in fondo pedoni, ciclisti e automobilisti in quest’area riescono a convivere civilmente e senza che i veicoli creino pericoli. Richiama le esigenze dei commercianti, la necessità di artigiani e manutentori di poter lavorare e prestare i loro servizi, i diritti alla mobilità di anziani e persone disabili. Insomma, dice, la situazione è tollerabile.
Dulcis in fundo adocchiamo una giovane e cortese vigilessa che cammina con la bici a mano. Ma tutte queste auto in sosta ormai da un’ora – domandiamo – possono stare? Sì, replica, se hanno il permesso non ci sono limiti temporali. Il che – osserviamo – fa ben intendere che nei regolamenti c’è più di un aspetto da rivedere. E i rischi? Dal punto di vista dei pericoli – sorride – più che le auto sono da temere le bici, i più indisciplinati sono i ciclisti. Però, conclude, anch’io penso che in una strada come questa le auto non dovrebbero proprio passare…
Mappare, informare, mostrare, conservare: ecco una serie di appunti pratici di cose da fare per una città pervasa di stimoli, in grado di generare conoscenza. Scopo: passare da un modello astratto, idealtipico, a un luogo reale, da vivere subito, concretamente. La nostra città, Ferrara, arricchita in poche mosse.
Primo punto: far sapere. Questo è il vero problema, non certo la mancanza di offerta. Eppure si sente dire spesso – a sproposito – che a Ferrara non capita mai niente. Vero magari in ambito imprenditoriale. Ma nulla di più falso se si parla di cultura. A Ferrara si svolge una quantità impressionante di eventi e di iniziative, ogni giorno ci sono occasioni interessanti di incontro e confronto. Pensiamo non solo ai festival o agli appuntamenti ricorrenti, ma a dibattiti, mostre, concerti, proiezioni; ai trecento e passa incontri che si tengono ogni anno in biblioteca e alle quotidiane iniziative organizzate da istituzioni pubbliche e associazioni private. Tanto per dire: nei due weekend compresi fra la fine di settembre e l’inizio di ottobre in città si sono svolti Unifestival, il Premio Estense, la rassegna di Music Emergency, le conferenze dell’istituto Gramsci sulla democrazia, la mostra sulla Videoarte ai Diamanti, la rassegna gastronomica “L’Europa a Ferrara” e il Ferrara tango festival all’acquedotto, il concerto per Federico Aldrovandi, gli eventi “Iperurbs” di Wunderkammer legati alla valorizzazione del Volano, la mostra “Muse, donne in bicicletta”… E qualcosa certamente dimentichiamo. Ma è solo un esempio.
Il fatto è che spesso le cose non si sanno, forse perché è carente o inappropriata l’informazione e non c’è una corretta e capillare promozione degli eventi. Eppure i giornali e la tv la loro parte la fanno. Listone magazine pubblica persino una comoda agenda degli appuntamenti, gli organizzatori in genere diffondono newsletter a soci e simpatizzanti, ma evidentemente non basta. Perché sono in tanti a lamentarsi che non c’è niente. Salvo poi scoprire in ritardo (e magari rammaricarsi) di avere perso questo o quell’appuntamento.
Ferraraitalia è promotrice di un manifesto-appello per ‘Ferrara città della conoscenza’ che ha già raccolto oltre 140 adesioni [leggi]. Il presupposto è che tutta la vita è apprendimento, l’obiettivo è che la città fondi la propria crescita sul sapere e per questo ne favorisce la ricerca, la creazione, la condivisione, la valutazione, il rinnovo e l’aggiornamento continuo. Di questi temi si è recentemente discusso anche all’interessante ‘world caffè’ organizzato alla Città del ragazzo.
Un buon primo passo sarebbe quello di far conoscere da subito ciò che già si fa, informando capillarmente per favorire la partecipazione. Servirebbe dunque una banca dati condivisa che potesse fungere da luogo di raccolta e distribuzione delle informazioni, in cui ciascun soggetto inserisse i propri eventi e al quale ciascun cittadino potesse accedere: un’agenda digitale online consultabile attraverso il web da qualunque postazione pubblica o privata, attraverso varie chiavi di interrogazione (tema, data, luogo, relatori, organizzatori…). Ci provò una decina d’anni fa la Camera di commercio a mettere in piedi una cosa del genere, ma i tempi probabilmente non erano maturi. Oggi lo sono.
A monte, per quanto possibile, sarebbe opportuno coordinare le attività onde evitare o limitare le sovrapposizioni. In questo senso l’agenda digitale agevolerebbe anche gli organizzatori che, consultandola preventivamente, avrebbero l’opportunità di stabilire giorni e orari in considerazione di quanto già programmato e inserito in banca dati.
Mentre per divulgare l’informazione, oltre a utilizzare i canali pc, tablet, smartphone, auspicabile sarebbe l’uso di tabelloni elettronici connessi alla rete e dislocati in vari punti della città, non solo del centro ma anche dei quartieri esterni e dei principali accessi urbani.
Utile risulterebbe anche una newsletter destinata agli utenti iscritti all’ipotizzato servizio di agenda digitale. Al riguardo, detto per inciso, è incomprensibile che le pubbliche amministrazioni ancora non provvedano ad acquisire un’anagrafe digitale che, accanto ai principali dati sensibili di ciascun cittadino residente (nome e indirizzo), includa anche il recapito mail per la trasmissione di informazioni e documenti digitali.
Nel nostro caso un database del genere sarebbe utilissimo (passo preliminare) per realizzare un censimento dei bisogni formativo-culturali, tracciare una mappatura degli utenti dei servizi, favorire l’aggregazione di comunità web, promuovere forum e confronti tematici, agevolare lo scambio di esperienze, ricevere feedback e richieste, focalizzare tematiche e problemi da approfondire sulla base degli interessi espressi, anche per fornire ad a enti e associazioni elementi di orientamento delle loro attività.
Secondo punto: far vedere. Si può immaginare uno sforzo ulteriore: non solo far sapere, ma mostrare. Ecco, allora, un impegno mirato a ‘portar fuori’ gli eventi, farli uscire dai luoghi chiusi e sfruttare le piazze, i giardini, i parchi pubblici, ossia i luoghi dove le persone si muovono, affinché possano ‘inciampare nel sapere’, trovarlo anche senza cercarlo, imbattercisi anche senza una precisa intenzione. Replicare cioè quel meccanismo trascinante tipico dei festival, quando le città sono invase dalla cultura e dagli spettacoli.
Quello atmosferico è un problema superabile. Parlando della nostra città, si può osservare come Ferrara sia ricca di portici e di luoghi coperti contigui alle piazze, che potrebbero fungere da riparo in caso di condizioni avverse. Qualche esempio? La galleria Matteotti e il portico di San Crispino accanto al Listone. E, sempre nei paraggi, i portici di via Gobetti, tristi a causa dei negozi ormai quasi tutti chiusi: rianimarli non sarebbe male… In fondo a San Romano c’è il chiostro della chiesa sconsacrata che ospita il museo della cattedrale. Sul fronte di Porta Reno la chiesa di San Paolo di portici ne ha due, accessibili da piazzetta Schiatti e dallo sterrato attualmente inutilizzato sotto la torre dei Leuti, all’angolo con via Capo della Volte. E anche davanti alla banca c’è un ampio loggiato.
Ma c’è un piccolo portico anche nella piazza del Municipio e un altro accanto a piazzetta Sant’Anna. E poi ce n’è uno lungo e suggestivo in piazza Ariostea, quello delle suore Stimmatine. E poi in piazza Savonarola e dai giardini del castello. L’elenco potrebbe continuare ed estendersi alla periferia. Questo per dire che immaginare di organizzare eventi all’aperto non è assurdo perché molti spazi sono riparati o vicini a luoghi pubblici coperti, come appunti portici e loggiati. Fare ‘cultura in piazza’ con continuità per tutto il tempo dell’anno, oltre a garantire visibilità immediata offrirebbe una forte e trascinante sensazione di fervore, di laboratorio sempre attivo, di città che pulsa sapere e conoscenza. Appunto.
Terzo passo: conservare. Infine sarebbe necessario serbare memoria. A vantaggio di chi è interessato ma non ha la possibilità di esserci e magari di chi vuole rivedere e riascoltare, offrire l’opportunità di recuperare i materiali in forma audiovisiva, creando archivi multimediali e banche dati accessibili online che consentano di rivedere e ascoltare. In questo modo si garantisce l’opportunità di un ‘accesso differito’ e si salvaguarda la documentazione di ciò che si è fatto.. Trattenere in un archivio multimediale – accessibile gratuitamente a tutti – reperti audio e video di eventi, incontri, conferenze è un dovere civile.
Non si deve pensare a grandi costi per un’operazione del genere. Tecnicamente la realizzazione non comporta oneri significativi. E prevedibilmente gli organizzatori e gli stessi utenti volentieri potrebbero collaborare, conferendo i loro filmati, le loro immagini fotografiche, le loro registrazioni digitali. Servirebbe principalmente un lavoro di coordinamento e di razionalizzazione. Ma in questo modo si preserverebbe e si renderebbe fruibile nell’interesse di tutti (e senza barriere spazio-temporali) un grande patrimonio che ora va colpevolmente disperso.
Una ‘città della conoscenza’ è ben più delle cose elencate e realizza un progetto per certi versi rivoluzionario. Ma mentre si ragiona dei suoi connotati e si definiscono le linee teoriche di sviluppo è bene anche cominciare concretamente a declinare in azione l’intenzione, traducendo i presupposti astratti in piccole ma significative esperienze.
Nella nostra cultura ragione e sentimento hanno divorziato perlomeno dai tempi di Cartesio e del suo Discorso sul metodo. Ora, pare che questo divorzio non si avesse da fare.
Ce lo dicono le ricerche più recenti nel campo delle neuroscienze, che dai neuroni specchio in poi hanno dichiarato guerra a tutti i nostri pseudoconcetti.
Se vogliamo imparare ad apprendere, innamorarci del piacere di studiare abbiamo bisogno delle emozioni. Se gli apprendimenti non si attaccano alle emozioni come a una sorta di attaccapanni, non siamo poi in grado né di ricordare né di far uso di quello che erroneamente pensavamo di aver imparato.
Che le emozioni incidessero sulla strada dei nostri saperi, ne avevamo sempre nutrito il sospetto. Ora le neuroscienze sono in grado di dimostrarlo.
“La gente pensa che le emozioni portino fuori strada, ma non è così. L’emozione dirige il nostro pensiero. È il timone che orienta la nostra mente e organizza quello che dobbiamo fare”, sostiene Mary Helen Immordino-Yang, professore associato di pedagogia, psicologia e neuroscienze all’Università di Southern in California, autrice del libro “Emotions, Learning, and the Brain”.
Immordino-Yang e i suoi colleghi dell’USC’s Brain Creativity Institute hanno scoperto che gli studenti impegnati in un compito imparano nuove regole, come per esempio il modo più efficace per rispondere a un problema di matematica o la migliore strategia da scegliere in un gioco di carte, fornendo risposte emotive ancor prima di essere consapevoli delle regole o di essere in grado di applicarle. Queste risposte emotive del pensiero provengono da una sensazione, dall’impressione d’aver trovato la strada giusta. E questo è il primo segno di apprendimento, quando si è impegnati nella soluzione di un compito.
L’esperienza di Immordino-Yang nasce da vent’anni di ricerche in laboratorio con pazienti affetti da diversi tipi di danni cerebrali, che hanno però preservato le abilità dell’area cognitiva, sebbene totalmente incapaci di gestire la loro vita quotidiana. Gli studi che ne sono derivati dimostrano che le persone con un particolare tipo di danno al cervello, a quella parte che connette emozioni e strategie cognitive, non apprendono dal fallimento e continuano a scegliere condotte inadeguate a risolvere un problema, anche se consciamente “conoscono” le regole. Questo succede perché il pensiero che non si accompagna alle emozioni non ci rende in grado di ricordare.
Nel contesto di una classe significa che se emozione e apprendimento non si incontrano sarà sempre più difficile ricordare e applicare. La capacità di provare emozioni per qualcosa è una competenza.
Dobbiamo insegnare ai bambini che l’emozione, l’appassionarsi per qualcosa non sono limiti, ma promesse. È in questo modo che può nascere l’interesse anche per ciò che inizialmente può presentarsi privo di interesse.
Queste ricerche aiutano a provare anche l’effetto negativo di emozioni come l’ansia, la paura, la noia. Funzionano come feedback, fin dalle elementari, incidendo sull’impegno e sul rendimento, in definitiva sul destino scolastico di ciascuno.
Il modello emotivo diviene sempre più negativo nel corso degli anni di scuola, il piacere decresce, l’ansia da prova e la noia aumentano, innescando la spirale del fallimento scolastico. Uno studente in ansia durante la lezione di matematica in seconda classe alla fine dell’anno otterrà risultati più bassi. Sarà quindi ancora più ansioso al terzo, accrescendo il rischio di prestazioni in matematica ancora più basse e così via attraverso l’intero arco della scuola elementare. Anche la noia produce un ciclo negativo, mentre gratificazioni precoci in matematica innescano un ciclo di feedback positivi.
I ricercatori dell’Università Ludwig Maximillian di Monaco di Baviera hanno scoperto che le emozioni negative degli studenti, come rabbia, ansia e disperazione, sono contagiose, nel corso del tempo si trasmettono anche ai loro amici. Lo stesso però non accade per le emozioni positive come la soddisfazione e l’orgoglio.
Il piacere di apprendere è, dunque, qualcosa che ogni studente costruisce nel corso del tempo e suggerisce la necessità che la scuola prenda in seria considerazione le emozioni dei suoi alunni, in modo che a scuola ognuno ci stia bene fin da subito.
Immordino-Yang raccomanda agli insegnanti tre strategie per migliorare l’influenza emotiva sull’apprendimento: rendere significativo l’apprendimento nutrendolo di emozioni; incoraggiare gli studenti a usare le loro intuizioni nell’apprendere e nel risolvere problemi; creare un clima non solo aperto all’errore, ma di autentica fiducia e di reale rispetto.
Il messaggio delle neuroscienze è chiaro: non è più possibile pensare all’apprendimento come scisso dalle emozioni, il successo di ciascun studente non è responsabilità esclusiva del singolo, ma investe il clima e le strategie d’aula. Studenti e insegnanti interagiscono socialmente, imparano gli uni dagli altri in modi che i soli ‘freddi’ saperi scolastici non sono in grado di spiegare. Come altre forme di apprendimento e d’interazione, anche a scuola emozione e intelligenza si devono integrare nel contesto sociale della classe. Gli apprendimenti della scuola, per essere tali, è necessario che siano ‘caldi’, non ‘freddi’, non gelidi come la routine dell’attenzione e dell’ascolto senza emozione.
Piuttosto che diffidare delle emozioni, gli insegnanti possono usare questa prospettiva offerta dalle neuroscienze per promuovere un clima emotivo nella classe, in grado di saper cogliere i sottili segnali delle emozioni. Se gli studenti apprendono a riconoscerli ed a raffinarli, allora i loro saperi diverranno sempre più rilevanti e significativi, in definitiva sempre più generalizzabili e utilizzabili nella vita quotidiana.
Il dato campeggia in bella evidenza sulla home page del sito ufficiale. Eppure molti dei vecchi dirigenti di partito ai quali ci siamo rivolti stentano a credere che gli iscritti al Pd nella provincia di Ferrara siano solo 1.349. Il responsabile organizzativo, Luigi Vitellio, da noi interpellato, precisa però che l’indicazione, riferita al 6 giugno, non è più attuale. “Ad oggi i tesserati sono 2.007 in tutta la provincia – riferisce – dei quali 1.022 in città”.
Il vecchio senatore Rubbi, segretario e confidente di Enrico Berlinguer ai tempi del Pci, a capo della federazione di Ferrara prima dell’approdo romano, sbotta incredulo: “Sembra impossibile, sono davvero pochi, negli anni Sessanta siamo arrivati a 46mila…”. Altri tempi, onorevole, la realtà, ora è questa. Però, il fatto che il principale partito cittadino, quello che da sempre (pur attraverso varie mutazioni genetiche) ha governato il capoluogo e buona parte dei Comuni del territorio, conti un numero così esiguo di tesserati, non solo fa impressione, ma riporta la riflessione al tema della rappresentanza e della partecipazione. Questioni dietro le quali stanno tutti gli irrisolti nodi concettuali, ma anche concreti, connessi all’esercizio della democrazia e al dispiegamento di un sistema di governo che ne realizzi i principi. “Il Partito comunista – ricorda Antonio Rubbi – si è mantenuto su numeri importanti, superiori ai trentamila iscritti (37mila nel 1975, ndr), e li ha conservati fino agli anni Ottanta. E’ dagli anni Novanta che si ha un calo davvero significativo”. Ma quello che a Rubbi appare un crollo lascia comunque in dote al partito oltre 20mila militanti iscritti.
“A metà degli anni Ottanta – racconta Giorgio Bottoni, che fu responsabile organizzativo e poi amministratore – avevamo un bilancio di quattro miliardi di lire, senza un centesimo di finanziamento pubblico. Anzi, eravamo noi che portavamo soldi a Roma: 400 milioni, il dieci per cento di quanto raccoglievamo da sottoscrizioni, tesseramento e feste dell’Unità”.
Tornando invece ai ‘sorprendenti’ numeri di oggi, in termini percentuali i tesserati del Pd rappresentano circa lo 0,6% della popolazione a livello provinciale e lo 0,8% se puntiamo lo sguardo sulla città. Nulla. Significa che appena un cittadino su 130 milita nel partito di governo, che equivale a dire otto ogni mille abitanti. Il trend – conferma Vitellio – è grossomodo questo dal 2008, anno di nascita del Pd. Eppure il Partito Democratico alle ultime elezioni ha ottenuto oltre 34mila voti. Un consenso dietro al quale, però, evidentemente non matura lo slancio per un’attività militanza, per un impegno personale e diretto.
“Lo scorso anno in realtà gli iscritti sono stati 5.849”, precisa Vitellio. Una differenza così significativa, quasi il triplo di quelli attuali, non si giustifica però con il fatto che il tesseramento 2014 non è concluso e resterà aperto sino al 31 dicembre: “Lo scorso anno abbiamo avuto il congresso e le primarie – spiega il responsabile dell’organizzazione – sono i momenti in cui la gente si attiva. Anche ora andiamo verso le primarie, quindi speriamo che il dato migliori”. Anche questo fa riflettere circa presupposti e motivazioni individuali.
Il secondo partito ferrarese per livello di consenso elettorale è Forza Italia. Il “club” ferrarese non ha un sito ufficiale, ma solo una pagina Facebook che conta 94 (!) “mi piace”. Il numero degli iscritti dell’anno in corso qui non è pubblicizzato. Il coordinatore provinciale è Luca Cimarelli, già esponente di Alleanza nazionale. E’ stato nominato reggente dal coordinatore regionale, il senatore Massimo Palmizio, al momento della rinascita di Forza Italia dalle ceneri del Pdl. Resterà in carica almeno sino ai primi mesi del 2015: a gennaio è previsto il congresso comunale che nominerà i delegati al congresso provinciale e quindi i nuovi vertici. Cimarelli confessa di non sapere neppure lui quanti siano gli iscritti. “Per la privacy da Roma non ci dicono nemmeno i nomi – ammette -. Nel 2011 il Pdl ne aveva circa duemila, ora gestiscono tutto dalla capitale e noi non abbiamo gli elenchi”.
Ci rivolgiamo allora a Palmizio. Il quale, per prima cosa, segnala che il tesseramento chiude il 31 di ottobre (salvo probabile proroga) e fino ad allora le cifre non verranno divulgate. “L’obiettivo per Ferrara è confermare il dato del Pdl, duemila tesserati”. In risposta alla nostra insistenza dice: “Al rilevamento di giugno eravamo circa alla metà”. Cioè un migliaio: il che sarebbe clamoroso. Significherebbe che, nella corsa al ribasso, fra Pd e Forza Italia, il numero di aderenti alla medesima data variava appena di tre-quattrocento unità. Palmizio però mette la mani avanti. “Ora l’iscrizione costa 30 euro, non più i 10 di prima. Di questi tempi pesa… Ma – aggiunge – chi si iscrive ora, a gennaio contribuirà alla nomina del nuovo gruppo dirigente, lo stimolo quindi c’è”. Ecco il refrain già sentito. Dice anche che nei prossimi giorni ci sarà un incontro sul tesseramento “con il presidente Berlusconi”. E che mai vi dirà?, chiediamo. “Di fare più tessere!”, scherza il senatore. Però poi, seriamente, soggiunge che c’è in discussione anche una sua proposta di tessera famiglia, una sorta di prendi ‘tre paghi due’, per quel che capiamo, secondo un approccio mercantile non lontano dalla mentalità del leader supremo.
Insomma, anche in politica ormai si afferma una logica di marketing da supermercato.
Come narrano antiche leggende di un mondo che fu, c’era una volta un orribile mostro che senza pietà soffocava il libero confronto delle idee nel più grande partito della sinistra italiana. Si chiamava “centralismo democratico” ed era così spaventoso e temuto che il solo evocarlo quasi sempre convinceva al silenzio chiunque, dalle assemblee delle più sperdute sezioni alle riunioni del comitato centrale, azzardasse di voler reiterare una critica, perché semmai di qualcosa non era proprio del tutto convinto, o di proporre un approccio ad un problema che non fosse fra quelli prescelti. Se poi si trattava di esprimere una posizione in pubblico, dall’intervista al giornale di provincia all’intervento in Parlamento, il timore era tale che nessuno si azzardava a dire nulla di più di quanto recitasse “la linea”, di cui l’orribile belva era poi lo spietato custode. Fra il popolo, la mitica “base”, la creatura aveva nomi diversi e più suggestivi, soprattutto fra i suoi adoratori. C’era chi lo invocava come “Disciplina di Partito” ed anche, i più mistici, come “Fedeltà alla Linea”. Ogni tanto, raramente in verità, il mostro mordeva e qualcuno spariva di colpo, per subito riapparire, all’inizio un po’ frastornato, su una qualche isoletta di quel grande e mutevole arcipelago che si chiama sinistra.
Da allora tanto tempo è passato, il mostro è sparito ed i suoi adoratori dispersi; come sempre succede in questi casi, c’è chi lo rimpiange e chi nega di averlo mai servito. Chi allora non c’era e lo conosce per i racconti dei vecchi tipicamente lo aborre, come retaggio di un mondo passato e diverso, fatto di miti potenti e di certezze assolute.
La povera bestia non era in realtà del tutto cattiva; come si dice, seguiva il suo istinto. Che altro non era che di tenere e di far apparire unito il partito. Il problema semmai era “la linea”, una specie di blob gigantesco che conteneva le risposte a tutti i problemi del mondo e di cui solo pochissimi esperti esegeti conoscevano l’articolazione arcana e le mille astuzie dialettiche che la tenevano assieme. Se ci si pensa un attimo, il vero mostro era questo. Sia per il voler raccontare una visione del mondo per forza unitaria, sia per la sua genesi in realtà misteriosa, sia anche per l’arrivare in periferia non già tutta intera, ma come precotta e divisa in comodi bocconi già pronti.
Poi se n’è andata, anche lei rifugiata su qualcuna delle isole, senza che però nessuno l’abbia mai troppo rimpianta. Meglio così.
Supponiamo invece di avere adesso, nel senso di oggi, un partito ed una grande questione, non l’universo, ma un cosa realmente importante come, per esempio, riformare il lavoro, la scuola o la costituzione. Se si discutono a fondo le diverse posizioni che liberamente si confrontano, coinvolgendo e ascoltando quanta più gente possibile ed alla fine non ci si trova tutti d’accordo su nessuna di queste, che cosa bisogna fare? Non ci sono molte alternative. O si decide di aspettare e di continuare a discutere finché, in un qualche modo si trovi una posizione che accontenti tutti, oppure si vota sulle diverse opzioni per verificare quale sia quella che riscuote il maggior gradimento. Spesso, negli ultimi anni, si è preferito continuare a discutere, tant’è che per molte questioni stiamo ancora aspettando che la magia si compia. Se avessimo davanti tutto il tempo del mondo e non ci fossero invece questioni che richiedono interventi urgenti sarebbe forse poco male; in fondo in Italia talmente tanti anni che si discute su come cambiare le tante cose che non vanno, che aspettare ancora non pare a molti una cosa poi grave. Ma, come spero sia evidente a tutti, non siamo in queste condizioni.
Non rimane quindi che l’altra opzione, ovvero decidere a maggioranza quale sia la scelta che il partito decide di fare propria. E qui, inevitabilmente, torna in ballo l’antico mostro, perché se un partito decide a maggioranza di assumere una determinata posizione su un problema specifico, dopo, come si dice, ampio ed articolato dibattito, dando a tutti la possibilità di parlare e decidendo sulla base di regole democratiche da tutti condivise, quella scelta deve essere vincolante anche per chi la pensava diversamente. Non per dire che deve cambiare idea ed abiurare alle proprie convinzioni, ma che dovrebbe essere impegnato, se non a sostenere a spada tratta la posizione decisa a maggioranza, almeno a non ostacolarla, se è nelle condizioni di poterlo fare, nel suo percorso istituzionale. Vogliamo chiamare anche questa semplice regola di democrazia “centralismo democratico”? Personalmente non direi, se non altro perché il contesto rispetto ai tempi che furono è troppo diverso; se qualcuno però vuole farlo o per nostalgia o per spregio faccia pure: come ho già detto quel “mostro” non era in realtà così cattivo. Però spieghi oltre al suo sdegno come secondo lui dovrebbe funzionare un partito che non sia un monolite in cui tutti e sempre la pensano allo stesso modo. Possibilmente considerando con ugual onestà intellettuale sia il caso in cui siano le sue idee ad essere maggioranza sia quello in cui invece siano quelle altrui. Sembra infatti, a sentire qualcuno, che realmente “democratiche” siano alla fine solo le decisioni che accolgono i suoi punti di vista.
Il termine vergogna viene dal latino ‘vereri’: provare un sentimento di timore religioso o di rispetto. La vergogna è rappresentata nella pittura con il gesto del nascondimento. L’immagine classica è quella di Adamo che si copre con le mani il viso, mentre è cacciato dal Paradiso assieme a Eva: la troviamo nella Cappella Brancacci a Firenze dipinta dal Masaccio.
Insomma chi prova questo stato emotivo abbassa gli occhi, cerca di sfuggire il contatto, si nasconde. Un passaggio ulteriore del discorso sulla vergogna è registrarne il carattere di emozione fortemente sociale e relazionale. E la conseguenza più lacerante di questo stato d’animo è la perdita di autostima, perché entra in crisi la propria immagine davanti agli altri.
Se queste considerazioni sono fondate, la presenza o l’assenza di vergogna rappresenta un fattore cruciale per comprendere la qualità dell’ethos pubblico di una società. Senza moralismi e piagnistei proviamo a chiederci perché in Italia da alcuni decenni l’uomo pubblico (politico, imprenditore, manager, calciatore, attore…) non prova vergogna se colto in flagrante come responsabile di reati gravi quali la corruzione e l’evasione fiscale. Evidentemente, non scatta una adeguata reazione sociale di respingimento e condanna perché la società è disposta a transigere e a ‘comprendere-giustificare’.
Perché? Ecco la domanda che ci facciamo in tanti. Sarebbe necessario un lavoro di ricerca interdisciplinare (storia, antropologia, psicologia sociale) per andare in profondità nell’individuare le cause di una vera e propria anestetizzazione dell’opinione pubblica rispetto a questi mali.
Niente più ci scuote. Il rapporto della Commissione europea che ci attribuisce il 50% della corruzione nei paesi dell’Unione, invece di farci vergognare e costringere il governo e il Parlamento a mettere in cima all’agenda politica tale emergenza, è stato rapidamente archiviato dalla classe politica e accolto con indifferenza dall’opinione pubblica. Eppure i connubi a cui rinvia l’evocazione di questo cancro vanno al cuore del funzionamento delle Istituzioni, della società e del mercato: politica e affari, politica e criminalità, affari-politica-imprese-pubblica amministrazione. Altro che moralismo! E’ centrale questione politica che attiene alla credibilità del nostro Paese in Europa e nel mondo.
Perché nessun partito politico fa sua questa emergenza? Gli annunci di rivoluzione (anche dell’attuale governo Renzi) riguardano tutti i campi, dal mercato del lavoro alla burocrazia, ma nessuno propone leggi severe contro i corrotti e i corruttori! Nel tempo dei sondaggi e del ‘mercato politico’ è logico pensare che se portasse consenso lo farebbero.
Allora sorgono spontanee alcune domande inquietanti. E’ perché il proprio elettorato di riferimento non sarebbe d’accordo? E’ perché il tema è minoritario fra l’opinione pubblica? E’ perché la corruzione è ormai parte del normale funzionamento della vita produttiva, politica e amministrativa? E’ perché si è smarrita la differenza tra ciò che è dovuto come diritto e ciò che è frutto di atti contro il rispetto delle regole e della legalità? E’ perché la rete degli scambi irregolari si è fatta talmente molecolare e capillare da costituire la base su cui si regge l’equilibrio del sistema? E’ perché il lavoro in nero, l’illegalità, l’evasione fiscale sono ormai fenomeni di massa non sradicabili? Ovviamente queste domande scomode sono retoriche, perché la mia risposta è sì a ciascuna di esse. Ogni ‘grande’ male (e la corruzione lo è…) per poter diventare tale deve contare su una larga complicità e connivenza. Senza individuare questo ‘basso continuo’ si corre il rischio di guardare il problema da lontano, come se fosse estraneo a noi e alle nostre cattive pratiche. Questa pista di ricerca non è certo consolatoria, ma ci aiuta a capire perché da Tangentopoli ad oggi la corruzione è aumentata e non diminuita.
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
I bambini felici hanno ricordi felici, tutti noi lo sappiamo. Chi ha giocato per strada anche solo con due biglie e quattro palline ma con amichetti vocianti e libero di pensare solo al piacere di vincere una gara o al gelato dopo i compiti, ricorda l’infanzia come uno dei momenti più belli della sua esistenza. Se poi alla sbucciatura delle ginocchia seguiva il bacio di mamma o la crema pasticcera della nonna, il ricordo è ancora più intenso e commovente. Tutti i bambini hanno diritto a giocare, a leggere e correre per le strade o i parchi, nessuno deve dover lottare con gli orari e i sacrifici di un lavoro non richiesto e richiedibile alla sua età o gli sforzi nel contribuire a un bilancio familiare che non possono essere i suoi.
Ecco allora che Mani Tese, dal 10 al 12 giugno, porta in 14 piazze italiane e in alcuni punti Coop la campagna “I EXIST” (vedi) contro le schiavitù moderne, con l’iniziativa “I bambini felici hanno ricordi felici”. Domenica 12 giugno, giornata mondiale contro il lavoro minorile, ci saremo tutti anche a Ferrara, in Piazza Trento Trieste. Una vera mobilitazione di piazza per dire di no agli schiavi moderni. “I EXIST”, quasi un urlo “ci sono anche io!”, è una campagna volta a rendere visibile un fenomeno attuale troppo spesso ignorato. La schiavitù è frutto della povertà e genera povertà. Mani Tese vuole costruire una mobilitazione globale e diffondere consapevolezza sul fenomeno delle schiavitù moderne attraverso progetti di cooperazione internazionale, iniziative di sensibilizzazione, educazione alla cittadinanza mondiale e attivazione della società civile. Un’ingiustizia sommersa cui ribellarsi, una ferita profonda di un mondo civilizzato che tale non si dimostra quando tollera situazioni di tale genere.
Con questa iniziativa i passanti saranno invitati dai volontari di Mani Tese a scrivere in poche righe, sul tondo staccabile di un flyer, un ricordo felice della loro infanzia (un momento preciso ma anche una sensazione, un gusto, l’ultimo giorno di scuola, le vacanze, gli amici, le prime infatuazioni …). Una volta scritto, dovranno staccare il proprio ricordo e attaccarlo su un pannello, sovrapponendolo a quello tutt’altro che sereno di un bambino/a vittima di sfruttamento di lavoro minorile. L’intento è di far prendere consapevolezza del fenomeno, attraverso la lettura di un ricordo triste dei bambini lavoratori, invitando le persone ad attivarsi sostenendo la Campagna “I EXIST”, di Mani Tese attraverso il gesto simbolico di cambiare i ricordi tristi sostituendoli con immagini positive. Il risultato finale sarà la creazione di un’immagine unica (il volto di un bimbo sorridente) formata da tanti ricordi felici, che andranno a coprire i tristi racconti dei piccoli schiavi.
L’evento si terrà contemporaneamente a Bologna, Bulciago, Catania, Faenza, Lecco, Milano, Padova, Trivero (BI), Salerno, Cagliari, Ferrara e nel fine settimana successivo a Firenze e Pratrivero (BI). Si può partecipare attivamente alla mobilitazione dell’11 e 12 giugno come volontari presenziando ai banchetti di Mani Tese comunicando la propria disponibilità online su Mani Tese
Bike Night è un’esperienza in bici che unisce la notte, la passione e le persone. L’idea è semplice. Si parte a mezzanotte, dal centro di una città, per raggiungere dopo 100km (circa) la natura, pedalando su piste ciclabili: che si tratti del mare, del lago o della montagna, comunque luoghi distanti dal centro urbano da dove si è partiti. Perché Bike Night vuole dimostrare che in bici è possibile raggiungere posti cui di solito non crediamo, vogliamo o ci immaginiamo in grado di arrivare. Nel 2016, giunti alla terza edizione, Bike Night arriverà in cinque città: Ferrara, Bolzano, Udine, Verona e Milano.
La prima edizione a Ferrara, nel 2014, registrò quasi 200 partecipanti. Nel 2015 a giugno in piazza Ariostea sono partiti 800 ciclisti verso il mare. A luglio, si è tenuta anche la prima Bike Night sulle Alpi, da Bolzano al Lago di Resia, con 130 iscritti. Scenari diversi per lo stesso tipo di esperienza: un fiume di ciclisti che accende le notti d’estate. Per la terza edizione, la passione per la bici di notte aumenta ancora: la prima tappa a Ferrara, sabato 18 giugno, conta già 1300 iscritti. E l’attesa cresce anche per tutte le altre tappe.
Non conta il cronometro, non c’è ordine di arrivo: è un evento che racchiude elementi quasi primordiali che portano a salire in sella alla bici. C’è il viaggio, il movimento. C’è l’orario inconsueto, generalmente destinato ad altro: la notte, che i ciclisti illuminano con le loro luci, diventa elemento sorprendente. C’è il buio da affrontare, l’oscurità da domare, che sembra quasi inghiottire i partecipanti per restituirli poi all’alba stanchi ma sorridenti, appagati, rivitalizzati. C’è il sole che sorge, a regalare calore e sorrisi per confezionare una traversata in bici insieme ad altre persone. Tutte accomunate dallo stesso approccio verso la bici: personale, genuino, parallelo a qualsiasi moda del momento, tecnica o di atteggiamento.
Ci sono tutti i tipi di ciclisti alla Bike Night: l’agonista, quelli su scatto fisso, le famiglie, gruppi di ragazzi, uomini donne e bambini. È una festa, dove non serve agghindarsi ma si interpreta finalmente soltanto sé stessi. Il fruscio della catena come colonna sonora di un film dove si recita a soggetto, con una sceneggiatura che si dipana dall’attesa della partenza, dove ci si ritrova come esuli da una vita cittadina che lascia ai margini la bicicletta. Poi finalmente si parte, la passione inizia a circolare per quelle strade che vengono riconquistate di notte. Il film prosegue, tra momenti di fatica, imprevisti anche, affrontati sempre insieme, soste rigeneranti dove ci si confronta, incontra, conosce. Fino al gran finale, su una spiaggia o in riva al lago, lontano chilometri dal punto di partenza perché serve molta strada, per costruirsi un ricordo che duri per sempre.
Bike Night è l’appuntamento notturno dedicato a chi ama la bici e mettersi alla prova. Grazie alla sua formula unica, riesce a coinvolgere le persone innescando una scintilla di curiosità. Integra realtà diverse, fa nascere collaborazioni tra soggetti pubblici o privati, che insieme costruiscono con ingredienti locali un evento che non impatta ferocemente sul territorio, ma ne valorizza gli aspetti urbanistici, paesaggistici, emotivi.
Nel 2016 si dipanerà in cinque appuntamenti, tutti ambientati in scenari diversi, per realizzare sempre la stessa esperienza: un’aggregazione spontanea e variegata di ciclisti che colora le notti della nostra estate. Perché la passione per la bici non dorme mai.
APPUNTAMENTI 2016
18 giugno Ferrara – Mare (Lido di Volano) https://www.facebook.com/events/219863875045815/
9 luglio Bolzano – Lago di Resia
https://www.facebook.com/events/205053743207809/
20 agosto Udine – Ciclovia Alpe Adria https://www.facebook.com/events/477003022496741/
24 settembre Verona – Lago di Garda
https://www.facebook.com/events/1191806324186800/
8 ottobre Milano – Lago Maggiore
https://www.facebook.com/events/619553454859653/
Tra le novità 2016, il Villaggio Partenza: prima della mezzanotte, la piazza si popolerà a partire dalle 18 con infopoint, area relax, eventi e stand espositivi. Sono inoltre garantiti servizi di noleggio bici e casco, rientri in pullman, assistenza tecnica e medica lungo il percorso, ristori lungo il tracciato, colazione all’arrivo. Le Bike Night nel 2016 arrivano in tre nuove città: Udine, Verona e il gran finale a Milano. La tappa milanese, che ha come partner UpCycle Cafè e Bike Mi, prevede la partenza da piazza Leonardo a mezzanotte. Le bici passeranno in Piazza Duomo per poi imboccare la ciclabile dei Navigli, su su fino al Lago Maggiore. A Milano l’evento sarà trasmesso in diretta anche su Radio Popolare.
Emilio Cecchi, acuto studioso dell’Ottocento italiano, sintetizzava con lucidità la fortuna dei Macchiaioli fin dalla prima metà del Novecento in un saggio (1954) dall’evocativo nome “Parenti poveri”: “Nel suo breve corso che sostanzialmente fu concluso fra circa il 1850 e l’ultimo scorcio del secolo XIX, al movimento macchiaiolo non arrise gran fortuna, né rinomanza e prestigio né critica. I migliori che ne scrissero: il Cecioni, il Martelli, il Signorini, altrettanto e più che della purezza dei suoi ideali, testimoniano delle sue difficoltà e dei suoi sforzi per sopravvivere. Ed ecco che, dopo un lungo abbandono, in epoca assai prossima a noi, passati quattro o cinque anni dalla prima guerra, la gente si mise a ripensarci e mostrò di cambiare opinione… A poco a poco nuovi dipinti, un po’ sospettosamente, sbucarono fuori dalle avite raccolte e dai salotti familiari. Dove sonnecchiavano da parecchi decenni. E divulgati in riviste, cataloghi e monografie, passarono sotto il martello dei direttori d’aste. Perché nel frattempo s’era venuto creando un loro mercato, con quotazioni ad ogni stagione più alte, che avrebbero sbalordito gli autori; quasi tutti morti nell’indigenza più nera, o in una povertà appena decente”.
Il rilancio critico dei pittori toscani fa dunque seguito alla dispersione di numerose quadrerie e raccolte toscane che sin verso il 1930 potevano essere comodamente ammirate soprattutto a Firenze. E quando successivamente si formeranno nuclei importanti, frutto di un ambizioso collezionismo del nord imprenditoriale, come quelli del torinese Riccardo Gualino e del milanese Giacomo Jucker, il movimento dei Macchiaioli verrà valutato in particolare da Lionello Venturi e Roberto Longhi come il momento più significativo della pittura italiana dell’Ottocento.
Già Ugo Ojetti sulla rivista “Dedalo” (1925-26) delineava la dimensione indipendente di Telemaco Signorini e Giovanni Fattori, indiscussi protagonisti del movimento: una libertà e autonomia che diventa motivo ricorrente e si caratterizza nelle fughe in aperta campagna, ma più concretamente nella ribellione allo studio dell’Accademia.
Butteri e mandrie in Maremma di Giovanni Fattori
Fin dal 1849-50 in relazione ai movimenti di ispirazione liberale, fermenti di ribellione alla pittura dominante romantica e accademica animavano le vivaci discussioni attorno ai tavoli del Caffè Michelangelo, destinato a diventare la sede e il simbolo del movimento. Qualche anno più tardi, l’apertura al pubblico fiorentino della Collezione Demidoff in Villa Pratolino, ricca della migliore pittura francese contemporanea da Ingres a Delacroix fino ai paesaggisti di Barbizon, aveva portato una ventata di colorismo brillante e acceso, mentre il napoletano Domenico Morelli aveva fatto conoscere i suoi originali studi tonali di chiaroscuro. E’ una lezione, questa, intesa dai giovani pittori toscani come impalcatura strutturale del colore che si articola in macchia, in pennellate stratificate che nella pratica del paesaggio raggiunge gli esiti più interessanti come nel livornese Serafino Da Tivoli, anch’egli reduce nel 1856 dagli incontri parigini con Constant Troyon e Rosa Bonheur, la cui carriera già folgorante non tardò a raggiungere la Firenze dei Macchiaoli.
Gli anni Sessanta del secolo vedono lo sviluppo della tecnica di macchia in esperienze parallele, ma differenti, concentrate nella Scuola di Castiglioncello e di Piagentina.
La tenuta di Castiglioncello, ereditata da Diego Martelli alla morte del padre nel 1861, viene a sostituire il punto di incontro del fiorentino Caffè Michelangelo e diventa territorio privilegiato dell’attività di sperimentazione sul “vero luminoso” che si traduce nelle Vedute e nelle Marine di Abbati, Sernesi e Borrani, nei dipinti scolpiti a colpi di sole e dall’ombra nera di Signorini, Cabianca e Banti e nelle tele solari di Giovanni Fattori, impostosi ben presto come personalità dominante del gruppo, insieme a Silvestro Lega, la cui pittura tuttavia è improntata a un intimismo più lirico. Aliena da ogni intonazione affettiva, ma fedele ai principi di solidità strutturale, che nella macchia avevano trovato origine, si svolge, al contrario, la straordinaria pittura di Fattori: nella scansione esatta dei piani e delle luci, l’artista infatti modula le campiture di colore in piccole tele di formato orizzontale allungato, dove raggiunge un equilibrio solidamente classico.
La Mostra “I Macchiaioli, Le collezioni svelate” a cura di Francesca Dini, presenta al pubblico oltre 110 opere dei Macchiaioli attraverso un’insolita angolatura. Il percorso espositivo, infatti, si articola in nove sezioni intitolate alle collezioni di provenienza. Così, collocando le opere nel contesto storico-collezionistico, vien dato spessore a personalità di intellettuali, imprenditori e uomini d’affari che hanno influenzato il dibattito culturale dell’epoca, dando avvio alla fortuna del movimento toscano, talvolta acquistando le opere per sostenere gli amici pittori in momenti difficili, altre volte per il puro piacere estetico o per l’ambizione di accrescere le proprie collezioni d’arte. Personalità come Cristiano Banti, Diego Martelli, Edoardo Bruno, Gustavo Sforni (ed altri) fanno da sfondo a capolavori come “Il giubbetto rosso” (1895 ca ) di Federico Zandomeneghi, “Marcatura dei cavalli in Maremma” (1887) e “Ciociara” di Giovanni Fattori, “Ritratto della figlia Adelaide” (1875 ca) di Giovanni Banti, “Cucitrici di camicie rosse” (1863) di Odoardo Borrani, “Ritratto della moglie Isa” (1902) di Oscar Ghiglia.
La prima sezione è dedicata alla galleria privata del pittore Cristiano Banti, che spesso svolse opera di mecenate a favore dei propri compagni macchiaioli, costruendo con finezza critica una raccolta preziosa composta da diciotto dipinti di Fattori e arricchita da opere famosissime come “I promessi sposi” (1869) di Silvestro Lega, “Le monachine” (1861) di Vincenzo Cabianca, “Il ponte della pazienza a Venezia” (1856) di Telemaco Signorini.
La seconda sezione è dedicata a Diego Martelli, critico, pittore e mecenate degli amici macchiaioli, alcuni dei quali furono ospitati negli anni Sessanta nelle sua tenuta di Castglioncello. Per l’alta qualità delle opere, la sua raccolta è andata successivamente a costituire il nucleo di partenza della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti .
Di origine piemontese, Edoardo Bruno è un imprenditore farmaceutico cofondatore della ditta Menarini, con sede operativa nell’antico palazzo Galli-Tassi in via dei Pandolfini nel cuore di Firenze, ma vive nella villa rinascimentale di Montegirone. Al primo piano è custodita la sua quadreria composta di 140 dipinti. Amante del teatro, della letteratura, dell’arte e della musica, intrattiene rapporti amicali con l’élite culturale ed economica della Firenze dei Macchiaioli. Già alla metà del Novecento, la collezione Bruno è meta di pellegrinaggio da parte degli studiosi di pittura macchiaiola come Emilio Cecchi ed Enrico Somarè.
Cucitrici di camicie rosse di Odoardo Borrani
Tra le tante opere da ammirare in questa terza sezione troviamo “Le cucitrici di camicie rosse” di Odoardo Borrani, un dipinto dalle forme e dai toni austeri, ma di grande intensità emotiva.
Davanti a una finestra, protetta da morbidissimi tendaggi bianchi, quattro donne raccolte attorno ad un tavolo cuciono in silenzio le camicie rosse per i volontari garibaldini; la luce limpida definisce le fisionomie femminili e gli arredi del salotto borghese di gusto Biedermeier. Le tende bianche accostate al rosso delle stoffe e al verde della tovaglia e del velluto delle poltrone creano un commosso omaggio al Tricolore, sottolineando il significato patriottico del dipinto in cui spicca sulla parete azzurra di destra il ritratto di Garibaldi. Così la prosa nitida ed essenziale di un quotidiano semplice e provinciale acquista un significato storico ed evocativo di un Risorgimento al femminile.
Il punto di forza della collezione Bruno è tuttavia costituito da grandi tele di Fattori: “L’appello dopo la carica” (1895), “Incontro fatale” (1900), “Marcatura dei cavalli in Maremma” (1887) e “Mandrie in Maremma” (1894), opere della piena maturità fattoriana, dove un più profondo e rinnovato rapporto con il reale si esprime nei tagli obliqui e nelle continue variazioni cromatiche che sottolineano la velocità del movimento e della potenza costruttiva dei corpi. I cavalli di Fattori sembrano fatti “della stessa carne dei butteri che li allevano, li domano e li cavalcano, destinati a lavorare e – talvolta spaventati – ad accompagnare l’uomo nell’ingrata fatica quotidiana”. Spogliati della retorica carducciana sono eroi domestici di un paese ancora profondamente rurale e agricolo dove è ben presente il valore di una fatica vissuta come condizione naturale, condivisa da uomini e bestie.
Anche Gustavo Sforni, collezionista, pittore e mecenate, fu un cultore dell’opera di Giovanni Fattori, come è documentato nella quinta sezione della mostra, a lui dedicata. Piccole tavolette dipinte dal vero, tra cui “Le vedette” (1865) e “Cavallo sotto il pergolato” (1870 ca), mai esposte fino ad ora, sono accostate a splendide fototipie Alinari, virate a seppia, scelte dall’amico pittore macchiaiolo Oscar Ghiglia per la pubblicazione di un lussuoso volume monografico dedicato allo stesso Fattori.
Nelle sale del Chiostro del Bramante le emozioni non cessano di inseguire il visitatore, tanti sono i capolavori capaci di colpire il gusto contemporaneo per l’originalità della sperimentazione che ha saputo rinnovare generi pittorici tradizionali. Un passaggio questo che l’elite dei collezionisti toscani attorno ai quali è costruita le mostra, incoraggia, contribuendo a promuoverne il successo.
Dopo la grande rassegna sui Macchiaioli, allestita nel 1975 a Monaco e trasferita l’anno dopo in un edizione più arricchita al Forte del Belvedere a Firenze, altre sono seguite tra cui quella fondamentale di Palazzo Zabarella a Padova, curata da Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, considerata un punto di arrivo degli studi sull’argomento. A quest’ultima si riallaccia idealmente la mostra romana frutto di decennali studi di Francesca Dini.
“I MACCHIAIOLI. Le collezioni svelate”, Roma, Chiostro del Bramante fino al 4 settembre 2016.
Non è un romanzo, nè una storia romanzata. È vita vera, è lo sgambetto che ti mette a terra e ti costringe a starci per un bel po’. Cesare Bocci (l’attore che interpreta il ruolo di Mimì Augello nella serie del commissario Montalbano) e la sua compagna Daniela Spada sono belli, giovani, famosi e senza il peso di un domani difficile da accettare. Su di loro un ictus, un ‘colpo’ che toglie tutto, o quasi, alla loro vita.
Poco dopo il parto, Daniela che sta ancora cercando di capire quel misterioso inizio di quando si torna dall’ospedale con un neonato, è colpita da un ictus che le paralizza il corpo, la mente e l’esistenza per parecchio tempo. Un tempo in cui Cesare non molla mai, impara a chiedere aiuto, a lasciare fare ad altri e anche questo è indice di grande forza.
Da quel primo aprile 2000, Daniela e Cesare hanno vissuto le corsie di ospedale e la stanchezza del mondo crollato addosso. Ma nessun dolore è inutile, perciò lo hanno raccontato. Al di là della storia, di ciò che rimane alle nostre spalle e che non sarà mai più, Daniela e Cesare hanno conquistato tante vittorie che tutte insieme fanno il loro amore, il nuovo modo di muoversi nella casa e tra le persone, ma con quella sicurezza in più di chi è arrivato davvero in cima.
C’è voluto tempo prima che Daniela potesse riacquisire abilità e riavvicinarsi a sua figlia Mia, che intanto cresceva. Quando nasce un figlio, è tutto puro istinto, facciamo, intuiamo, interveniamo perchè ce lo sentiamo, solo dopo ci ragioniamo, e gesto dopo gesto si crea un legame che Daniela ha allacciato quando la malattia glielo ha permesso.
Nel caso di Daniela, malattia e guarigione non si susseguono come in altre patologie per le quali prima si è malati e poi si è guariti ricominciando a fare le cose interrotte. Per Daniela l’una, la guarigione, comincia quando l’altra, la malattia, un po’ si attenua e lascia spazio alla convivenza. “Sono una disabile lieve – scrive -. Posso camminare, ma poco. Posso stare in piedi, ma poco. Posso guidare, ma poco. Mi devo limitare, sempre”. Quel poco diventa tanto se parte da un niente, se diventa un’altra vita in cui inventarsi nuovi interessi e nuove attività. Daniela ora ha una scuola di cucina, quindi crea, con le mani e con la fantasia. Le terapie sono più lievi se pensa a come impostare quella ricetta, a come equilibrare gli ingredienti.
E tutto è più leggero se non si misura la vita col peso delle cose mancanti, ma delle conquiste ottenute. Se, poi, camminare è ancora un po’ dificile, si può sempre volare.
Pesce d’aprile. Lo scherzo del destino che ci ha reso più forti, Daniela Spada e Cesare Bocci, Sperling & Kupfer, 2016
Il Mito del diverso in scena al TOTEM FESTIVAL
Spettacolo teatrale per ragazzi dagli 8 ai 14 anni
Dopo oltre due anni di prove e di laboratori è pronto per il debutto il nuovo spettacolo per ragazzi di Officina Teatrale A_ctuar “F_RANKENSTEIN” ispirato al capolavoro Horror di Mary Shelley.
L’appuntamento è per il 4 Giugno, alle ore 18, al Totem Festival, rassegna di teatro e danza per bambini ed adulti che si terrà al Teatro Cortazar-Nucleo (Pontelagoscuro – FE) dal 3 al 5 Giugno 2016.
Lo spettacolo fuoriesce dal progetto biennale “La Fabbrica dei Mostri”, laboratorio teatrale e fucina di idee per bambini della scuola primaria nato nel 2014, dedicato alla maschera e al tema della diversità.
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F_rankenstein
Regia
Officina Teatrale A_ctuar
Liberamente ispirato a “Frankenstein” di Mary Shelley
Con
Sara Draghi, Massimo Festi, Elena Grazzi, Lauro Pampolini, Arturo Pesaro, Manuela Santini
Musiche Originali
Sergio Calzoni
Video
Mirco Rinaldi
Supervisione Artistica
Natasha Czertok//Davide Della Chiara
e con la preziosa collaborazione di Grazia Fogli
Fuori infuria un temporale e i fulmini incendiano la notte; lo scienziato Victor Frankenstein, chiuso da mesi nel suo laboratorio, sta dando gli ultimi ritocchi alla sua creatura: un mostro creato ad immagine e somiglianza dell’uomo cucendo insieme pezzi di cadaveri trafugati nei cimiteri. Stupirà la scienza con il suo prodigio o forse l’aver sfidato le leggi naturali lo condannerà ad essere maledetto per l’eternità dal genere umano? Cosa spingerà Frankenstein a scacciare il mostro dal laboratorio? Cos’è quel terrore che prova guardandolo?
F_rankenstein è uno spettacolo tragicomico, irriverente e pieno di domande. A ben guardarlo, sembra un esperimento: come il mostro è un collage umano, lo spettacolo lo è di linguaggi; si parla attraverso le parole o semplicemente con il corpo, c’è la musica elettronica che fa da sottofondo ai pensieri e il video che crea scenografie passeggere, paesaggi e visioni astratte.
Quella del mostro senza nome è una vicenda profondamente umana che riflette sul concetto di diversità ed imperfezione, sul potere della scienza e della tecnologia, e sulla responsabilità delle nostre azioni nei confronti di noi stessi e degli altri. Ma F_rankenstein è soprattutto la storia della continua ricerca d’amore e di attenzione che ciascuno necessita per raggiungere la propria perfezione e autenticità.
Qui non siamo più di fronte a una questione di laicità, siamo di fronte a una emergenza: che scuola è la scuola nel nostro paese, che formazione viene impartita ai nostri giovani, chi ne risponde?
È possibile che cultura e superstizione, razionale e irrazionale, si mescolino indifferentemente, che logica e fideismo convivano tra pratica delle discipline e condotte umane? Avremmo bisogno di allenare intelligenze e cervelli, di apprendere a conoscere come si conosce, di teste ben fatte e, invece, ci troviamo la benedizione delle penne che gli studenti useranno per sostenere le prove scritte dell’esame di stato.
Dopo la benedizione pasquale ci mancava solo questa. E perché no gli scapolari e la distribuzione per tutti dei santini di san Giuseppe da Copertino, il frate volante protettore degli studenti?
L’iniziativa è della preside del pluriliceo Niccolò Jommelli di Aversa, con tanto di circolare inviata a studenti, docenti e famiglie, e pure pubblicata sul sito web dell’istituto.
La benedizione delle penne è per di più proposta come “preparazione” all’esame di stato. Questo il testo: “Si comunica ai destinatari in indirizzo che lunedì 30 maggio 2016 dalle ore 12:15 alle ore 13:15 gli alunni delle classi quinte, accompagnati dai docenti in servizio, si riuniranno nell’aula magna per un momento di preghiera in preparazione dell’esame di stato. Nel corso della riunione sarà celebrata la cerimonia “benedizione delle penne”. All’incontro sono invitati anche gli alunni delle classi quinte del turno pomeridiano”.
Un atto di fede, scaramanzia, superstizione? È vero che in Italia si benedice di tutto, dagli animali alle automobili. Ma ci mancavano ancora le penne per l’esame, come le uova per Pasqua.
Un modo per dire “che dio me la mandi buona”, un religioso “speriamo che me la cavo”. La fiducia in se stessi, la coscienza di aver fatto il proprio dovere da che parte stanno nella formazione di questi giovani?
La penna benedetta ha un quid in più che forse noi laici non riusciamo a cogliere, è una penna con il turbo dell’incenso, è una penna autocorrettiva, che impedisce di sbagliare.
Uno studente Harry Potter, una scuola Hogwarts in chiave cattolica. Un’ingiustizia per quei poveri studenti miscredenti o di altre religioni che se la dovranno cavare da soli.
Così, poiché in occasione delle prove d’esame si staccano i collegamenti internet, si ritirano cellulari, smartphone, iphone ed ogni device digitale, non potendo copiare o avere suggerimenti impropri, l’invito che la preside del liceo di Aversa rivolge ai suoi studenti è quello di prepararsi affidandosi al potere benefico della penna benedetta.
Purtroppo la cosa è molto seria, perché riguarda le nostre ragazze e i nostri ragazzi, il loro ambiente di apprendimento, di formazione e di crescita. Come sono preparati e chi li prepara ad affrontare le sfide del futuro che li attende. Forse con un set di benedizioni pasquali e di penne benedette?
Che scuola è una scuola che tollera ciò?
Il tema vero è la qualità della nostra scuola e della professionalità di chi vi lavora e la dirige, di un ministero che di tutto ciò dovrebbe rispondere al paese. Ma difficilmente il ministro interverrà e semmai ci sarà pure un Tar disposto a dar ragione alla preside di Aversa.
Ciò nonostante la questione non può più essere tollerata. Perché investe la responsabilità degli adulti nei confronti delle giovani generazioni, che impiegano il loro tempo migliore sui banchi di scuola per cui, a maggior ragione, hanno diritto a un insegnamento di qualità e a non vedere bruciate le ore di studio dall’incompetenza degli adulti e dalle benedizioni scaramantiche.
Non credo però che l’iniziativa della preside di Aversa sia a caso, sia il prodotto di ignoranza o stupidità. Penso, invece, che sia una provocazione voluta, che abbia il retrogusto della sfida.
Ritengo che celi l’intolleranza per quanto, sia pure lentamente e a fatica, nel nostro paese va cambiando. Aggrapparsi alla benedizione è un recupero di identità attraverso l’esorcizzazione di tutto ciò che la minaccia.
Se le cose stanno così, temo che il caso di Aversa non resterà isolato. Tra benedizioni, obiezioni di coscienza, dall’aborto alle unioni civili, sentinelle in piedi, non mancheranno le sorprese. Pare che le religioni si esasperino a vicenda.
Ce n’è comunque abbastanza per non tollerare più a lungo l’inganno della falsa laicità della nostra scuola.
È tempo di pretendere con fermezza che le religioni tutte, qualunque sia la forma o la confezione assunta, se ne stiano fuori dalle aule, e quelle che vi sono entrate ne escano. Ne va della qualità dell’istruzione dei nostri ragazzi, del loro futuro, della speranza che questo mondo globale, anziché dividersi, possa un giorno incontrarsi e unirsi.
Il termine fragilità, così generosamente elargito in zona istituzionale per spiegare, commentare, difendere certi avvenimenti inspiegabili o ritenuti tali, viene usato a più non posso in questi giorni che vedono: a Ferrara il quarto tentativo d’incendio del portone della Biblioteca Ariostea, il luogo sacro alla memoria e dove riposa il poeta in un fastoso tempio laico, e a Firenze il crollo di una parte del Lungarno Torrigiani a pochi metri dal Ponte Vecchio, sito impagabile per avere una vista unica sugli Uffizi. Così un titolo in prima pagina avverte: “Firenze è fragile, attenti a scavare” per proseguire “La città sembra voler ricordare quanto la bellezza si accompagni alla fragilità”, mentre per spiegare il gesto iterato dell’incendiario dell’Ariostea s’invoca la fragilità mentale
Fragilità dunque del territorio e della mente. Ma è così difficile tenerla sotto controllo?
I dati ampiamente esposti da chi si preoccupa e s’interessa di politiche ambientali e paesaggistiche, da Salvatore Settis a Tomaso Montanari a Vittorio Emiliani, a Paolo Liverani, per citarne alcuni tra i più presenti, indicano chiaramente l’origine de disastro ambientale nell’assenza o trascuratezza della manutenzione ordinaria. Così appare almeno pretestuosa l’indignazione del sindaco di Firenze, che imputa alla società Pubbliacqua incaricata della manutenzione dell’acqua in città, la colpa del disastro avvenuto. I guai fiorentini in realtà non sono stati del tutto sanati almeno dalla ricostruzione post-alluvione di cui ricorre in novembre il cinquantenario. E qui davvero sta l’origine del problema.
Più complessa la situazione dell’incendiario, che è stato riconosciuto con prove stringenti come autore dei tentativi d’incendio e delle scritte ingiuriose che hanno deturpato la biblioteca. Per fortuna le garanzie messe in atto dalla legge per provarne la colpevolezza anche se farraginose e a volte obsolete sono imprescindibili dalla concezione di stato democratico che prevede e impone prove certe di colpevolezza che solo ora sono state raggiunte.
Tuttavia ciò che rende veramente problematiche le scelte da adottare sta nella mancanza di quella ‘manutenzione ordinaria’ che rende insicura la difesa ambientale, paesaggistica e la protezione delle opere d’arte.
Non poter contare sulla presenza costante di una manutenzione ordinaria induce, per esempio, Giovanni Solimine, uno dei massimi studiosi del libro, a dimettersi dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali, come riferisce Tomaso Montanari su La Repubblica:
“Ciò che mi induce a rassegnare le dimissioni sono le scelte fatte in occasione del recente bando per il reclutamento di 500 funzionari, che pure costituisce un altro successo riconducibile alla Sua presenza al vertice del MiBACT. In esso sono previsti solo 25 bibliotecari, e cioè una quota assolutamente residuale rispetto alle risorse destinate ad altri settori, senza tenere minimamente conto delle esigenze oggettive del comparto delle biblioteche […] Si potrebbero aggiungere altre considerazioni, ma non mi dilungo oltre. Mi limito a prendere atto che, per una questione così rilevante come l’attribuzione di risorse umane ad un settore ormai giunto al collasso (riduzione degli orari di apertura, scarsa accessibilità del patrimonio, invecchiamento delle collezioni, costante abbassamento del livello dei servizi erogati, contrazione dell’utenza e, come conseguenza di tutto ciò, una sostanziale marginalità delle biblioteche statali nel panorama bibliotecario nazionale) non si è ritenuto di usare altri parametri se non quelli aritmetici”.
Con altrettanta determinazione ha rassegnato le sue dimissioni Tomaso Montanari dal proprio ruolo di membro di commissione del Mibact. Con una lettera indirizzata al ministro Franceschini lo studioso protesta per la mancata destinazione del recupero di edifici storici o opere d’arte in cambio di pagamento delle tasse. Così Giulio Cavalli su Left riporta la lettera con le argomentazioni di Montanari:
“Abbiamo esaminato e chiuso ventiquattro complesse pratiche. – scrive Montanari nella sua lettera – Abbiamo deciso di accettare 11 proposte di cessione di beni culturali come pagamento delle imposte, per un valore totale di 2.055.396,31 euro: ma il ministero dell’Economia ci ha comunicato che il relativo capitolo dello stato di previsione della spesa prevede solo la ridicola cifra di 31.809 euro”. In queste condizioni, secondo Montanari, “il lavoro della commissione è del tutto inutile: o, meglio, è utile solo all’accanita propaganda che si sforza di rappresentare agli occhi degli italiani la falsa immagine di un governo sollecito verso il bene del patrimonio culturale. Poiché io, al contrario, ritengo che alcune leggi e ‘riforme’ promosse dall’attuale Governo […] e da Lei […] siano una grave minaccia per la ‘tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione’, non ho alcuna intenzione di prestare il mio lavoro e la mia competenza a quella propaganda”.
Da qui si può ben intendere quale sia l’importanza di una regolazione degli interventi ordinari. Altro che le grida e le multe inflitte al nuovo direttore degli Uffizi Eike Schmidt, che per contrastare il suk degli irregolari che vendono di tutto nel piazzale degli Uffizi ha fatto diffondere con un altoparlante un audio che mette in guardia dai bagarini, dai borseggiatori, dagli irregolari! Come riferisce Paolo Ermini su il “Corriere Fiorentino”:
“La mossa però non è piaciuta granché a Palazzo Vecchio (ma perché?): prima le gelide dichiarazioni dell’assessore Gianassi preoccupato per il ritorno di immagine di Firenze nel mondo. Poi la visita dei vigili agli Uffizi perché si capisse l’antifona […] Ma Schmidt non ha fatto una piega ed è andato avanti. Alla fine il terzo atto: la notifica di una multa da oltre 500 euro, riducibili a meno di 300 se pagata entro 4 giorni”. Schmidt si è recato dal sindaco Nardella per dire che pagherà la multa, ma che affida all’opinione pubblica il senso del suo operato.
La fragilità con la quale la bellezza e la cultura devono fare i conti passa dunque proprio dalla ‘manutenzione ordinaria’ per cui, pur capendo il senso delle dimissioni di protesta di Giovanni Solimine e di quelle dell’amico Tomaso Montanari, non le condivido. Le dimissioni sono l’ultimo atto di un processo che non ha altra soluzione. E’ sicuro che prima di presentarle gli illustri studiosi abbiano tentato tutte le carte in loro mani?
Sono stati fatti tutti i passi necessari per vedere se c’era una possibilità di sbocco della situazione?
E’ giusto e necessario preoccuparsi di quella messa in sicurezza della bellezza, delle sue case ovvero dei Musei, delle opere d’arte che le ospitano, delle biblioteche insomma- che non solo rappresentano un problema estetico ma soprattutto etico.
Ma prima delle dimissioni ci deve essere la certezza d’aver provato ogni mezzo per difendere, proteggere, custodire, contro la fragilità, i diritti e le prerogative della bellezza.
Luisa Gallotti Balboni (foto Archivio centrale dello Stato, Senato della Repubblica)
In occasione del ritorno a Ferrara delle spoglie di Luisa Gallotti Balboni, prima Sindaca della città di Ferrara negli anni 1950-1958 e prima donna chiamata ad amministrare un Comune capoluogo di provincia in Italia, e dell’intitolazione a lei del Polo dell’Infanzia di via del Salice, pubblichiamo un suo ricordo di Daniele Lugli, presidente emerito del Movimento Nonviolento ed ex difensore civico della Regione Emilia Romagna.
di Daniele Lugli
Ci sono molte persone, in particolare donne, in grado di ricordarla, anche in questa circostanza, molto meglio di me. In primo luogo quelle che hanno realizzato il libro “Una donna ritrovata: sulle tracce di una sindachessa” (Spazio libri, 1992), curato da Delfina Tromboni e Liviana Zagagnoni, o quelle che le hanno, anche in tempi successivi, dedicato articoli. In copertina del libro c’è una bella illustrazione, opera di Paola Bonora: un filare di pioppi, o meglio di piope (in ferrarese è femminile), tutte alte uguali, ma una fa un’ombra più lunga. Così Luisa, donna tra le donne, ma con una singolarità che la contraddistingue: primo sindaco donna in Italia di una città capoluogo.
Ricordare Luisa Gallotti Balboni è importante per tutti, donne e uomini, per chi l’ha conosciuta e per chi non l’ha conosciuta, perché il suo nome viene legato a una scuola, perché me ne ha richiamato vivamente il ricordo. Di lei molto si potrà dire. Una sua biografia potrà credo essere messa a disposizione di tutti gli interessati. Non sarò io a fare questo. Dovrei dire della sua opera negli anni della ricostruzione di Ferrara, così duramente colpita dalla guerra, della sua azione per nuovi servizi, come la prima farmacia comunale, ancora in apprezzata attività, o della municipalizzazione della nettezza urbana o delle iniziative culturali. Mi limiterò invece a poche osservazioni legate al voto, delle donne e alle donne, al luogo che le viene intitolato, che è una scuola, e al mio ricordo personale.
Nel marzo del 1946 si vota anche a Ferrara per le elezioni amministrative, seguirà nel giugno il voto al referendum e alle politiche. Per le donne è la prima volta. La conquista del voto non è stata una passeggiata. Dopo la Prima Guerra Mondiale il voto alle donne è nel programma non solo dei socialisti, da molto sostenitori del suffragio universale, ma pure dei popolari e dei fascisti. Sembra cosa fatta: il 9 marzo 1919 è approvato un ordine del giorno per l’ammissione delle donne al voto amministrativo e politico. La legge è approvata nel settembre alla Camera, ma non giunge al Senato e quindi decade, per la caduta anticipata della legislatura, dovuta all’occupazione di Fiume da parte dei legionari di D’Annunzio. Fiume era governata, mentre se ne reclamava l’annessione all’Italia, dalla Carta del Carnaro, che prevedeva il diritto di voto alle donne. Come promesso, il Presidente del Consiglio Mussolini riconosce il suffragio femminile a partire dal voto amministrativo, ma la riforma degli Enti locali del 1925, non più elettivi, la rende inoperante. L’estensione del diritto del voto politico neppure si pone, venendo abolito anche per i maschi.
È del 31 gennaio 1945 il decreto legislativo luogotenenziale n. 23, che conferisce il diritto di voto alle donne maggiorenni, sollecitato da Togliatti e De Gasperi accogliendo la proposta sul voto e pieni diritti politici alle donne, avanzata fin dall’ottobre del 1944 dall’Udi e dalle altre associazioni femminili e ribadito con una lettera comune il 9 gennaio del 1945. Non basta però: con questo decreto le donne erano ammesse al voto, ma non erano ancora dichiarate eleggibili. Questa possibilità sarà attribuita il 10 marzo del 1946.
Quell’anno vengono elette a Ferrara due consigliere Luisa Gallotti Balboni e Maria Teresa Testa Pomini, entrambe nella lista del Pci, con 30.740 preferenze la prima e 30.739 la seconda. Il Partito comunista, che ha ricevuto la più alta percentuale di voti, dà prova assieme della sua attenzione al ruolo delle donne e della sua capacità organizzativa nel dosare le preferenze. Sono 2 donne in un consiglio con 50 componenti. Oggi a Ferrara le consigliere sono 8 su 33, in proporzione sono dunque sestuplicate. E i consigli comunali della provincia sono anche più femminili: nel totale la loro percentuale, rispetto a quella del 1946, è moltiplicata per otto. Nella Giunta che si costituisce non ci sono donne. Entrerà, come assessore alla Pubblica Istruzione e alla Cultura la Balboni appunto, alla fine del 1948, in un rimpasto di Giunta provocato dalle dimissioni del Sindaco e dalla morte del giovane Silvano Balboni, che non risulta parente del marito di Luisa, Pietro Balboni. Un precedente, a volerlo cercare, c’era: nella giunta nominata dal CLN alla Liberazione di Ferrara, di ben 15 componenti, 11 effettivi e 4 supplenti, tra i supplenti c’erano due giovani donne Angelina Bazzocchi, vedova Zanatta, e Gina Paolazzi, vedova Colagrande. I loro mariti sono stati fucilati al muretto del castello nel novembre del 1943. La loro presenza in giunta finisce però nel luglio del 1945 con la riduzione della Giunta a 12 componenti di cui 3 supplenti. Ora, su 10 componenti, nella Giunta di Ferrara 4 sono donne e la media è la stessa, considerate tutte le giunte comunali della provincia.
Il 25 marzo del 1950 Luisa Balboni viene nominata sindaco dal Consiglio comunale. Anche il Sindaco Curti, subentrato a Buzzoni, è stato fatto decadere. Travagliata è la vita della prima Amministrazione comunale elettiva alla cui guida si sono succeduti il sindaco Buzzoni, il prosindaco Marcolini, il sindaco Curti, già assessore con Buzzoni, il prosindaco Bardellini. L’elezione della Balboni è annullata dal Prefetto con una inconsistente motivazione, come sarà riconosciuto dal Consiglio di Stato nel novembre del 1951. La sua nomina non solo è in vario modo osteggiata. Ma appare quasi uno scandalo. Oggi nella nostra provincia su 23 sindaci in carica 7 sono donne. La situazione non è equilibrata, ma non è confrontabile con quella di allora: su oltre cento comuni capoluogo uno solo aveva un sindaco donna. Alla convalida della sua nomina Luisa si trova ad affrontare le molteplici urgenze legate alla rotta del Po. E’ allora che ne sento parlare a scuola dalla mia professoressa Antonietta Cavalini, che sollecita iniziative di solidarietà e vicinanza a nostri compagni – non ce n’erano in classe con me, ma in altre in forte rapporto con la mia classe sì – provenienti dalle zone alluvionate.
Qualche mese dopo la Balboni visiterà la nostra classe, che era sperimentale in vista della scuola media unica, arrivata dieci anni dopo, priva delle innovazioni che hanno caratterizzato la sperimentazione. La ricordo ancora alla mostra di fine anno dei lavori della nostra classe dedicati a Leonardo da Vinci, per i 500 anni dalla nascita. La Balboni è una donna di scuola, professione esercitata prima dell’impegno assorbente in ambito amministrativo e politico. Lo è per professione, insegnante di lingue, e per vocazione. A lei si deve in gran parte il consolidamento e la diffusione della scuola materna, sorta a Ferrara a partire dalla Casa del Bambino per iniziativa principale di quel Silvano Balboni prima ricordato che, esule in Svizzera, aveva stretto legami decisivi per quella realizzazione. Era stato il primo impegno dell’assessora, subentrando a Faust Athos Poltronieri, antifascista, già di Italia Libera, eletto nelle liste del Pci, collaboratore di Silvano Balboni nell’avvio della Casa del bambino.
Nella mia piccola esperienza di amministratore, prima a Codigoro e poi a Ferrara, le scuole per l’infanzia hanno rappresentato un elemento essenziale. Sento perciò come vivo e particolarmente vicino l’impegno nel settore di Luisa Balboni, prima come assessore e poi come sindaco. Nel maggio del 1952 è rieletta in Consiglio e di nuovo Sindaca, così pure avviene nel maggio del 1956. Non completa l’incarico per candidarsi al Senato dove viene eletta nel maggio del 1958. I senatori sono 315, le senatrici 3. Una è la nostra Luisa, le altre due sono le socialiste Giuliana Nenni e Giuseppina Palumbo. Un’annotazione: sia la Balboni, sia la Nenni, che ho ben conosciuto, sono elette nella nostra circoscrizione, coincidente con la regione. Ora le senatrici elette, in quello che forse sarà l’ultimo Senato elettivo, sono quasi cento. E nella nostra circoscrizione superano i maschi: sono 13 su 22.
Ho insistito su questi aspetti elettorali, a partire dalla istituzione che ci è più vicina, anche se non ritengo che il voto sia il solo e neppure il più importante strumento di democrazia operante. Considero però grave e preoccupante, proprio perché non priva di valide motivazioni, la disaffezione alla politica e alla partecipazione, anche alla più semplice che si esprime con il voto. Molte cose sono cambiate nelle nostre istituzioni e nelle nostre leggi elettorali dai tempi di Luisa Balboni. Molti altri cambiamenti si profilano. Alcuni non li ho condivisi, né condivido quelli che si sono decisi recentemente. Ma la mia opinione è rilevante solo per me. Molte speranze nella Repubblica democratica, succeduta a una dittatura ventennale, sono però certamente andate deluse, ma non è il disimpegno delle cittadine e dei cittadini che può porvi rimedio, può solo aggravare una crisi della democrazia e della convivenza civile, con danni per tutti e ciascuno. Nel dopoguerra c’era un Paese e una città da ricostruire su basi diverse da quelle che avevano portato alla dittatura e alla guerra. In questo Luisa Gallotti Balboni si è spesa. Oggi non è necessario un impegno minore, in una situazione che appare complessa e densa di pericoli. Parlare in una scuola d’infanzia è aprirsi alla fiducia e alla speranza, come mi ha insegnato Aldo Capitini : Il bambino è il figlio della festa; ogni data di nascita è un natale… una prova del portare al massimo il nostro impegno . Riandare col pensiero alla sindachessa, e quindi agli anni della mia formazione e di un piccolo, personale, sentito, impegno civile, mi è stato utile, spero non sia stato sgradito a voi.
Le parole sono importanti e ancora più importanti sono i concetti su cui esse si fondano. Specie quando le parole coincidono con quelle etichette inglesi che usano tutti e senza le quali sembra diventato impossibile esprimere nozioni di senso compiuto. E’ il caso della ‘sharing economy’, un modello di business centrato sull’uso di piattaforme digitali che consentono di connettere direttamente le persone con modalità impensabili fino a pochi anni fa. Al di là di una simile definizione, dalle conversazioni sviluppate durante lo Sharing Festival di Ferrara, è emersa una pluralità di connotazioni che lasciano intendere significati, aspettative e fraintendimenti tali da meritare più di un approfondimento.
Una prima costellazione di discorsi privilegia l’aspetto economico, finanziario e imprenditoriale: al suo centro sta il profitto e con esso l’esigenza di attrarre e connettere una massa critica di persone disposte a condividere direttamente qualche forma di bene attraverso le piattaforme digitali. E’ un approccio che si sviluppa nell’ambito dell’economia formale dominata dal paradigma neoliberista, interpretata secondo la cultura californiana altamente innovativa della Silicon Valley. La sharing economy così intesa sfrutta la potenza delle tecnologie digitali per intercettare masse di mercati, sfruttare il fenomeno della coda lunga, accorciare la catena di produzione del valore, disintermediare il rapporto tra un numero crescente di consumatori e una quantità crescente di prodotti e servizi.
Il suo impatto sull’economia reale è dirompente perché cambia alcuni dei meccanismi di funzionamento del mercato, spiazzando schemi consolidati e mettendo in discussione equilibri che sembravano, nel bene e nel male, acquisiti. Non si può non leggere dietro questi processi il manifestarsi di quella creatività distruttiva che, secondo Joseph Schumpeter, rappresenta l’anima e l’essenza stessa del capitalismo.
In questa prospettiva prevale spesso una visione fondata su un darvinismo sociale esasperato, che poco concede allo spirito della collaborazione e della condivisione: concorrenza spietata che lascia sul campo le vittime (molte) ed esalta i vincitori (pochi), arricchendo enormemente questi e destinando all’oblio le prime, secondo la logica del “chi vince prende tutto”. Trasformate in macchine di profitto le organizzazioni vincenti della sharing economy sono a volte diventate imprese prive di meccanismi di tutela del lavoro, impegnate nella corsa all’elusione fiscale, ingaggiate in forme di concorrenza scorretta; alcune sono diventate colossi transnazionali che aumentano le disuguaglianze favorendo il lavoro al ribasso, garantendo la concentrazione di grandi profitti in pochissime mani. Offrendo vecchi servizi in forma nuova e più efficiente esse mostrano un aspetto oscuro del rapido processo di digitalizzazione in corso.
In Italia (ma non solo) le reazioni a questa spinta, nel bene e nel male rivoluzionaria, sono state in alcuni casi feroci (vedi i casi Uber e AirBnb), originate a volte dalla reale precarizzazione delle condizioni di lavoro, più spesso dalle accuse di concorrenza sleale avanzate da imprese, organismi di rappresentanza (vedi il caso Cocontest) e da interi settori che avevano forse agito finora in regime di monopolio e di rendita a discapito dei consumatori.
Resta il fatto che in questa sharing economy, che pure mette a disposizione servizi di grande utilità a basso costo o gratuiti, che taglia drasticamente i costi di intermediazione, ma che si presenta frequentemente come business che attenta a equilibri consolidati, molti stentano a riconoscere quella componente di condivisione che il termine sembrerebbe suggerire.
Una seconda costellazione di discorsi privilegia proprio l’aspetto relazionale, la collaborazione, la produzione di senso: un differente modo di concepire la sharing economy che abbandona il versante prettamente economico e finanziario per spostarsi verso quello della condivisione ed approdare infine alla sponda della collaborazione. Esso scaturisce spesso dall’economia informale, si radica nella cosiddetta economia civile, nell’economia della reciprocità e in tutto quel variegato universo che cresce tra le macerie lasciate sul campo da un’economia predatoria di vecchio e nuovo modello. Essa si apre spazi d’azione nella crisi del welfare che ha vergognosamente abbandonato i cittadini e i territori a se stessi; recupera vecchie concezioni della dimensione economica intesa come cura della casa comune. Queste argomentazioni si muovono nell’ambito della sostenibilità piuttosto che in quello del profitto, parlano di utilità e capitale sociale piuttosto che di utili e dividendi.
E’ un approccio che non si basa su un mercato digitale fatto di flussi monetari, indici e numeri, ma trae piuttosto fondamento da valori di equità, giustizia sociale, collaborazione, partecipazione, radicamento territoriale, rapporti diretti in grado di attivare le persone per costruire relazioni e progetti comuni. Esso si muove con un’idea di mercato e di impresa differente, non guidata esclusivamente dal profitto; sviluppa modelli di innovazione sociale basati su comunità e connessioni in grado di rigenerare valore più secondo le idee di Elinor Ostrom sulla gestione dei beni comuni che secondo le linee guida dei manuali di economia d’impresa. Le piattaforme tecnologiche sono usate in questo caso con l’ambizione di creare rapporti reali e per sostenere comunità che diventino capaci di gestire beni comuni e collettivi.
Si tratta di due narrazioni differenti accomunate dall’uso delle medesime tecnologie digitali, dalle piattaforme collaborative: una si pone di fronte al pubblico mondiale, l’altra di fronte alla dimensione più locale e comunitaria Esse sembrano rispondere a due ideologie, a due visioni del mondo differenti; tra le due narrazioni non corre buon sangue e i fan dell’una stentano a riconoscere gli elementi comuni rispetto all’altra. In entrambe però si riconosce una forte tensione al cambiamento ed entrambe lasciano intravvedere i contorni sfumati di un futuro possibile che è ancora tutto da inventare.
A farti capire che è roba serissima ed esclusiva – se per caso avevi dei dubbi – ci riescono subito. Ancor prima di varcare il cancello d’ingresso nello stabilimento di calzature fatte a mano Berluti ti vengono incontro gli uomini della security. Gentili (abbastanza) ma implacabili, ti chiedono di riportare subito in auto la tua macchina fotografica. Infelice, esegui e torni, ma devi capire che non c’è da prenderla sottogamba neanche adesso. Prima che tu ti possa avvicinare al banco con le hostess che presumibilmente ti potranno accogliere, l’uomo della security ti si piazza di nuovo davanti domandando di aprire la borsa e mostrargli tutto il contenuto. Solo a questo punto ti lascia avvicinare al tavolo dove segnano nome e cognome, chiedono un documento di identità (si sa mai che davi il nominativo di chissà chi) ed ecco il cartoncino con l’orario di ingresso per la visita. “Prego, potete accomodarvi”. Sollievo: non ci saranno foto da portare a casa, ma almeno l’ingresso sembra conquistato.
Lo stabilimento Berluti a Gaibanella di Ferrara (foto Philippe Barthélémy & Sylvia Griño architects)
In ballo c’è una delle Journées Particulières, le “giornate particolari” in cui vengono aperte le porte di laboratori e luoghi di fabbricazione dei prodotti del lusso che più lusso non si può. La Manifattura Berluti fa infatti parte del gruppo Lvmh (sigla che sta per Louis Vuitton, Moët, Hennessy), ovvero del colosso che detiene i 70 marchi più esclusivi del vestire, del bere, del profumarsi e dell’ingioiellarsi.
Ti guardi intorno e ti rammarichi di non potere fotografare almeno quelle piante di lavanda che si riflettono sulle pareti a specchio incorniciate dalle listarelle in legno della Manifattura Berluti in quel di Gaibanella, frazione di Ferrara sperduta nel mezzo della campagna, tra campi di frumento, siepi e orizzonte piatto della pianura emiliana. Ma è già buono avercela fatta. Non che ci sia la fila. Ma sono le 9 di domenica mattina e, quando alcuni giorni fa hai scoperto che lo stabilimento lussuoso e inaccessibile poteva essere visitato, era già troppo tardi. Bisognava iscriversi online almeno due settimane prima che le giornate di visita cominciassero, che è anche un bel po’ di tempo prima che la maggior parte dei comuni mortali ne venissero a conoscenza. A questo punto, però, la segretezza si rivela una fortuna: almeno non ti hanno respinto o ficcato in fondo a una fila di aspiranti visitatori in pena.
Ingresso principale della Manifattura Berluti alle porte di Ferrara (foto Philippe Barthélémy & Sylvia Griño architects)
Bene, eccoci qui. Nessun altro si presenta, si può partire. “Non disperdetevi e rimanete compatti”, si raccomandano con noi due visitatori. E, ancorché disarmati di macchina fotografica, ci avvertono che le telecamere ci terranno costantemente d’occhio. Un avvertimento per disincentivare che qualcuno faccia il furbo, magari fingendo di guardare lo smartphone per portarsi a casa un brandello di immagine. A tener desto il senso di rispetto ci sono i soliti uomini in completo nero della security che fanno la ronda nella grande sala d’ingresso, chiamata “Agorà”. E’ l’area centrale dello stabilimento, quella da cui si entra nelle varie zone di ideazione, sviluppo e produzione delle scarpe vendute solo in 50 negozi mono-marca distribuiti con parsimonia in tutto il mondo. Per l’Italia l’unico punto vendita è a Milano, poi ci sono i soliti Londra, Parigi, Cannes, New York, Miami, ma anche la Cina con ben 7 punti vendita, il Giappone con 5, Hong Kong, Giacarta, Singapore, il Qatar, Taiwan e ovviamente gli Emirati arabi.
Forme delle scarpe della Manifattura Berluti
Un uomo e una donna, i nostri cordiali e nero-vestiti accompagnatori, che spiegano come sia esclusiva anche l’architettura in cui è racchiuso lo stabilimento. “La forma – dice lui – replica quella di una enorme scatola da scarpe”. In effetti è un parallelepipedo molto sobrio, avvolto da listarelle in legno di cedro rosso non trattato, forse perché possa prendere sempre più l’aspetto del cartone da scatola. All’interno il legno usato è invece quello pallido del faggio, che – prosegue a spiegare il cicerone – riprende la materia delle forme di piede che riempiono ampi scaffali. Tutt’intorno ci sono infatti questi moncherini, a ricordare precedenti e illustri clienti, le cui estremità giacciono qui levigate e marchiate con nomi come Trieste, Yasuoka, Vukovic. Alzi gli occhi e il soffitto in vetro trasparente è appoggiato su travi in legno che si incrociano. Un’ulteriore metafora – ti assicurano – che vuole rappresentare i lacci intrecciati delle scarpe.
Attrezzi per la lavorazione artigianale delle scarpe (foto Lvmh)
Vabbe’. Da qui si aprono le prime porte scorrevoli e si entra nel laboratorio di sviluppo. Ci lavorano otto persone, incaricate appunto di sviluppare i prototipi. Su un’asta penzolano due forme di coccodrillo spiaccicato e sbiancato. Su un altro sostegno è appesa una larga pelle scuoiata. “Sono i due tipi di pellame con cui vengono fatte le scarpe – dice la guida – che possono essere modellate in cuoio Venezia o in prezioso alligatore”. Un operaio al banco sta sagomando con una taglierina la forma di una tomaia sopra alla pelle che era di un minaccioso coccodrillo, mentre una bella ragazza ritaglia la sagoma dalla pezza appartenuta forse a una mucca. Una grande pelle beige è completamente coperta dalla calligrafia di una pergamena antica, settecentesca. Il manoscritto scelto per la sua bellezza da Olga Berluti viene riprodotto al laser sul cuoio ed è usato per rendere ancora più particolari mocassini, borse o portafogli prodotti qui.
Mocassino con pelle calligrafata, scarpa Alessandro e modello Andy dedicato a Warhol da Berluti (foto Lvmh)
Delle signore nella stessa stanza si occupano di orlatura delle sagome riducendo lo spessore dei bordi, accoppiando le parti della scarpa e cucendole insieme a mano. Un dipendente armato di punteruolo e due aghi cuce insieme la coppia di sagome che forma la tomaia e vediamo come crea la cosiddetta vaschetta, quella rigatura in rilievo tipica della parte superiore del mocassino. Fuori da qui, si entra nella stanza dove le tomaie ancora piatte prendono la forma tridimensionale di un piede, facendole aderire a quei famosi moncherini, che adesso non corrispondono più alle estremità personali dei vari clienti, ma ai diversi modelli che la maison mette in commercio. C’è il modello Alessandro, che prende il nome dal fondatore, partito da Senigallia alla volta di Parigi nel 1895. Ci sono lo stivaletto elasticizzato Sans Gêne e la scarpa Oxford con la pettorina stringata, introdotti negli anni Venti dal figlio del fondatore, Torello Berluti. C’è il mocassino Andy, scarpa appuntita e squadrata che l’ultima discendente della famiglia – Olga Berluti, ancora attiva – si inventa negli anni Sessanta conquistandosi un cliente come Andy Warhol, a cui il modello deve appunto l’ispirazione e il nome.
Ultima sala di lavorazione è quella riservata ai dettagli finali: colore, patinatura e decorazione. Abili mani alle estremità di avambracci tatuati e a molti polsi avvolti nei cinturini di orologi stra-costosi pennellano borse e scarpe come fossero tele, danno colori a cera e poi li tolgono per creare quell’effetto slavato e vissuto caratteristico del marchio. Un dipendente tatua un serpente sopra ai bordi di una scarpa stringata; una sua collega marchia con tatuaggi di tigri una valigetta in cuoio e una tracolla di valore inimmaginabile per chi le vedrà in giro senza esibizione di marchi squillanti.
Tatuaggio fatto a mano per le calzature del gruppo Lvmh (foto Berluti)
Il tour è terminato. Si può comperare qualcosina? No, vendita riservata a quel ristretto numero di boutique distribuite nei selezionati punti strategici del globo terrestre. Come Tokyo e Dubai. A Ferrara si produce, ma niente spaccio. Solo i dipendenti, un paio di volte all’anno, hanno la possibilità di un acquisto. Così a Gaibanella e dintorni emiliani si potrà vedere qualche borsa appesa al braccio, magari tatuato e dotato di Rolex, di artigiani d’élite che fanno tatuaggi ai coccodrilli.
Del Quantitative Easing for the People nell’ultimo periodo si sono occupate molte testate giornalistiche, da Il Manifesto a La Repubblica, passando per l’Itforum di Rimini fino addirittura alla Bce. In realtà è un argomento che da parecchio tempo sta proponendo in Inghilterra Positive Money, una delle diramazioni più attive del Movimento Internazionale per la riforma Monetaria (Immr International Movement for Monetary Reform) che vede rappresentanze in 28 paesi non solo europei e di cui l’associazione Moneta Positiva Italia ha raccolto il testimone. Fabio Conditi (ingegnere e autore del libro “Manuale in 12 passi per uscire dalla crisi”) è l’attuale Presidente del movimento italiano che ha aperto un sito internet collegato alle altre realtà internazionali (www.monetapositiva.it). Dato che l’Immr è stato il primo movimento a parlarne sembra anche giusto spiegare che cosa esso sia.
L’Immr, e la sua rappresentanza italiana Moneta Positiva, propongono una riforma del sistema monetario che passa attraverso tre punti principali: 1) uno Stato deve avere la sovranità monetaria in modo da controllare la quantità di denaro da immettere nel circuito economico e la sua destinazione; 2) il denaro creato deve essere libero dal debito e di proprietà della collettività, piuttosto che creato e gestito dalle banche; 3) il denaro creato deve essere destinato all’economia reale, cioè quella che dà da mangiare alla gente, non ai mercati finanziari.
Sono concetti semplici, facili da digerire e contemplano fondamentalmente il controllo delle banche e della loro attività di elargizione del credito. Questo perché il credito oggi ha ampiamente sostituito la moneta legale, quella che viene creata dalla Banca Centrale, in un rapporto che va dal 93 al 97% a seconda degli Stati contro un misero 3-7%.
Per essere ancora più chiari su come funziona il credito/denaro bancario possiamo fare l’esempio di quando ci si reca in banca per chiedere un mutuo. La banca ci chiederà delle garanzie e poi digiterà la cifra richiesta su un computer accreditando la somma su un conto corrente intestato al mutuatario. La banca non ha bisogno, per concludere questa operazione, di avere delle banconote (se non in una minima parte, pari alla riserva obbligatoria dell’1% sui depositi), cioè moneta legale, e chi richiede il prestito non si recherà in banca con la valigetta dotata di combinazione perché sa benissimo che non riceverà contanti. Quando si recherà dal notaio per la compravendita di una casa o in concessionaria per ritirare la sua auto nuova fiammante, non farà altro che effettuare un trasferimento di fondi, dal suo conto al conto di chi vende (bit elettronici che scompaiono da una parte e riappaiono dall’altra): insomma un sistema di compensazione che funziona fino a quando chi ha richiesto il prestito si recherà mensilmente in banca a restituire il suo debito attraverso il deposito di soldi reali venuti dal suo lavoro, più gli interessi che rappresentano il guadagno della banca per aver schiacciato un tasto.
Sudore, impegno e inventiva in cambio di un click sul computer. Del resto proprio la mancanza di collaterale, a fronte di prestiti effettuati, rende il nostro sistema bancario continuamente a rischio fallimento. E per togliere tutti i dubbi a quanto affermato possiamo aggiungere che Basilea III, l’ultimo accordo europeo in tema di banche e prestiti, prevede un capitale, come collaterale di un prestito elargito, pari all’8% del rischio di credito. Rischio che per un mutuo residenziale è quantificato nel 35%. Cioè se chiedo un mutuo di 100.000 euro, moltiplico l’8% di 35.000 euro e ottengo 2.800 euro. Questo è il capitale che una banca deve dimostrare di possedere per poter concedere un mutuo, quindi non avete più bisogno di chiedere perché una banca può fallire.
Senza perdersi tra i meandri delle contabilità e dei molteplici monumentali regolamenti bancari, l’analisi di Moneta Positiva conclude che le cause delle crisi del sistema economico sono dovute a come il denaro viene creato dal nulla dalle banche con i prestiti: le banche prestano qualcosa che non hanno, pretendono un interesse, danno linfa al sistema finanziario, decidono quando, come e se fare prestiti all’economia reale e poi, se non paghi qualche rata, si riprendono anche la casa. Se, invece, falliscono chiedono allo Stato di tappare i buchi con i soldi della collettività perché se fallimento c’è stato la colpa è anche del cittadino che non è stato attento a controllare.
Spiegato il messaggio di Moneta Positiva e dell’Immr, torniamo al Quantitative Easing for the People; anche qui il concetto in fondo è molto semplice. Forse la sua semplicità lo rende a volte poco accettabile. Del resto come si fa a far passare il concetto dopo che la Banca Centrale Europea ci ha costretto all’austerità per più di sette anni, durante i quali il mantra del “non ci sono soldi” ha portato al suicidio numerosi imprenditori, fatto chiudere aziende che hanno dovuto licenziare tanti dipendenti, peggiorato continuamente i servizi e portato a tal disperazione i Comuni da dover ricorrere alle pecore per far brucare l’erba intorno alle città in sostituzione dei tagliaerba. Dopo tutto questo, come accettare che la Bce, schiacciando semplicemente un po’ di tasti, potrebbe darci dei soldi direttamente nei nostri conti corrente?
Sarebbe da pazzi in effetti crederci se a dirlo non fosse stata proprio la Bce nella persona di Peter Praet, membro del Consiglio Direttivo, in un’intervista rilasciata il 15 marzo scorso a “La Repubblica” e postata in versione integrale anche sul loro stesso sito (qui potete trovate tutti i link e gli stralci dell’intervista http://qe4people01.blogspot.it/2016/03/quantitative-easing-for-people.html).
Ebbene, esiste la possibilità concreta che una Banca centrale dopo averle tentate tutte, anche i tassi negativi di questi giorni, possa lanciare questa operazione. In fondo, a pensarci, il discorso non è poi tanto assurdo, per spiegarlo utilizzo un esempio molto calzante che ho ascoltato da Giovanni Zibordi (autore di “La soluzione per l’euro”) qualche tempo fa: un corpo umano per poter funzionare ha bisogno di sangue altrimenti si ferma, così l’economia per poter funzionare ha bisogno di soldi, moneta che circoli, altrimenti va in crisi e si bloccano produzione e transazioni, quindi se c’è mancanza di moneta/sangue ne va immessa in qualche modo. Lavori pubblici, assunzioni da parte dello Stato o abbassamento delle tasse, e se non funziona si crea denaro e lo si immette direttamente nei conti corrente. L’importante è raggiungere lo scopo: rimettere in moto l’economia, far ripartire le transazioni.
Nella realtà vera, dopo aver compreso che l’operazione è possibile ed è alla portata di una Banca Centrale, quello che probabilmente succederebbe – secondo l’economista – è che l’assegno sarebbe staccato non per i cittadini direttamente, ma per lo Stato, a cui sarebbe fornita la liquidità necessaria attraverso l’apertura di un conto corrente a esso intestato. Lo Stato, a sua volta, farebbe confluire i soldi nel sistema attraverso una serie di operazioni che potrebbero andare da una seria riduzione delle tasse (immaginate se scomparisse l’iva quanto i consumi potrebbero aumentare) a un impegno di lavori pubblici (magari non il ponte sullo Stretto di Messina, ma tanti lavori necessari sui territori come riqualificazione energetica dei fabbricati, messa in sicurezza dei territori stessi).
Rimaniamo in attesa degli sviluppi con la certezza che le politiche economiche attuate finora non hanno dato frutti e che senza un po’ di coraggio dei nostri rappresentanti politici, associato ad altrettanta consapevolezza da parte dei cittadini su cosa realmente sia possibile in economia, continueremo a vivere di promesse disattese, Pil stagnante e livelli di disoccupazione indegni per un Paese civile.
2. SEGUE – Ferrara è l’unica città italiana che ha le potenzialità di sviluppare un turismo fluviale importante.
E’ l’unica città italiana che può sfruttare il Delta di uno dei più grandi fiumi europei perchè in questo Delta è immersa.
Solo Mantova attualmente può vantare potenzialità di città sull’acqua e le sta ampiamente sfruttando.
Avete mai riflettuto sulla posizione strategica di Ferrara dal punto di vista del turismo fluviale?
Ferrara è circondata su tre lati da corsi d’acqua più o meno navigabili. E’ una piattaforma circondata dall’acqua.
Sul lato nord, oltre il Parco Bassani, il ramo principale del Po (Po Grande o Po di Venezia). Sul lato sud, il Po di Volano con punto di partenza turistico infrastrutturale dalla Darsena di san Paolo. Sul lato ovest il canale Boicelli che collega la darsena di san Paolo alla Biconca di Pontelagoscuro e quindi al Po Grande. Sul lato sud-est, corsi d’acqua navigabili – Po di Volano, Po di Primaro – consentono la navigazione fluviale interna e permettono, rese opportunamente agibili, di raggiungere il mare Adriatico, verso le Valli di Ostellato e Comacchio.
Già da tempo l’Europa ha inserito il sistema idroviario padano-veneto nelle vie di trasporto europee da incentivare. Sono già stati stanziati 4 miliardi di fondi europei a tal proposito.
In Italia, la prima legge a tal proposito, la nr. 380 del 1990, aveva dichiarato l’idrovia padano veneta di “interesse nazionale”.
Ben lungi dal supportare “tout court” opere troppo invasive del territorio, credo sia vitale comprendere che Ferrara deve inserirsi in un circuito virtuoso di accesso ai fondi europei che saranno allocati dal 2014 al 2020 per incentivare un nuovo turismo fluviale lento (ma non troppo) ed eco-sostenibile. Impossibile, infatti, implementare le potenzialità sopra illustrate con le sole tasse dei cittadini ferraresi o con finanziamenti pubblici in un momento di patto di stabilità a livello locale e nazionale.
Rifuggendo dalla realizzazione di grandi opere invasive del territorio, è in questa prospettiva che deve inserirsi la città di Ferrara: mirare a diventare, come ha suggerito l’architetto Fortini con un felice eufemismo, città “Idropolitana”, soprattutto nell’ottica di un potenziamento del turismo fluviale.
Quindi, senza acconsentire a grandi lavori e grandi opere, la città estense deve puntare su un maggiore sfruttamento delle sue vie navigabili e tentare così di allinearsi ad altre realtà europee capaci di valorizzare, già da parecchi decenni, il turismo fluviale (Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Danimarca, Belgio, Ungheria). Deve assolutamente investire e potenziare tale componente del suo turismo, attualmente annichilita e imprenditorialmente mortificata, tenendo fede a quel legame fra la città e il suo Delta che viene riconosciuto dall’Unesco come una delle motivazioni principali del suo inserimento fra gli ormai 50 siti censiti e protetti in Italia.
Potenzialità del turismo fluviale a Ferrara
La Darsena turistica di san Paolo, ahimè, è emblematica di un quasi completo fallimento del turismo fluviale in partenza e arrivo nella città. Basta passare sul Ponte della Pace che attraversa il Po di Volano e buttare l’occhio verso est per rendersi conto della pochezza o assoluta assenza di imbarcazioni ormeggiate nella darsena, anche in periodo primaverile-estivo. Con ironica malinconia, anche il Sabastian Pub, allestito all’interno di un battello permanentemente ormeggiato, rischia di essere solo un ricordo.
Unico servizio turistico è la Nena, l’imbarcazione che offre la possibilità di navigazione sul Po fino a Ro- Polesella (Via canale Biocelli) e verso Le Valli Comacchiesi. Troppo poco.
Bisogna sviluppare, agendo sulle infrastrutture, un turismo fluviale lento, a basso impatto ambientale, capace di interfacciarsi con componenti eno-gastronomiche, cicloturistiche, ricreative che creino nuove filiere occupazionali e producano nuovi percorsi turistici, realisticamente percorribili, attraenti e integrati da aree di sosta opportunamente attrezzate.
“Ferrara e il suo Delta”, recita l’Unesco. Bene. Facciamo in modo di far decollare un turismo fluviale di collegamento fra la darsena di san Paolo e le Valli di Ostellato, con proseguimento nelle Valli di Comacchio, rendendo le vie navigabili non solo con piccole barche e canotti a motore, ma anche da imbarcazioni un po’ più grandi, che possano rendere appetibile (turisticamente parlando) l’acquisto di un tour fluviale sul Po di Volano, moltiplicando e rendendo fruibili gli attracchi. Non solo attraverso il Po di Volano, ma anche attraverso il Po di Venezia a cui immette la Biconca di Pontelagoscuro al termine del canale Boicelli. Lo sapevate che è possibile raggiungere Venezia con circa sette ore di navigazione? Creiamo zone di attracco che sappiano interfacciarsi con il cicloturismo della destra Po, prevedendo aree di soste tecniche con servizi adeguati, anche in termini di ristorazione e di attrezzistica per biciclette, come nelle piste ciclabili delle valli austriache.
E’ chiaro che ciò passa anche attraverso una riqualificazione e un potenziamento della darsena ferrarese, poiché la condizione sine qua non è la piena navigabilità e funzionalità prima di tutto del tratto urbano del Po di Volano.
Mancano le idee, manca l’imprenditorialità e la volontà di investimenti in questa città che langue e non sa far decollare un turismo fluviale potenzialmente e virtuosamente spendibile.
Facciamo in modo che, con opportuni attracchi e zone di sosta attrezzate, i percorsi fluviali si interfaccino con l’esempio storicamente più nobile di antropizzazione del nostro paesaggio: le Delizie Estensi.
Rendiamo possibile questo sogno: dopo un tratto di navigazione, noleggiare biciclette e raggiungere le delizie estensi di Belriguardo (Voghiera) e Verginese (Gambulaga), zone raggiungibili via acqua in epoca estense grazie al Sandalo e altri corsi d’acqua. O addirittura, dopo aver adeguatamente valorizzato la Delizia di Belriguardo con strutture museali forti, creiamo un breve asse navigabile che la colleghi, come un tempo, con il Verginese, in modo che le imbarcazioni vengano accolte, come un tempo i bucintori estensi, dalla sagoma quadri turrita e merlata dell’edificio principale e dal giardino strutturato rinascimentale, sorvegliato dalla sua bella torre colombaia cinquecentesca.
Facciamo in modo che interfacciando navigazione e cicloturismo sia possibile raggiungere la zona della Diamantina, anch’essa in attesa di adeguata valorizzazione museale, magari in chiave eno-gastronomica o di esempio di antica ‘castalderia’ ducale, secondo alcuni addirittura immortalata negli affreschi di Palazzo Schifanoia.
In epoca etrusca (dal VI al III sec a.C.) era già possibile raggiungere l’abitato di Forcello (odierna Mantova) dal mare Adriatico, passando da Spina e risalendo corsi d’acqua verso l’ovest della Val Padana. Era possibile anche raggiungere Venezia da Rimini in epoca romana, con navigazione interna endo-lagunare, che sfruttava la Fossa Augusta, a grandi linee coincidente per un tratto con il limite occidentale delle attuali Valli di Comacchio.
Ripristiniamo antiche vie di navigazione creando adeguate infrastrutture che potenzino l’offerta turistica nel nostro territorio, come avviene di prassi in Francia e Inghilterra.
Creiamo un network di vie d’acqua che abbiano come hub la città estense e come punto di partenza una riqualificata Darsena di San Paolo.
“A un certo punto della tua vita, quando tutto sembra immobile e infinito la terra trema. Anche la polvere da cui siamo nati.” A parlare è il protagonista del film “La notte non fa più paura” (diretto da Marco Cassini con Giorgio Colangeli, Stefano Muroni e Walter Cordopatri, prodotto da Maria Rita Storti e stasera in sala all’Apollo Cinepark) che in poche parole condensa l’emozione che il terremoto ha instillato in tutti i ferraresi – quella senza nome, a metà strada fra la paura e l’eccitazione – provocata dal fremito della terra, la vibrazione che trasmette, come il sussulto di chi si risveglia all’improvviso. Un emozione che ci si porta dentro per tutta la vita.
Il sisma del 2012 ha lasciato crepe sia nelle vite di chiunque l’abbia vissuto sia nei muri della città di Ferrara. A 4 anni dalla prima scossa, ieri mattina al Palazzo Municipale si è tenuto un incontro per fare il “punto della situazione” sul dopo-terremoto; hanno partecipato il sindaco Tiziano Tagliani, gli assessori comunali Aldo Modonesi (Lavori Pubblici) e Roberta Fusari (Urbanistica e Edilizia privata), il direttore tecnico comunale Fulvio Rossi, l’ingegnere capo del Comune di Ferrara Luca Capozzi e Natascia Frasson (Ufficio Beni monumentali Comune).
“Come ormai consuetudine – ha spiegato Tagliani – vogliamo restituire ai cittadini il quadro di quanto è stato completato e messo in cantiere rispetto alle opere di ristrutturazione e ripristino dell’edilizia privata e del patrimonio immobiliare monumentale pubblico.”
Secondo quanto affermato dal sindaco, il 2016 sarà un anno piuttosto intenso per le opere del dopo terremoto: sono previste le aperture dei cantieri più impegnativi – da Palazzo Massari all’ex Mof – che vedranno sia la messa in sicurezza e ripristino delle strutture sia la loro “ricollocazione” nel panorama dei contenitori culturali della città e del territorio regionale, in particolar modo rispetto al progetto del Ducato Estense, messo in campo con il Mibact e finanziato con 20 milioni di euro sulla sola Ferrara.
L’assessora all’urbanistica Roberta Fusari ha illustrato lo stato dell’arte per quanto riguarda le ristrutturazioni di edilizia privata. Le richieste complessive di contributo accettate sono state 430, di queste 276 pratiche sono state evase e le ristrutturazioni completate, restano da completarsi quelle che riguardano gli edifici maggiormente danneggiati. In media le istruttorie sono state completate in 100 giorni, per il completamento delle opere di ristrutturazione “leggere” sono stati impiegati circa 10 mesi, mentre per quelle più complesse la media è di 74 mesi. In fieri anche le ristrutturazioni degli edifici Acer. A marzo scorso, delle 1.330 persone che avevano dovuto lasciare le proprie case, 75 erano quelle ancora in attesa di rientrarvi .
Per quanto riguarda l’edilizia pubblica, a spiegare lo stato delle opere di ristrutturazione è stato l’assessore Aldo Modonesi, secondo il quale l’Amministrazione Comunale di Ferrara conta di “uscire gradualmente dalla zona del cratere fra 18 mesi”.
Dal maggio 2012 al maggio 2015 sono stati investiti oltre 12 milioni di euro (5,2 mil € finanziati con i rimborsi assicurativi) in interventi sull’edilizia pubblica. Dopo il sisma erano 30 le scuole inagibili e 5 le palestre scolastiche inutilizzabili: con interventi per 3,3 milioni di euro è stato possibile riaprirle nel settembre successivo, mentre nel settembre ’14 sono state completate le opere di riqualificazione della Primaria Mosti (1,53 milioni di euro) e la costruzione nuova scuola materna Aquilone (1,85 milioni di euro).
Risulta concluso anche il Programma Municipi (costato complessivamente 703.000 euro): dal recupero di Palazzo Municipale alla riorganizzazione delle sedi comunali a seguito delle inagibilità da sisma. Sono state trasferiti gli assessorati alla cultura e turismo (Bagni Ducali) e allo sport (Centro Mathema), il Comando Polizia Municipale (ora nel Centro Congressi v. Bologna), l’Istituzione Scuola (S. Maria della Consolazione), il Comando Centro (ex Gil v.le IV Novembre) e l’Ufficio Giovani (Chiostro S. Paolo).
Per quanto riguarda il programma delle opere pubbliche e dei beni monumentali, gli interventi a Piano del Comune di Ferrara sono costati 32,1 milioni di euro e di questi 21,5 sono arrivati dalla Regione Emilia Romagna, 10,1 dai rimborsi assicurativi e mezzo milione dagli SMS di solidarietà per il sisma.
Delle opere necessarie, più di 40 interventi sono completati o in fase di completamento, mentre restano da accantierare le opere più impegnative. Fra questi palazzo Massari, palazzo dei Cavalieri di Malta, la Certosa Monumentale, l’ex Mof, casa Niccolini, Porta Paola, San Cristoforo, Palazzo Schifanoia, l’ex linificio Toselli, la Procura della Repubblica, la scuola Guarini, Palazzo dei Diamanti, Palazzo Podestà e l’ex circoscrizione di via Bologna. Per molti di questi edifici è stata completata subito dopo il sisma la messa in sicurezza per permetterne la fruizione, ma con i progetti in cantiere o in fase di approvazione l’Amministrazione competerà i lavori di ristrutturazione e restauro e – assieme a diversi attori del territorio – darà vita a nuove forme di utilizzo di questi edifici e dei loro spazi.
Nel complesso, saranno 60 i milioni di euro investiti nella ricostruzione post sisma di Ferrara, a questi si aggiungono 6 milioni di recente assegnazione, che verranno utilizzati per riportare all’uso degli ambienti – fra gli altri – di Palazzo Municipale, Cappella Revedin, l’Ippodromo, la Loggia degli Aranci in Castello.
Il futuro è quindi segnato: nel biennio 2016-2017 l’Amministrazione intende concludere l’approvazione di tutti i 14 progetti e conseguente messa in appalto (almeno del 50%), la chiusura delle autorizzazioni Mude per l’edilizia privata, la chiusura delle autorizzazioni Sfinge per l’edilizia produttiva (a carico della Regione) e la riapertura bando Inail per l’adeguamento antisismico dei capannoni industriali della città, la messa in opera del nuovo piano investimenti con i 6 milioni di euro di nuovi cantieri e quindi l’uscita progressiva di Ferrara dal cratere.
“E’ importante sottolineare la rapidità con la quale questa amministrazione sta procedendo al completamento delle opere – hanno commentato Modonesi e Tagliani – grazie a un lavoro intenso e di grande collaborazione fra tutti gli ambiti e gli uffici competenti, al sostegno della Regione Emilia Romagna e all’indirizzo dato dal commissario Gabrielli, che ha voluto che fossero le amministrazioni locali a gestire, controllare e verificare le fasi della ricostruzione. Questo ha velocizzato le procedure e ha reso tutto l’impianto della ricostruzione trasparente, lì dove ogni pratica o movimento di denaro e pagamento è tracciabile.”
La crescente automazione e robotizzazione della produzione congiura contro i posti di lavoro?
Gli studiosi non sono proprio d’accordo, ma pare esserci più di un ragione per rispondere sì a questa domanda.
Altro che gli immigrati che toglierebbero lavoro ai nostri giovani: chi lo dice, nella migliore delle ipotesi, mente sapendo di mentire.
Su quest’ultimo punto è utile leggere quanto scrive Gianpiero Dalla Zuanna, docente di demografia a Padova, sull’ultimo numero de Il Mulino (2/2016): “sul mercato del lavoro gli immigrati sono complementari piuttosto che concorrenti degli italiani”.
Ma il punto che apre gli scenari più inquietanti è il primo. Ne scrive nello stesso numero della rivista bolognese il sociologo Carlo Carboni, con un argomentare di cui è consigliabile non perdere una virgola.
Cominciamo dai numeri. Da qui al 2020 la sola robotica avrà nel mondo un valore che sfiorerà i 152 miliardi di dollari, laddove oggi ne vale 27.
Uno sviluppo impetuoso, tanto che gli esperti parlano di una nuova società.
C’è chi ha già calcolato che nei prossimi quindici anni negli Stati Uniti le applicazioni dell’intelligenza artificiale metteranno a rischio il 47% dei posti di lavoro e in Europa la musica non sarà diversa.
Come se non bastasse, si dice pure che le nuove tecnologie necessitano non solo di meno lavoro umano, ma spingono verso la concentrazione della ricchezza in poche mani, contribuendo ad accentuare un problema di diseguaglianze già oggi a livelli mai visti, se non ai tempi del Re Sole.
Alcuni studiosi dicono che in realtà non c’è alcuna evidenza empirica nella correlazione tecnologie-meno occupazione. Del resto è pur vero che storicamente l’introduzione delle macchine nel ciclo produttivo, dopo i primi spauracchi, ha finito per creare nuovi lavori.
Altri però fanno notare che non era mai successo un processo di automazione in tutti i settori produttivi. Nel passato le macchine hanno colonizzato prima l’agricoltura, poi l’industria.
Ma se i robot sono destinati da qui al 2030 (così le previsioni) ad automatizzare trasversalmente tutti gli ambiti produttivi il discorso cambia. Tanto per fare un esempio, l’accelerazione in atto non risparmia settori come la biomedica: fra non molto si ipotizza che anche professioni niente affatto di routine saranno sostituite da computer nell’ambito delle diagnosi delle malattie.
Del resto è di queste settimane la notizia di nuovissimi automezzi che possono andare per strada senza conducente.
Ad avvalorare questo scenario, praticamente alle porte, ci sarebbero anche i fautori della terza via, rispetto a chi condivide e a chi è contrario. Se si ritiene che gli effetti negativi sull’occupazione possano essere governati con politiche attente alla crescita di lavoratori con alte specializzazioni (high skill workers), vuol dire implicitamente che questo futuro, piaccia o no, ha una sua plausibilità.
Il domani del lavoro, poi, sarebbe ancora più incerto in Europa. Nei grandi paesi a industrializzazione matura si registrerebbe mediamente un certo ritardo in fatto di high tech, Germania compresa (figuriamoci gli altri), rispetto agli standard più avanzati. L’Ue, nel complesso, avrebbe vissuto la rivoluzione informatica da colonizzata e starebbe già conoscendo un fenomeno, chi più chi meno, di labour killing nel manifatturiero, nella logistica e altri settori.
Anche in questo caso la prospettiva che mette i brividi sta nei numeri. I settori nell’Ue ad alta tecnologia contano poco meno di due milioni di posti lavoro, destinati però a diventare sui cinque milioni nel 2018. Il problema è che la forza lavoro super skilled in Europa arriva a circa il 10% e per ogni posto di lavoro superdotato ce ne sono quattro di routine, cioè a rischio robot.
Tirando le somme, si può dire che stiamo andando, più velocemente di quanto si creda, verso una deindustrializzazione occupazionale, aggravata – come nel caso Ue – da un ritardo tecnologico-informatico, da cui si potrebbero trarre le nuove figure di lavoratori super in grado di reggere l’urto.
L’impetuoso tornante tecnologico di questi tempi è dunque destinato, almeno nel breve e medio periodo, a espellere più posti di lavoro di quanti se ne potranno creare e questo succede – come se piovesse sul bagnato – dopo anni di una crisi che ha leso i tessuti sociali e mandato ko la cosiddetta classe media, cioè la cassaforte dei consumi.
Per toccare con mano l’entità della trasformazione in atto, si può aggiungere che nei soli Stati Uniti l’incidenza dell’occupazione manifatturiera è scesa dal 22,5% del 1980 all’attuale 10% ed è destinata a ridursi al 3%.
Un altro mondo, che sarebbe bene mettersi in testa di abitare non da spettatori, se sono vere le previsioni della Banca mondiale secondo la quale entro il 2030 il mondo perderà la bellezza di due miliardi di posti di lavoro, mentre solo per un miliardo in più suonerà la sveglia la mattina.
Gli anglosassoni, che hanno sempre una frase pronta per definire con bello stile ciò che spesso è una fregatura, la chiamano jobless growth.
“Cosa farà il resto della popolazione per vivere?”, si chiede Carboni. E se se lo chiede lui, noi poveri mortali stiamo freschi. Specie se si pensa che nel frattempo l’età media s’innalza. Restare fino a 80 e passa anni per fare che? Di quale welfare ci sarà bisogno se queste sono le premesse e, soprattutto, se le diseguaglianze sono destinate ad aumentare, tra una minoranza padrona della tecnologia e un esercito, se va bene, di precari?
Appare fin troppo chiaro a questo punto che i veri banchi di prova per limitare, almeno, i danni sono politiche espansive nei settori high tech, nel sistema formativo, in ricerca, anche per indurre a cascata nuovo lavoro in altre direzioni: tempo libero, cultura, sostenibilità ambientale.
Uno scenario che potrebbe richiedere – udite, udite – maggiori connessioni, sinergie e coordinamento, al posto della competizione, da sempre motore genetico del sistema capitalistico.
In sostanza, la capacità di disinnescare la bomba a orologeria di “disoccupazione e disuguaglianze da tecnologia – scrive Carboni – dipende dalla competenza e dalla vision delle nostre classi dirigenti e dalla conseguente trasformazione del capitalismo democratico”.
Più facile a dirsi che a farsi, in un tempo nel quale la politica appare decisamente accessoria all’economia e nel quale comanda chi possiede la tecnologia più avanzata.
Se poi si aggiunge chi sbraita che gli stranieri ci rubano il lavoro, allora siamo in un film di Alberto Sordi.
Migliaia di turisti stranieri e italiani rimangono ogni anno favorevolmente colpiti dalla bellezza della nostra città e, dopo averla visitata, si chiedono come mai la sua bellezza non vada di pari passo con la sua fama. Anche i ferraresi sono coscienti e stupiti di questo.
Purtroppo le cifre mostrano a Ferrara un calo di presenze turistiche e museali negli ultimi anni (soprattutto dal 2007 al 2012), nonostante dati statistici più incoraggianti negli ultimi mesi.
Cerchiamo di indagare i motivi per cui Ferrara non ha il turismo che merita.
Marginalizzazione geografica e rete dei trasporti
Bisogna saper contestualizzare la nostra città geograficamente.
Per gruppi e turisti individuali, italiani e stranieri, che non abitano vicino a Ferrara e non hanno tempo illimitato a disposizione, non possiamo ignorare che Ferrara è sul percorso Firenze-Venezia ed è circondata da altre città con alta priorità turistica (Padova, Bologna, Verona, Ravenna); perciò Ferrara non sempre viene inclusa nelle soste dei vari tour.
Inoltre fin dall’antichità, la zona dove oggi sorge Ferrara si è trovata al di fuori della direttrice segnata dalla Via Emilia, anche perché, per essere precisi, Ferrara è di fondazione alto-medioevale, (VII sec. d.C.) perciò ai tempi dell’Impero doveva ancora sorgere e non ha potuto poi capitalizzare su di una rete di trasporti già strutturata. Una marginalizzazione nella rete di comunicazione e trasporti di cui risente ancora.
E’ vero che oggi si trova sulla tratta ferroviaria e stradale Firenze-Bologna-Venezia, ma è altrettanto vero che nella rete dei trasporti che la servono ci sono punti deboli, soprattutto nel trasporto ferroviario (treni veloci – Freccia Rossa, Italo – per non parlare di ulteriori fermate recentemente soppresse). Ciò non giova certo al turismo locale.
Concorrenza del turismo congressuale
A livello di turismo congressuale, oltre ad avere un’economia più debole, Ferrara è schiacciata dalla concorrenza di altri centri a forte vocazione congressuale (Bologna, Rimini, Verona, Padova).
Identità
Le ragioni che stanno alla base di un turismo che non decolla come dovrebbe sono molteplici, ma senz’altro una delle principali è il modo in cui Ferrara viene percepita in Italia e all’estero. La sua ‘identità’ percepita.
Faccio alcuni esempi concreti e ben noti di come vengono immediatamente percepite – a livello internazionale – alcune città, già universalmente note poiché associate nell’immaginario turistico collettivo a una emergenza culturale o turistica subito individuabile: un ‘marchio’ che non ha bisogno di promozione.
Partiamo da macroscopici esempi internazionali e nazionali: Parigi e la Tour Eiffel; Londra e il Big Ben, il Tower Bridge, la famiglia reale; Mosca e il Cremlino; S.Francisco e il Golden Gate; Siena e il Palio e Piazza del Campo; Parma e il prosciutto. Sì, avete capito bene: Parma è conosciuta in tutto il mondo perché prosciutto crudo in inglese si dice “Parma ham”. Ravenna e i mosaici; Verona e Romeo e Giulietta, sfruttando mirabilmente questo aggancio con la letteratura; Bologna e le due torri e l’antica università Alma Mater; Napoli e il Vesuvio e il suo golfo; Roma e il Colosseo e il Vaticano; Firenze e il Rinascimento ‘par excellence’; Pisa e Piazza dei Miracoli con la torre pendente.
Molto dipende, come abbiamo visto, da come la lingua più diffusa al mondo (nel campo turistico, l’inglese) percepisce culturalmente le varie città, ma anche da ‘marchi’ forti e indelebili. Faccio un esempio pratico: molti turisti americani, australiani e giapponesi chiedono se è nella nostra città che si fanno le auto da corsa (Ferrari e Mussolini sono i due nomi italiani più noti al mondo) o se ci sono cave di marmo bianco (confondendo Ferrara con Carrara, il marmo scolpito da Michelangelo).
Quale marchio per Ferrara?
Ferrara non ha il turismo che merita a livello internazionale e nazionale perché non ha un ‘marchio’ forte, internazionalmente noto, da spendere a livello di promozione turistica. Non ha un’identità nota a livello internazionale su cui poter investire a livello di incoming. Un marchio fortemente caratterizzato che sia turisticamente vincente e che non si sovrapponga ad altri più noti.
E qui vorrei aprire la discussione: su quale marchio fortemente identitario puntare investimenti che facciano finalmente decollare un turismo, da sempre piuttosto anemico in confronto ad altre realtà limitrofe? Il Palio? No. Caratterizza già fortemente Siena. Lo stesso motivo per cui a Verona non si può puntare prioritariamente sull’Arena (percepita come copia minore del Colosseo) se non attraverso la Lirica. E’ inutile investire cifre cospicue e propagandare che il Palio Estense è più antico di quello di Siena. Lotta impari. Ammettiamo con onestà intellettuale che le grosse somme convogliate sull’Ente Palio dalle giunte comunali finora succedutesi non hanno avuto congruo ritorno in termini di incoming. Lodevole, invece, l’impatto del Palio sulla cultura cittadina e la mobilitazione culturale e storica nelle contrade. Ma quello è un altro discorso. Il Castello? Solo in parte. In Italia esistono tanti bei castelli e alcuni, come quello di Mantova, molto simili e vicini al nostro. Il nostro però ha l’acqua intorno nel pieno centro della città e non in prossimità o vicino a laghi come Mantova e Sirmione. Dettaglio non secondario. La Cattedrale? Solo in parte. Solo in Emilia-Romagna abbiamo forti concorrenti fra cattedrali romanico-gotiche e battisteri (Bologna, Parma, Modena) per non parlare di altre regioni, anche limitrofe.
Castello e Cattedrale insieme? Certamente. Ferrara è sia “Castle town” che “Cathedral town”, come la splendida Chichester nel Regno Unito – che ha anche una bella cinta muraria – e per di più sono vicinissimi (da uno si vede l’altro), situati inoltre in un centro storico che è zona pedonale, quindi ottimamente fruibile. È tuttavia vero che ci sono in Italia sia castelli sia cattedrali molto noti che sono già marchi identitari di città (Orvieto o Milano con cattedrale e castello). Il Palazzo dei Diamanti? Certamente. Si tratta di un’unicità italiana. Forse è il più noto esempio di bugnato rinascimentale. Ci sono comunque altri esempi italiani di edifici rinascimentali con bugnato pronunciato (per esempio la Chiesa del Gesù a Napoli, originariamente edificio civile e antecedente dal punto di vista costruttivo; un bel Palazzo con splendido e pronunciato bugnato a Verona, di proprietà bancaria). Tutti questi esempi non reggono la concorrenza del Palazzo dei Diamanti, la cui fama è internazionale (in alcune guide di Lisbona si puntualizza come la “Casa dos Bicos” sia ispirata al Palazzo dei Diamanti di Ferrara). Se poi il detto palazzo è associato a importanti mostre d’arte, va da sé che si tratta innegabilmente di un valore aggiunto. Tuttavia da solo, il pur nobile palazzo non può essere un asset vincente per invertire i flussi turistici a Ferrara. Palazzo Schifanoia? Ottima emergenza culturale da incentivare con attività promozionali. Ha un importantissimo ciclo di affreschi quattrocenteschi pagani, ma non dimentichiamo i più famosi affreschi praticamente coevi del Mantegna nella camera picta di Palazzo Ducale nella vicina Mantova. Le Mura? Assolutamente sì. Abbiamo le mura rinascimentali più lunghe d’Italia (circa 9 km) con terrapieno percorribile e pista ciclabile esterna. Senz’altro giustificano grossi investimenti in termini di promozione turistica ed è semplicemente scandaloso che l’attuale amministrazione comunale non abbia voluto inserirla, per una spesa irrisoria, nella rete europea delle città murate (Ewt-European Walled Towns) l’unica esistente. Proprio Ferrara, che detiene il primato italiano. Autentico esempio di miopia culturale di provincia che sarebbe comunque facilmente sanabile con un barlume di volontà politica. L’Addizione Erculea (con Palazzo dei Diamanti, Piazza Ariostea, Parco Massari e Corso Ercole I° d’Este)? Splendide sinergie con forte specificità e già itinerario turistico vincente, proposto come “primo piano urbanistico organico rinascimentale”. Piuttosto difficile tuttavia da proporre a un’audience turistica più vasta non ferrata o competente in termini di urbanistica. Le Delizie Estensi? (Schifanoia, Belriguardo, Verginese, Castello della Mesola e altre)? Davvero interessante come percorso turistico e da anni battuto (con parziale successo) dalle associazioni turistiche locali. Non dimentichiamo che esistono percorsi strutturati (e fluviali) ben più noti: basterebbe citare le ville venete del Brenta, la navigazione sul Mincio o i più lontani Castelli della Loira, fra gli itinerari più noti, per non menzionare la più organizzata e gratificante navigazione sul Danubio.
Oltre ai casi citati, esistono altre interessanti specificità locali da incentivare a livello di promozione turistica associata al marchio Ferrara, inclusi eventi (dai Buskers al Festival di Internazionale, dal Ballooon Festival alla Vulandra), itinerari tematici (eno-gastronomico, ebraico-letterario con Giogio Bassani e il Giardino dei Finzi Contini, o anche solo letterario con Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, oppure il modernismo, attraverso il legame privilegiato di Giorgio de Chirico con Ferrara). E tanti altri. Tuttavia è evidente che per promuovere un marchio vincente, capace di attrarre grossi flussi, ci vuole una proposta integrata, basata su virtuose sinergie.
Una proposta con tali caratteristiche esiste già. E’ incarnata dalla motivazione che l’Unesco ha fornito per l’inserimento di Ferrara nei siti censiti del suo patrimonio culturale da salvaguardare.
Cito testualmente: “Ferrara, progettata in modo esemplare nel corso del Rinascimento, ha mantenuto intatto il suo centro storico. Le sue regole di pianificazione urbana ebbero una profonda influenza sullo sviluppo dell’urbanistica durante i secoli successivi.
Le delizie dei duchi d’Este nel Delta del Po illustrano in modo eccezionale l’influenza della cultura del Rinascimento sul paesaggio naturale.
Il Delta del Po è un paesaggio culturale mirabilmente pianificato che conserva splendidamente la sua forma originale”.
Da una lettura attenta si evince chiaramente che oltre al centro storico, due sono gli elementi fondanti di tale riconoscimento: la pianificazione urbana rinascimentale (ossia l’Addizione Erculea) e il Delta del Po, antropizzato dalla nobile presenza delle Delizie Estensi.
Ecco quindi il termine di riferimento da tener presente per un efficace sviluppo turistico di Ferrara che possa in prospettiva valorizzarne le sue potenzialità: il legame fra la città e il suo Delta.
Non solo, quindi, collegamento strategico sempre più efficiente tra la città e i Lidi Ferraresi, particolarmente importante nei mesi estivi. Ma anche, e soprattutto, tenendo conto delle più recenti analisi dei trend internazionali di sviluppo turistico, il collegamento fra la città e il suo Delta con le varie stazioni ed emergenze naturalistiche ed architettoniche, di cui fornisco un brevissimo elenco: il centro storico di Comacchio e le Valli; il Boscone e il Castello della Mesola; l’Abbazia di Pomposa; le valli di acqua dolce di Argenta; le Delizie Estensi di Belriguardo e del Verginese.
Tenendo presente che le analisi dei flussi turistici a livello europeo mostrano un aumento di domanda su cicloturismo, turismo ambientale (incluso bird-watching, un emergente bird-feeding e addirittura tree-spotting), turismo eno-gastronomico e turismo fluviale, mi sembrerebbe più che mai opportuno puntare strategicamente sul potenziamento di queste componenti, favorendo e investendo in circuiti turistici su piste ciclabili e vie d’acqua, capaci di integrarsi con proposte eco-ambientali ed eno-gastronomiche.
Da ciò si evince, inoltre, la necessità di implementare e potenziare un turismo eco-sostenibile ‘lento’ – ma non troppo – che preveda spostamenti strutturati lungo fiumi e canali navigabili.
Ferrara e l’acqua. Ecco il messaggio dell’Unesco.
Poter facilmente raggiungere (per ora solo un sogno), magari via acqua, dopo aver visitato la città, le Delizie Estensi di Belriguardo e del Verginese. Incentivare il percorso fluviale per le Valli di Ostellato e quelle di Comacchio, con sosta nel centro storico. Il Castello e il Boscone della Mesola.
Ma ciò ci porta verso il prossimo approfondimento: Ferrara e l’acqua.
L’incontro tra i due gameti, l’ovocita e lo spermatozoo: è uno spettacolo esplosivo, un evento straordinario. Di lì nasce la vita, un organismo intero, costituito da circa centomila miliardi di cellule con proprietà diversissime.
Ma come è possibile! Che ogni embrione dia origine a un intero corpo, a una testa con due occhi dello stesso colore, due labbra simmetriche o due mani, ciascuna con le cinque dita ben proporzionate, dal pollice al mignolo, e con la loro unghia, quasi invisibile nel bambino appena nato. Che ogni embrione dia origine a una retina, la cui struttura è un complicatissimo intrico di quasi venti strati di diverse cellule nervose, i cui filamenti confluiscono nel nervo ottico (estroflessione Diencefalica). Per non parlare della struttura cerebrale: la sintesi del pensiero e della coscienza.
Quando lo spermatozoo ‘vincente’ fra milioni di contendenti riesce a penetrare nell’ovocita, inizia il processo della fecondazione. Entro poche ore i due gameti si fondono e diventano un’unica cellula, detta zigote (microscopica cellula). Dopo un giorno lo zigote si suddivide in due, poi in quattro, poi otto cellule e si forma un ammasso simile a una mora, detto appunto morula. Le otto cellule della morula sono identiche e ciascuna sarebbe in grado di dare origine a un organismo completo. Tra terzo e quinto giorno la morula si divide in sedici cellule, dando luogo anche a una cavità interna ripiena di liquido, che è detta blastocisti. Dopo il quarto-quinto giorno, nella blastocisti si separa una masserella cellulare interna, distinta dalla rimanente zona periferica che la circonda. La blastocisti è ancora nella tuba e sta per impiantarsi nella mucosa uterina. L’impianto si verifica dopo circa 7 giorni dalla fecondazione. Le cellule centrali della blastocisti, dette embrioblasto, continuano a moltiplicarsi e iniziano a disporsi come un cordone con due estremità, due poli. In questo cordone si evidenziano le prime cellule nervose dell’embrione (all’incirca verso il quattordicesimo giorno).
L’embrione, e poi il feto, immerso nel liquido respira grazie alla placenta materna, che gli fornisce l’ossigeno. Alla quarta settimana di sviluppo si distinguono già un capo, una ‘coda’ e un tronco centrale. Compaiono gli abbozzi del fegato, dei reni, dell’occhio. I futuri arti inferiori e superiori cominciano a evidenziarsi alla fine della quinta settimana, mentre all’interno della testa inizia a prendere forma il cervello. I muscoli iniziano a contrarsi.
L’embrione continua a crescere e si sviluppa nel feto. Nei mesi successivi il feto continua il suo sviluppo fino, di solito, al nono mese, quando avviene il parto.
Questa è la descrizione biologica di ciò che avviene con la fecondazione.
Tutte le cellule che costituiscono la macchina perfetta, o meglio un sistema perfetto, sono viventi perché sono cariche di elettricità. Da anni si conoscono chiaramente i dati elettrici delle cellule. Quando la cellula è carica elettricamente, si instaura una differenza di potenziale tra l’interno e l’esterno della membrana che la delimita, pari a – 90 millivolt. Quando si scarica, passa da -90 a +20 millivolt. Nel principio fu il neutrone, il protone e l’elettrone… sbucati da nessuno sa dove. Un giorno, per caso, da un’ulteriore combinazione di questi tre piccole cosine è nato…il primo esserino monocellulare.
Dal nulla la vita, dalla materia inerte qualcosa di vivo, da monocellulari diventiamo pluricellulari…pazzesco!
“Vi auguro di non essere mai tranquilli!” (don Luigi Giussani)
Chissà se un ventenne di oggi sa chi era Salvatore Giuliano e a cosa si riferisca il toponimo Portella della Ginestra. Che risposte riceveremmo se chiedessimo a un giovane trentenne chi sono il principe Junio Valerio Borghese e Licio Gelli, il commissario Luigi Calabresi o il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli? E la strategia della tensione o gli anni di piombo?
“Dovete sapere che ci sono due storie: quella ufficiale, piena di menzogne, che insegnano a scuola, la storia ad usum delphini; e poi c’è la storia segreta, quella che contiene le vere cause degli avvenimenti, una storia ignominiosa”, questa frase da “Le illusioni perdute” di Honoré de Balzac ci introduce a “La Repubblica in ostaggio. Diario italiano di politica criminale (1943-1993)” (Castelvecchi, 2016) e ci fa subito capire che bisogna prepararsi a rimestare nell’ambiguità, non ci saranno bianco e nero, ma tanto grigio e tanto rosso: il grigio dei non detto, dei misteri e dei segreti di Stato e il rosso delle stragi che si susseguono nella nostra storia repubblicana.
È strano pensare a quanto la storia segreta italiana sia ripercorribile attraverso una geografia, che è sotto i nostri occhi, ma che bisogna appunto saper leggere per ritrovare vicende e personaggi e trasformarla in una geografia della memoria: da Portella della Ginestra a Piazza Fontana a Piazza della Loggia fino a via Caetani, alla stazione di Bologna e a via dei Georgofili. A farci da guida lungo questo percorso a ritroso nel tempo e nei luoghi della storia della nostra Repubblica attraverso la lente dell’eversione è il giornalista Gianni Flamini, classe 1934, “uno dei più profondi conoscitori della stagione dello stragismo italiano” e non solo, come lo ha definito Gian Pietro Testa in apertura della presentazione del volume mercoledì alla libreria Ibs-Il Libraccio. Insieme a lui lo stesso Flamini e Leonardo Grassi, presidente di sezione della Corte d’Assise d’appello del tribunale di Bologna che in passato si è occupato, fra gli altri, dei casi giudiziari relativi alle stragi dell’Italicus e della stazione di Bologna.
Per Testa – a sua volta giornalista non nuovo a queste vicende, negli anni Settanta inviato speciale del Giorno e poi all’Unità – “La Repubblica in ostaggio” è “la nostra storia, quello che abbiamo fatto e non abbiamo fatto dal 1943 in avanti”.
Il Diario è una descrizione cronologicamente ordinata degli episodi di criminalità politica – attentati, stragi, progetti eversivi – ma anche episodi politici non criminali registrati in quanto ricadenti nelle attività volte a condizionare la democrazia: una ricostruzione degli anni della Repubblica richiamandone i momenti di aggressione, di mortificazione del diritto e della sicurezza pubblica, di fraudolenta collusione con ambienti e comportamenti politici. Fonti di Flamini: gli atti giudiziari, i materiali accumulati da alcune Commissioni parlamentari d’inchiesta e le cronache dei giornali.
Secondo il giudice Grassi in queste poco meno che 100 pagine c’è il “distillato di un lavoro che copre forse la vita intera”, si affronta un tema costante mente eluso e che spesso non trova spazio anche negli ambienti accademici: “di fronte all’evidenza di un colpo di Stato come in Cile o in Grecia, non si può sfuggire, il negazionismo diventa difficile. Qui da noi non c’è stato un vero e proprio colpo di Stato, a causa della nostra posizione geografica, ma una guerra a bassa intensità, come viene definita nei manuali dei servizi statunitensi”.
Dallo sbarco degli alleati in una Sicilia dominata da fermenti separatisti all’utilizzo della mafia in chiave anticomunista, dalla loggia massonica P2 con il suo “Piano di Rinascita Democratica” al terrorismo nero e rosso, all’attentato di via dei Georgofili. Sono tutti fili che intrecciandosi, secondo Flamini, vanno a comporre un unico disegno organico: “destabilizzare ai fini di stabilizzare”. Proprio qui secondo il giornalista sta l’errore principale: “il terrorismo è la prosecuzione della politica con altri mezzi, è uno strumento della strategia politica. Perciò se non si neutralizza il disegno politico non si può sconfiggere il terrorismo”. Quello che è mancato e che ancora manca a suo parere è un’analisi d’insieme: “il terrorismo non è mai stato affrontato in modo organico, come per esempio è stato fatto da Falcone con la mafia” e dunque non si è mai trovata la ‘cupola’ della strategia eversiva in Italia.
Nemmeno “La Repubblica in ostaggio”, per ammissione dello stesso Flamini, ha la pretesa di colmare questa lacuna, quello che fa è descrivere e collegare fra loro 70 anni di episodi eversivi nel nostro paese: “70 anni sono tre generazioni – ha sottolineato l’autore – e il ricordo di questi eventi è esposto al rischio di ossidarsi e diventare un unico nebuloso conglomerato” difficilmente decifrabile soprattutto dai più giovani.
Alla fine dell’incontro di mercoledì a preoccupare non è solo il fatto che Flamini e il giudice Grassi temono rispettivamente che la “storia della politica criminale di questo paese non è ancora finita” e che “ora i metodi sono più raffinati e meno cruenti, ma lo scopo è sempre mantenere il potere nelle mani di una ristretta oligarchia”, oppure alcune inquietanti somiglianze fra il Piano di rinascita democratica di Gelli e alcuni must della politica italiana dell’ultimo periodo, come “la contrazione dei diritti sindacali, l’innalzamento dell’età pensionabile, la separazione delle carriere dei magistrati”. Preoccupante è anche e, forse soprattutto, la mancanza di ventenni e trentenni fra il pubblico: la storia non è una serie di date che si impara a memoria sui banchi di scuola, la storia è l’insieme delle storie, un susseguirsi di persone, un intreccio di cause ed effetti che bisogna leggere e interpretare se si vuole capire il presente in cui si vive e agire per cambiarlo.