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PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (prima tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

I

si vede
aprirsi fiorita
oltre il nugolo alpino
una fantasia
non cartesiana
del cielo

II

una terra di rugiade
sole e mare
una terra di sabbia e luce
calda terra
di bruma pensante
l’Italia!

III

dorsali alberate
gestualità misteriose
etrusche tracce

IV

la pace
tra i cipressi
da intingere
calamai di stagioni
e piogge di luce

V

Italia
patrimonio
del Mondo
dai pini lunghissimi
l’ombra liquida
a spiagge
infinite

VI

la vecchiezza moderna
degli ulivi
la decrepita lungimiranza
degli Appennini scavati

VII

i calanchi erosi
la tempra fragile
di una terra eterna
saldata al vento
istoriale

VIII

una terra cara
alle angurie dei tramonti
sulle facce intagliate
dei vecchi

IX

o nude colline
mammelle
di un’Italia in fasce
e remota di vita
le arti gemelle
ti accarezzano
infine

vai alla seconda tappa

Giustizia Sociale e Libertà: gli ingredienti per una Europa Unita.
Storia di un progetto lasciato a metà.

di Grazia Baroni

Il progetto politico di costruire una Europa come uno stato democratico unico, con un’unica Costituzione, è la cosa più sensata per dare continuità storica ai popoli che in essa vivono e che hanno fatto la storia di questo continente. Il progetto di costruzione dell’Europa è il passaggio naturale per far sì che le storie e la cultura del popolo europeo siano contemporanee al tempo storico attuale, come nel passato hanno determinato il processo di sviluppo della civiltà fino ai giorni nostri.

La storia dell’Europa comincia con il mito che ci viene tramandato fin dalla civiltà Cretese e Micenea; il mito di Europa e Zeus.
‘Europa’ nasce da un mito pre-storico, dal quale prende origine e che dà profondità e senso alla sua storia. Nel mito di Europa, sono sintetizzate tutte le caratteristiche dei popoli europei.
Figlia di Agenore, nasce da nobile stirpe fenicia, quindi di fatto ha origini nel medio-oriente, e vive di agricoltura e di allevamento. Giove se ne innamora e, sotto forma di toro, la rapisce con l’aiuto di Ermes e la porta a Creta. Il mito raffigura quindi lo spostamento del popolo dalla terra di Oriente alla terra di Occidente, che prende così il nome dalla fanciulla rapita.

Ancora oggi alcuni simboli sono presenti nelle tradizioni di alcuni popoli, come la Corrida in Spagna e la Corsa Camarghese in Francia. La rappresentazione paleolitica del toro di Altamira, quindi, accomuna nel mito i popoli europei che in questa rappresentazione del sacro si riconoscono.
Con la civiltà mediterranea abbiamo dato origine alla cultura umanistica, che è quella che pone l’uomo al centro di qualsiasi progetto di sviluppo e convivenza, inventando anche la forma di governo democratico. Questo rende possibile la pace come condizione necessaria alle civiltà per svilupparsi e guardare al futuro, incontrando altre realtà senza entrare in conflitto.

Come mai non riusciamo a costruire questo progetto unitario, pur avendo le stesse radici tra lingua, usanze e storia?
La più grande forza dell’Europa è sempre stata quella di creare legami tra popoli entro un progetto comune di giustizia e convivenza pacifica.
Le diversità non sono radicali: la nostra cultura, oltre che nel mito, ha radici nella continua ricerca della qualità umana e della sua realizzazione storica testimoniata in maniera evidente nelle cattedrali gotiche, originali delle terre nordiche francesi, si sono irradiate in tutto il continente e sono testimonianza fortissima della cultura europea come concezione comune. Infatti, esse rappresentano non solo un’alta professionalità architettonica e creativa, ma soprattutto descrivono l’ideale a cui i popoli europei aspirano.

La centralità dell’essere umano nasce in Grecia, si rafforza con il cristianesimo, diventa attraente per tutti i popoli nel XVI secolo con l’Umanesimo. Con l’Illuminismo diventa non solo quel linguaggio e cultura del continente europeo, fino agli Urali, ma si apre a tutta la civiltà umana influenzando il nuovo mondo, America del nord e sud e Canada. Inoltre, l’uso della ragione come qualità umana diventa strumento di sviluppo per altre civiltà come quella indiana e cinese.
La storia insegna che finché i potenti non rinunciano alla loro posizione di privilegio e potere, rifiutando di evolversi verso una civiltà più giusta, perderanno tali poteri per violenza. La storia stessa li travolgerà: l’umanità si evolve necessariamente, il processo storico di umanizzazione non si può fermare e prevede la democrazia, come ricerca del bene comune e quindi della giustizia sociale.

Ne consegue che quanto prima costruiremo l‘Europa democratica tanto prima i conflitti e le tensioni diminuiranno e si riuscirà a intervenire con un rapporto armonico con il nostro pianeta. Il non istituire l’Europa è un comportamento irrazionale e anti-scientifico rispetto a tutte le criticità della realtà attuale, a partire dal cambiamento climatico che sta stravolgendo il globo.

E’ da 3.000 anni che l’Europa attende di essere formata, unificata, di diventare una realtà politica. La spinta storica più recente è stata la seconda guerra mondiale con i suoi 60 milioni di morti, frutto della peggiore manifestazione del subumano, negando ciò che la libertà e il valore del singolo rappresentano. D’altronde il potere di per sé, pretendendo il controllo, nega necessariamente la libertà poiché si serve della paura e della menzogna anziché della comunicazione e la trasparenza di fini e di mezzi.

L’Europa sarebbe il primo progetto politico a mettere al centro del suo programma la giustizia sociale e la libertà personale e comune per dare a tutti la possibilità di vivere ciò che ogni essere nato ha il diritto di vivere.

PERCHE’ LUIGI NON RESTA A CASA COME GLI ALTRI?
Per i barbùn di Ferrara la vita è rimasta uguale a prima.

E già domani, il primo giorno di primavera, ma la scorsa notte a Ferrara è arrivata una nebbia spessa, sgarbata, invincibile. L’altra mattina, invece, già all’alba era tutta un’altra città: vuota, vuotissima, ma con i colori del sole e dei suoi mattoni rossi. Le 8 passate da poco, nessuno per strada, Sto andando in ufficio. In giro è un deserto mentre cammino verso la chiesa di San Francesco. Arriva qualcuno, un uomo, un po’ curvo, ancora giovane. Cammina al rallentatore, ogni tanto si volta indietro, si ferma, fa un tiro a un mozzicone di sigaretta, riprende a camminare. Spinge davanti a sé una carrozzina, di quelle che si usano per portare a spasso i neonati. La carrozzina è piena, stracarica di cose, c’è buttata sopra una trapunta che trabocca dalla carrozzina..

Mi fermo. Lo guardo. Mi avvicino. Ora siamo sul piazzale di San Francesco, lo saluto: “Ciao, io mi chiamo Francesco”. Si ferma e si volta verso di me, mi guarda. Siamo a due metri di distanza. La distanza regolamentare. Insisto: “Scusami, tu come ti chiami?”
Alza gli occhi, mi guarda meglio, per due o tre secondi: “Luigi, mi chiamo.”
– Posso chiederti una cosa Luigi?
Non risponde. Fa un passo, poi si ferma, mi guarda di nuovo. Con più attenzione.
– Volevo chiederti se posso farti una foto con il cellulare?
Silenzio
– Non c’è problema Luigi, se non ti va faccio a meno.
Ci sta pensando..
– Sai, mi serviva una foto, per metterla sul mio giornale. Ma è lo stesso.
– Fammi la foto.
– Grazie Luigi. Ecco, alza un po’ gli occhi. Ecco fatto!
Mi fa un sorriso. Piccolo, storto, ma è un sorriso.
– Non mi hai detto dov’è che vai Luigi?
– Per la strada vado.
Rimetto in tasca il telefono, lo saluto e lo guardo attraversare il piazzale, in diagonale, verso via Savonarola. E’ ora di andare in ufficio.

Non sono soddisfatto della foto. Questione di gusti, io non ho mai voluto farli i reportage, tantomeno  i fotoreportage. Certo, magari prima dello scatto si chiede il permesso, ma alla fine è sempre una rapina, un furto dell’intimità altrui. A volte, in caso di tragedia, è molto peggio, senti svolazzare gli avvoltoi. Non li avete visti i cronisti d’assalto all’opera in queste settimane di Coronavirus?
A Telestense non sono né avvoltoi né corvi, ma vanno di fretta. Sul problema dei Senza Fissa Dimora avevano intervistato Raffaele Rinaldi, direttore della Associazione Viale K. (in tutto, 3 minuti e 23 secondi). Poi c’era stata l’intervista, sempre a Raffaele, del Carlino Ferrara. Avevo letto anche quella, ma mi rimanevano molti dubbi, molte domande in sospeso. E, dopo l’incontro dell’altra mattina, una in particolare, piccola ma urgente: “Dove va a dormire Luigi?”. C’è uno spazio, un posto aperto per lui in una città sempre più blindata? C’è una porta a cui bussare? Un letto in cui dormire? Un luogo sicuro e protetto? Una casa dove ‘restare a casa’? Valgono, o per lui non valgono i  decreti, le ordinanze, gli accorati appelli, i severi divieti?

Mando un messaggio al mio amico Raffaele, non lo vedevo e sentivo da mesi: “Possiamo sentirci una mezzora al telefono? Quando hai un buco libero?”. Non sarà un’intervista. Voglio solo sapere. Capire come vive oggi, come vivrà domani e dopodomani Luigi. E gli altri come lui, i barboni, i clochard (se preferite un nome un po’ romantico), i Senza Fissa Dimora. Quelli che la casa non che l’hanno più, che a casa non ci possono stare nemmeno volendo, che percorrono il giorno sulle strade, che dormono dove capita, dove fa un po’ meno freddo, che si portano appresso una coperta, un berretto di lana e tutte le loro poche proprietà. Sembra che i Senza Fissa Dimora, che facevano questa vita prima della pandemia, oggi – ordinanza dopo ordinanza – continuino a fare la stessa identica vita. Ora che il morbo infuria: “Raffaele, dove va a dormire Luigi?”

Parla Raffaele: “Il nostro dormitorio di via Albertina è arrivato al limite massimo, al tutto esaurito, non c’è più posto. Ieri abbiamo accolto gli ultimi due. E dalle segnalazioni che abbiamo, sono almeno una decina a Ferrara quelli che girano per la città senza un posto dove dormire in sicurezza. Ma sono certamente di più, come fai a contarli? Abbiamo fatto un pubblico appello diretto al Sindaco Fabbri, chiedendogli un intervento immediato, concreto, serve una nuova struttura per il ricovero notturno. Stiamo aspettando una risposta”.
14 operatori e una ventina di volontari di Viale K stanno lavorando ‘senza orario’, in emergenza. E molti ‘ospiti’ danno anche loro una mano, per pulire e sanificare i locali, preparare pasti e panini, rispondere alle chiamate.

“Ci vorrebbero altri locali per accogliere chi è ‘rimasto fuori’ – continua Raffaele Rinaldi – lo abbiamo chiesto al Comune, perché rimanendo in giro si espongono al pericolo, anche alle denunce penali, perché girando senza autorizzazione, sono a tutti gli effetti ‘fuorilegge’. E diventano loro stessi un pericolo per gli altri. E’ un lavoro difficile quello degli operatori e dei volontari: alcuni SFD fanno fatica ad accettare di vivere al chiuso, a cambiare le loro abitudini consolidate”.
Lo stanno chiamando per un’altra emergenza, ma nel salutarlo ho anch’io una richiesta per lui: “Non fidarti troppo delle interviste, delle parole riportate, nemmeno di quelle che scriverò io. Trova un po’ di tempo, scrivi tu questa storia, tu sei bravo a scrivere.”.

Dentro una Grande Guerra (e questa non sarà una guerra lampo, ma una lunga battaglia di trincea) sono i più deboli a rimanere ‘senza ombrello’, esposti ai pericoli, lasciati fuori dalla porta, identificati come il male minore e quindi sacrificati, perché i forti possano prevalere ancora di più.  Non c’entra ovviamente il destino, è invece lo spettacolo di una crudele selezione del tutto artificiale. Il meccanismo data millenni, ma nei momenti di crisi emerge e si impone con più evidenza e cattiveria.

Servirà allora ascoltare El portava i scarp del tennis, una delle canzoni più belle, più dure – più anti-borghesi si diceva una volta – di Enzo Jannacci.

 

COME SE FOSSE NORMALE
Una poesia di Carla Sautto Malfatto per la ‘Giornata internazionale della poesia’

di Carla Sautto Malfatto

COME SE FOSSE NORMALE

Come se fosse normale
ad un metro ti dico coraggio
al telefono resto a parlare
che mi manca il tuo abbraccio
a fare boccacce,
della pazienza e del buon senso,
la ricetta della pizza e del pane
e mi sembra che di pensieri
così accanto
non li abbiamo mai avuti.
Io sono qui
ancora mamma e ancora bambini,
la scoperta che si fa seme
chissà poi se attecchirà
diventerà cosa nuova
o rinsecchirà
nella ripresa normalità
di un campo duro e non arato.
Dipende da noi,
dipende da me e da te
sono nelle tue mani
e tu nelle mie,
basterebbe questo capire
a smuovere la zolla
lo è sempre stato
dimenticato,
il meglio e il peggio di noi
ora sotto il sole
che resta sospeso
anche di notte
in un afflato di domani.
E le mani sono piene
di baci lanciati.
Già si chiede
di non dimenticare.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)

IL TEMPO DEL SILENZIO
(ancora da Brescia)

Chi si aggira in questi giorni per i paesi e le città del Nord Italia scopre l’intensità del silenzio. Il Covid-19, che costringe tutti a casa, ha svuotato i normali luoghi di socialità. Centri ricreativi, sportivi, cultuali, religiosi completamente vuoti e da oggi chiuse anche quasi tutte le fabbriche. Le scuole sono chiuse da settimane e i ragazzi tutti a casa.
Spazi aperti privi di rumore dilatano l’impressione di vuoto e indeterminatezza, e con il loro nuovo status suggeriscono profonde riflessioni.
Ci sono molte silenzi che si addensano in quelle strade vuote.
Il silenzio di chi ha perso un familiare senza aspettarselo. A volte senza nemmeno capire cosa stesse succedendo. E’ un silenzio doloroso che non trova consolazione immediata ma che anela a una rivalsa nel tempo.
Il silenzio di chi è ammalato e spera di guarire. Per molte persone sarà davvero così e questa esperienza diventerà un racconto ammantato da quella struggente coperta che avvolge i ricordi e li trasforma in storie che qualcuno ricorderà.
Il silenzio di chi ha improvvisamente smesso di lavorare e non riesce a credere che quello che sta succedendo è vero, più vero della fantascienza, del complottismo, delle illusorie convinzioni di sapere cosa davvero ci toccherà. Bisogna prendere atto che nessuno sa cosa succederà e questo annienta molta presunzione e apre le porte all’indeterminatezza e al conseguente timore.
Si respira la sorpresa di chi credeva di conoscere il silenzio e improvvisamente scopre che il silenzio personale è diverso da quello collettivo. Anche qui si svela una presunzione. Quella di pensare che l’esplorazione del silenzio personale esaurisca la possibile esperienza in questo senso. Non è così. Il silenzio di tanti, non è il silenzio di uno solo.
Attraverso il silenzio si riscoprono strade e questa è una risorsa, comunque.

C’è un silenzio che permette di ripensare a ciò che si è fatto e a ciò che si stava facendo e che riverbera come alcune strade intraprese non siano quelle buone. Suggerisce che, se mai ci sarà la possibilità, sarà il caso di tornare indietro, di andare verso ciò che è autentico, ciò che da valore all’esistere, ciò che fa sentire più vivi. Diventa fondamentale riscoprire ciò da cui proviene l’amore.
C’è un silenzio che ti permette di scavare dentro te stesso alla ricerca dei tuoi pensieri poco mediati dalle convenzioni sociali, che ti ricopre affascinato da ciò che sembra un sentire rigoroso e un procedere intellettuale corretto e progressivo. Un procedere non lineare ma circolare dove chi è in pista ritrova un senso profondo dell’esistere.
C’è un silenzio di chi aveva già sofferto tanto e nel vedere l’attuale sofferenza intorno a lui si affranca da un senso di ingiustizia che lo ha annientato a lungo e ritrova improvvisamente la vita. In una dimensione di sofferenza che non è più individuale ma corale si riscopre una vera parità che coglie e ricostituisce gli aspetti profondi dell’essere. Lo stupore della vita è la sua esistenza, è il ritrovare soddisfazione profonda nell’essere persone vive. Tutto ciò è lontanissimo dal consumismo, dai soldi, dalla finanza, dalla dicotomia stato-mercato che non è mai esistita.
C’è il silenzio di una collettività che aspetta l’arcobaleno e mentre aspetta ritrova l’amicizia come valore, la solidarietà come scopo, la sopravvivenza della specie come unico anelito esistenziale.
Il silenzio permette di riscoprire la propria anima e di connettere il proprio vuoto con quello degli altri, ma anche il proprio “sentire” con quello del prossimo.

Non sembrerebbe possibile ma è esattamente così, il silenzio è uno dei maggiori tramiti dove l’esperienza soggettiva diventa esperienza collettiva. E’ come se il silenzio di tutti ampliasse la possibilità di trovare strade nuove per ciascuno. Il silenzio di tutti amplifica il silenzio di uno e gli permette di trovare nuove strade, gli permette di scavare dentro se stesso alla ricerca di una nuova verità che è sua ma anche degli altri, che diventa forte della concomitanza e prossimità dei tanti silenti.
Il silenzio grida forte come una frana, come un tornado in avvicinamento, come il terremoto. E’ una strada per riscoprire ciò che di se stessi e degli altri veramente conta. Il silenzio cerca l’essenziale e in questa sua ricerca è feroce. Una impresa al limite come la scalata di una grande cima, come un’immersione in un fondale profondo, come il troppo freddo, come il troppo caldo e come l’esperienza del deserto che di silenzio si nutre e compiace.

Le grandi passioni si nutrono di silenzio e non di rumore, i sentimenti profondi si nutrono della sospensione del rumore come se questa fosse una linfa vitale che porta forza. Il silenzio fa pulizia tra ciò che è profondo e ciò che solo lo sembra.
Ho ripensato all’amore, a quella passione profonda che diventa desiderio di bene prima individuale e poi universale. A quel sentire che travolge tutto e che stupisce tanto per la sua stessa esistenza e, subito dopo, per la suo voglia illimitata di crescere. Quel sentire propulsivo come l’inizio della vita, come l’eros, come il cammino.
Ciò che noi possiamo trovare nel silenzio è la differenza che esiste tra il poco che nutre la vita ed il tanto che la avvilisce. L’attuale esperienza di silenzio può essere per tanti una strada tortuosa di rinascita, di riscoperta di ciò che è umanamente vero, di ciò che conta almeno per un po’, per quel che potremo vivere.
Immersa nel silenzio delle nostre città del nord, riesco a pensare ai colori del sole e del mare, alle albe e ai tramonti, alla musica, ai piedi che scricchiolano sulle foglie secche e a tutte le volte che ho desiderato qualcuno che non c’era. Quando avrei tanto voluto una sua parola e non ho potuto che respirare il suo silenzio amplificato dal mio.
Immersa nel silenzio delle città del nord ho capito che ci sono silenzi che decidono della vita, del futuro, dell’amore e della sua fine.
Il silenzio è come uno specchio dentro il quale possiamo ritrovare noi stessi oppure perderci definitivamente dentro una verità inutile che qualcuno ha amplificato proprio per noi.

SEMPRE CON ME
Una poesia di Carla Sautto Malfatto dedicata alla Festa del papà

di Carla Sautto Malfatto

SEMPRE CON ME

Il magnifico corpo di mio padre che a passi di danza
si è allungato nella sua vita di molti tramonti
mi spinge con le ginocchia ossute dietro il sedile dell’auto
quando la mia mente è troppo sola.

– Ciao papà, – allora sussurro senza guardare nello specchietto
l’assenza dei suoi occhi indecentemente sinceri
e mentre lo ringrazio della compagnia, mi vergogno
di non riuscire a ricordare il timbro della sua voce.

Nemmeno questo è rimasto di te disperso nel mio sangue,
come il brillio di una meteora confuso, eppure distinguibile
nei suoi picchi e in certe venature di malinconia
che credevo solo mie.

Oggi trasporto te, vedi come sono brava alla guida
di questa esistenza che mi sfianca
ai tornanti, ai semafori sempre rossi,
prima, accelerata e ancora stop, senza un vigile dall’alto
che la faccia scorrere tranquilla alla meta.

Non è quello che volevo, né quello che volevi tu,
e in questo siamo simili e fregati, padre e figlia,
ma almeno il tuo respiro non appanna i vetri
e come il bue del presepe mi riscalda come può.

Guardo fuori dal finestrino la nebbia che scende
e ho sempre più paura all’avvicinarsi del tunnel…

e le tue ginocchia premono più forte dietro la schiena
per dirmi che non mi abbandoni.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)
da ‘Troppe nebbie’, Edizioni Il Saggio, 2019

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Persone di spessore

“E’ uno stratificato, come me”.
“Però a te ci si arriva”.
“È pieno di correnti, limpido a tratti, ma nero per lunghi metri”.
“Si fa attraversare?”
“Da me, sì. Però, proprio come me, a volte spaventa. Perché sai che perdersi può non dipendere da noi”.

Non la sento da qualche giorno B., ma non importa, potremmo riprendere anche ora da quello scambio di messaggi parlando della paura che si provoca negli altri, della confusione tra facilità e fatica nell’arrivare fino in fondo a qualcuno, quando sembra di esserci finalmente e un attimo dopo di non esserci più.
B. dice di avere vicino un uomo stratificato, anche lei lo è: materia che si poggia su materia e fa spessore, lì in mezzo ci puoi trovare tutte le domande del mondo e qualche tentativo di risposta. Penso che sia un bene sommare questi strati e le faccio l’esempio di chi non ne ha proprio, quelli sottili sottili, lamiere taglienti che entrambe abbiamo conosciuto.
Poi la paura, che B. usa in maniera causativa, come lui. In effetti persone così, possono intimorire perché da loro qualcosa arriva. Una rarità, ormai. Più facile lasciare cadere, non rispondere, annacquare. Loro, gli stratificati, invece li trovi sempre, anche quando percorrono quei lunghi metri neri.
Però, cara B., non devi pensare che perdersi possa anche non dipendere da noi, non più. È stato così, è vero. Ma i tuoi strati sono aumentati, ti ci puoi accomodare sopra. Sono morbidi.

Che tipo di persone avete incontrato nella vostra vita? Spesse e stratificate come l’uomo di B., oppure esili e volatili?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

DIVIETO DI PASSEGGIATA
quando la libertà viene trattata con leggerezza

Dubito che la passeggiata (scritto proprio così: “la passeggiata”) rientri nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Se ne parlassero i cahiers de doléances e se fosse in qualche modo inclusa (“la passeggiata”) in una bozza preparatoria della Costituzione del 1789 (Termidoro l’avrebbe però senz’altro abolita). Se Rousseau la includesse nel suo Contratto Sociale. Se ne scrisse Adam Smith, o se ne sia occupato Marx, nel Capitale o in qualche nota a margine dei suoi Grundrisse. Se, infine, i nostri Padri Costituenti (non ho sottomano i verbali dei lavori della Assemblea) ne abbiano almeno discusso, per poi decidere di non inserire il termine “passeggiata” nella prima parte della nostra Costituzione Repubblicana.

Niente “passeggiata” nei sacri testi. Sia stata una colpevole dimenticanza o si sia invece preferito utilizzare un sinonimo, una locuzione, un termine correlato, rimane comunque un fatto. E cioè che “la passeggiata” è tutt’altro che una cosa di poco conto (il dolce suono della parola può ingannare). Non è cosa che attiene all’angolino del nostro ‘tempo libero’. Non è solo materia di cattiva e di buonissima letteratura (specialmente quella di lingua tedesca, dal preromanticismo ad oggi, è ricca di romanzi e racconti magnifici di passeggiate e di passeggiatori). La passeggiata è una cosa terribilmente seria. Fondamentale. Vitale. Un altro modo di dire LIBERTA’. Libertà di muoversi. Libertà di usare il nostro corpo. Libertà di andare a cercare qualcosa o qualcuno. Libertà di immergersi nella natura: aria, sole, erba e tutto il resto. Libertà di andare a zonzo, di incamminarsi e decidere ‘cammin facendo’ se fermarsi, girare a sinistra o prendere il sentiero alla nostra destra.

Siamo nel bel mezzo di una tragedia globale. Da un giorno all’altro siamo stati catapultati in un mondo inedito, intrappolati, per necessità, in uno ‘Stato di Eccezione’, dove le libertà individuali e collettive (che credevamo immutabili quanto scontate) sono state progressivamente limitate, dove anche le fondamenta della democrazia traballano (temporaneamente? Speriamo: anche questo dipende da noi). E dove noi stessi abbiamo accettato, responsabilmente, di cedere un bel pezzo della nostra libertà per salvare la salute, la nostra e quella di tutti.

Ci siamo affidati – fidati – alla scienza, ai medici, alle autorità. Però la Libertà che le varie autorità ci tolgono (temporaneamente e con il nostro silenzio assenso) va trattata con il dovuto rispetto. Con i guanti bianchi. Questo, almeno questo, possiamo chiederlo? Possiamo Pretenderlo? Ecco, nel caso del DIVIETO DI PASSEGGIATA , o della CHIUSURA TOTALE e indiscriminata di TUTTI i parchi, i giardini, le aree verdi (è successo a Ferrara e in altre città d’Italia, per fortuna in tante altre no) a me pare che le Autorità non abbiano avuto questo rispetto. Non è solo questione di portare a spasso il cane (eppure anche il diritto degli animali deve valere qualcosa), è che non si può togliere con leggerezza alle persone l’aria, il cielo, la terra, l’erba, gli alberi. La libertà.

Il Presidente Mattarella ci ha invitato alla FIDUCIA e ci ha chiesto SERIETA’. E’ quello che stiamo cercando di fare: di lui, almeno di lui ci fidiamo. Ma al Governo, ai Governatori, ai Prefetti, Ai Sindaci (compreso il Sindaco di Ferrara Alan Fabbri) chiediamo la medesima serietà. Non la leggerezza, non il pressapochismo, non la fretta e l’ansia proibizionista. Devono pensarci 70 volte 7 (come dice il Vangelo, non ricordo dove) prima di toccare la libertà  La passeggiata è uno dei nomi della libertà. Una libertà quotidiana, domestica, piccola piccola. Preziosa come la nostra vita.

PER CERTI VERSI
La nuvola della libertà

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

LA NUVOLA DELLA LIBERTÀ

La nuvola
Sosta sul confine
Dei nostri denti
La nebbia è un mare pallido e grigio
Ovatta che si strappa e di ricuce
Nei nostri ricordi
Io non so più come sei
A tratti mi dispero
Non esce dal mio pugno
Il sugo della nostra vita
A volte sogno
Di infilare
i pantaloni insieme a te
Dopo colazione
Tenere i pigiami
E andare nel mondo svuotato
Che si svela
Alla ricerca
di un ristoro
Di una cena
al lume
di candela

COVID-19 anni
(da una nuova giovane collaboratrice di Ferraraitalia)

Chi avrebbe potuto immaginare, quando il nostro unico problema era il Festival di Sanremo, che
di lì ad un mese il nostro paese si sarebbe trovato in una situazione del genere?
Non mi dilungherò a parlare dell’emergenza sanitaria, troppe piattaforme d’informazione
giocano a fare gli esperti e cadono nel ridicolo: d’altronde, quando si passa dal “disastro
mediatico” di Bugo e Morgan a problemi di minore importanza quali un’epidemia globale, la
confusione è comprensibile..
Quello che mi interessa è parlare di quello che per esperienza so e che sto vivendo.
La quotidianità si ferma e ci si ritrova catapultati in una realtà ovattata, nella quale ci si può
muovere soltanto se dotati di un permesso autocertificato.
Ho visto amici impazzire al pensiero di starsene segregati in casa, immobili, senza contatti,
ma non era proprio la mia generazione, la cosiddetta Generazione Z, figlia della tecnologia,
quella che stava perdendo sempre più il contatto umano?
Quello che riesco a vedere, che sinceramente mi rattrista, è quanto facilmente la gente
riesca ad annoiarsi quando è costretta a fermarsi. Il nostro mondo è veloce, rapido, dinamico, non
abbiamo tempo per pensare, riposarci, prenderci cura di noi stessi e ci lamentiamo, lamentiamo,
lamentiamo.
Quante volte ho sentito la frase “non ho neanche il tempo di respirare”. Eppure, adesso che
questo tempo ci è stato imposto con la forza, qualcosa da fare lo si deve trovare categoricamente,
altrimenti la testa va in giro e impazzisce.
Si trasgredisce, si fa finta che tutto sia normale, si va avanti come se nulla fosse, come se non vedendo il problema, questo non esistesse, o ancora meglio, scomparisse.
Continua a stupirmi l’abilità con la quale la nostra società, senza sforzo alcuno, riesce a creare un
suo ritratto perfetto: la paura non porta più all’azione ma all’ignoranza. Il problema che emerge da
questa situazione di quarantena è la mancanza di iniziativa e la incapacità di gestire il tempo, unite
al rifiuto di guardare in faccia il problema.
“Io so di scienza certa (tutto so della vita, lei lo vede bene) che ciascuno la porta in sé, la peste, e
che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune”, La Peste, Albert Camus. In quest’opera,la Peste, l’epidemia per eccellenza, la piaga che ha colpito l’umanità per secoli sparendo e ricomparendo più volte, non è altro che una metafora della Seconda Guerra mondiale. La spietatezza, la morte, l’indifferenza.
Al contrario di quella del capolavoro di Camus, la nostra epidemia è inequivocabilmente reale, ma sotto la sua faccia più superficiale, si nasconde una pandemia ben più infima e contagiosa: l’ignoranza. Nessuno al mondo ne è immune, è vero, ma se in questo momento di forzato riposo non possiamo uscire di casa, cerchiamo almeno una uia d’uscita da questa nostra, ormai solida, gabbia intellettuale.
E respiriamo.

Vite di carta /
Quando al mercato incontri Renzo Tramaglino

Vite di carta. Quando al mercato incontri Renzo Tramaglino

Al mercato del mio paese oggi la gente è poca: colpa del vento insolitamente sferzante e fastidioso? Oppure del coronavirus, pronuncio la parola tutta d’un fiato così la esorcizzo.
Fatto sta che i banchi dei venditori, privi di copertura per le intense folate, sembrano un po’ surreali così esposti alla luce e con una mancanza totale di intimità.

Se ne crea sempre, tra acquirente e venditore, nella penombra del tendone, spesso il cliente abituale condivide con chi gli riempie le sporte di frutta e verdura un piccolo lessico famigliare pieno di sottintesi del tipo ”Dammi il solito mezzo chilo”, oppure, dall’altro lato del bancone, “Ho finito quello dell’altra volta, ma questo è ancora più buono”.

Così  incontro meno esseri umani, ma scambio due chiacchiere si può dire con tutti. È così che porto a casa un bel po’ di complimenti. Saranno almeno tre le persone che, non vedendomi da tempo, si deliziano nel trovarmi “sempre uguale”. “Sei già in pensione?”, è la prima domanda, quella rituale che mi inchioda all’età che ho e che mi viene rivolta dai quasi coetanei, quelli che già se la (s)passano a casa dal lavoro. Seguono le precisazioni sulle rispettive date di nascita.

Anche oggi mi sono sentita raccontare  i dettagli dell’altrui pensionamento. Mi è venuta in mente, allora, una delle pagine finali de I promessi sposi, quando il narratore svela che è Renzo la fonte di tutta la storia, che l’ha raccontata in giro a molti e l’ha anche ‘tenuta piuttosto lunga’.

Non è dunque il manoscritto ritrovato del ”buon secentista” la fonte originaria del libro, ma è stato Renzo a raccontare in giro le proprie avventure, “e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più d’una volta”.

E così, come faccio notare agli studenti nel lavoro in classe, eccoci arrivati al penultimo capitolo col suo doppio colpo di scena: da una parte scopriamo il narratore numero uno, Renzo, che scalza lo scrittore anonimo del Seicento (ora al secondo posto) e manda addirittura in terza posizione il nostro narratore, quello che ha avuto a che fare con noi per tutte le pagine del romanzo e che ci ha spesso strizzato l’occhio mentre srotolava la storia facendoci sapere molte più cose rispetto ai personaggi.

”Ma quanti sono in definitiva quelli che hanno raccontato questa storia, profe?”. “Contali, sono tre. Tre che è il numero perfetto ed è un numero altamente simbolico.”.
Secondo colpo di scena del Manzoni: risaliamo alle origini di questo racconto che definiamo romanzo e ci accorgiamo che sono le stesse dell’epica: come nel racconto epico, anche qui avviene il passaggio dalla oralità alla scrittura. Ancora, possiamo spingerci a paragonare Renzo agli aedi che nelle corti dei re andavano narrando  le imprese degli antichi eroi greci, e analogamente mettere Manzoni nei panni di Omero che nell’VIII secolo a.C. ha fissato per sempre quei racconti con la parola scritta. Che potenza ha la scrittura!

Ah, stavo dicendo che la mia ultima interlocutrice la tiene lunga con la storia del suo pensionamento e intanto la mia mente ha cercato rifugio in una maliziosa analogia con i racconti di Renzo. E allora riprendo contatto con questa signora dalla voce squillante nel momento in cui ha finito di narrare le sue vicende e si è messa a vaticinare sul mio delizioso futuro di pensionata, quando toccherà anche a me. E non manca molto.

Intanto, qualche tempo ancora ce l’ho per essere ‘sempre uguale’, per continuare ad insegnare la letteratura italiana. Mentre cammino verso casa, decido di approfittarne: il “non cambi mai” che mi è stato detto prima sprigiona dentro di me una seconda analogia tentatrice. Mentre apro la porta di casa il cuore mi si apre alla speranza che anche nel mio studio ci sia una foto (grandi ritratti alla parete non ne ho) in cui si siano riversate tutte le rughe del mio viso, tutte le pieghe del collo…

Come ne Il Ritratto di Dorian Gray, dove Oscar Wilde vede la bellezza come “la meraviglia delle meraviglie”. La giovinezza di Dorian è il bene più prezioso da preservare: è il suo ritratto a farsi vecchio al posto suo, a riprodurre il passare del tempo e i segni lasciati dal vizio. Lui resta bellissimo ed affascinante per lunghi anni, fino a quando si sente estenuato da una vita dedita ai piaceri e nel disperato tentativo di ‘diventare buono’ uccide il proprio ripugnante ritratto. La fine è nota e comunque non va svelata per omertà verso gli altri lettori.

Arriviamo alla fine anche del mio racconto, al quale manca la suspense del Dorian Gray, e meno male perché alla mia foto devo dare solo una controllata, senza bilanci così funesti sul mio vissuto. Alla prima occhiata non mi sfugge che la mia figura di ventenne vestita di rosso è rimasta intatta. Ok, sono tornata di nuovo in situazione.
Mentre mi sfilo i guanti e ripongo le buste della spesa, penso a Renzo. È pur vero che con lui gli umili hanno fatto il loro ingresso trionfale nella narrativa ottocentesca, ma non esageriamo.

Quanto a Dorian, ho poco da spartire con la sua visione della vita, però in tutti questi anni è stato un piacere conoscerlo. Penso al bene che mi ha fatto e mi fa la letteratura. Oggi l’ho rivisitata con leggerezza, ‘affibbiando’ alla conoscente che mi adulava il confronto con Renzo e alla mia persona il sortilegio che lega Dorian al proprio ritratto. Quanto mi sono divertita.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Le storie finite dei lettori

La fine di una storia: i lettori raccontano come hanno gestito l’emergenza, gli epiloghi e l’amicizia con l’ex.

Un anno per decidere

Cara Riccarda, caro Nickname,
ho vissuto quanto avete raccontato e ci sono voluti anni per accettare che non ci fosse più soluzione. Il tempo passava pensando di trovare una soluzione per un cambiamento che era diventato anacronistico. E a prendere ‘la decisione’ ci è voluto un anno.
P.

Cara P.,
cambiamento anacronistico, credo, significhi che la cosa non la vuoi più, nemmeno cambiare. Ma prima di arrivare a dirselo (a noi, all’altro) il tempo può anche mangiarsi moltissimo, in certi casi una vita.
Riccarda

Cara P.,
Un ‘cambiamento anacronistico’ lo intendo come qualcosa che sarebbe dovuto accadere talmente tanto tempo prima, che poi diventa normale non cambiare più. Anche la situazione nuova non è più nuova. Sì, credo possa accadere di tutto in queste situazioni, compreso dilatare il concetto di tempo che passa fino a farlo assomigliare ad un’era.
Nickname

Questione di chimica

Cara Riccarda, caro Nickname,
le storie finiscono per definizione, sopraggiunge la morte di uno dei due oppure finisce l’amore, le persone poi mutano nel tempo. Solo se la coppia sopravvive al cambiamento e la chimica rimane, si va avanti.
C.

Cara C.,
sei già la seconda che parla della potenza del cambiamento che, per me, è sempre benedetto. Non so perché, invece, ci rassicuri così tanto saperci sempre uguali e, quindi, statici. Stiamo lì a guardarci nella nostra controfigura conosciuta temendo possa incresparsi. Ogni volta che ho promosso o subito un cambiamento, ho scoperto cose, soprattutto ne ho lasciate indietro perché davvero non mi servivano più.
Riccarda

Cara C.,
condivido entrambe le tue osservazioni. Aggiungo che la chimica non è un concetto solo sensoriale, ma anche emotivo.
Nickname

L’amico delle ex

Cara Riccarda, caro Nickname,
io devo avere un dono per riuscire a rimanere in amicizia con le mie ex compagne. Ci ho pensato, e seppur fossero donne diverse tra loro per età e cultura, è sempre rimasto un buon rapporto in alcuni casi vera amicizia. Sia quando ho terminato io (più frequente) sia quando ho subito un’eutanasia. Credo sia il modo di salvare il tempo trascorso e il senso positivo del cammino fatto insieme. Tu che ne pensi?
Paolo

Caro Paolo,
credo che tu sia stato più bravo di me. A parte con il padre di mia figlia, la mia pars destruens ha dettato le modalità di chiusura, lo ammetto.
Riccarda

Caro Paolo,
con un pizzico di malizia ti dico che mi piacerebbe parlarci, con le tue ex compagne, per sapere se la pensano tutte come te in relazione a questa “vera amicizia” che rimane. Mi basterebbe la conferma del rispetto e dell’affetto e saresti il mio idolo.
Nickname

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Scuole chiuse e ferme al palo… mentre la Rete corre.

La generazione delle reti, la generazione sempre connessa si trova disorientata ora che le scuole sono chiuse. La scuola rischia di lasciarli a piedi. Non sa come intercettarne l’impegno, come tenere attiva la comunicazione. Eppure pensavamo che al tempo dei Millennials e della Generazione Z qualcosa fosse cambiato.
Ora che studenti e scuole si devono parlare da lontano, diventano buoni anche gli smartphone, banditi in tempi normali dalle aule, dimostrando quanto perniciosa possa essere a volte la stupidità umana.
Oggi, che tra le competenze chiave della cittadinanza è compresa quella digitale, sarebbe stato normale attendersi che la prima a dimostrare di possedere una simile competenza fosse la scuola.
Invece balbetta, ancora una volta si muove a macchie di leopardo con improvvisazioni e approssimazioni.
La sindrome della cattedra, la sindrome trasmissiva continuano ad opporre resistenza alle ICT e ai linguaggi della digitalizzazione, in particolare per supportare nuovi modi di insegnare, di apprendere e di valutare.
Così l’innovazione che sarebbe venuta buona, adesso ci manca.
Non ci è dato di sapere lo stato di salute del Piano Nazionale di Digitalizzazione, promesso nel 2015 dalla legge che ha assunto la vulgata di ‘Buona Scuola’.
Come pure, a cercare nel sito del Miur, non si trova un dato che sia aggiornato sulle ‘Classi 2.0’, i cui studenti non dovrebbero avere difficoltà ad affrontare la chiusura delle scuole, considerato che dispongono di pc personali e la didattica in aula usa quotidianamente i device tecnologici.
Poco si sa, anche consultando il sito dell’Indire, circa lo stato dell’arte della sperimentazione delle Flipped classroom (la classe capovolta). Esperienze in cui l’insegnante. da megafono della trasmissione dei saperi, assume il ruolo di facilitatore degli apprendimenti, sceneggiatore dell’ambiente di apprendimento, regista dell’azione didattica.
E di sceneggiatori e registi della didattica a distanza avremmo bisogno oggi, capaci di scrivere i copioni del sapere in epoca di apprendimento attraverso la rete.
Le responsabilità dei ritardi, delle trascuratezze e delle incompetenze, nel momento del bisogno, assumono il volto tragico degli atti mancati. Le conseguenze dei tagli ai bilanci, di un paese indebitato oltre misura, estendono ora i loro effetti dannosi non solo sulla sanità, ma anche sull’istruzione pubblica.
“Educare digitale” è il rapporto dellAGCOM (Autorità per la Garanzia delle Comunicazioni), uscito un anno fa, a febbraio del 2019. Ci informa che nell’attuazione dell’Agenda Digitale, con cui l’Unione Europea ha fissato gli obiettivi da raggiungere entro il 2020, noi, Italia, ci troviamo al 25esimo posto su 28 paesi.
Il gap digitale che abbiamo accumulato rispetto alle altre nazioni europee avrebbe dovuto imporre un passo più accelerato alle politiche di digitalizzazione, dalla Pubblica Amministrazione, ai servizi, alle scuole. E i tempi che si prospettano non favoriranno certo il recupero che avrebbe dovuto avvenire prima.
Il gap non è solo relativo alle tecnologie digitali, il gap vero è quello sociale, in particolare con i più giovani, per i quali le tecnologie sono parte pervasiva delle loro esperienze di vita quotidiana.
In tutto questo, il sistema scolastico avrebbe dovuto svolgere un ruolo decisivo, invece la chiusura delle scuole trova il nostro sistema formativo impreparato a realizzare un piano di insegnamento a distanza diffuso sull’intero territorio nazionale.
Non sarebbe comunque possibile, almeno per la stragrande maggioranza dei nostri Istituti, perché, oltre agli aspetti tecnici, manca la disponibilità di adeguate competenze a livello didattico e, più in generale, alla diffusione di una cultura orientata al digitale.
Il 97% delle scuole italiane risulta connesso a internet, solo il 3% non lo è, con prevalenza al Sud.
Il problema è che, di quel 97%, solo l’11,2% dispone di una connessione superiore ai 30 Mbps, condizione indispensabile per una didattica digitalizzata, e ancora di più per una didattica a distanza. A questo si deve aggiungere che solo il 17,4% delle famiglie italiane dispone della banda-ultralarga. Gli ostacoli da superare non sono, dunque, solo interni alle scuole, ma anche esterni.
Inoltre, per le scuole la strada è difficoltosa per i costi elevati e per la complessità degli aspetti di natura tecnica. Difficoltà che si moltiplicano là dove ancora persiste una bassa propensione all’uso delle tecnologie digitali a scopi didattici.
La chiusura delle scuole mette il dito nella piaga di un sistema formativo arretrato, non all’altezza della società della conoscenza che corre in rete.

Insegnamento a distanza?
10 piccole certezze contro le ambiguità scolastiche

Ho visto cose che … solo voi insegnanti potreste immaginarvi! Webinar da remoto naufragare al largo di connessioni lente, Conference call balenare nel buio vicino alle porte dell’Auser, Smartphone diventare oggetti ipnotici soprattutto per i bambini al ristorante, Flipped classroom dimenticare chi ha bisogni speciali, LIM infangare la scuola di un LIMO appiccicoso, Bricks lab costruire un muro anziché un ponte, e ho visto praticare e-learning, cioè il tele-apprendimento, da chi ‘te le’ racconta e poi ‘te le’ vuole vendere.

E tutti questi strumenti venir chiamati pomposamente: insegnamento a distanza.

Nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 marzo scorso che contiene le norme per affrontare l’emergenza causata dal virus chiamato ‘corona’, tra le altre cose che riguardano la scuola, c’è scritto: I dirigenti scolastici attivano, per tutta la durata della sospensione delle attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a distanza avuto anche riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità“.

A questo proposito, offro un mio pensiero banale, semplice e addirittura superfluo: attivare le “modalità di didattica a distanza” NON VUOL DIRE insegnare.
Lo scrivo, nonostante la consideri una precisazione non essenziale, perché sento che si sta generando una grossa ambiguità a questo proposito e non sono poche le persone che incorrono in questo equivoco. Ma se può essere normale che persone al di fuori della scuola si confondano, è preoccupante se ciò succeda all’interno della scuola.
Chi pensa che si possa insegnare a distanza forse pensa che il ruolo dei docenti sia quello di ‘travasare’ informazioni, indicazioni e istruzioni; pertanto considera gli studenti come ‘fiaschi vuoti’ da riempire.
Chi pensa questo, crede che l’operazione di ‘imbottigliamento’, essendo un procedimento meccanico, possa essere fatta da chiunque e probabilmente pensa anche che, se si userà un  ‘imbuto’ tecnologico, il materiale versato riempirà meglio il contenitore. Chi pensa così, forse, non è interessato al ‘come’ si impara ad imparare e ad essere, ma al ‘cosa’ si mette dentro per riempire.
Chi la pensa in questo modo, può anche immaginare che i docenti non servano e che la scuola possa aver senso anche senza di loro; di conseguenza può giustificare la loro sostituzione con qualcuno o qualcosa che, usando strumentazioni tecnologiche, sappia adottare modalità di didattica a distanza.

Gli insegnanti possono, ed in questo momento di emergenza devono, attivare le “modalità di didattica a distanza”, ma ciò vuol dire prima di tutto preoccuparsi se la modalità immaginata sia alla portata di tutti. Ad esempio, la comunicazione può avvenire per posta elettronica? Gli studenti hanno un loro indirizzo mail? Saranno tutti in grado di visionare un filmato? E di scaricare un file di grandi dimensioni? Tradotto in pratica, fare didattica a distanza vuol dire chiedere ai bambini, alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze di eseguire esercizi, di scrivere testi, di leggere, di ripassare, di visionare filmati, di ascoltare registrazioni, di assistere a presentazioni multimediali o qualsiasi altra attività che li aiuti a consolidare apprendimenti e a produrre materiale didattico in modo collaborativo, inclusivo, interessante e coinvolgente.

È importante sapere che, facendo ciò, si sta adottando una modalità didattica sicuramente utile in questa situazione,  ma insegnare è un’altra cosa. Nel senso ampio del termine, non vuol dire ‘mettere dentro’ ma ‘portare fuori‘ (è la traduzione dal latino del verbo educare). E questa operazione, lenta, delicata e complessa è fatta di relazioni educative e non solo di relazioni scritte, di interrogativi e non solo di interrogazioni, di domande e non solo di test a risposta multipla, di problemi di convivenza e non solo di problemi di matematica, di verifiche sul campo e non solo di prove di verifica, di azioni e non solo di spiegazioni, di volti e non solo di voti, di intese e non solo di protocolli d’intesa, di progetti di vita e non solo di progetti integrativi, di programmi per il futuro e non solo di Programmi Operativi Nazionali.

Nell’insegnamento la componente relazionale è indispensabile, come pure è fondamentale che sia caratterizzata da una presenza fatta di sorrisi incoraggianti, di sguardi accoglienti, di ascolto attivo, di toni convincenti, di battute sdrammatizzanti, di posture rassicuranti, di atteggiamenti coerenti. A volte, la convinzione di essere insegnanti all’avanguardia, perché si usano strumenti tecnologicamente avanzati, porta ad essere abbagliati, a confondere l’attivazione della didattica a distanza con il processo di insegnamento.
In questa strana situazione di chiusura delle scuole, è importante aver chiara questa distinzione, sia per non deludere certe aspettative degli studenti e delle famiglie, che per mantenere aperto un canale di comunicazione efficace. In un momento simile, io penso che il primo aspetto da curare con molta attenzione debba essere la comunicazione, sia verso le famiglie che verso gli alunni; non solo per cercare di far sentire la propria vicinanza, ma per condividere un momento difficile tenendosi stretti, per tentare di sentirsi comunità anche in queste occasioni.

Si può comunicare con gli studenti per spiegare cosa sta succedendo, per dare un nome alle emozioni che si provano, per raccontare e raccontarsi, per suggerire attività, per immaginare ed organizzare il rientro ma, ancor prima, per proporre modalità di comunicazione adatte al contesto e alla portata di tutti.
Si può scrivere alle famiglie per spiegare ciò che gli insegnanti sono in grado di fare in questa situazione ed il tipo di aiuto da casa di cui avrebbero bisogno.

Un altro elemento importante da valutare, da parte degli insegnanti, è l’illusione di poter normalizzare una situazione che normale non è. In questa circostanza del tutto imprevista, concordo con il sociologo Edgard Morin quando scrive che ci sarebbe bisogno di “Imparare a navigare in un oceano di incertezze fra alcuni arcipelaghi di certezze“.

Nel mio piccolo, fra le molte incertezze di questo periodo, io individuo queste dieci certezze:

1) la scuola può esistere solo se ci sono gli alunni, gli insegnanti e il personale;

2) la scuola è una parte importante della nostra vita;

3) la scuola, in questo momento, manca a tutti;

4) tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri;

5) insieme si impara meglio;

6) il confronto arricchisce chi lo pratica;

7) il valore della diversità può nascere solo dal confronto;

8) le modalità di didattica a distanza sono più efficaci se sono coinvolgenti;

9) si può imparare anche confrontandosi con l’emergenza;

10) l’emergenza si può affrontare e superare insieme, tenendosi stretti.

Cari colleghi, cari studenti, cari genitori, pur non essendo marinai, ora sta a noi scegliere come navigare: è normale essere spaventati da questo oceano di incertezze; però sappiamo anche quali sono e dove sono i nostri arcipelaghi di certezze – “che, ovviamente, potranno essere diversi dai miei” – e soprattutto, conoscendo la differenza fra insegnamento e modalità di didattica a distanza, possiamo sfruttare le seconde cercando di non dimenticare l’energia relazionale determinante che, anche in una situazione come questa e con i limiti del caso, potrà accompagnarle per far sentire ciascuno ancora parte di una piccola comunità.

Non siamo esperti navigatori ma, in attesa che questo momento passi e che le scuole riaprano, dobbiamo scegliere su quale imbarcazione salire.
Possiamo contare su un’ulteriore certezza: l’energia creativa, le idee, le proposte di tutti i nostri compagni di viaggio, indipendentemente da quale età essi abbiano, sono determinanti per rafforzarci a vicenda senza lasciare indietro nessuno.

Concludendo la metafora marinara, allo stesso modo di padre e figlio nel film Blow [messaggio del padre] io dico: “Che tu possa avere sempre il vento in poppa, che il sole ti risplenda in viso e che il vento del destino ti porti in alto a danzare con le stelle”.

 

l’inconsapevole leggerezza dell’essere… italiani

Stazioni sciistiche frequentate all’inverosimile, neanche fosse la pausa natalizia; movida sui navigli, sui litorali tirrenici e adriatici; picnic fuori porta e street food per le vie mertropolitane del gusto; gruppi e compagnie che popolano i plaid distesi sui prati, parchi stipati di festanti bambini; assalti in massa a supermercati e treni. E’ l’immagine di questo ultimi fine settimana, di questi ultimi giorni: così affollati, straripanti di vitalità, spostamenti, aggregazioni.
Una popolazione in fuga dal proprio abitato quotidiano perché l’energia degli uni accresce quella degli altri, e restare insieme riduce la percezione del pericolo, se distribuita su tutti.

Ci si convince che l’uno non rischia più dell’altro e se lo fa l’altro lo posso fare anch’io. Un movimento unitario che serve alla salvezza di tutti – si pensa – l’esatto contrario di ciò che la realtà attuale richiederebbe.
E qualsiasi considerazione, dimostrazione scientifica, ragionamento accreditato, suggerimento, restrizione normativa che turbi l’andamento di questo esodo, genera panico. Scriveva Elias Canetti in Massa e potere: “Nulla l’uomo teme più che essere toccato dall’ignoto”. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo.
Dunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere dal timore di essere toccato. Non si bada più a chi ‘ci sta addosso” perché siamo un corpo unico dove le differenze di prima si annullano davanti alla minaccia comune. Non esiste più un ‘contro gli altri’ ma ‘insieme agli altri’, anche sotto il profilo negativo, laddove invece ci sarebbe necessità di non avvicinare, di porre distanza, di isolare per il bene comune. Si vive tutti nell’interminabile uguale attesa e speranza dove non esistono più i vincoli di prima.

Questa corsa all’evasione in preda al desiderio di conquistare, insieme, spazi di leggerezza e spensieratezza, fa pensare al racconto di Edgar Alla Poe del 1842, la maschera rossa’ i cui protagonisti sono il principe Prospero e i suoi cortigiani, un migliaio di dame e cavalieri che egli convoca in una delle sue magnificenti abbazie fortificate per creare un clima di gaiezza, edonismo e sicurezza, lontani dalla peste che imperversava fuori. Buffoni, ballerine, musicisti allietano i presenti, immersi nella totale bellezza dei saloni, degli addobbi e delle prelibatezze. Nel corso del grande ballo mascherato indetto dal principe, scopriranno la presenza di una figura misteriosa e spettrale con mantello, sotto il quale non esiste nessuna forma tangibile, e che al rintocco della mezzanotte decreterà la fine di tutti. La fuga dalla realtà e l’abbandonarsi alla inconsapevole leggerezza non erano serviti a nulla.

Non sentiamoci invulnerabili e riappropriamoci della consapevolezza, traendo energia da una coesione fatta di buonsenso e volontà di percorrere insieme la direzione giusta, fatta anche di sacrificio e abbandono delle modalità di convivenza del ‘prima’, accompagnati da un pensiero di speranza che José Saramago suggerisce nel suo romanzo Cecità: “ Un commentatore televisivo ebbe l’ingegnosità di trovare la metafora giusta quando paragonò l’epidemia, o quello che fosse, a una freccia scagliata verso l’alto, che, nel raggiungere il culmine dell’ascensione, si mantiene per un momento come sospesa, e poi comincia a descrivere l’obbligatoria curva discendente che, a Dio piacendo… poi ci penserà la gravità ad accelerare fino alla scomparsa del terribile incubo che ci tormenta.”

Da martedì 10 marzo nelle scuole emiliane si potrà fare lezione a distanza:
un servizio gratuito di Google e Cisco

Da: Regione Emilia Romagna.

Forniti a studenti, insegnanti e genitori servizi on line e piattaforme indispensabili per proseguire lezioni e incontri nel periodo di sospensione dell’attività scolastica

Bologna – Più e-learning nelle scuole dell’Emilia-Romagna. In queste settimane di forzata sospensione delle lezioni a causa all’emergenza coronavirus, la modalità di apprendimento e-learning rappresenta un’opportunità per mantenere una relazione didattica con la scuola. Una “classe virtuale” in cui ognuno sarà collegato da casa propria.

Gli strumenti a supporto dell’attività a distanza sono forniti da Google e Cisco, due giganti dell’informatica, che grazie a un accordo tra Regione, Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna e Lepida Scpa (la società di gestione della rete a banda larga e dei servizi di connettività delle pubbliche amministrazioni), li metteranno a disposizione gratuitamente, già da martedì 10 marzo, alle istituzioni scolastiche dell’Emilia-Romagna di ogni ordine e grado, statali e paritarie.
I ragazzi potranno inviare video, power point o testi scritti, trovare i compiti assegnati e le correzioni. E gli insegnanti riunirsi in “stanze” virtuali e anche incontrare, sempre on line, i genitori.

“Cerchiamo – spiegano il presidente della Regione Stefano Bonaccini e l’assessore regionale alla Scuola, università, ricerca e agenda digitale Paola Salomoni – di dare supporto alle scuole di tutto il territorio per affrontare questo momento di emergenza che comporta, tra le altre misure, la sospensione delle lezioni per tutti gli studenti dell’Emilia-Romagna”.

“Ci siamo mossi – aggiungono presidente e assessore – assieme all’Ufficio scolastico regionale e a Lepida e in collaborazione con le aziende informatiche, in due direzioni: prima di tutto per mettere tutte le scuole nelle condizioni di poter attivare classi virtuali adeguate, e contemporaneamente dare ai docenti strumenti di formazione per operare sulla piattaforma di e-learning. Un’azione che mira a sostenere la continuità didattica e la partecipazione degli studenti alla comunità scolastica”.

“Le scuole dell’Emilia-Romagna sono al top, a livello nazionale, nell’utilizzo delle tecnologie digitali nella didattica. Lo attesta il rapporto Agicom 2019. L’emergenza coronavirus e la sospensione delle attività didattiche, nelle indubbie difficoltà che pone – precisa il direttore dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari – ci spinge a un’ulteriore accelerazione nelle iniziative. Per questo si è deciso di rendere immediatamente disponibili, sulla base delle proposte pervenute sinora da Google e Cisco e delle ulteriori che eventualmente perverranno, strumenti digitali alle scuole che non ne posseggano. Nel mercato esistono molteplici piattaforme che consentono – con modalità, qualità e costi differenziati – di realizzare attività di didattica a distanza. Non si intende dunque indirizzare le libere scelte tecniche ed economiche delle Istituzioni scolastiche. Ma piuttosto avviare un percorso per l’impiego diffuso di strumenti per la didattica a distanza”.

“In brevissimo tempo abbiamo reso possibile per tutte le scuole dell’Emilia-Romagna l’accesso a servizi gratuiti per svolgere a distanza attività didattica e incontri con insegnanti, rappresentanti e genitori. Ciò – spiega il direttore di Lepida Gianluca Mazzini – è facilitato anche grazie all’infrastruttura a banda ultra larga di Lepida, già disponibile in oltre 1.200 plessi scolastici dell’Emilia-Romagna,che permette agli operatori della scuola di poter accedere con qualità ai servizi digitali. Un’ulteriore conferma dell’importante ruolo che le tecnologie digitali svolgono al servizio di tutta la comunità regionale”.

Come funziona

A partire da martedì 10 marzo sono gratuitamente attivabili, a richiesta, i servizi per attività didattiche a distanza grazie a G Suite for Education, un insieme di strumenti e servizi Google realizzati appositamente per le scuole e per l’istruzione on line e per l’attività di comunicazione a distanza grazie a CISCO WebEx, una piattaforma professionale per la gestione di incontri audio-video con un elevato numero di partecipanti.
L’attività didattica a distanza tramite Google Suite è già attiva in circa 300 delle 535 scuole statali della regione, con tempi di attivazione del servizio mediamente di 4-5 giorni.
Grazie alla collaborazione fra Lepida Scpa, Google Italia e i suoi partner, le scuole della regione possono aderire al servizio compilando i moduli disponibili all’indirizzo https://gsuite.google.com/signup/edu/welcome#0.

In tal modo sarà possibile ottenere l’attivazione della piattaforma in modalità fast track ovvero accelerando la procedura di attivazione.
Per eventuali problemi durante la compilazione del modulo è disponibile un servizio di supporto temporaneo di Lepida contattabile via e-mail all’indirizzo supporto-scuole@lepida.it.

La piattaforma Cisco Webex

Cisco Webex è una piattaforma che permette a più persone di collaborare a distanza in modo semplice e sicuro. Coniuga le funzionalità di audioconference, webconference e videoconference. La piattaforma è disponibile a livello globale e, già oggi, supporta oltre 100 milioni di riunioni al mese.
Webex è una piattaforma sicura – sia sotto il profilo della crittografia dei dati, che della privacy degli utenti – e interoperabile con altri strumenti applicativi e di collaborazione. Consente una gestione amministrativa avanzata di ogni singola scuola.
Con Cisco Webex l’incontro si svolge in una stanza virtuale che fornisce tutti gli strumenti digitali per una collaborazione avanzata tra i partecipanti all’incontro: mostra documenti, applicazioni e contenuti multimediali; gestisce chat con domande e risposte; offre una sorta di “lavagna virtuale”; registra le sessioni e permette di rivederle con un’alta qualità audio-video.
CiscoWebex mette a disposizione delle scuole dell’Emilia-Romagna una ‘stanza’ virtuale per attività organizzative oltre che didattiche di incontro e scambio online e, per le scuole superiori di secondo grado, più stanze per ogni singolo istituto che i docenti possono utilizzare per gestire attività con le classi. La proposta prevede un supporto tecnico a distanza per le scuole che aderiranno. L’Ufficio scolastico regionale raccoglierà le richieste di accesso da parte delle istituzioni scolastiche.

Entrambi i servizi possono essere utilizzati a partire da qualsiasi dispositivo: personal computer, tablet o smartphone, dotato dei sistemi operativi più diffusi (iOS, Android, Windows, macOS). Il supporto relativo a G Suite Education riguarda la fase di avvio della piattaforma, che rimane poi a disposizione della scuola. I servizi Cisco Webex saranno utilizzabili gratuitamente fino a giugno 2020./OC

La rivoluzione di Guido d’Arezzo… O Guido da Pomposa?

Prima di lui il mondo girava in un verso, e dopo di lui quel verso superò se stesso. Il monaco che avrebbe per sempre cambiato il modo di cantare e suonare, inventando la musica moderna, era un italiano che visse a cavallo tra I e II millennio. Possibile che sia nato vicino a Ferrara?

Siamo in pieno Medioevo. La società è intrisa di religiosità e il cristianesimo pervade città e campagne. Molto diffusi sono i centri di spiritualità, dove suore, frati, monache e monaci meditano e si dedicano al territorio. Fra le attività predilette spicca il canto, particolarmente vitale nella liturgia di allora, per il quale è richiesto uno studio importante grazie all’imitazione mnemonica di chi già conosce le melodie. Una notazione musicale esiste, ma si serve di segni posizionati in corrispondenza delle sillabe, senza valore di durata o altezza dei suoni, fungendo così da traccia per il canto. Tali segni, detti neumi, seguono una tipologia definita adiastematica o in campo aperto, e l’apprendimento avviene grazie al monocordo, antico strumento progenitore del più recente clavicordo. Un ragazzo nato sul finire del X secolo, tuttavia, è destinato a scombinare per sempre le carte in tavola. Forse nel 992, forse ad Arezzo, nasce colui che diventerà famoso come Guido d’Arezzo, monaco benedettino, musicista e teorico, tra i più studiati nell’età medievale. Dal 1013 Guido diviene monaco presso l’Abbazia di Pomposa, e durante l’abbaziato di Guido di Pomposa dà il via a un’invenzione senza precedenti, ma già una questione emerge proprio dal suo essersi formato e fatto monaco nella località ferrarese. Per ricostruire una qualsiasi biografia, infatti, il luogo di nascita più naturale, per un novizio, è la zona dove poi viene intrapresa la carriera monastica. Una lettera che Guido scrive a un confratello sembrerebbe confermarlo, eppure è la stessa lettera a contenere un’espressione interpretata come decisiva per la determinazione di Arezzo quale città natale, espressione però riferibile anche semplicemente alla sua dimora abituale. A ogni modo, l’intuizione che si accende nella sua mente è di quelle osteggiate all’inizio ma poi osannate per sempre. Come in casi simili, tutto nasce da un problema: ogni canto, per poter essere eseguito, necessita in maniera incontrovertibile di essere ascoltato dalla viva voce di chi lo conosce, e soprattutto imparato con un notevole sforzo di memoria. Non solo, poiché in questo modo si rischia che ognuno interpreti e personalizzi il canto a proprio piacimento. La questione è dunque pedagogica e la sua soluzione talmente eccezionale che già al tempo Guido viene prontamente convocato dal papa Giovanni XIX, curioso di sapere come sia in grado di ridurre a un anno o due il tirocinio decennale richiesto per formare i cantori ecclesiastici. Il metodo è presto detto: si tratta di un nuovo sistema di notazione ed esecuzione musicale, la solmisazione, che consente la lettura ed esecuzione dei canti a prima vista. La musica compare così scritta su un rigo musicale, composto da un insieme di quattro linee, il tetragramma, antenato del pentagramma di oggi. Le linee appaiono contrassegnate da lettere-chiave che indicano l’intonazione del divenire melodico, servendosi anche di colori. Su questo schema, avviene la rappresentazione di sei suoni ascendenti, e la loro successione è associata per comodità ai versi di un inno liturgico dedicato a San Giovanni: sono così nate in seguito le attuali note musicali. Ma Guido non tradisce mai la sua vocazione pedagogica, che conferma inventando il solfeggio e la mano armonica, un mezzo meccanico che insieme ai suoi vari trattati mitiga la vita degli scolari a lui sottoposti. Il papa non può, di fronte a tale stupore, esimersi dal premiare il monaco con un prestigioso riconoscimento, invitandolo a istruire persino il clero di Roma, nonostante i passati rifiuti dell’ambiente pomposiano dovuti alla inevitabile possibilità per chiunque, ora, di poter imparare l’arte della musica.

Il celebre monaco italiano, di Arezzo o Pomposa, fu il primo a porre a sistema i timidi tentativi di qualche suo predecessore. Diede il via libera alla definizione dei generi e alla conservazione delle opere. Se ancora oggi possiamo suonare Vivaldi o De André, è insomma merito suo.

La clausura e il sogno di una fuga

Svolacchio con la mente ripercorrendo ciò che mi ha maggiormente impressionato in questa clausura fisica che sta diventando mentale suggerita e giustamente imposta da chi ci difende o tenta di difenderci scientificamente dal maledetto morbo o meglio ( senti come fa fino!) vairus. Mi s’invita alla pazienza mentre conto i giorni che mi rimangono prima della chiusura della mostra Canova-Thorvaldsen che voglio e devo assolutamente vedere. La sfida al divieto era stata decisa qualche giorno fa; poi il mio amico, grande critico d’arte, anche lui operando di nascosto alla famiglia prontissima come la mia a dargli l’ostracismo, rinuncia a causa di un leggero raffreddore di cui si è prontamente rimesso (n.b. abita in Veneto vicino a Vicenza….). Ora la scommessa è: riusciranno i nostri eroi a prendere il treno (orrore!!!) in un giorno fausto come il 13 venerdì? Tramiamo il viaggio in segrete telefonate che s’estendono anche alla Svizzera da cui dovrebbe arrivare la comune amica che tuttavia ha forti dubbi di poter essere riammessa nella ‘polita’ terra senza virus. Frattanto, febbrilmente, sposto la data delle vacanze romane offertemi per il mio ormai imminente genetliaco e aiutato dal ‘santo’ Lorenzo, tecnico che andrebbe continuamente tenuto in servizio attivo. Trionfalmente riesco a impossessarmi di due biglietti per la mostra di Raffaello. Lo comunico fremendo di gioia alla mia vicepresidente che mi ride in faccia (ovviamente con la mascherina anche se siamo al telefono!) facendomi notare che, come socio Icomos, avrei avuto diritto al biglietto gratuito. Assumo un tono annoiato e le domando: “Chi avrebbe fatto poi la coda per il biglietto restante, essendo due in famiglia?”, poi, esultando di piacevole nonchalance, le comunico che appena arrivato a Roma sarei andato a cena da Hang Zhou che come si sa è il miglior ristorante cinese d’Italia se non d’Europa. Rullano i tamburi quando poi mi viene comunicato che la mostra su De Pisis sarà trasferita a Palazzo Altemps a Roma qualche tempo prima del soggiorno romano. E mentre mi lancio esibendomi senza pudore in pescheria in un balletto coronarico –un passo avanti e due indietro-decido di adottare come saluto a distanza il gesto immortale di Alberto Sordi non più accompagnato da ‘lavoratoriii’ ma da “coronaaaa”.
In città alla noia greve si aggiunge l’eterno ritorno dei personaggi di cui ormai tacere è bello. Che clangore di piatti rotti fra le parti contendenti! E’ proprio vero. ‘Ferara’ non cambierà mai, non può cambiare. Frattanto con il passo pesante del fato si chiudono tutte le conferenze e le manifestazioni culturali che riempivano il mio carnet. Ultimo di ieri lo spostamento del Convegno internazionale padovano sui giardini fissato il 2 aprile e rimandato al 15 giugno. Rivedo film meravigliosi alla televisione ma ormai sto scivolando verso lidi infrequentabili. Un popolare show mi produce le convulsioni e devo per forza evitarlo; i seriosi dibattiti tra gli intendenti mi producono crisi frequenti di narcolessia o per fare il figo di tripanosomiasi africana essendo quasi tutti dedicati agli effetti del vairus. Mi rimangono le vicende amorose del Cavaliere ma sono ormai troppo ripetitive.
La nonna mi avrebbe detto severamente “Ti annoi? Allora studia!”. Prudentemente i nipoti informati della mia minacciata escursione mi fanno prudenziali telefonate per vedere se sia il caso di mettermi in isolamento. Mi telefona Francesca Cappelletti che mi avverte che se avessi deciso di vedere la mostra di Georges de la Tour a Milano i biglietti omaggio erano alla cassa e questo mi rende orgoglioso perché vengo trattato da pari a pari da una delle maggiori critiche d’arte!
Come finirà???? Non so né voglio saperlo fino al 12 marzo data ultima per comprare il biglietto del treno.
Il mio grato pensiero ora va a Francesca del Libraccio che assieme alle sue meravigliose ragazze mi indicano libri, mi sorridono, rendono ancora la libreria l’unico, vero posto di contrasto al vairus per cui, scritto il mio pezzullo, comincio la lettura del romanzo di Eshkol Nevo, L’ultima intervista. Appunto.

PER CERTI VERSI
L’albo delle fotografie

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

L’ALBO DELLE FOTOGRAFIE

L’albo delle fotografie
Alla ricerca di una mia
coi folti capelli ricci
e un cane chiamato Pelé
Apposta la cercavo per te
Perché non c’eri

Vedere gli avi sbiaditi e rigidi
Altri cari in allegra lontananza
L’arrivo del colore
I figli
Gli animali di generazioni
Ancora i figli
La storia scorre
Come il tempo
Ne ho timore
Non c’è antidoto
Forse solo l’amore

Fa Trombone o fa Trombetta?

“Lei non sa chi sono io!”. Non c’è frase che riassuma meglio i vizi del Belpaese. Siamo cambiati, siamo progrediti, ci siamo evoluti negli ultimi novant’anni? No, siamo ancora lì. Ancora al ‘mascellone autarchico’ di cui scriveva l’ingegner Gadda. Ancora inchiodati alle italiche presunzioni messe alla berlina da Ennio Flaiano. Ancora su quel treno, nello stesso scompartimento occupato da Totò e dall’Onorevole Trombetta.
“Lei non sa chi sono io!” – tuona l’Onorevole Trombetta.
“Fa Trombone o fa Trombetta?” – gli ripete Totò.
Così è risuccesso. Non poteva andare diversamente. Scrivo due articoli, sottovoce, usando tutto il garbo e l’ironia di cui dispongo.Uno dedicato all’Onorevole Vittorio Sgarbi [qui] l’altro al Vicesindaco di Ferrara Nicola Naomo Lodi [qui]. Per poi scoprire che entrambi mi hanno dedicato un video (postato sulla loro pagina Fb) in cui me ne dicono di tutti i colori.
Me lo raccontano gli amici. Alla fine, di malavoglia, i due film d’autore li ho visti anch’io, e stringi stringi, il succo è sempre quello di cui sopra: Lei non sa chi sono io! Io ho fatto questo e quello, sono amico di Tizio e Sempronio, ho scritto cento libri e ne ho letti un milione, sono stato eletto di qua e di là, sono andato in tutte le televisioni, sono apparso alla Madonna (come Carmelo Bene). Mentre chi è, chi sarebbe questo Monini? una mosca, una briciola, un niente. Un ragazzino (magari!). Un signor nessuno.
Tanto che mio figlio, diciott’anni, che lui i video comici non se ne perde uno, mi fa: “Ohi pà, ma se non sei nessuno, perché Sgarbi perde 20 minuti per fare un video su di te?”.
Non saprei. Forse perché Vittorio e Naomo lavorano troppo, sono stressati, sono sotto pressione. O perché sono un po’ permalosi. No no, non è colpa loro, è colpa di quel maledetto istinto atavico (e italico), quella tentazione irresistibile, quel riflesso di Pavlov: “Lei non sa chi sono io!”.
Certo che lo so, ma “fa Trombone o fa Trombetta?”

La sindrome del colibrì:
il virus che ha infettato la politica

So che il direttore di Ferraraitalia ha scritto, giustamente, di non voler prendere parte al diluvio informativo che sta accompagnando questo difficile periodo contrassegnato dal tentativo di contrastare il diffondersi del Coronavirus.
Queste righe non vogliono entrare nel merito delle misure prese da Governo e Regioni colpite: troppo severe o sensate? Non ne sono capace.
Anche perché resta forte il dubbio che molte voci che ora puntano il dito su provvedimenti giudicati eccessivi (finiscono per aggravare una situazione economica già di suo sull’orlo della recessione), siano le stesse a gridare contro le istituzioni colpevoli, in caso contrario, di avere preso sotto gamba il problema.
Sono piuttosto i risvolti politico-istituzionali della vicenda a suscitare qualche impressione. Lombardia e Veneto, si sa, sono le regioni colpite per prime in Italia e con il maggior numero di casi. Dunque, i loro governatori si sono trovati in prima linea a dover far fronte alla diffusione dell’epidemia.
Sapendo come ragiona la politica, almeno dalle nostre parti, è difficile trattenere la sensazione che fin dall’inizio le due terre per antonomasia del buongoverno leghista, abbiano voluto dare conferma della loro esemplare amministrazione con provvedimenti pronti, chiari, decisi, efficienti e senza tentennamenti, per mettere le briglie alla diffusione del virus.
Di fronte a un governo nazionale ormai più simile a un morto che cammina, l’impressione è stata quella di prove tecniche di buongoverno, per dimostrare che… se si andasse al voto, meglio prima che poi, il Paese può essere messo in buone mani, senza altri inquilini coi quali scendere a patti.
Se, e sottolineo se, qualcuno ha fatto questi conti, ha dovuto scontrarsi con una situazione ben più complessa che ha finito per vanificare ogni ipotesi di blitzkrieg.
Non si spiegherebbero altrimenti alcune uscite singolari dei governatori Attilio Fontana (Lombardia) e Luca Zaia (Veneto).
Attilio Fontana, come scrive Marco Damilano (L’Espresso 1 marzo), prima paragona la sua regione alla città cinese di Wuhan, da cui tutto e partito, poi di fronte al pericolo paralisi della potente macchina produttiva lombarda cerca di correggere il tiro. Quando, in seguito, indossa in diretta video la mascherina anticontagio, persino Giorgia Meloni ha commentato che se la poteva risparmiare.
Il secondo, Luca Zaia, si è invece prodotto in un feroce paragone fra le normali condizioni igieniche del popolo veneto e i cinesi: Tutti abbiamo visto che i cinesi mangiano i topi vivi.
Non è stato da meno il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, quando, con un accenno che tutti hanno inteso diretto all’ospedale di Codogno, se l’è presa con alcune falle del sistema sanitario lombardo, notoriamente un modello in cima a tutte le statistiche nazionali.
La scivolata istituzionale ha prontamente provocato la reazione stizzita del governatore Fontana, che gli avrebbe dato del ciarlatano.
Come se non bastasse, mentre le borse perdono punti come la nostra Spal e lo spettro recessione è sempre più una dura realtà, Matteo Salvini, pare con la sponda dell’altro Matteo (Renzi), se ne viene fuori con la proposta di un Governo di Unità Nazionale per gestire meglio la crisi (il come non è dato sapere) e accompagnare il Paese a nuove elezioni.
Nel frattempo Giorgia Meloni, da Lilli Gruber, lamenta la totale assenza dell’Europa sull’emergenza in corso. La sovranista, nazionalista, italianissima leader di FdI chiama Bruxelles a battere un colpo? Per carità, è sacrosanto denunciare l’assenza di linee europee per evitare che si chiudano a capocchia i confini, ma proprio da quel pulpito dobbiamo sentire la predica?
Per inciso, dopo narrazioni martellanti secondo cui ondate di virus sembravano venire dai barconi dei migranti, con misure draconiane sui porti tricolori, ora sono proprio gli italiani (per giunta lombardo-veneti) ad essere rifiutati.
Chissà se il cuore immacolato di Maria, il crocefisso e la Madonna di Medjougorie, se la sono legata al dito?
Tanto per restare in area celeste: facevamo volentieri a meno anche del monito di don Livio Fanzaga di Radio Maria, secondo il quale Corona-virus ricorda la corona del rosario. Per farla breve, l’epidemia sarebbe un ammonimento divino a pregare prima che arrivi l’apocalisse.
Intanto che ciascuno è libero di immaginarselo all’inferno, condannato a trascorrere l’eternità in compagnia degli inventori delle statuette da giardino di Biancaneve e i sette nani e degli infissi in alluminio anodizzato, più acqua e molto meno vin santo nel calice della messa è il consiglio che mi sento di dare, spassionatamente.
Tornando fra i comuni mortali, sembra proprio che alla classe dirigente che ci ritroviamo manchi il senso della prudenza. Un elemento che dovrebbe essere suggerito dal fatto che un’emergenza come questa presenta più incertezze che certezze.
Non si spiega proprio la fiducia ottocentesca con la quale ci si ostina a chiedere risposte alla scienza. L’impressione è che si possono consultare tutti i virologi che si vuole, ma una risposta certa sul Coronavirus al momento non c’è. Ci sono tante risposte, ma non ‘la risposta’.
Dovrebbe essere noto che, dopo la sbornia positivista, la scienza è ricerca, processo, non ‘soluzione’. Dal principio di falsificabilità (Popper), a quello di indeterminazione (Heisemberg) e alla relatività (Einstein), il mondo scientifico nel Novecento si è ritirato dall’illusione apodittica ed è entrato nella dimensione probabilistica e delle ipotesi. Quindi, la scienza può continuare a essere utile sul piano dell’indagine razionale, ma non su quello fideistico-dogmatico della risposta univoca e definitiva.
In secondo luogo, il momento della decisione politica – chi fa cosa – cade su un assetto istituzionale nel quale le competenze, da troppo tempo, sembrano distribuite da un ubriaco.
E’ del Centrosinistra la riforma costituzionale del 2001, che ha finito per creare problemi in ordine alle competenze statali e regionali, con un’area di materie concorrenti fra i due livelli istituzionali, fonte di contenziosi e discussioni che tuttora attendono soluzioni.
E’ ancora del Centrosinistra una riforma costituzionale e istituzionale (peraltro fallita nel 2016), con la quale si è inteso semplificare il quadro istituzionale giudicato troppo complesso, composto da Comuni, Province e Regioni. Il risultato di questa furia riformatrice (della quale, naturalmente, nessuno rivendica la firma autografa), è un nuovo assetto, più semplice (?), composto da Comuni, Unioni di Comuni, Agenzie, Città Metropolitane e Regioni. Come se non bastasse, qualcuno ha pure ipotizzato le Aree Vaste, non si è mai capito se come livello istituzionale o non si sa bene cosa.
Terzo: dopo decenni di decentramento, sussidiarietà verticale e federalismo, il risultato finale è che mai come oggi le risorse, frutto dell’imposizione fiscale, sono centralizzate. Tanto che i sindaci sono come i soldati lasciati in trincea senza armi, munizioni e con le suole delle scarpe di cartone.
E il peggio è che chiunque voglia mettere ordine in questo tessuto istituzionale, pare lo faccia più per essere fotografato con la scopa in mano, piuttosto che concentrare l’attenzione sul pavimento che s’intende pulire. Così, sono più le scorie che si lasciano in giro, in un disordine crescente di compiti e di norme che, come le pezze, sono sempre peggiori del buco.
Come se non bastasse, l’emergenza Coronavirus grava su un sistema sanitario falcidiato da anni di tagli a risorse, strutture e personale. L’esempio degli ospedali Spallanzani e Sacco, nei cui laboratori sono stati isolati i virus per mano di ricercatori precari, è la cifra drammatica di un Paese ingrato, che chiede adesso a questi cervelli superstiti e maltrattati di compiere il miracolo.
Se questa, appena abbozzata, è l’istantanea di un Paese disordinato, sfibrato e bombardato, con quali velleità di protagonismo una classe dirigente può pretendere di governare un’emergenza, immaginando d’intestarsi qualsiasi vittoria?
Non sarebbe meglio, data la situazione, scendere dal pero della presunzione e cercare insieme le risposte migliori – non miracoli – nell’interesse comune?
Batta un colpo se c’è qualcuno disposto ad aiutare l’Italia a uscire dalla sindrome del colibrì: un Paese che spreca la gran parte delle proprie risorse per restare immobile.

Ferrara, 29 febbraio 2020

Gaetano Previati e le sue emozioni: luce e ombra in mostra al Castello Estense

Dal buio alla luce, è un viaggio di emozioni quello che offre la mostra dedicata a “Gaetano Previati. Tra simbolismo e futurismo”, in corso nel Castello estense di Ferrara fino al 7 giugno 2020. L’esposizione di un un’ottantina di opere del pittore ferrarese (1852-1920), schizzi e documenti consente di partire dalle atmosfere fumose, scure e allucinate che rievocano il clima della poesia maledettista per arrivare fino alle visioni ampie e solari, dove la luce spazza via il decadentismo romantico e apre i quadri a un’atmosfera piena d’aria e chiarore.
Sala dopo sala, si percorre il cammino di un grande interprete dell’evoluzione artistica che contraddistingue la fine del 1800 e l’inizio del ‘900, attento a rendere stati d’animo e atmosfere in uno stile tutto personale. Grazie all’uso sapiente della tecnica del divisionismo, traghettata in Italia dall’avvento dell’Impressionismo, Previati assorbe le nuove tendenze artistiche che contraddistinguono il periodo storico in cui vive e le fa sue riuscendo anche ad anticipare quella ricerca di dinamismo, movimento e voglia di uscire dal limite imposto dal quadro che porterà poi alla nascita del Futurismo. Non è un caso, infatti, che la sua arte venga tanto apprezzata dal giovane Umberto Boccioni (1882-1916), esponente di spicco del movimento futurista.

“La ferrovia del Pacifico” di Gaetano Previati, 1914-16

Nato Ferrara il 31 agosto 1852 e morto in Liguria (a Lavagna) il 21 giugno 1920, Previati ventenne si trasferisce a Milano per studiare all’Accademia di belle arti di Brera e qui conosce e frequenta gli ambienti della Scapigliatura, che imprimono nel suo stile un carattere di anticonformismo e ribellione, non estraneo inizialmente anche all’attrazione per la trasgressione e al fascino per l’irregolarità e la perdizione. Il colore nero e le terre scure dominano la tavolozza giovanile di Previati, che realizza opere già molto caratterizzate da un segno originale e dalla capacità di avvolgere lo scenario in un involucro suggestivo e, in questa fase, più fosco. Ecco allora le tele con le trasgressive “Fumatrici di oppio” dipinte dall’artista trentenne (1887), ma anche una “Prima comunione” (1884) assolutamente fuori dai canoni, dove la partecipazione delle ragazzine che si accostano per la prima volta al sacramento eucaristico prende toni esoterici di iniziazione.

“Fumatrice di oppio” di Gaetano Previati, bozzetto, 1887
“Hashish o Fumatrici di oppio”, olio su tela, Galleria di arte moderna di Piacenza, 1887

Il cambiamento di rotta e di toni avviene nella piena maturità, a 37 anni, quando Previati dipinge il quadro “Nel prato” (1889-90), non a caso inizialmente intitolato “Pace”. In una lettera, spedita al fratello proprio durante l’esecuzione di questo olio su tela, è lui stesso a dichiarare: “È il mio primo tentativo della tecnica nuova della spezzatura del colore, una tecnica che dà l’impressione di una maggiore intensità di luce”. In scena – come lui stesso spiega in quella lettera – ci sono “una mamma con due bambini su un praticello smaltato di fresca verzura. Nella composizione c’è qualche tendenza al giapponesismo e un sentimento di quiete e di semplicità che mi pare giustifichi il titolo: Pace”.

“Nel Prato (o Pace)” di Gaetano Previati, 1889-90

L’opera ha molte affinità con la “Promenade” che Claude Monet ha dipinto (1875) e con le successive versioni di “Donna con parasole” che l’artista impressionista francese dipinge oltralpe quasi negli stessi anni (1886). Scena analoga si ritrova anche nell’olio su tavola “Tra le spighe di grano” (1873) di Giuseppe De Nittis che addirittura precede Monet, e che si può vedere nella mostra dedicata a De Nittis [clicca sul link per leggere la recensione della mostra ai Diamanti] in questo stesso periodo a Ferrara fino al 13 aprile 2020 a Palazzo dei Diamanti.

“Tra le spighe di grano” di Giuseppe De Nittis, 1873, in mostra a Palazzo dei Diamanti di Ferrara fino al 13 aprile 2020

“Il colore sulla tela dipinta da Previati – fa notare la curatrice della mostra ferrarese Chiara Vorrasi – è disposto a trattini in modo che produca maggiore luminosità e anche il riferimento al Giapponismo, che è elemento fondamentale per l’Impressionismo, dimostra la consapevolezza del nuovo clima artistico in cui si cala. Attraverso il divisionismo e l’intensificazione luminosa, l’artista individua la possibilità di interagire con l’emotività dello spettatore”. Il traguardo a cui Previati arriva è quello di “acquisire e fare sua la cifra distintiva di una pennellata capace di evocare un sentimento, uno stato d’animo o delle visioni trascendenti”.

La tela “Nel prato” esposta nella mostra ferrarese dedicata a Gaetano Previati (foto GioM)

Significativa in questo senso l’opera “L’assunzione” (1903), esposta nella stessa sala del castello riservata al tema della ‘Suggestione luminosa’: qui la luminescenza sulla tela è ottenuta grazie a una pittura divisionista che riesce a trasmettere una sensazione illuminante con una valenza di forte spiritualità.

“L’assunzione” di Gaetano Previati, 1903, Museo dell Ottocento – Ferrara

Tanta luce ancora in una tela di grandissime dimensioni come “Armonia” (1908) nella sala delle opere dedicate a ‘L’ispirazione musicale’: un olio su tela di oltre 1 metro e mezzo di altezza per più di 4 metri e mezzo di lunghezza, dove la luce imprime un ritmo circolare che si diffonde per tutta l’opera, assimilandola all’onda sonora.

La tela “Armonia” nell’esposizione ferrarese dedicata a Gaetano Previati (foto GioM)

“Luce e musica – spiega la curatrice – sono per l’artista forme vitali che permeano il creato; il colore viene usato come accordo e la linea come melodia. La sua idea è quella di trasmettere una sintesi di tutte le arti con le quali avvolgere lo spettatore”. Vicina a quest’opera è esposta la tela dedicata a “Paolo e Francesca” (1909): oltre due metri e mezzo di altezza per quasi altrettanti di larghezza con una forma d’onda che attraversa tutto il quadro avvolgendo i personaggi in un movimento vorticoso che può far pensare a una danza. “La passione – spiega la Vorrasi – produce un dinamismo potente e dinamico e la stortura verticale fa procedere il vortice all’infinito. Previati qui lavora a fluidificare le forme e a dare densità allo sfondo. Annulla la separazione tra soggetto e sfondo come accademia  in certe opere di Munch e in ‘Acqua mossa’ di Klimt”.

“Paolo e Francesca” di Gaetano Previati, 1909

Un altro elemento che Previati fa suo e che è da ricondurre all’arte giapponese è quello della composizione asimmetrica, innovativa rispetto ai canoni della tradizione accademica, e legato proprio all’arte orientale. Significativo in questo senso un disegno come “Discesa nel Maelström” (1888-90) che illustra l’omonimo racconto di Edgar Allan Poe.

“Discesa nel Maelström” di Gaetano Previati, carboncino su carta, 1888-90

Il taglio inusuale rievoca il motivo dinamico e spiraloide della “Grande onda” di Hokusai e restituisce la sensazione di terrore che coinvolge il protagonista risucchiato verso il basso.

“Ugo dona una rosa a Parisina”, 1901, matita su cartoncino (Bper)
“Il ritorno dalla caccia”, 1901, matita su cartoncino (Bper)
“Morte di Parisina”, 1901, matita su cartoncino (Bper)

Molto interessanti anche i disegni dedicati alla straziante vicenda di Ugo e Parisina, realizzati a matita nera su cartoncino (1901). “Non sono illustrazioni – fa notare la Vorrasi – ma scene concepite per essere proiettate a corredo dell’ascolto della musica e dei testi di un melologo dedicato a questo celebre e tragico amore con testi di Domenico Tumiati e musiche di Vittore Veneziani. Proprio alle musiche di Veneziani sarà dedicato un concerto in programma venerdì 27 marzo 2020 dalle 18 alle 20 in Castello a cura del Conservatorio”.

“Tra simbolismo e futurismo . Gaetano Previati”, Castello Estense, largo Castello 1, Ferrara – dal 9 febbraio al 7 giugno 2020, ore 9.30-17.30 con ultimo ingresso alle 16.45, chiuso il lunedì

Il TAVOLO FINALMENTE !
Riparte il confronto per ripubblicizzare il servizio rifiuti

Martedì 3 marzo riprende finalmente il confronto che si tiene al Tavolo partecipativo per lo studio della ripubblicizzazione del servizio di gestione dei rifiuti. Era stato attivato con una delibera del Consiglio Comunale del 22 ottobre 2018, dopo che nei mesi precedenti erano state raccolte quasi 1000 firme di cittadini su una proposta di delibera di iniziativa popolare, promossa da vari soggetti, tra cui l’Associazione Ferraraincomune (ora Il Battito della Città. Il Tavolo partecipativo si era riunito due volte nei primi mesi del 2019, per poi fermarsi con l’approssimarsi della scorsa tornata elettorale amministrativa, e ora, dopo un’inerzia poco giustificabile da parte della nuova Amministrazione Comunale, anche grazie alle richieste reiterate, è stato finalmente fissato  l’appuntamento per riprendere quella discussione.

Lo si farà a partire da un documento predisposto da Atersir, l’Agenzia regionale relativa alla gestione del servizio idrico e di quello dei rifiuti. Tale approfondimento, pur di carattere preliminare, ci consegna una serie di elementi che portano a dire che il percorso di ripubblicizzazione del servizio dei rifiuti nel Comune di Ferrara, sottraendolo ad Hera per affidarlo ad un’azienda pubblica di nuova costituzione, è più che fattibile. Infatti, servono circa 6 milioni di Euro per dar vita a una nuova Azienda Pubblica Comunale, risorse che si possono tranquillamente recuperare tramite l’intervento di Holding Ferrara Servizi Srl, che ha un capitale sociale di circa 81 milioni di Euro e riserve per oltre 7 milioni di Euro.

Sarebbe un’operazione del tutto analoga a quella realizzata a Forlì e in altri 12 Comuni limitrofi, che nel 2017 hanno dato vita alla Spa a totale capitale pubblico Alea Ambiente, con un capitale sociale iniziale di 2 milioni di Euro (che si sta portando appunto a 6 milioni) fornito da Livia Tellius Romagna Holding Spa, la partecipata del Comune di Forlì e altri Comuni della provincia, omologa a Holding Ferrara servizi Srl. E’ ovvio, questa è una valutazione importante, ma non consente ancora una decisione definitiva, che può e deve poggiare saldamente sulla messa a punto di un vero e proprio piano industriale, economico e finanziario della nuova azienda pubblica. E’ questo il passaggio che dovrà compiere l’ Amministrazione Comunale di Ferrara e al quale non penso si possa sottrarre, a meno che non ci sia una volontà pregiudiziale di proseguire in una logica di privatizzazione dei servizi pubblici e di subalternità nei confronti di Hera Spa. il colosso Hera che – sarà bene ricordarlo – continua a gestire a Ferrara il servizio dei rifiuti in un regime di proroga, visto che l’affidamento è scaduto alla fine del 2017.

Ma ancor prima che fattibile, la scelta della ripubblicizzazione della gestione del servizio dei rifiuti – come di tutti i servizi che erogano i Beni Comuni, a partire dal servizio idrico – è quella più utile per rispondere ai bisogni dei cittadini e all’interesse generale. Infatti, operare tale scelta significa almeno affermare 3 questioni di fondo che attengono all’organizzazione sociale e alla convivenza nella città.

La prima questione riguarda scegliere con decisione la strada di un’economia circolare e sostenibile dal punto di vista ambientale, fondata anche sul risparmio, il riciclo e il riuso dei prodotti. Per il ciclo dei rifiuti, significa passare attraverso una forte raccolta differenziata per ridurre il rifiuto non riciclabile e, soprattutto, per la riduzione della quantità dei rifiuti prodotti, obiettivi che si possono realizzare se assunti come priorità e finalità proprie, come può fare una gestione pubblica e non una di carattere privatistico, orientata invece alla massimizzazione dei profitti e dei dividendi. E’ appunto quest’ultimo il caso di Hera, una società mista pubblico-privata quotata in borsa: basti pensare che nel periodo 2010-2018 essa ha, in termini cumulativi, realizzato utili pari a 1 miliardo e 714 milioni di Euro e distribuito dividendi ai suoi azionisti per 1 miliardo e 180 milioni di Euro, pari a circa il 70% degli utili. L’ultimo piano industriale 2020-2023 di Hera mette forte enfasi sul fatto che i dividendi aumenteranno costantemente, raggiungendo nel 2023 un incremento del 20% rispetto al 2018. Di contro, si possono citare i risultati raggiunti dall’azienda pubblica forlivese Alea Ambiente Spa che, ad un solo anno dalla sua nascita, è arrivata all’80% di raccolta differenziata e ridotto del 35% il rifiuto totale prodotto. Intanto, nel 2019, Alea ha avviato all’incenerimento oltre 48.000 tonnellate in meno di rifiuto secco non riciclabile rispetto al 2017.

Il secondo punto rilevante è quello di considerare i Beni Comuni, e quindi i servizi che li erogano, come servizi pubblici a tutti gli effetti, da gestire in una logica di pareggio tra costi e ricavi, senza che su di essi gravi un profitto garantito (cioè una rendita) ai soggetti sche ne sono proprietari. Non a caso, invece, l’impostazione privatistica, che esiste anche nel servizio di gestione dei rifiuti, fa sì che venga riconosciuta la cosiddetta ‘remunerazione del capitale investito’ che, nel caso specifico, riconosce ad Hera, per il servizio svolto nel comune di Ferrara, ben 1 milione e 371mila Euro all’anno, a partire dal 2020. Risorse che non avrebbe senso, se non eventualmente in una fase iniziale, riversare sulla nuova azienda pubblica e che invece potrebbero ritornare ai cittadini sotto forma di riduzione tariffaria.

Infine, terzo ma non ultimo per importanza, una nuova gestione pubblica del servizio dei rifiuti potrebbe rappresentare un’occasione per costruire, anche in quest’ambito, forme di democrazia partecipativa, che vedano il protagonismo dei cittadini e dei lavoratori. Da sempre, infatti, quando si parla di Beni Comuni, l’idea della gestione pubblica va di pari passo con il fatto che essa sia anche partecipata. Si potrebbe, ad esempio, pensare di dar vita (almeno in via sperimentale) ad una sorta di Consiglio di Gestione, con la presenza di rappresentanti dei lavoratori e dei cittadini, che affianchi gli organi di direzione dell’azienda nella definizione delle scelte di fondo su cui strutturare il servizio stesso come nella promozione di comportamenti “virtuosi” per la preservazione del patrimonio ambientale.
Insomma, la ripubblicizzazione della gestione del servizio rifiuti può diventare un tassello importante di un progetto di città innovativa, capace di ricostruire legami sociali e identità collettiva: un progetto – e al fondo di esso, una visione, una direzione politica – del tutto alternativo rispetto all’impostazione dell’attuale Amministrazione Comunale che si poggia, invece, su un’idea di città chiusa in sé stessa e incapace di guardare al futuro.

Nota di redazione: chi volesse ricostruire la storia tutta ferrarese della battaglia civile per i Beni Comuni, e quindi per togliere ad Hera Spa il Servizio Raccolta Rifiuti in favore di una Azienda Pubblica Comunale, può rileggere gli articoli dedicati all’argomento usciti su Ferraitalia: Turismo dell’indifferenziata? Autodifesa di un (buon) cittadino ferrarese contro le fatidiche calotte (settembre 2017) ;  Ferrara città verde non smeraldo (dicembre 2017) ; L’era glaciale. Quale gestione dei rifiuti oltre le calotte? (dicembre 2017)Democrazia e rifiuti. La partecipazione fa paura. (ottobre 2018) ;  Ferrara: rifiuti e democrazia Approda in Consiglio la delibera di iniziativa popolare (ottobre 2018) la battaglia sui rifiuti è appena cominciata E per lo studio di fattibilità serve un ente senza ombre (novembre 2018)

 

Chi osa criticare il Pensiero Unico?

La parola frase ‘Pensiero Unico’ ricorre costantemente nelle rappresentazioni che accompagnano quel che resta di una discussione politica la cui presenza mediatica è inversamente proporzionale alla sua reale capacità di affrontare e risolvere i problemi di vasti strati della popolazione.
Secondo Wikipedia questo termine apparve per la prima volta nel gennaio del 1995 in un editoriale di Ignacio Ramonet pubblicato su Le Monde Diplomatique di cui l’autore era direttore responsabile; all’epoca Ramonet era già un personaggio noto nel mondo della sinistra critica, tra i promotori del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, oggi docente presso la Sorbona, oltre che membro onorario di ATTAC, l’associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini, fortemente avversa alle politiche neoliberiste e chiaramente orientata ai valori della dignità umana e della protezione dell’ambiente.

Ramonet definiva il pensiero unico come “la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale”.Attraverso questo tipo di pensiero erano state già poste le basi per accettare culturalmente il primato dell’economia neoliberista sulla politica, e giustificare il successivo dominio della finanza su entrambe.
Questa filosofia, già fatta propria dai governi conservatori di Margaret Thatcher (dal 1979 al 1990) con il celebre “There is no Alternative” (Non c’è alternativa), troverà altrettanto chiara espressione nel meno noto “Es gibt keine Alternativen” (Non ci sono alternative) del cancelliere social democratico tedesco Gerhard Schroeder, dal 1998 al 2005 alla guida di una coalizione SPD-Verdi decisamente collocata verso un progressismo sensibile alle tematiche ambientali.

Su cosa si fonderebbe dunque questo Pensiero Unico al quale né conservatori né progressisti, né destra né sinistra, riescono a trovare un’alternativa? Sempre con l’aiuto di Wikipedia, è abbastanza facile mettere in risalto alcuni assiomi su cui esso si basa.
I ) L’economia di stampo (neo) liberista fondata sulla crescita illimitata (esemplarmente rappresentata dal PIL) è la scienza che regola e governa la società: la politica e tutte le altre scelte culturali tendono in ultima istanza ad essere assoggettate al potere economico.
II ) Il (libero) mercato è il parametro principale che descrive ogni attività umana e ne regola il funzionamento determinandone il successo o l’insuccesso.
III ) Perché la magica mano invisibile del mercato possa risolvere tutti i problemi, è indispensabile che non esistano barriere allo scambio e al movimento di capitali, merci e persone: bisogna pertanto ridurre la presenza dell’intervento statale, eliminando ogni barriera che limiti il dispiegarsi a livello globale delle libere forze dei mercati.
IV ) Tutti i servizi che erano garantiti dallo Stato Sociale (istruzione, sanità, ambiente, pensioni, tutela per i più fragili, etc.) devono essere affidati quanto più possibile all’iniziativa privata e alla legge del mercato che, sola, ne può garantire la necessaria efficienza.
Si coglie in questi assiomi una tonalità che è, ad un tempo, scientifica (il neoliberismo capitalista è la scienza che governa la società mondiale), messianica (alla lunga il dispiegarsi delle libere forze del mercato risolverà ogni problema su scala planetaria) e religiosa (se le cose non funzionano la colpa è di chi si oppone alle benefiche forze del libero mercato, il male che si contrappone al bene).

La critica al Pensiero Unico così difinito era, appunto, critica a questi assiomi e ai corollari che ne derivano; intendeva, cioè, puntualizzare e mettere in risalto la crescente riduzione del dibattito politico sui temi imposti dall’alto da parte di una cultura e di un élite dominante che, già all’epoca in cui Ramonet scriveva, prendeva l’oscura forma di un inquietante Nuovo Ordine Mondiale che andava sostituendosi a quello bipolare, caduto insieme al Muro di Berlino e al comunismo sovietico. La critica concentrava l’attenzione sugli effetti perversi di un capitalismo neoliberista, senza regole ma violentemente orientato ad imporre con qualsiasi mezzo la sua logica di funzionamento a livello planetario; faceva emergere i pericoli insiti in un agenda politica fissata sempre più spesso da soggetti mai eletti e i cui comportamenti si situavano – oggi più di allora – al di fuori di ogni possibile procedura di controllo democratico. Una critica depotenziata man mano che il Pensiero Unico, inizialmente sostenuto da destra (si pensi alle amministrazioni Bush e all’idea di esportare la democrazia anche con la violenza), veniva a trovare terreno assai più fertile a sinistra (si pensi al globalismo progressista della open society così cara al finanziere Soros).

Non a caso le critiche al Pensiero Unico sembrano oggi molto lontane ed inattuali. Se critica onesta ancora esiste essa, appare debole e impotente, anche da parte di quei rari pensatori e di quegli sparuti settori della società civile che si ispirano ancora al paradigma marxiano. Questa critica (da sinistra) è stata infatti squalificata dal Pensiero Unico Dominante e oggi sembra segregata in un angolo buio, dove viene ormai associata al complottismo, alla produzione di fake news e ai vari termini con cui il pensiero mainstream etichetta e si sbarazza di ogni pur lecito dissenso.
Viene allora da chiedersi se, oggi, esista ancora lo spazio per esercitare una critica autentica che possa essere propositiva e costruttiva, se esista ancora quella tensione genuinamente politica che spinge ad esplorare soluzioni alternative, o se, al contrario, la forza del Pensiero Unico e dei suoi assiomi sia tale da assorbire e ricondurre nell’alveo dei propri scopi ogni apparente deviazione; se sia così diffuso e pervasivo da eliminare alla radice ogni ipotesi che non accetta di essere allineata.

Se prendiamo sul serio l’originaria definizione critica di Ramonet per cui il Pensiero Unico sarebbe “la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale”, viene da chiedersi chi siano oggi, in Italia, i sostenitori palesi ed occulti, chi sano i suoi promotori consapevoli e i supporter inconsapevoli; e d’altra parte chi siano i critici e gli oppositori, ammesso che esistano e che abbiano delle idee democraticamente radicate e realmente praticabili.

Che ruolo hanno, rispetto al Pensiero Unico e alla sua possibile critica, i grandi media, televisioni, radio e giornali? Come si posizionano i vari partiti che si contendono il potere in Italia? Come si colloca la Chiesa di papa Francesco? Che significato hanno, alla luce del pensiero unico, le ONG e i vari movimenti sociali che di tanto in tanto riempiono le piazze? Che futuro sta preparando il dominio ormai trentennale di questa potente narrazione? Esistono ancora delle serie alternative a questa prospettiva unipolare oppure siamo davvero, come azzardava nel lontano 1992 il politologo Francis Fukujama, alla fine della storia?
Su queste domande inattuali, credo, sarebbe bello aprire quanto prima una seria discussione.

Lavatevi le mani
ma andate scalzi
e baciate la terra ferita

Una cara amica mi inoltra una poesia che sta girando sui social. Mi è sembrata molto bella, molto giusta, un piccolo antidoto alla frenesia collettiva che ha portato i media a diffondere il contagio della paura, della insensatezza, della irresponsabilità. Non conosco il poeta, Andrea Melis; l’ho ringraziato per messenger a nome di tutta la redazione di Ferraraitalia. Buona lettura. (Effe Emme).

di Andrea Melis

Lavatevi le mani
ma andate scalzi
e baciate la terra ferita.
Starnutite pure nel gomito
ma leccate le lacrime di chi piange.
Non viaggiate a vanvera
ora è tempo di stare fermi
nel mondo
per muoversi in noi stessi
dentro gli spazi sottili
del sacro e l’umano.
Indossate pure le mascherine
ma fatene la cattedrale del vostro respiro,
del respiro del cosmo.
Ascoltate pure il telegiornale
che finalmente parla di noi
e del più grande miracolo
mai capitato:
siamo vivi
e non ci rallegra morire.
Per ogni nuovo contagio
accarezza un cane
pianta un fiore
raccogli una cicca da terra,
chiama un amico che ti manca
narra una fiaba a un bambino.
Ora che tutti contano i morti
tu conta i vivi,
e vivi per contare,
concedi solo l’ultimo istante
alla morte
ma fino ad allora
vivi all’infinito,
consacrati all’eterno.

La vita fugge et non s’arresta una hora

L’aveva promesso l’amico Monini che Ferraraitalia non avrebbe parlato di Coronavirus [qui] ottenendo la mia completa adesione se non fosse che… il mio Diario ne deve per forza parlare proprio per le ragioni uguali e inverse che Francesco citava. Una specie di maledizione s’abbatte sulla settimana che per me doveva essere scientificamente tra le più importanti dell’anno: la partecipazione al Convegno organizzato a Milano per la mostra Canova-Thorvaldsen, la visita a quelle con ascendenti culturali ‘ferraresi’ vale a dire quella su George de la Tour organizzata da Francesca Cappelletti e quelle su de Pisis e de Chirico. Una vera orgia!

E all’ultimo momento, l’insidioso virus cancella tutto. A Ferrara, mesi di preparazione avevano permesso di organizzare una book presentation al Centro Studi Bassaniani per il 4 marzo, giorno dell’anniversario di nascita di Giorgio Bassani. Anche quella è saltata. Ma l’aura malefica s’abbatte anche su comuni imprese, quali quelle legate alla compera di una nuova macchina del caffè e al provvedere alla rottura di un telefono fax. Contatti trepidanti, ora che ho venduto la macchina, ai drivers che mi avrebbero dovuto portare all’acquisto. Incoraggiato dalla disponibilità, mi reco in un centro specializzato dove scelgo l’oggetto forse più amato da mia moglie ma, misteriosamente, l’infernale macchina si rifiuta di eseguire le sue funzioni, allagando piani d’appoggio e procurandoci preoccupanti nevrosi. Riportata al negozio, funziona superbamente! Alla fine faccio la voce grossa e impongo un cambio con una più cara, mi viene riluttantemente concesso, annullando lo sconto del 40% della precedente.

Ben più complessa la vicenda del telefono/fax. Accompagnato da un carissimo amico, straordinario conoscitore di quegli aggeggi, gagliardamente ci avviciniamo al banco e veniamo tacciati di incompetenza con una smorfia di disprezzo: non ne fanno più! Organizza quindi, il competente, un complesso sistema di comunicazione fax che ora mi produce palpiti d’angoscia perché sbaglio desolatamente tutto. Ma verranno tempi migliori, e trionfalmente vincerò come cantava Pavarotti, fregandomene del virus (forse).

Mi reco al Teatro Comunale domenica mattina, riluttante di affrontare folle, ma curioso del concerto della Chamber Orchestra. Ne sono ripagato a iosa. Tra i più belli degli ultimi dieci anni!! Ma il balletto delle distanze era altrettanto impagabile: i baci si mandavano da lontano, gli abbracci vigorosi che di solito sanciscono il ritrovo sotto il segno immortale della musica tra i musicofili, erano sostituiti da finzioni – quasi fosse un racconto di Borges – mentre sventolando salviettine da mani mi rannicchiavo nel mio posto  il primo della fila) e osservavo due meravigliose bambine nel primo palco di non più di 5/6 anni che accompagnavano la musica, fingendo di suonare il piano sull’orlo del palco e stringendosi voluttuosamente nei momenti più alti alla loro bella mamma. Sono andato (come non potevo?) a congratularmi con quelle fatine e all’uscita tutti, dico tutti, si stringevano mani e si abbracciavano presi dal fascino di quella musica. Altro che coronavirus “Pussa via!”.

Alla sera un grave dilemma: vedere Che tempo che fa, invaso da virologhi e cantanti sanremesi senza pubblico, oppure seguire la nuova puntata della stupenda shop opera La vita promessa? Abbiamo optato per un mezzo e mezzo, il che non ha prodotto gran risultati. E mentre laboriosamente l’intero lunedì lo passo a costruire una recensione comme il faut al volume di Vittorio Emiliani dedicato a suo fratello Andrea, tra i miei più cari e indimenticabili amici, la sera ci affrettiamo al cibo per accomodarci in poltrona a seguire la nostra amatissima L’amica geniale. I commenti seguenti sembrano degni di Dante o del film disneyano dove imperava Crudelia Demon. Tengo per la cattivissima e infelice Lila, mentre trovo goffa e stupidella fino al masochismo (come si fa a concedersi per la prima volta all’orrido Sarratore padre infame e orrendo umarél?) la paciosa Lenù. Non mi capacito come Lila avesse potuto sposare il carnoso Stefano, quindi bene ha fatto a consolarsi con lo snello Nino. Certo che brave quelle due ragazzine diventate attrici nel giro di un anno. Medito di andare in libreria a comprarmi i volumi seguenti della Ferrante, ma mi trattiene un pizzico di dignità purtroppo accademica.

Frattanto seguo con ironia e disgusto le vicende culturali ‘fraresi’. Non commento, ma ribadisco che certe situazioni le hanno volute, anzi, evocate e provocate proprio quella parte politica che ora sta all’opposizione.
Parlo con nostalgia e affetto con l’amica Simonetta della Seta che lascerà il Meis per affrontare un importantissimo incarico in Israele, dove la raggiungerò a settembre per compiere l’ormai mitico viaggio in quello stato. Trepido nel frattempo a organizzare il viaggio a Dublino per visitare i miei nipoti, ma anche a dover decidere le vacanze romane di marzo per il mio compleanno. Certo, se non apriranno la mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale, le rimanderò.
Dai Coronavirus smettila! Lasciami andare incontro alla bellezza. Sto diventando troppo diversamente giovane! La vita fugge et non s’arresta una hora, cantava quel menagramo di Petrarca. E per farsi sentire, sparge il virus sui suoi amati Colli Euganei.

PER CERTI VERSI
Oltre

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

OLTRE

Sono ansioso di viverti
Oltre l’immaginazione
Delle mani
Il liquore chartreuse dei miei occhi
Versare sulle tue labbra goccia a goccia
Per vederti
Oltre i sogni
Di ballare un’intera notte con te sulla spiaggia
E stretti andare tra le dune
Come due cormorani in amore
Sono ansioso di stare in mezzo a te ovunque
Nella laguna
Sulla seggiola impagliata vuota fuori da una casa vuota
In un villaggio abbandonato dell’Istria
Il blu invaderci più che la Normandia
Ma pacificamente
In pace