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Corre nel cielo la nuvola delle parole

Pubblichiamo un contributo illuminato, pur se lieve e gustosissimo: la breve lettera del professor Angelo Azzi, in risposta all’ultimo Diario in pubblico [Qui] del nostro collaboratore professor Gianni Venturi  Confesso di soffrire anche io della medesima malattia, anch’io incantato delle parole, passione, e tormento, che ho trasmesso a mia figlia Amelia. Fosse per me, fosse possibile, smetterei ogni altro negozio e starei beato, seduto su un seggiolone come l’Ariosto, immerso nel colorato mare delle parole. Ecco dunque la lettera.
Effe Emme

Ti ringrazio per lo scritto, sull’uso di certe parole, che Margherita mi ha inoltrato. Intrigante e dilettevole, ma con il risultato che scrivere questa nota mi fa tremar le vene e i polsi.

Dopo mezzo secolo di assenza dall’Italia (e gli ultimi 15 negli Stati Uniti) incontro una lingua italiana con echi del passato che contrastano con il suo uso contemporaneo. Parole che utilizzo in inglese quotidianamente hanno una risonanza differente quando le ascolto in italiano. Nuvola mi fa solo pensare al cielo, e piattaforma mi riconduce a quella superficie piana o quel tavolato su cui si ballava a Jesolo. E applicazione mi ricorda il maestro Manzini che scrisse, nel rapporto di fine anno 1946: “Angelo è molto dotato ma dovrebbe studiare con più applicazione”. E non parliamo di chiave, navigatore, binario, congelarsi, portale, postare, canale, banda e ne avrei ancora moltissime di parole, senza la necessità di dover mettere insieme il pranzo colla cena.

Se le parole sono divisive, le immagini uniscono: penso agli emoji, emoticons, faccine, smileysThe Unicode Consortium ne ha registrate a tutt’oggi 3.304; e queste sono quelle ufficiali. Ma poi c’è un mondo alternativo di incredibile vastità che è stato – e viene costantemente creato – per esprimere emozioni; quelle che molti non sanno più esprimere a parole. Si va da disegnini, a fotografie, a piccoli video (i GIF) che coprono universi di emozioni semplici e ben definite, comprensibili a prima vista. E di questo vive il mondo delle chats, dove tutti si capiscono e dove forse c’è poco da capire. Se non il fatto che quel mondo c’è ed è immenso.

Grazie ancora per il tuo scritto che ha stimolato le riflessioni qui sopra – e me ne scuso; e buona giornata

Angelo Azzi  MD, PhD

Adjunct Faculty Member
School of Graduate Biomedical Pharmacology
and Drug Development Program

Strategic Initiatives Advisor
Office of the Vice Provost for Research
Tufts University – Boston, USA

PRESTO DI MATTINA
La Terra di Mezzo della Domenica delle Palme

Chissà perché il pensiero della Domenica delle Palme evoca in me la ‘Terra di mezzo‘ ideata e descritta con insuperabile creatività e realismo da J.R.R. Tolkien. Una terra abitata da figure antiche e nuove. Un luogo per un verso pacificato dalla mancanza di ombre, verso il quale convergono in alleanza diversità non oppositive, ospitali, generative di quell’amicizia che nasce dall’avere uno scopo comune. Ma al tempo stesso una zona minacciata dall’oscurità caotica, che se custodisce una promessa di vita amabile e dunque capace di nutrire la speranza nel bene che vince sul male, è nondimeno messa alla prova da una moltitudine di ombre inquietanti di tenebra e di morte.

L’immagine non è estranea al realismo della storia biblica nella tradizione giudeo-cristiana. Tanto che in un’analoga ‘terra di mezzo’, si gioca anche la sfida, l’agone della domenica (“Dov’è, o morte, il tuo Pungiglione?”). È il ‘Giorno del Signore’ che intacca la ferialità, che si fa strada nella ombrosità dei giorni. Arginando un tempo senza qualità, la domenica reca con sé un tempo qualificato dalla novità dell’incontro con il Crocifisso risorto, che riapre il sepolcro come un seno materno ed esce fuori, lasciandolo vuoto. Vuoto dalla disperazione e dall’angoscia, così da mandare i Suoi sino ai confini della terra ad accendere un fuoco, quello di Pentecoste, e ad offrire il Battesimo di nuova nascita, perché nell’incontro con il Risorto chi perde la propria vita la ritrova. “Anima mia – scrive padre David Maria Turoldo – non pensare male di Lui: gli è impossibile fare altro. E vedrai il male non vincerà!”.

Forse più di ogni altra, la Domenica delle Palme sta in mezzo come un Vado: tra la domenica della risurrezione di Lazzaro e quella della Pasqua; tra l’arrivo di Gesù al sepolcro dell’amico per farlo nascere di nuovo, e la venuta dell’Angelo di Dio. Angelo inviato dal Padre a riaprire gli occhi del Figlio amato, ripetendo per lui quelle parole che egli, il Nazzareno, già rivolgeva a tutti per le vie della Palestina: “Alzati e va , perché il pungiglione della morte nulla ha potuto e le si è rivoltato contro ripagandola della sua stessa moneta: “dov’è o morte la tua vittoria”, si dirà nella Veglia Pasquale: inghiottita dalla Risurrezione.

È questa pure la domenica dell’ ‘Osanna‘ del popolo che accoglie festante Gesù con rami di ulivo e che grida “osanna, oh sì salvaci”. Del Messia accolto nella città santa e riconosciuto come colui da cui dipendono le sorti: anzi, il ribaltamento della sorte minacciosa del male: “spezzerà le loro spade e ne farà aratri, delle loro lance farà falci” (Is, 2,4). Questa domenica vede l’alleanza tra il mondo degli alberi, la creazione tutta e quello degli uomini di fronte al pericolo del bene comune.

Ma è anche la domenica più umile: quella della gioia umile. Lo sfidante, come già vittorioso, entra nella città santa cavalcando un puledro d’asina e non su carri da guerra. Così lo descrive il profeta Zaccaria (il cui nome significa ‘Dio si ricorda’) invitando all’esultanza: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra. Quanto a te, per il sangue dell’alleanza con te, estrarrò i tuoi prigionieri dal pozzo senz’acqua. Ritornate alla cittadella, prigionieri della speranza!” (Zc 9,9-12).

La domenica delle palme è proprio la piccola Pasqua, la piccola risurrezione che abita la ‘terra di mezzo’ della nostra coscienza. E non diversamente dalla piccola Speranza di Charles Peguy che tiene tra le sue mani le due sorelle, Fede e Carità, è lei, la più piccola, una bambina da nulla, che le traina entrambe, perché senza di lei non si va da nessuna parte. Ma lo stesso può dirsi di ogni domenica, che – come la piccola Speranza – ci accompagna di settimana in settimana e s’intreccia alle nostre giornate affinché nel passaggio da un giorno all’altro, da una settimana all’altra ci ricordiamo di colui che è passato oltre; che ha attraversato la morte; che ha aperto un varco nella morte: “Lui, il capofila, il pastore grande delle pecore che il Dio della pace ha ricondotto dai morti” – dice la lettera agli Ebrei 13,20 – che anche noi seguiremo nella Pasqua. Passando dal cammino quotidiano.

Tutto ciò mi ritorna in mente talvolta quando passo nel chiostro di Santa Maria in Vado davanti a una scritta di saluto rivolta ai pellegrini in cui li si chiama viatores (viaggiatori). Perché la Pasqua – sapete – è proprio questo ‘Vado’, un attraversamento che ci fa uscir fuori. O meglio nascere di nuovo. Anche per nascere infatti bisogna passare oltre, attraversare la soglia che divide il buio dalla luce, che separa l’asfissia soffocante dal soffio che ti riempie i polmoni e li apre, come vele distese al vento della vita. Pasqua è veramente un venire alla luce. Nel racconto di Lazzaro egli è richiamato fuori, alla vita. Ed è Gesù la levatrice di questa nuova vita, che grida a Lazzaro di uscire fuori, che fa slegare le bende del sudario che gli avvolgevano il volto, le mani e i piedi, così da poterlo lasciare andare. Anzi, di più. Gesù agisce, al contempo come una levatrice, favorendo la venuta alla luce dell’amico Lazzaro, ma anche come una madre che vive nel suo corpo le doglie del parto. Per questo Gesù piange l’amico Lazzaro, e con ciò la nostra umanità dolente e mortale. Come una madre, egli si strugge per infondere la vita, per far uscire dall’oscurità e far venire alla luce tutti noi, per condurci dalla morte alla Pasqua di risurrezione. È questo che ci prefigura il racconto di Lazzaro: vi si anticipa la Pasqua del Signore, tramite le quale è dato a tutti noi il dono inestimabile di poter nascere di nuovo nella sua vita.
Del resto, è Gesù stesso – nel Vangelo di Giovanni 16, 21 – che si immedesima nella donna e nell’esperienza del generare; nella madre che è nel dolore perché soffre le doglie del parto, rivelandoci così la consapevolezza che egli avvertiva del suo futuro patire per darci la vita, ma anche la consapevolezza della gioia che ne segue. La donna – dice Gesù – quando partorisce è nel dolore, perché è venuta la sua ora, ma quando ha dato alla luce il bambino non si ricorda più della sofferenza in ragione della gioia per la nascita di un uomo. Così anche voi – riferendosi ai discepoli – siete nel dolore, ma vi vedrò di nuovo, mi sentirete e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno, proprio nessuno, potrà togliervi la vostra gioia. Forse per questo un tempo in campagna, nella mattina di Pasqua, la gente usciva fuori e si bagnava gli occhi con la rugiada della notte. Rugiada memoriale del battesimo. Un gesto simbolico, che diceva della felicità di riaprire gli occhi, rivedere la luce, il cielo, gli alberi, il volto delle persone care.

Un’altra nascita a cui ebbi il dono di partecipare me la regalò Gloria, catechista in parrocchia. La incrociai infatti nel corridoio del vecchio ospedale Sant’Anna, mentre facevo un giro per visitare i malati e mi riferì che Agata, la mamma di Sofia e di William, stava per partorire. Mi disse, però, che Paul, il papà era un po’ in pensiero, perché la situazione sembrava più difficile del previsto. Così Gloria mi disse “vai, vai a trovarlo al reparto maternità”. Arrivai da lui, trovandolo seduto un po’ rannicchiato su una panchina. Era solo e mi sedetti accanto a lui in silenzio, dopo averlo salutato solo con un cenno della testa. Ogni tanto ci guardavamo, come chi non sa cosa dire, e ci stringevamo nelle braccia. Passò molto tempo, e le infermiere andavano e venivano con alcuni bambini in braccio, ma non erano il nostro. Dopo oltre due ore di attesa, iniziai a pensare a una frase di augurio e conforto con cui congedarmi da lui. Ma proprio mentre gliela stavo per dire, lui mi anticipò dicendomi: “mi fa proprio piacere e mi tranquillizza che sei qui con me”. Così io non ebbi più il coraggio di lasciarlo e rimasi con lui. Aspettai come un qualunque altro papà lasciandomi contagiare dalla sua ansia.
Finalmente dopo molto tempo uscì un’infermiera. Guardava verso di noi con lo sguardo interrogante tenendo in braccio un fagottino. Paul fu più veloce di me e prese quel fagottino tra le braccia commosso. Anzi commosso è dire poco, ma non saprei descrivere quel momento di infinita felicità che contagiò anche me. Poi all’improvviso Paul si girò, mi venne incontro di slancio, tanto che io indietreggiai mentre lui avanzava. A un certo punto però mi fermai e allungai il collo per vedere dentro la coperta, da lontano. Ma lui, accostandosi sempre di più, sollevò quel fagottino e me la mise in braccio. Nemmeno io saprei dirvi la grazia e l’emozione che ho provato nel tenere quella vita nuova appena nata tra le braccia. Fu come un nuovo battesimo: una nuova vita che mi era stata donata in quel gesto, e pensai sorridendo dentro di me che ‘ero nella gioia’ come aveva detto Gesù perché era venuto al mondo… una donna, Gloria Marica.

Attenzione e buone pratiche per sostenere le persone con disabilità.
Parla la vicepresidente Elly Schlein

di Regione Emilia Romagna

In piena emergenza Coronavirus le persone con disabilità sono costrette ad affrontare routine stravolte e una quotidianità da reinventare, affrontando grandi difficoltà legate alle limitazioni della mobilità e alla sospensione dei servizi educativi e nei centri diurni. E con essi, le famiglie.
Per questo la Regione Emilia-Romagna nei giorni scorsi è già intervenuta a chiarire, facendo riferimento alle indicazioni del Governo, che la persona con disabilità nei casi strettamente necessari può uscire dal proprio domicilio per attività correlate alla propria condizione di salute (ad esempio per evitare rischi di crisi comportamentali), – a piedi o in macchina, eventualmente accompagnata da un familiare o da chi la assiste – autocertificando negli appositi moduli l’indispensabilità dell’uscita e sempre osservando le regole di distanziamento sociale. Accanto all’autocertificazione la Regione consiglia di dotarsi di certificazione medica, che le AUSL di tutta la regione stanno già rilasciando su richiesta.

Ed è alle persone con disabilità e alle loro famiglie che guarda la lettera che la Regione ha inviato ieri a tutti i Comuni, da Piacenza a Rimini, in occasione della Giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo, istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale dell’Onu, per richiamare l’attenzione di tutti sui diritti delle persone nello spettro autistico. L’obiettivo della missiva è quello di fare il punto sulle iniziative messe in campo nell’emergenza e chiedere attenzione particolare su tutto il territorio regionale per garantire supporto e vicinanza alle persone con disabilità e alle loro famiglie, a maggior ragione dopo la sospensione, a causa delle misture restrittive di contenimento del Coronavirus, dei servizi educativi e dei centri diurni, che ha portato, per molti, all’interruzione dei percorsi educativi e scolastici e delle relazioni con i propri contesti di cura sociosanitari. Una condizione – quella della prolungata permanenza in casa – che, soprattutto per chi presenta elevate fragilità psichiche e quadri spesso associati a disturbi del comportamento, rischia di causare situazioni particolarmente complesse e difficilmente sostenibili.

“Proprio ieri in cui si è celebrata la Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, che quest’anno cade in piena emergenza sanitaria da Coronavirus – sottolinea la vicepresidente con delega alle disuguaglianze, Elly Schlein – abbiamo voluto invitare tutti i Comuni a riflettere insieme a noi sulla condizione di difficoltà e a volte di isolamento in cui stanno vivendo le persone con disabilità e le loro famiglie, a causa delle restrizioni imposte per contenere il diffondersi del contagio e a condividere le buone pratiche messe in campo per il supporto. In molti casi si stanno svolgendo prestazioni educative o assistenziali a distanza. In alcuni territori, come previsto dal decreto “Cura Italia”, per situazioni particolarmente gravose, le sedi dei centri diurni, ancora sospesi, sono state aperte per interventi individuali. Interventi che si svolgono chiaramente nel rispetto delle norme di prevenzione del contagio, senza creare aggregazione e con l’adozione di tutte le misure necessarie per garantire la massima tutela della sicurezza e della salute, sia degli operatori che degli utenti. In altri contesti questo tipo di prestazioni è stato garantito, nei casi più difficili, anche grazie alla collaborazione degli educatori. Tutti insieme – prosegue la vicepresidente – possiamo collaborare al meglio per riuscire a rendere questa emergenza meno gravosa per le persone più fragili e vulnerabili. Per parte nostra, garantiamo non solo ogni sforzo per dare risposte di supporto concreto già in questa fase, ma metteremo il massimo impegno, lavorando fin da ora, per una ripartenza quanto più possibile rapida dell’intera rete dei servizi per la disabilità al termine dell’attuale emergenza. Sarà per tutti- chiude la vicepresidente- una grande sfida, affrontabile solo con grande spirito di collaborazione”.

Chi e come può uscire dal proprio domicilio

La Regione, sulla base delle segnalazioni pervenute dalle associazioni che si occupano di disabilità, è già intervenuta con alcuni chiarimenti, facendo riferimento alle risposte ad analoghe richieste da parte dell’Ufficio per le persone con disabilità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

In particolare, è stato chiarito che, per evitare il rischio di crisi comportamentali legate alle limitazioni alla mobilità, la persona con disabilità può uscire dal proprio domicilio, a piedi o in macchina, per attività correlate alla propria condizione di salute solo se strettamente necessario e osservando le regole di distanziamento sociale, eventualmente accompagnata da un familiare o da chi la assiste. Come per tutte le uscite da casa per motivi di salute, è indispensabile l’autocertificazione.

La Regione ha suggerito che, a supporto dell’autocertificazione, ci si doti di certificazione medica. Le Aziende sanitarie, su richiesta dell’interessato o del familiare che lo rappresenta, rilasceranno una certificazione attestante la condizione o lo stato di disabilità e le eventuali ulteriori informazioni ritenute necessarie. Ad oggi sono già state prodotte da tutte le Ausl le certificazioni richieste.

Assistenza alle persone con disabilità

Dal monitoraggio dei servizi offerti a livello locale alle persone adulte e minorenni con disabilità, sia fisica che intellettiva, con disturbi psichici e dello spettro autistico, emerge che le Aziende Usl, pur in una situazione di oggettiva difficoltà (oggi vengono garantite solo le prestazioni urgenti e indifferibili) si sono attrezzate per contattare i casi gravi (tra cui le persone con disturbi dello spettro autistico), con colloqui telefonici o videochiamate; sono stati predisposti materiali informativi per le famiglie, spunti per giochi e attività, letture online.

In alcuni casi, come previsto dal decreto “Cura Italia”, per situazioni particolarmente gravose, le sedi dei centri diurni, ancora sospesi, sono state aperte per interventi individuali. Interventi che si svolgono chiaramente nel rispetto delle norme di prevenzione del contagio, senza creare aggregazione e con l’adozione di tutte le misure necessarie per garantire la massima tutela della sicurezza e della salute, sia degli operatori che degli utenti. In altri contesti questo tipo di prestazioni è stato garantito, nei casi più difficili, anche grazie alla collaborazione degli educatori.

Prosegue inoltre la collaborazione tra Regione, Associazione dei Comuni (Anci) e delle Province (Upi), Enti gestori e sindacati per individuare protocolli condivisi per rimodulare parte dei servizi attualmente sospesi in altra forma, proprio per dare risposte concrete alle difficoltà delle persone con disabilità e delle loro famiglie in questa fase di emergenza.

Le buone pratiche già avviate

Alcune esperienze locali e buone pratiche si stanno diffondendo sul territorio regionale e tra queste quella di Rimini, dove la collaborazione tra Comune e Ausl ha portato all’identificazione di uno spazio all’aperto – un parco a gestione privata – dove, con accesso contingentato e senza creare aggregazione, le persone con disabilità in situazione di necessità hanno potuto trovare sollievo trascorrendo un po’ di tempo fuori casa in sicurezza e nel rispetto delle misure restrittive e di distanziamento. Esperienza poi ripresa anche in altri territori.

Allo stesso modo alcune Aziende sanitarie stanno predisponendo soluzioni utili a fronteggiare emergenze legate all’eventuale ricovero del familiare caregiver di disabile, individuando la reperibilità di operatori sociosanitari attivata direttamente dal 118. Anche per quanto riguarda gli eventuali ricoveri di persone autistiche le Aziende sanitarie si stanno organizzando in modo da garantire, compatibilmente con la situazione emergenziale, la presenza di personale con competenze adeguate.

FAMILY NOW
La vita sospesa di ragazzi e genitori: per esempio una chat…

Come stanno i nostri ragazzi? Come stanno vivendo queste settimane di vita sospesa?

Fino a prima dell’epidemia la condizione degli adolescenti e del loro rapporto con gli adulti l’ho trovata ben rappresentata all’interno di un breve apologo raccontato dal romanziere americano D. F. Wallace. scomparso tragicamente nel 2008.
Il 21 maggio 2005 David Foster Wallace tenne un discorso ai neolaureati del Kenyon College, dal titolo Questa è l’acqua. La tipologia usata è quella dei commecement speech, cioè discorsi tenuti da personalità di rilievo ai neolaureati delle più importanti università americane: libere considerazioni sulla vita , sul destino, sulla cultura.
Il titolo This is water deriva dal breve racconto con cui prende il via il discorso:
“Ci sono questi due giovani pesci che nuotano e incontrano un pesce più vecchio che nuota in senso contrario e fa loro un cenno, dicendo: «Salve ragazzi, com’è l’acqua?» e i due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e alla fine uno di loro guarda l’altro e fa: «Che diavolo è l’acqua?» (D. F. Wallace,Questa è l’acqua, Einaudi, 2008, p.140).
Il significato della storiella è che le realtà più usuali e quotidiane, spesso sono anche le più difficili da vedere, proprio perché ci siamo immersi fin dalla nostra nascita, come i pesci nell’acqua. Come la famiglia.
Come la famiglia nei giorni del coronavirus?

Insegno in un istituto di scuola superiore della città e, in questo periodo di lezioni sospese, continuo, facendo di necessità virtù, a mantenere i contatti con i genitori, pur a distanza, con uno strumento che in verità fino ad ora non avevo mai utilizzato: una chat sul cellulare.
Sono emerse considerazioni, suggestioni, riflessioni sui figli che fanno intravvedere ansie, paure, dubbi ma anche speranze, domande, attese di mamme e papà sulla vita dei loro ragazzi, per decreto affidati al caldo del nido famigliare in questi giorni di irreale relazionalità.
Eccone qui alcuna tra le più significative

AD ALCUNI MANCA…AD ALTRI MENO…
Papà di A.V. (classe quarta)
“I miei stanno bene…e nessuno dei due ha voglia di tornare a scuola”
Mamma di A.C. (classe seconda)
“Anche mia figlia sta bene, ma lei ha voglia di venire a scuola”
Mamma di N.B. (classe terza)
“I miei ragazzi hanno voglia di rivedere i loro amici e… alcuni insegnanti!”

GIORNATE PIENE DI…SOLITE COSE E DI PICCOLE GRANDI NOVITA’…
Mamma di E.T. (classe seconda)
“…se fuori fa freddo giocano a ping pong in casa, spostano il divano. aprono il tavolo in soggiorno, cosa che in altri tempi non sarebbe mai stata concessa…”
Mamma di F.L. (classe terza)
“F. se la passa abbastanza bene tra lezioni, play station e addirittura ha letto anche un libro! Alcune sere giochiamo a briscola come ai vecchi tempi…”
Mamma di A.G. (classe prima)
“A. mi dice che non si annoia e sta bene in casa…non è da lei…visto che voleva sempre uscire…mah!”

IL VECCHIO E IL NUOVO SI SOVRAPPONGONO…
Mamma di M.E.P. ( classe prima)
“Questa esperienza mi sta mettendo alla prova…la prima settimana a casa è stata tutta una discussione…adesso devo dire che sono stupita di M.E….mi sembra diventata più responsabile!”
Mamma di J.S. (classe seconda)
“…la cosa diversa è che ogni tanto mi chiede consigli sui compiti cosa che di solito non fa.”
Mamma di T.B. (classe terza)
“Mio figlio ormai non ci sopporta più perché gli stiamo sempre addosso…ma abbiamo riscoperto cose da fare insieme …qualche volta guardiamo anche un film! mai successo!”

TRA OTTIMISMO E PESSIMISMO
Mamma di E.S. (classe terza)
“…sarebbe comunque impossibile dire che va tutto bene…cerchiamo di volta in volta nuove strategie per farcela…”
Mamma di R.S. (classe quinta)
“aiutateci a sconfiggere questo virus… in ospedale abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti!”
Mamma di G.N. (classe quinta)
“I nostri ragazzi hanno una prova difficile da superare…hanno tanta fantasia, sono la nostra forza!”
Mamma di S.B. (classe seconda)
“Arrivo a sera con gli occhi e mente stanchi…comunque prof. se trova qualche appiglio interessante in quello che ho scritto lo usi pure!”
Mamma di C.L. (classe terza)
“Credevo potessero subentrare crisi di pianto: no cinema, no pizza, no amici, no moroso.. e invece devo ammettere che questi ragazzi hanno dimostrato carattere!”

Mentre scorro tutti i messaggi mi tornano nella mente i visi dei genitori che nei nostri incontri mensili avevano espresso la loro incredulità nello sperimentare l’indifferenza dei figli nei loro confronti tra pasti consumati frettolosamente e il silenzio impenetrabile su un mondo a loro precluso.
Adesso pare quasi che quel silenzio sia scappato fuori dalla casa, lungo le vie deserte, a riempire le piazze troppo grandi per quei due o tre passanti frettolosi che le attraversano, ignorando i superbi monumenti oggetto poco tempo prima di tanto ammirato interesse.
Non riesco a condividere l’affresco degli adulti dipinti nella Lettera agli adolescenti nei giorni del coronavirus di Matteo Lancini [puoi leggerla qui], psicoterapeuta, presidente dell’Associazione Il Minotauro di Milano, profondo conoscitore del mondo degli adolescenti. Secondo Lancini, questi adulti non si sono assunti le responsabilità necessarie a garantire ai figli ”un presente stabile e un futuro non troppo fosco”. O per lo meno, diciamo così, a livello di caratterizzazione generale del rapporto adulti/adolescenti, molte delle sue osservazioni sono chiaramente condivisibili; l’analisi dell’inadeguatezza del mondo degli adulti è corretta anche se spietata.

Ma poi ci sono le storie.Le storie personali di tantissimi genitori che non rientrano nelle statistiche dei vari osservatori, libri bianchi, ricerche a tema.
Ed ecco a tal proposito tornare alla mente una immagine dello straordinario film Jojo Rabbit di Taika Waititi, quella in cui il protagonista del film, un bambino di dieci anni appartenente alla Hitlerjugend, alla vista di quattro impiccati penzolanti sulla piazza della città, chiede: “Che cosa hanno fatto?”
“Quello che potevano”, risponde la madre.
Bene, questo verbo all’imperfetto detto dalla madre mi è rimasto dentro, anche se sul momento non ne ho ben capito il motivo. Certo, nel contesto della vicenda narrata era riferito a martiri che avevano fatto quello che era stato umanamente in loro potere per contrastare la follia del nazismo. Ma quell’imperfetto non poteva invece essere riferito anche a se stessa, a lei, come madre intendo? Non è sempre ‘imperfetta’ l’azione di ogni genitore?

Ricordiamo tutti il titolo del lavoro di Bruno Betthelheim, Un genitore quasi perfetto (Feltrinelli,1987), un libro che come pochi altri ha accompagnato generazioni di genitori nella riflessione sull‘importanza della realizzazione di una profonda comunicazione emotiva con i propri figli.
Insomma, leggendo e rileggendo i messaggi della chat dei genitori di questi giorni di forzato isolamento è come se la porta di casa che dà sulla strada di San Giovanni fosse per un po’ rimasta chiusa. La strada di San Giovanni (Italo Calvino, La strada di san Giovanni, Mondadori) è un racconto autobiografico di Italo Calvino, dove si narra delle visioni opposte della vita tra Italo e suo Padre, metaforicamente espresse dalla strada che, partendo dalla loro abitazione, portava, se presa verso l’alto, in campagna, luogo preferito dal padre, e invece verso il basso conduceva verso la città e la marina dove Italo cercava il suo mondo.

Cosa è successo? Cosa ha fatto chiudere la porta delle case?
E’ successo qualcosa che non era mai capitato prima d’ora e che ci fa vivere in una atmosfera irreale.
Come in un lugubre racconto, come in una favola antica, abbiamo visto con angoscia arrivare da molto lontano un essere misterioso e maligno, che ruba il respiro alla gente, seminando morte e paura nelle città. Le storie di tante persone vengono interrotte e anche i ragazzi non possono più continuare a incontrarsi liberamente, ma devono trovar rifugio proprio da dove simbolicamente erano appena partiti, per vedere di metter alla prova la loro vita.
Così, in attesa dell’arrivo del cavaliere che ucciderà la mortifera creatura, passano i giorni dei ragazzi, tutti dentro quella casa, fino a poche settimane sentita un poco stretta rispetto ai ricordi di quando erano bambini.
Certo, sono giorni con momenti di insofferenza e di fastidio, ma inaspettatamente anche di possibilità di ascolto e di ritrovo.

I problemi tra genitori e figli, se ci sono, rimangono, e dovranno essere affrontati prima o poi, se no si ripresenteranno sotto altre spoglie e in modo sempre più contorto. Ma come capita ai figli che si ricordano spesso di cose a cui noi lì per lì non abbiamo dato nessuna importanza, lo stesso succede adesso ai genitori rispetto ai figli: un sorriso, una partita a carte, un film guardato insieme… corrono veloci fin dentro l’anima, fanno bene dentro e cacciano la paura del buio. Quella paura di cui Freud ha detto:
“Il chiarimento sull’origine dell’angoscia lo devo ad un maschietto di tre anni che una volta sentii dire alla zia in una camera al buio: “Zia, parli con me, ho paura del buio”. La zia allora gli rispose: “ Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso”. “Non fa nulla – ribattè il bambino – se qualcuno parla… c’è più luce” (Sigmund Freud, Tre saggi sulla sessualità infantile (1905), in Italia: Boringhieri editore)

MERITO ED EMERITO
Valutiamo pure a distanza, ma di quale merito parliamo?

Leggo ‘Il dilemma’ dei professori: “Impossibile valutare da dietro a uno schermo”. Oltre a far lezione a distanza, i docenti dovranno anche trovare un modo per dare i voti agli studenti (maturità compresa), come specifica una nota del ministero.
Valutare bene è un problema.
Ho simpatia per il merito. Anche quando è attribuito con scarso fondamento. Nel mio caso ad esempio. Le amiche e gli amici del piccolo e caro Movimento Nonviolento mi chiamano, anche pubblicamente, Presidente emerito. Mi sono accorto che il buffo e immeritato appellativo mi piace. E poi il merito è un valore apprezzato anche dalla nostra Costituzione: articolo 34, terzo comma, “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. È la Repubblica impegnata a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” già indicati al secondo comma dell’articolo 3. La Repubblica lo fa apprezzando il merito. Sempre lo stesso apprezzamento induce a chiamate a posti di massima responsabilità: articolo 59, secondo comma, senatori a vita per altissimi meriti, e articolo 106, terzo comma, consiglieri di cassazione per meriti insigni.
Contro l’ideologia del merito (Saggi Laterza, 2019) di Mauro Boarelli induce al sospetto, se non nei confronti del merito come tale, verso l’uso che se ne fa. In definitiva hai quel che meriti e meriti quello che hai, se il confronto è libero e aperto. Lo decide il mercato in ogni “campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, come dice la Costituzione quando è il Presidente della Repubblica a scegliere senatori a vita. È la forma naturale e migliore in cui la società può organizzarsi. Lì si vede il merito all’opera. Da lì può scaturire una società meritocratica. Avanti dunque con privatizzazioni, liberalizzazioni, concorrenza nella scuola, nella sanità, nell’assistenza, nelle condizioni di lavoro… Anche le diseguaglianze che ne derivano non potranno che essere benefiche. Il Merito dà, il Merito toglie, il Merito sia benedetto.
Vaghi ricordi di Sociologia dell’Educazione, coltivata per anni con Alberto L’Abate, mi inducono a pensare si debbano valutare, con attente metodologie, i risultati nel passaggio da insegnamento e apprendimento attraverso la scuola. Non ho pregiudizi quindi nei confronti dell’Invalsi. L’acronimo di Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione poteva essere più felice. Ne ho conosciuto però di più sfortunati: Cagare (Consorzio aziendale gas acqua Reggio Emilia) mutato subito in Acag (Azienda consortile acqua gas). Da qualche anno la gestione è passata, non so se la cacofonia abbia avuto qualche peso, a una multiutiliy dal nome armonioso: Iren. Ho anzi un ricordo piacevole legato a Invalsi. Anni fa, svariati anni fa, mia nipote conduce coetanei a vedermi in spiaggia. Sono sotto l’ombrellone a leggere. Mi salutano. Educatamente si presentano. Vanno via. Le chiedo “Perché sono venuti?” “Ho detto che mio nonno risolve gli Invalsi. Hanno detto che sei un simpatico vecchietto”.
Magari qualche dubbio su come la scuola valuta se stessa ce l’ho. Dai tempi della Lettera a una professoressa non valuta il suo classismo se non in termini di politically correct. La scuola pubblica, quella che Aldo Capitini voleva difesa e sviluppata, è tale perché accoglie tutti e tutti vuole portare ai più alti risultati. Solo nell’eguaglianza di fondo c’è spazio per valorizzare le differenze. Una singola scala di valutazione non può servire. Ci dice una cosa sola: chi è più bravo nel risolvere i quesiti Invalsi. Avessi qualche dubbio ancora e specifico sugli Invalsi, me lo toglie l’amico e ottimo maestro Mauro Presini (dovevamo insieme presentare a Ferrara il numero di Azione nonviolenta dedicato alla scuola, appuntamento rinviato a tempi migliori). Lo conosco da quando, in servizio civile per obiezione di coscienza nei primi anni Ottanta si occupa di integrazione scolastica di alunni portatori di handicap, Lo ritrovo, primi anni novanta, al Provveditorato agli studi di Ferrara nel gruppo di lavoro Interistituzionale per l’integrazione. Non l’ho più perso di vista. È competente e appassionato costruttore di una scuola di tutti e per tutti, in ogni ordine e grado, di una scuola, organo decisivo della nostra Costituzione, secondo la felice espressione di Piero Calamandrei. Ecco un link,  con l’augurio di una proficua e piacevole lettura: mauropresini.wordpress.com [Qui] . Troverete Invalsi è l’anagramma di Salvini, InFalsi d’autore, Test Invalsi da girls & boy…cottare, Invalsi si, Invalsi no…la terra dei cachi, Visi invisi all’Invalsi. Altri ancora mi saranno sfuggiti. C’è poi tantissimo altro e non voglio rovinare la sorpresa.
Per avere un’idea di come l’ideologia del merito si sia impossessata delle menti e dei cuori, che un tempo stavano a sinistra, non trovo di meglio che proporre un breve video di Teresa Bellanova, coetanea di Mauro Presini, giovanissima bracciante e ora Ministro, che sfida gli estremisti del Partito Democratico promotori della congiura degli eguali.[Qui]

L’articolo di Daniele Lugli è apparso su Azione non violenta online con il titolo ‘Mi chiamano Emerito’.………………..….

Comune di Ferrara ed emergenza alimentare
Ferrara si mobilita

Da: Cgil Cisl Uil Ferrara.

Confidiamo sul fatto che possa esserci stata una clamorosa svista in quanto comunicato dal Comune di Ferrara in relazione all’assegnazione delle risorse destinate alla solidarietà alimentare per l’emergenza sanitaria in corso.
Perché se così non fosse ci troveremmo di fronte ad un inaccettabile esercizio di discriminazione, ancor più inaccettabile in tempo di emergenza sanitaria, sociale ed economica.
Prevedere quali requisiti ” elencati in ordine di priorità: avere cittadinanza italiana; avere cittadinanza di uno Stato appartenente all’Unione Europea; essere in possesso della cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione Europea con permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo; essere in possesso di una carta di soggiorno per familiare, comunitario o extra comunitario, di cittadino dell’Unione Europea”, oltre a rappresentare un odiosa classifica basata su status e non sul bisogno, significa escludere un’importante parte della cittadinanza – quella che vive la condizione di maggiore precarietà – da una fondamentale misura emergenziale di coesione sociale. Per quale motivo dovrebbe essere ignorato da una misura emergenziale alimentare un cittadino straniero che ha perso il lavoro e si trova in difficoltà, solo perché in possesso di un permesso di soggiorno diverso da quello per soggiornanti di lungo periodo? Magari una delle tante colf e badanti che stanno perdendo il lavoro senza essere coperte da alcun ammortizzatore sociale?
Non è tempo di ciechi populismi e di propaganda, è tempo di fare il proprio dovere istituzionale per rispondere alle esigenze di una collettività.
Chi amministra ha il dovere costituzionale di agire per rimuovere le disuguaglianze nell’interesse di tutti, non di vivere il proprio ruolo come esercizio del potere per decidere a proprio piacimento chi lasciare alla fame e chi no.
C’è un limite a tutto, e qui lo si è oltrepassato: ci appelliamo al Prefetto perché intervenga come rappresentante dello Stato per riportare le azioni di questa Giunta all’interno degli obiettivi dell’ordinanza della Protezione Civile e di un ordinamento democratico.

FILASTROCCHE SCACCIAPAURA
4 modi molto astuti per gabbare il virus

1. Gigetto scendiletto

Il virus Gigetto
sta sullo scendiletto.
Sa d’essere invisibile
e si crede invincibile.

Difatti, chi lo vede?
Di certo non un piede!
Ma la festa è finita
con una bella pulita.

L’aspirapolvere lo afferra
e lo solleva da terra
lo manda al suo paese
lui con le sue pretese.

Non tornerà a minacciare i tuoi piedi
questo piccolo virus che non vedi.

 

2. Martina non cammina

Il virus Martina
non corre, non cammina
e dice: “Chi ha il coraggio
di darmi un passaggio?”

Ma stammi ad ascoltare,
non farti incantare.
E voi, state a sentire:
è meglio non uscire.

Il virus Martina
ormai senza benzina
senza arte né parte
ritornerà su Marte.

E se va via qui passa la paura
come al mattino passa la notte scura.

 

3. Gigetto con l’elmetto

Il virus Gigetto
ritorna con l’elmetto.
“Stavolta non mi arrendo,
ti mordo, ti prendo!”

Poi tenta la scalata
ad una fidanzata
che sta nel suo palazzo
e sogna il suo ragazzo

ma lei è intelligente
come tanta altra gente
e sognando il domani
si è lavata le mani.

Guarda Gigetto che bello scivolone
e come ruzzola l’elmetto sul sapone!

 

4. Martina gocciolina

Il virus Martina
sta su una gocciolina
se qualcuno la tocca
può metterselo in bocca.

Ci spera tanto, vorrebbe canticchiare
nella tua gola e lì moltiplicare
con la tua tosse, con i tuoi starnuti
e ogni volta che sorridi o che saluti.

Ma basta solo una bella mascherina
e resta a secco il virus Martina.
Basta lavarsi le mani molto spesso
vedrai che il virus l’avrai fatto fesso.

Metti la maschera e torna il Carnevale
così Martina non potrà farti male.

 

 

 

 

I misteri della pianura
Uno sguardo spassionato all’Emilia Romagna da fuori

Niente è più come prima. O meglio, non è più come ce la siamo sempre immaginata, la tipica Emilia Romagna. Bisogna chiedere agli anziani come era negli anni cinquanta e sessanta, quando non si riusciva a vedere a un palmo dal naso per la nebbia, che in autunno dalla mattina alla sera tuffava le città e i paesini alle sponde del Po in spesse matasse di cotone. “Nebbia e nebbia per giorni” (Attilio Bertolucci). Cosa sarebbero stati i primi film di Michelangelo Antonioni, i romanzi di Riccardo Bacchelli o di Giorgio Bassani, le fotografie di Luigi Ghirri senza l’eterna nebbia? Ci sono ancora, quelle giornate piene di foschia e di nebbia in Emilia, ma bisogna soltanto guardare le ciminiere dell’industria chimica all’orizzonte di Ferrara per capire da dove provengono queste serate d’autunno, appiccicaticce e impenetrabili. Da nessun’altra parte in Italia si vedono così tante biciclette nelle stradine, o perfino in alcune città, come in Emilia. Appena si lasciano però, queste stradine fuori mano, un tir dopo l’altro passa rombante sulle strade ricche di storia come la Via Emilia o la Via Romea. Ci sono ancora anche le bandiere rosse ad ornare molti giardini, ma non ci abitano più i comunisti di una volta, fieri di mostrare le proprie convinzioni politiche.

L’Emilia non è più la “terra rossa”, forse ancora ‘la terra rosa’ . Non si vedono più la falce e il martello, ma l’emblema della Ferrari con la sede principale a Maranello nei pressi di Modena. La famosa in tutta l’Europa, egemonia della sinistra di una volta va svanendo ad ogni votazione. A parte i vecchi compagni d’una volta, qui nessuno vuol esser chiamato “comunista”. Peppone, il funzionario del partito comunista dall’atteggiamento stalinista e di fede cattolica, creato da Giovanni Guareschi, è da tempo divenuto una “figura da cartolina”, come anche la sua astuta controparte cattolica, Don Camillo. Se poi è sempre vero che c’è ancora un prete in ogni paesino, allora al giorno d’oggi, è spesso di origine polacca o africana. Ci sono addirittura chiese dissacrate che ospitano pezzi di antiquariato o che sono diventate in passato cinema a luci rosse. In alcune cittadine vivono ormai tanti musulmani quanti cristiani. Mentre le commemorazioni della Resistenza antifascista sbiadiscono sempre di più, diventando semplici riti di dovere delle autorità politiche locali; i negozietti di souvenir attorno alla tomba del Duce a Predappio non hanno di che lamentarsi perché gli affari non vanno male. Nessuno ha descritto così attentamente, in modo così laconico ma allo stesso tempo molto poetico, lo smantellamento della cultura ebraica in Italia e le deportazioni degli ebrei italiani nei campi di sterminio tedeschi come il ferrarese Giorgio Bassani. Deportazioni di ebrei, di cui però non pochi erano stati fedeli seguaci di Mussolini fino alle leggi razziali del 1938!

Attorno a città come Bologna, Parma, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Ferrara, Ravenna o Rimini, con le loro splendide piazze e i loro palazzi rinascimentali, si sono formate spesse croste di supermercati, outlet, autolavaggi e discoteche come le si possono trovare dappertutto in Europa. Forse però, i sobborghi italiani sono ancora più noiosi, ancora più commercializzati e ancora più brutti che nel resto d’Europa. Forse qui la distruzione dei paesaggi da parte dell’edilizia selvaggia è talmente deprimente e dolorosa perché le immagini nelle nostre menti sono così ingenue e idilliache.

Nonostante l’evidente uniformazione di tante città e di tanti paesini sul Po, qui è ancora possibile scoprire favolosi misteri. Per la fantasia degli scrittori e degli artisti questa è ancora terra molto fertile. E l’orgoglio della popolazione locale per la ‘bella pasta’, il prosciutto di Parma o la piadina romagnola è tuttora imbattuto. In ogni piccolo paesino c’è una trattoria con un menù che al di là delle Alpi si può soltanto sognare. E anche se le Feste dell’Unità, tradizionalmente feste comuniste, hanno perso il loro nome e ogni significato politico, a queste feste, che possono durare anche delle settimane intere, si cucina ancora come ai tempi delle vecchie cooperative comuniste.

E si è anche orgogliosi della letteratura dell’Emilia Romagna, che ha donato alla cultura italiana opere immortali e scrittori indimenticabili. I libri di scuola sonno pieni di autori nati, cresciuti e morti proprio qui, o che hanno ambientato i loro romanzi o i loro racconti qui. Ariosto, Pascoli, Bassani, Baccelli, Guareschi, Malerba provengono da qui. Pier Paolo Pisolini è nato nel Friuli, a Casarsa delle Delizie, e lì è stato anche sepolto assieme a sua madre, ma anche lui ha vissuto per anni a Bologna. Neanche Umberto Eco è emiliano (è nato in Piemonte, ad Alessandria), è vissuto però per decenni a Bologna e a San Marino, quel minuscolo Stato autonomo in mezzo alla Romagna. Anche Mario Soldati era piemontese, ma amava i paesaggi della pianura padana e così le dedicò alcuni dei suoi più bei racconti di viaggio. Gianni Celati è di Sondrio, in Lombardia, ma come nessun altro scrittore italiano ha dedicato racconti meravigliosamente affettuosi ai “matti padani”, una razza di civette che si trova nei pressi del Po. Le figure letterarie di Ermanno Cavazzoni, nativo di Reggio Emilia, forse sono ancora più bizzarre, più stravaganti e ancor più fantasiose. Chi non ha ancora letto i suoi racconti non riuscirà mai a comprendere le particolarità dei Padani, le loro stranezze, il loro modo di fare spesso un po’ ribelle. Importanti giornalisti italiani come Enzo Biagi, Gianni Brera e Sergio Zavoli sono nati qui. Lo sfortunatamente già deceduto Lucio Dalla e Franceso Guccini, due dei grandi cantautori degli anni settanta e ottanta, sono di Bologna e di Modena. E a Zocca, un paese vicino a Bologna è nato Vasco Rossi, una delle rock star più grandi degli ultimi decenni. Per non dimenticare naturalmente due veri giganti del cinema italiano: Federico Fellini di Rimini e Michelangelo Antonioni di Ferrara. Cesare Zavattini, al di là delle Alpi forse conosciuto soltanto dai cineasti come geniale sceneggiatore (“Umberto D”) e “impresario di cultura”, è di Luzzara, vicino a Parma.
Tonino Guerra, sceneggiatore del film forse più popolare di Fellini “Amarcord” e collaboratore di registi come Angelopoulus, è di Sant’Arcangelo nelle vicinanze di Rimini.

Nei testi di autori d’ogi, come Ugo Cornia, Daniele Benati, Giulia Niccolai o Simona Vinci invece, si sente più forte che la velocissima industrializzazione ha lasciato un segno su questa regione e ne ha distrutto il paesaggio. Ma così come la tenue luce della pianura padana riesce ancora a donarle un aspetto magico, nei testi letterari un po’ più vecchi, e anche meno vecchi, si riesce ancora a trovare un’Italia che forse non esiste più, in questa forma, nella realtà, ma che riesce ad emanare ancora un fascino particolare grazie all’atmosfera malinconica e nebbiosa della pianura e grazie alla comicità surreale che guizza in tanti discorsi. L’Italia reale, poco spettacolare, talvolta perfino un po’ laconica e inaspettatamente silenziosa, allo stesso tempo però sempre fiera della propria storia e cultura, in Emilia Romagna si riesce ancora a trovarla. E se non la si trova (più) nella realtà, sicuramente si trova nella letteratura che questa regione ha fatto nascere.

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (quarta tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

XXVII

parleremo di nebbie
tra le anguille piccole
quelle gialle
dove terra
finisce

XXVIII

ancora
riprendere
il tuo
colore
dal cielo
il tuo pennello

XXIX

pesticidi
laghi fiumi
canali
d’Italia
infestati
non diciamo più
che siamo
degli animali!

XXX

una volta
la morte
incuneò
satana
tra le dolomie
ne nacque
la superba
fragilità

XXXI

un glicine
espanso
i grappoli
di quel Zeus
tutto tuo
a primavera
le rose
sono esplose

XXXII

la corrotta
imbellettata
società
dei gradassi
che ti mangia
e sputa
sul piatto
dove mangia

XXXIII

biodiversità
vai a a capire
è un tema politico
l’Italia
è
tutta diversa
mi pare
Ravenna
la camera
di Sant’Andrea

XXXIV

la camera di
Sant’Andrea
mi riappare
quel ciuffo
di petali
anni brevi
dove il frantume
si fece eterno
ravennate

vai alla terza tappa

vai alla quinta tappa

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Il paradosso del focolare

A due piazze con Riccarda e Nickname sui paradossi, la mancanza di logica di certe cose che si sentono e non si spiegano.

N: Vivere segregati tra quattro mura per un tempo indefinito non è piacevole. Vivere segregati con qualcuno che non conosci più, o che conosci troppo, è decisamente spiacevole. Vivere separati da qualcuno che ami senza sapere quando lo rivedrai, senza poterlo assistere se sta male, può essere un incubo.Vivere separati da qualcuno che non si è ancora separato è un paradosso zen.

R: E perché non un paradosso di Zenone? Non potresti anche essere Achille affannato dietro una tartaruga in perenne vantaggio? O una freccia che, contro ogni apparenza, resta immobile nello spazio che occupa in quell’istante?

N: Il paradosso di Zenone è valido in matematica, ma in fisica Achille la tartaruga la raggiunge, eccome…In realtà mi riferivo piuttosto al fatto che i koan, gli indovinelli zen, mostrano i limiti della ragione. Usare la logica per spiegare perché accadono alcune cose è inutile. Alcune cose non sono giuste o sbagliate, bianche o nere. Alcune cose si sentono.

R: Mi piacerebbe chiederti cosa senti e come senti, sono sicura non useresti la logica, la cronologia dei fatti, il metodo dimostrativo a cui a volte ricorri.
Pronunceresti un nome, senza bisogno di spiegarti. E non sarebbe un paradosso.

Quali paradossi, contraddizioni avete vissuto? Quali conflitti avete rinunciato a spiegare logicamente?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

ECONOMIA E SOCIETA’ NEL TEMPO DEL CORONAVIRUS:
una storia diversa da quella che ci raccontano

Nulla sarà più come prima”, “E’ come essere in un’economia di guerra” e altre iperboli di questa natura sono diventati commenti comuni nel descrivere quanto sta succedendo a seguito della diffusione della pandemia legata al coronavirus. E questa volta bisogna dire – e avere la consapevolezza – che sarà proprio così, che non siamo in presenza di affermazioni esagerate o sensazionalistiche. La crisi sociale ed economica che deriva dalla pandemia coronavirus, ancora di più di quella iniziata con il 2008 e in realtà mai finita, evidenzia l’insostenibilità del modello neoliberista, del capitalismo rapace e dominato dalla finanza che si è costruito dagli anni ‘80 del secolo scorso e che oggi è giunto al capolinea e non potrà più essere riproposto negli stessi termini.
Come in tutti i passaggi epocali – e oggi siamo di fronte a ciò – usciremo da queste vicende con un quadro economico e sociale molto diverso da quello di oggi, in meglio o in peggio. Per provare ad uscirne costruendo una condizione positiva per le persone, a partire da quelle che vivono una situazione di debolezza e fragilità, occorre  dotarsi se non di una bussola, perlomeno di alcune coordinate per orientarsi in quella che sembra una realtà, se non intellegibile, comunque complessa.
Questo ci serve anche nell’immediato: perché l’emergenza va trattata come tale, con provvedimenti e comportamenti adeguati ad essa, ma la paura e l’angoscia che l’accompagna può essere, almeno in parte, arginata facendo ricorso al sentimento e all’azione di vicinanza e solidarietà, nelle condizioni date, e al pensiero lungo e riflessivo.

Provo ad ordinare alcuni di questi pensieri.
Un primo tema si dipana attorno alla questione della sanità pubblica e, più in generale, dei servizi pubblici. Tutti ora si sperticano a sottolineare il suo ruolo fondamentale e insostituibile e a chiamare eroi tutte le persone che lì vi lavorano. Peccato che veniamo da anni in cui la sanità pubblica è stata dipinta, nel pensiero dominante, come fattore di spreco, settore che assorbiva troppe risorse e che doveva essere razionalizzato: modo elegante per dire che si trattava di operare tagli significativi e ampliare il ruolo dei soggetti privati.
E infatti così è successo: la spesa sanitaria pubblica nel nostro Paese, secondo i dati della Ragioneria dello Stato, cala, in proporzione sul PIL, dal 7% del 2008 al 6,8% del 2017, scendendo al di sotto della media europea (7%), mentre cresce nello stesso periodo in Germania ( dal 6,4% al 7,1%) e in Francia ( dal 7,4% all’8%). Tutto questo avviene mentre l’Italia è il paese europeo con la maggiore percentuale di individui oltre 65 anni, il che si traduce anche nel fatto che, come ci spiega l’Ufficio Parlamentare per il Bilancio, dal 2012 al 2018 la spesa privata delle famiglie per l’assistenza sanitaria per cura e riabilitazione è cresciuta del 25,1 %. Dunque, la spesa complessiva per la salute (e anche l’accesso alle cure) si riduce e grava sempre più sulle singole persone e famiglie.
Questo è ulteriormente testimoniato dall’andamento dei posti letto ospedalieri, che si contraggono da 3,9 per 1000 abitanti nel 2007 a 3,2 nel 2017 ( circa 35.000 in meno in valori assoluti), contro una media europea diminuita da 5,7 a 5, senza che ci sia stato un sufficientemente potenziamento dei servizi territoriali. Infine, il personale a tempo indeterminato del Servizio Sanitario Nazionalegli eroi di oggi, fino a ieri da molte parte inseriti nel novero dei ‘fannulloni’ dell’esercito dei dipendenti pubblici – nel 2017 è risultato inferiore a quello del 2008 per circa 42.800 lavoratori (da circa 689.200 a circa 647.000, con una diminuzione del 6,2 %), per effetto in particolare del blocco del turn-over e del contenimento della spesa.
Insomma, le vicende di questi giorni ci dicono senza equivoci che occorre un’inversione di tendenza radicale rispetto agli orientamenti applicati alla sanità pubblica negli ultimi decenni: da costo insostenibile, da sacrificare sull’altare del rientro dal debito pubblico e sulla base di una falsa presunzione di risorse economiche impossibili da reperire, a investimento essenziale per salvaguardare la vita e la salute delle persone. Diventa necessario affermare questo rovesciamento di paradigma, quello che subordina i diritti fondamentali alle logiche economiche dettate dal mercato e dalla finanza. Come hanno bene argomentato il noto antropologo Jared Diamond e il virologo Nathan Wolfe in un illuminante articolo uscito su La Repubblica del 21 marzo scorso, non possiamo pensare che la pandemia (in questo caso derivante dal coronavirus) sia un fatto unico e eccezionale, ma possa invece ripresentarsi anche nel futuro.

Tutti questi ragionamenti relativi alla sanità vanno necessariamente estesi all’insieme dei servizi pubblici che garantiscono i beni comuni, dall’acqua all’istruzione e alla cultura, dal ciclo dei rifiuti all’energia, tutti sottoposti negli anni passati alla medesima ‘cura’ di privatizzazioni e de-finanziamento pubblico.

Bisogna poi allargare lo sguardo e ragionare su quella che si preannuncia essere una crisi economica ben più grave di quella sviluppatasi a partire dal 2008. Non è certo facile fare previsioni in questo contesto, ma alcuni elementi sono già abbastanza chiari. Innnanzi tutto, appare evidente che questa di oggi assomiglia più alla crisi dell’ultimo dopoguerra piuttosto che a quella apertasi con il 2008. Quest’ultima, infatti, ha preso le mosse da una crisi finanziaria, il fallimento della Lehman Brothers, mentre quella che si prefigura oggi è una crisi dell’economia reale, con una caduta brusca della produzione, dei consumi e dei redditi. Del resto, non casualmente, (come è apparso su Il Sole 24 Ore) nei primi 15 giorni di marzo, i consumi di energia sono crollati nel nostro Paese di circa il 10-15%. Un dato che va preso con le pinze, visto che si riferisce ad un arco di tempo molto limitato, ma che fa correre la memoria molto di più al dopoguerra (nel 1943 i consumi di energia elettrica calarono di circa il 10%), che non alla crisi del 2008-2009, quando questi si ridussero rispettivamente dello 0,1% e del 5,7%.
Un secondo elemento è che questa crisi si innesta su una fragilità del sistema economico mondiale, dominato dalla logica neoliberista, tant’è che molti economisti, già da tempo, si interrogavano non se si sarebbe registrata una nuova situazione di crisi, ma quando essa si sarebbe manifestata. Il fatto è che le ricette messe in campo dopo il 2008-2009 mostravano, già prima della vicenda coronavirus, la loro incapacità di far fronte in modo strutturale ai problemi allora emersi, riproducendo uno scenario simile a quello che aveva prodotto quella crisi. Infatti, a partire dal 2008, il sistema economico è stato inondato di liquidità per gli istituti di credito, i fondi di investimento e le imprese: il famoso Quantitative easing di Draghi fa esattamente parte di questa strategia. Questa ‘cura’  ha fatto sì evitare il fallimento a catena delle banche, ma ha generato un mondo alla rovescia, per cui in molti Paesi i tassi di interesse sono diventati negativi, cioè anziché pagare un interesse per prendere denaro a prestito, si riceve un premio! Una situazione di questo tipo, a sua volta. ha sospinto i vari soggetti economici a livelli di indebitamento molto elevati, favorendo potenti movimenti speculativi, ma mettendoli in una situazione ad alto rischio. Un rischio che diverrebbe triste realtà nel momento in cui questa nuova bolla finanziaria esplodesse e costringesse al rientro dal debito, che oggi a livello mondiale viaggia a cifre stratosferiche, raggiungendo il 226,5% del Pil mondiale nel 2018, a un soffio da 188mila miliardi di dollari (nel 2007 si attestava a meno del 194% del Pil). E’ proprio questa fragilità di fondo del sistema economico-finanziario che ha fatto sì che in queste settimane le Borse di tutto il mondo abbiano conosciuto un vero e proprio tracollo: la Borsa di New York in questi giorni ha ‘bruciato’ tutta la crescita straordinaria degli ultimi 3 anni della presidenza Trump, dovuta alla sfacciata politica protezionista e pro-imprese e finanza della destra reazionaria americana.

In terzo luogo, dopo gli sbandamenti e gli sbagli iniziali – vedi le dichiarazioni di Christine Lagarde – gli stessi governi dei Paesi cosiddetti ‘sviluppati’ sembrano rendersi conto che la nuova crisi necessita di interventi che vanno ben al di là di quanto anche solo pensato finora. Il governo italiano ha messo in campo una manovra, che peraltro non basterà, di 25 miliardi di euro, portando il rapporto tra deficit/PIL al 3,3%, un’ eresia inimmaginabile rispetto al totem del famoso vincolo del 3%. L’Unione Europea sospende il Patto di stabilità e crescita, che contiene anche quella prescrizione, e annuncia interventi per 1.100 miliardi di euro, e persino Trump annuncia un intervento di almeno 2.000 miliardi di dollari, la più massiccia della storia, pari a quasi il 10% del Pil, comprensiva di un assegno diretto alle famiglie (altra eresia, per l’economia mainstream) fino a 3.000 dollari.
Tutto bene, allora? Assolutamente no. Non solo perché queste misure possono essere decisamente insufficienti dal punto di vista quantitativo, ma soprattutto perché esse si muovono in una logica emergenziale, che, se può avere una qualche giustificazione in questa fase, non è però in grado di affrontare il problema alla radice e provare a risolverlo. In realtà, non si potrà uscire da questa situazione senza mettere in campo un nuovo grande intervento pubblico – una sorta di nuovo Piano Marshall, come da più parti si dice – e un forte sostegno al reddito ai cittadini, che deve incrociarsi con un cambiamento profondo del modello produttivo e sociale, fondato sul potenziamento dei servizi pubblici, l’affermazione dei beni comuni e la riconversione ecologica dell’economia.

Qui emergono i nodi di fondo che ci stanno di fronte: un nuovo Piano Marshall, anche nella sua accezione più ristretta, quella che anima i governi, non potrà che essere finanziato in deficit. Visto che non possiamo aspettarci che, come nel dopoguerra, ci venga in soccorso l’America, chiusa su se stessa e comunque in evidente crisi di egemonia, l‘unica risposta non può che venire dallEuropa, che però deve cambiare in profondità le proprie scelte, a partire dall’introduzione degli eurobond, costruendo una solidarietà reale ed evitando di andare in ordine sparso, come sembra fare in questi giorni. E bisogna anche ‘convincere’ i mercati e chi li rappresenta, che da questo momento non sono più loro a comandare, che devono tornare ad essere subordinati all’interesse generale e che la salvaguardia della vita viene prima degli andamenti della Borsa e dello spread.
Per stare alle ‘piccole vicende’ di casa nostra, Confindustria deve farsi una ragione: sarà necessario un ruolo fondamentale dell’intervento pubblico, a differenza di quanto dichiara Carlo Bonomi, nuovo presidente in pectore della stessa, che qualche giorno fa affermava: “Non mi convince affatto l’idea che da questa nuova crisi si uscirà con lo Stato protagonista dell’economia. Lo Stato deve rimanere regolatore, non gestore”. Non si può invece, non si deve continuare a insistere per tenere aperte più fabbriche possibili, anteponendo la creazione di profitto alla salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Insomma, la strada per costruire un nuovo paradigma economico e sociale è tutt’altro che in discesa e comporterà mobilitazione sociale e politica. Ad essa non ci sarà alternativa, se non si vuole che si realizzino le fosche previsioni avanzate in questi giorni dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro, secondo la quale, senza interventi opportuni, la nuova grande recessione che si annuncia potrebbe distruggere 25 milioni di posti di lavoro nel mondo, più di quella del 2008, un ulteriore impoverimento dei lavoratori e una sostanziale riduzione del loro reddito assieme alla conseguente caduta dei consumi di beni e servizi.

Infine, non meno importante sarebbe ragionare sul tema del cambiamento climatico, delle possibili implicazioni che esso ha anche nelle vicende del coronavirus e, sopratutto, della sua strategicità rispetto alla costruzione di un nuovo modello produttivo e sociale. E ancora, sul ruolo della politica e della mobilitazione sociale in questo contesto. Ci si potrà tornare sopra, per ora mi pare di aver ‘tediato’ abbastanza il lettore. Mi limito ad una provvisoria conclusione, rubando una citazione dell’economista Raj Patel: Il problema dell’odierna crisi del capitalismo è che a risolverla si candida il capitalismo medesimo”. E’ esattamente così. E’ questo il grande rischio che dobbiamo evitare.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

Il sindaco Fabbri: “Vogliamo raggiungere il maggior numero di famiglie, chiedo a tutti attenzione e correttezza”

Da: Comune di Ferrara.

Comincia domani alle ore 14 la distribuzione gratuita delle 150mila mascherine acquistate dal Comune di Ferrara per i cittadini. Grazie al lavoro dei consiglieri comunali e degli assessori che dalla giornata di domenica sono incessantemente all’opera, le mascherine verranno distribuite all’interno di buste di carta con il logo del Comune di Ferrara, contenenti ognuna tre pezzi. La distribuzione proseguirà fino a venerdì 3 aprile compreso, salvo esaurimento scorte e sarà ripetuta nelle prossime settimane.

“E’ importante che per consentirci di raggiungere il maggior numero possibile di famiglie ogni nucleo familiare ritiri una sola busta, anche in virtù del fatto che nelle prossime settimane verranno organizzate nuove distribuzioni e che cercheremo di andare incontro a tutte le esigenze dei cittadini a partire da quelli più fragili, che in questo momento vanno protetti maggiormente – spiega il sindaco di Ferrara Alan Fabbri -. Abbiamo organizzato una modalità di distribuzione che dà ai cittadini diverse possibilità: di raggiungere a piedi il negozio più vicino o di recarsi in auto presso un checkpoint, o per chi non può muoversi per motivi di salute, di ricevere le mascherine direttamente a casa. Mi aspetto dai ferraresi una dimostrazione di generosità e che sia del tutto infondato il timore che molti cittadini ci hanno espresso relativamente alla possibilità che qualcuno approfitti della distribuzione gratuita per fare incetta di mascherine”.

Ecco dove è possibile ritirare le mascherine:

1) Punti vendita. Gli esercizi commerciali aperti, segnalati dalle Associazioni di categoria e tutte le farmacie del Comune di Ferrara,a partire da domani e nei prossimi giorni fino ad esaurimento scorte, verranno riforniti del materiale da distribuire. Per i cittadini sarà semplice individuare i negozi a cui rivolgersi perché gli stessi esporranno una locandina (in allegato) con le indicazioni del caso. Dalla mattina di mercoledì anche le edicole avvieranno la distribuzione, segnalandola attraverso l’affissione della medesima locandina.

2) Check point. Martedì pomeriggio, nei pressi dei principali centri commerciali della città, verranno attivati 4 check point per la distribuzione delle mascherine. Si tratta di punti di distribuzione fissi a cui se ne aggiungeranno altri che a rotazione toccheranno tutte le frazioni della città (il calendario verrà comunicato nella giornata di domani). I check point fissi saranno attivi tutti i pomeriggi, da martedì 31 marzo fino a venerdì 3 aprile, dalle ore 14 alle ore 18, posizionati all’esterno delle strutture commerciali e raggiungibili esclusivamente in auto. A gestire la distribuzione sarà l’Associazione Nazionale Carabinieri e i check point saranno ben identificabili grazie alla presenza dei mezzi dell’Associazione dell’Arma. In particolare i check point fissi saranno posizionati presso: IPERCOOP IL CASTELLO, ingresso Via Andrej Sacharov IPERCOOP LE MURA, ingresso Via Copparo IPERTOSANO, ingresso Via Diamantina INTERSPAR VIA POMPOSA, ingresso Via Pontegradella. I cittadini dovranno avvicinarsi al banchetto, abbassare il finestrino rimanendo all’interno del veicolo, quindi ricevere la busta con il materiale in piena sicurezza.

3) Spesa a domicilio. Chi già riceve la spesa a domicilio con un servizio gestito da volontari , senza la necessità di farne richiesta, a partire da mercoledì, troverà in aggiunta alle provviste anche la busta con le mascherine. Le associazioni non vanno considerate agenti di distribuzione di mascherine a domicilio e non verranno accettate richieste non realmente motivate da necessità riscontrabili.

4) Consegna a casa. Per chi è temporaneamente impossibilitato per motivi di salute o di età (anziani, malati ecc) a muoversi da casa, il Comune ha attivato il numero 366-8243080 attivo dal lunedì al venerdì dalle 09.00 alle 16.00, utile anche per i sordomuti attraverso il servizio di messaggistica.

Ricordiamo che i checkpoint sono raggiungibili esclusivamente in auto per motivi di sicurezza e che, per evitare assembramenti, i cittadini non devono recarsi nei punti vendita esclusivamente per il ritiro della mascherina, ma considerare questa una opportunità in aggiunta alla normale attività di acquisto. E’ inoltre importante ricordare che mascherine distribuite non vanno considerate dispositivi di protezione individuale, ma si tratta di strumenti comunque utili nello svolgimento delle normali attività quotidiane, da utilizzare in aggiunta alle altre prescrizioni sanitarie (distanza interpersonale, igiene delle mani ecc) per evitare il propagarsi del contagio da Covid 19.

L’EUROPA E LA SPERANZA:
due settimane decisive per rinascere o morire

Nei prossimi giorni si decide la sorte della prossima Unione Europea.
Il Governo italiano insieme a Francia, Spagna ed altri 7 Paesi – che detengono sia la maggioranza del Pil dell’Eurozona (60%), che della popolazione (65%) – chiedono ai Paesi partner (Germania, Olanda, Austria più il blocco dei Paesi dell’Est Ungheria, Polonia ecc.) di introdurre misure specifiche (tipo Eurobond) per finanziare la ricostruzione dell’Europa dopo la catastrofe causata dal Covid-19.
Tra 2 settimane sapremo se ci sarà questa svolta decisiva. Non si tratta di mettere a carico dei tedeschi il nostro debito pubblico creatosi fino ad oggi, e neppure il nuovo debito che nascerà, ma solo una parte da stabilirsi, che dovrebbe essere sottoscritta da tutti gli europei (risparmiatori e istituzioni finanziarie) con un rischio pari a zero e un tasso di interesse molto basso (proprio per non gravare sui debiti pubblici accumulati).
Ciò consentirebbe di immettere una enorme liquidità ed aiuti una tantum a tutti gli europei per 3 o 4 mesi (imprese, lavoratori, disoccupati, lavoratori in nero da regolarizzare), utilizzando anche forme inedite, ad esempio assicurare a tutti un reddito di base. E successivamente avviare alcune politiche comuni come l’introduzione di un sussidio di disoccupazione europeo, un’indennità comune per i poveri, un consolidamento delle spese per sanità, scuola, lavoro per i giovani, erasmus in tutta Europa: una sorta di primo pilastro di base di welfare europeo uguale per tutti.
Spingono in questa direzione anche le scelte della BCE. la quale ora ha capito che deve aprire i ‘cordoni della borsa’ con misure imponenti, acquistando i titoli nazionali a debito in modo illimitato e, a maggior ragione, lo potrà fare per titoli Europei. Un altro segnale positivo è l’abbandono del Bilancio in Pareggio decisa dai Governi UE e la decisione (per la prima volta) di una maggioranza di Paesi UE di procedere ad azioni comuni, capitanati da Francia, Italia, Spagna. Non dobbiamo ‘impiccarci’ agli Eurobond: potrebbero essere lunghi da farsi, perché visti dagli elettori tedeschi, olandesi e dei Paesi dell’Est, come una ‘resa’ ai Paesi indebitati del Sud. L’importante è inventare un modo per cui ci sia una prima vera forma di ‘fratellanza’ nel finanziare questa crisi a beneficio di tutti, un modo che dia la spinta a costruire gli Stati Uniti d’Europa federali, cioè quello che chiedevano i fondatori come Spinelli.
La Gemania e i Paesi nordici hanno il timore che i titoli del debito europeo facciano salire il loro tasso al livello di quello italiano, ma non è un timore fondato. Ci sono in Europa almeno 40mila miliardi di risparmio cash (tra conti correnti bancari e titoli) nelle mani dei soli cittadini (senza considerare le istituzioni finanziarie) che possono finanziare la Ricostruzione.
Solo mettendo mano al portafoglio si allarga il cuore, si formano quei nuovi valori che fondano una nazione. In passato furono le guerre a formare gli Stati. Ora dobbiamo usare cuore e cervello perché vivremo un periodo di de-globalizzazione, di ritorno ai confini ma solo stando tutti insieme nell’ampio spazio europeo possiamo salvare le nostre economie e le filiere che si sono così allungate nel mondo. Tornando a casa nelle singole nazioni, ci sarebbe un drastico peggioramento del tenore di vita.
Per fortuna Mario Draghi l’ha detto chiaramente: “di fronte a una catastrofe di proporzioni bibliche […] la perdita di reddito del settore privato deve alla fine essere assorbita in tutto o in parte dal bilancio pubblico […] durante la prima guerra mondiale in Italia e Germania tra il 6% e il 15% delle spese di guerra fu finanziato dalle tasse (il resto no, ndr.) non si tratta solo di fornire un reddito di base a chi perde il lavoro, bisogna proteggere l’occupazione e la capacità produttiva […] i livelli di debito pubblico saranno aumentati, ma l’alternativa ad una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico […] lo shock non è ciclico e il costo dell’esitazione può essere irreversibile. La velocità del deterioramento dei bilanci privati deve essere soddisfatta dalla stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nel perseguimento di ciò che evidentemente è una causa comune”.
Parole chiarissime che speriamo imprimano la spinta definitiva a cambiare pagina. Se non ora quando?

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (terza tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

XVIII

un colle
un bosco
un cielo
diventano
il colle
il bosco
il cielo

XIX

tu lo credi
non c’è progresso
nell’arte
solo così
il tuo spirito si nutre
dell’Italia che vedi

XX

la cosa più importante
è inusuale:
dipingere con i piedi
quelli giusti
per calzare lo Stivale

XXI

un’idea eretica:
Dio
nell’ebbrezza del riposo
fece l’Italia
di Domenica

XXII

a volte
seriamente
i tuoi colori
sorridono

XXIII

la natura
è immersa
il paesaggio
lo fa la storia
di passaggio

XXIV

hai tolto
il Barocco
come se
fosse sciocco
di fronte all’essenziale
l’Italia classica
Rinascimentale

XXV

gli olivi
hanno le mani
da pianisti
i fianchi di Venere
gli occhi di Enea

XXVI

se si abbandonano
le antiche spoglie
si sentono
cedere
le ossa
del mondo
e il dolore
senza domani

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vai alla quarta tappa

PRESTO DI MATTINA:
un sogno, una domanda e un “esercizio spirituale”

Buongiorno. Anche in questo sabato di silenzio che conclude una settimana di silenzi. Silenzi vivi però. Quasi a voler anticipare il Sabato Santo: il grande silenzio che avvolge tutta la terra nel giorno in cui il Signore riposa dopo la lotta vittoriosa contro il dragone.

Ho una cosa da chiedervi, anche se so già che molti già la fanno. Pregare penserete voi. Sì anche pregare, perché è importante, importantissimo farlo in questi giorni.  E ricevo numerosi messaggi di persone che m’invitano a ricordare nella preghiera le persone ammalate, quelle sole, i medici, gli infermieri, gli agenti e tutti coloro che lavorano per noi. Ed io rispondo che lo faccio sempre; e alla sera prima di entrare in parrocchia, vado fin sulla porta e sotto le finestre della comunità La luna, vi giro attorno e mentre dico il Pater tocco le pietre del muro una ad una come fossero persone.

Ho sentito anche al telefono il mio medico, che mi ha raccontato che fa il possibile, assieme ad altri suoi colleghi del gruppo medicina, per essere di aiuto a chi chiede loro assistenza. Ma ha aggiunto che i veri eroi sono i medici ospedalieri direttamente a contatto con i malati di Covid. Salutandolo gli ho detto che pregavo per loro e lui di rimando mi ha detto: “Grazie di cuore. Ne abbiamo assoluto bisogno.”.

Ma vi è un’altra cosa di cui c’è bisogno, e non è meno importante del pregare, vale  a dire mettere in pratica la Parola. Sostiene Michel de Certeau che vi è un credere originario, insito nell’umano, nella forma esistenziale: e questo credere è “praticare l’alterità, l’altro”. Quindi vi chiedo – lo chiederei anche i ragazzi del lunedì – di avviare questo esercizio spirituale, per così dire, perché in realtà l’esercizio che vi chiedo coinvolge anche il corpo: ovvero passa dal cuore, arriva allo spirito e solo alla fine affiora sulle labbra, come una risposta a chi hai di fronte.

Ricorderete che nella ricerca del santo Graal, l’unico che lo trova è Parsifal. E questo perché, in ragione della sua ‘trasparenza d’animo’, egli vede con gli occhi del cuore, sa porre la domanda giusta al guardiano che non lascia passare nessuno: e la password che gli permette l’accesso di fronte al guardino anziano e soffrente è “Che cosa ti affligge, qual è la tua sofferenza?”.

Mi ha telefonato anche il papà di Marco, per aggiornarmi sulla situazione in via Assiderato. E – sorpresa! – mi ha riferito che hanno creato una chat per quelli della via, in modo da aiutarsi l’un l’altro tra vicini; si passano le notizie e uno provvede a fare la spesa per tutti. Ecco gli esercizi, le buone pratiche di solidarietà verso coloro che sapete essere soli in casa, scoraggiati o in difficoltà, perché hanno perso il ritmo di prima, anche i giovani ne risentono. Ecco l’opportunità. Pensate a un amico. Pensate ad un vicino. Attivate l’inventiva del quotidiano; e se le strade non sono agibili, escogitate percorsi alternativi nel rispetto del bene comune che è la vita di tutti.

Vi voglio raccontare un’esperienza di tanti, tanti anni fa. Un’esperienza per me così forte che la scrissi nel mio taccuino nel lontano 2000 e poi non dissi a nessuno. Era il primo dicembre, ed ebbi un sogno suscitato da un incontro reale: un sogno che operò in me come un ‘accrescimento di coscienza e di responsabilità’.

Ve lo racconto così come l’ho appuntato.

L’altra notte – scrivevo – ho sognato di essere in un luogo indefinito, un camerone con tanta gente seduta a tavoli piccoli, che non potevi evitare di urtare mentre vi passavi in mezzo, e voltandomi mi accorsi che ad uno di essi era seduto Papa Wojtyła. Con il dito mi fece segno di fermarmi. Quindi mi mostrò un biglietto natalizio con dei lustrini luccicanti, chiedendomi cosa fosse. “Che strana domanda mi fa?”, pensai. “Perché non comprende che è un biglietto natalizio?”. Tenni tuttavia quel pensiero per me e mi fermai per spiegargli cosa fosse. Passò un attimo lunghissimo, e poi sentii come di dovergli chiedere qualcosa: una domanda che porto sempre dentro di me, anche quando dormo o non affiora alla coscienza. Ma diviene martellante, ogni volta che incontro persone imprigionate e scosse dal dolore, dalla malattia, quando ascolto il telegiornale, quando cammino in ospedale o faccio mentalmente l’elenco degli ammalati e delle persone sofferenti della parrocchia. E così chiesi al Papa con un profondo slancio interiore, quasi a voler esigere a tutti i costi una risposta, sicuro che mi sarebbe stata data, come a volermi alleggerire un poco da quella domanda, che a volte è pesante come un macigno, e chiesi – ripetendolo però più volte – “perché tanta sofferenza nel mondo? perché? perché?”. Mi veniva da piangere. Lui però non rispose. Mi alzò in piedi, prese la mia testa tra le mani e l’avvicinò alla sua in modo che le nostre fronti si toccassero. Restammo così un poco, senza guardarci, con gli occhi chini, fronte a fronte. E infine mi svegliai.

Per tutta la giornata pensai al sogno, chiedendomi cosa potesse averlo fatto nascere. Ma niente; non mi veniva una spiegazione. Anche quella sera andando a trovare la nonna di Maria Grazia, lo facevo spesso, che non parlava più a causa di una malattia che l’aveva lentamente paralizzata – tanto che rischiava ogni momento di soffocare, per via della saliva che si fermava nell’esofago oramai immobile e non andava né su né giù – le raccontai il sogno, e dopo avere riferito anche altre cose, ritornai a casa. Il giorno dopo, mentre ero sovrappensiero, ricordai però un gesto a cui non avevo fatto caso la sera prima, né le volte precedenti. E allora compresi. Quando quella signora stava male, fino a soffocare, la figlia o la nuora la sollevavano dalla poltrona mettendola in piedi: poi l’avvicinavano a loro, e fronte a fronte con la mano l’aiutavano a calmarsi e a riprendere il respiro. Ecco da dove veniva il mio sogno. Allora mi sembrò di risentire la domanda: “quanta sofferenza?” e la risposta non c’era, o meglio non era in parole, ma in un gesto piccolo piccolo, che univa due persone nella solidarietà dell’amore: fronte contro fronte, gli occhi chini finché il respiro non ritornava.

Quando morì Giovanni Paolo II, il 2 aprile 2005, mi ritornò vagamente alla memoria del sogno. A farmelo ricordare fu la grande fotografia posta sul sagrato della cattedrale. La foto che lo ritrae con la fronte appoggiata al crocifisso del suo pastorale. Fronte a fronte con il Signore.

Acqua e immagine, argine e luce, pesci e pensieri:
il respiro del mio fiume che resiste alla pandemia

Io abito in un paese piccolo, attraversato da un fiume, nella bassa bresciana martoriata dal virus.  Sono cresciuta vicino al  fiume e di lui so quasi tutto. Ci sono persone che abitano qui che ne sanno anche più di me, alcuni pescatori, gli agricoltori, Marino. Una cosa sorprendente del mio fiume è la sua coerenza. Assomiglia sempre a se stesso. Quando torno da un viaggio, vado sempre a vedere come sta il fiume. Sta sempre lì, più o meno uguale. C’è stato un tempo in cui era cattivo: ogni tanto rompeva gli argini e inondava mezzo paese. Le case, le stalle, le rimesse, i campi. Faceva ribollire i tombini, annegare le lepri, marcire il granoturco. Poi sono stati rifatti gli argini e lui è diventato buono.  Non irrompe più, accompagna.  Accompagna e tace. E’ una presenza fisica e metafisica insieme.

E’ acqua e immagine, fondale e colore, argine e luce, pesci e pensieri, tramonti e passioni. Il fiume accompagna la vita, la guarda mentre cammina, incespica, riprende, finisce. Il fiume è una grande metafora usata da molti scrittori. Uno per tutti: Conrad. E poi Pavese, Soldati, Calvino, Guareschi, Arpino, Levi, Bacchelli.
Il fiume respira. Respira i pensieri della gente che ora sono di speranza. Speranza che questa malattia con tutti i suoi morti finisca, che si interrompa questa peste del 2020 con tutto il suo carico di orrore.
Non credo che la vita sarà più come prima. Non saranno più come prima la finanza, l’economia e il diritto. Non lo sarà la politica con tutto il suo strillare inutile e la ricerca continua della polemica che fa bene ai sondaggi. Non lo sarà la ricerca del divertimento a tutti i costi, delle vacanze di lusso, delle brutte citta outlet.

Invece so che il  fiume resterà tale, camminerà con la sua lunga scia, con le onde increspate dal vento, con il suo gorgogliare e il suo strano arrovellarsi su se stesso. Nel fiume ci sono correnti pericolose che creano vortici violenti. Nel mio paese si racconta di persone morte così.
Tante volte mi sono seduta sulle sponde del fiume, e il mio corpo si è come sollevato,  ho visto il fiume in tutto il suo corso, nella sua completa verità.
Dall’alto del cielo è tutto più chiaro, il sole scotta e gli alberi sono verdi, gialli e rossi.
Ho aperto le ali e sono volata in alto, nel cielo. Sopra il fiume e sopra l’acqua, nel vento e nel tempo. Dall’alto si vede meglio, brilla l’aria. Ho visto le case e le porte chiuse, le finestre e i camini, i tanti cortili. Qui quasi tutti hanno un cortile. Nel cortile si vive e si spera. In tempi di pandemia, si ritrovano ancora delle voci tra le mura di quei recinti.

Nei cortili ci sono le famiglie. Una delle nostre istituzioni fondanti. La famiglia può essere ricettacolo di nefandezze. Ma molto più spesso è fonte di sicurezza, di complicità, di fiducia. E’ la fiducia che gli altri ci saranno sempre per noi che ci permette di partire e tornare. La fiducia nella consolazione e nella complicità. E’ la fiducia che dà senso alla ricerca e alla scoperta, perché, a casa, ci sarà qualcuno che ascolterà e capirà. La famiglia è un nucleo primario che dà forza ai suoi appartenenti. I migliori pensieri vengono da lì. La coralità dei pensieri circoscrive e plasma l’appartenenza che sa poco di biologico e molto di umanità.  La forza  per diventare  mente e corpo che  vede, sente, crea, nasce così. La fiducia è il  motore del mondo. Nella possibile fiducia che una famiglia dona c’è una grande scommessa, una forte aspettativa per il futuro, un po’ del bene che verrà.

Nei cortili ci sono i polli. Io amo i polli. Quando ero piccola giocavo con loro. Adoravo i pulcini. Li adoro tutt’ora. Gli animali da cortile sono uno degli elementi essenziali dell’economia rurale. Sono una parte della famiglia. I polli sono rossi bianchi, corrono veloci, amano i vermi  e il radicchio. I polli mangiano sempre e se vedono un loro simile scavare col becco in un buco, fanno altrettanto. Per invidia, credo. In questo assomigliano alle persone. L’invidia è una delle grandi piaghe dell’umanità. Invidia per chi ha più di noi, per chi è più giovane, più bello, più ricco, “mangia” di più. Un mangiare che acquisisce un senso generico e non si riferisce solo al cibo, ma a una voracità sociale che include tutto l’afferrabile.

Nei cortili ci sono tante piante. I gerani e i campanelli. C’è il prezzemolo e la salvia nei vasi. Le fragole rampicanti, i pomodori. Il nostro polmone verde viene anche da lì. La vegetazione è fondamentale, le piante danno ossigeno, puliscono l’aria. Il rispetto per le piante è fondante. La potatura, l’attenzione ai parassiti, la fioritura, la raccolta. C’è qualcosa di sacro in tutto ciò. C’è l’esperienza dei nonni e c’è la consapevolezza dei saggi. C’è lo stupore dei bambini e c’è l’attaccamento dei più. Nelle piante c’è la linfa, c’è vita. Noi cerchiamo sempre ciò che è vivo, ciò che dà vita, ciò che rafforza con la sua vita la nostra vita e quella di tutti. (I polmoni che non funzionano più muoiono, la polmonite è virale, servono i respiratori).

Senza cortili, animali e alberi perdiamo consapevolezze importanti, rischiamo di non sapere più che uomini e donne siamo.
Il mio volo ritorna sul fiume. Vedo il suo corso, le sue anse strette, il suo incedere elegante. Vedo me da piccola e come sono ora, in un rimescolio del tempo che sa di magia e sorpresa. Vedo la gente che cammina lungo le sponde. Che il fiume accompagni le loro risate e i loro sospiri, li sostenga sempre col suo riparo e la sua acqua.
Il fiume per me c’è sempre e in questa certezza c’è il mondo e l’universo, il qui e ora, il là e il domani. Ciò che sarà. Vicino al fiume c’è la pace di chi si siede e lo guarda, dimentica i guai suoi e del mondo, dimentica che morirà. Questo è la magia del fiume. Ti fa sentire eterno, ti toglie la morte, se la tiene per sé. Il fiume è silenzio, pensiero, accompagnamento, eternità. Lungo il fiume si respira ciò che sarà.

Il volo finisce, torno a terra. Sulla riva. Mi rimetto le scarpe e sto ancora un po’ là.

 

ACCATTATEVILLO! L’arte di sorridere rimanendo seri
(La nuova Certificazione da scaricare e stampare)

L’Italia, si sa, è (anche) il Paese delle barzellette, delle storielle, dei lazzi, delle battute salaci verso i potenti. Da sempre il popolo italiano si esercita nel tiro al bersaglio. E il bersaglio è sempre lassù in alto: Il Re, il Duca, il Conte, Il Marchese (dalle braghe pese). Il Governo, insomma. Quale sia il colore dello stesso: l’altro ieri il Biancofiore democristiano, ieri l’esperimento giallo-verde, oggi (dentro la bufera) il governo giallo-rosso guidato dall’avvocato Giuseppe Conte.
Vuol dire che noi italiani siamo ingovernabili? Incivili, indisciplinati, irresponsabili? Non direi. Gli italiani, semplicemente, si difendono. E sorridere è un modo splendido di difendere la propria vita. Di continuare a vivere. Anche se, appena fuori casa, “il morbo infuria, il pan ci manca”, e il governo (di turno) va avanti a tentativi, aggiustamenti, postille, allegati bis.
Dunque non stupiscono le ironie fiorite sul Nuovo Modulo di Autocertificazione per gli Spostamenti. La quarta edizione in pochi giorni. Ho visto che a Napoli – una città talmente meravigliosa che, se non ci fosse, non riusciremmo a inventarla – la pandemia si gioca al lotto, consultando la smorfia, LA CORONA e IL VIRUS sono un fantastico ambo secco.
Dentro la tragedia, gli italiani stanno dimostrandosi seri, responsabili, solidali. Perché si può essere seri sorridendo. Sorridere è il nostro modo di resistere, di più, è una grande prova di  “resistenza umana”. Vorrei dirlo ai tedeschi, agli olandesi, agli austriaci (non tutti ovviamente, parlo dei loro governi) che non l’hanno proprio capito. Che – senza l’ausilio del sorriso e dell’ironia, immemori del valore della solidarietà, assaliti dall’egoismo della paura – vorrebbero mollare l’Italia e la Spagna al loro destino e uccidere definitivamente il sogno europeo.
Ecco quindi il Nuovo Modulo. Il quarto. Prendiamolo come una preziosa, una rara occasione per regalarci un sorriso “ai tempi del colera”. Ma, sorridendo, non dimentichiamo le nostre responsabiità. Quindi? Quindi: ACCATTATEVILLO!. Stampatelo, compilatelo e usatelo alla bisogna.

 

IL MODULO COMPILABILE DA SCARICARE E STAMPARE 

La firma va però apposta, solo in caso di controllo, davanti al pubblico ufficiale.

nuovo modello autodichiarazione 26.03.2020 editabile

 

PAESE CHIUSO, FABBRICHE D’ARMI APERTE.
La furia del virus illustra la follia della guerra

Il Segretario Generale dell’ONU chiede “un immediato cessate il fuoco globale in tutti gli angoli del mondo.
È ora di fermare i conflitti armati e concentrarsi, tutti, sulla vera battaglia delle nostre vite”. António Guterres ricorda “Il nostro mondo fronteggia un comune nemico: Covid-19. Al virus non interessano nazionalità, gruppi etnici, credo religiosi. Li attacca tutti, indistintamente. Intanto, conflitti armati imperversano nel mondo. E sono i più vulnerabili – donne e bambini, persone con disabilità, marginalizzati, sfollati – a pagarne il prezzo e a rischiare sofferenze e perdite devastanti a causa del Covid-19. Non dimentichiamo che nei Paesi in guerra i sistemi sanitari hanno collassato e il personale sanitario, già ridotto, è stato spesso preso di mira. Rifugiati e sfollati a causa di conflitti sono doppiamente vulnerabili. La furia del virus illustra la follia della guerra”.
Il segretario parla come sempre dovrebbe parlare e agire l’ONU. E’ nata per questo organizzazione: “Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità…”.
I grandi e più che potenti, sono infatti prepotenti, non lo ascoltano. Neppure noi.
l decreto ferma le industrie non essenziali, non quelle che producono armi 
 per continuare i massacri.
Si ferma l’economia civile ma quella incivile continua a lavorare.
di Daniele Lugli

STOP ALLE FABBRICHE D’ARMI: IL TESTO DELL’APPELLO

Governo e Covid-19. È evidente a tutti (tranne che a certi manager e a certi politici): abbiamo bisogno di caschi per la respirazione ventilata, non di caschi per i piloti degli F-35. Abbiamo bisogno di posti letto di terapia intensiva, non di posti di comando nelle caserme. La pubblicazione del Decreto della Presidenza del Consiglio relativo alle più recenti (e dure) limitazioni a causa del coronavirus, in particolare per le attività produttive, ha riservato una sorpresa non gradita a chi si occupa di disarmo. Tra le pieghe delle norme approvate viene infatti prevista la possibilità per l’industria della difesa di rimanere operativa, mentre invece la grande maggioranza delle aziende deve rimanere chiusa.
Sembra davvero che l’industria militare sia intoccabile, e che il governo Conte consideri la produzione di sistemi d’arma tra le attività strategiche e necessarie. Immediata la risposta di chi (come Sbilanciamoci, Rete Disarmo e Rete Pace) ha sottolineato l’insensatezza di mettere a rischio la salute di migliaia di lavoratori con pericolo di ulteriore diffusione del contagio solo per non intaccare i profitti dell’industria delle armi.
È incomprensibile come il governo non abbia il coraggio di ordinare questo stop, se addirittura il presidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia, ha dichiarato: «Fino a poco tempo fa era considerata strategica l’industria bellica, adesso abbiamo capito che non ce ne frega niente, meglio avere una provetta, un respiratore».
Positive sono state le immediate reazioni dei sindacati, che hanno condotto a diversi scioperi spontanei anche in aziende a produzione militare, a testimonianza del fatto che sempre più spesso sono lavoratori e lavoratrici i primi a vedere chiaramente quali dovrebbero essere le scelte più utili per il Paese. Perché da questa tragica emergenza dobbiamo uscire con prospettive e scelte che si allontanino dalle logiche che hanno determinato la riduzione degli investimenti sanitari (passati dal 7% del Pil al 6,5%) mentre lievitava una spesa militare ormai stabilmente oltre l’1,4%.
Abbiamo bisogno di una reale alternativa, che non può essere che nonviolenta (e quindi di disarmo). Ma cosa c’entra la nonviolenza con l’emergenza sanitaria da Covid-19? C’entra, eccome, perché è scelta non solo etica e morale. La politica della nonviolenza ha senso pieno proprio oggi; «altrimenti non so che farmene», diceva Gandhi, che la pensava come strumento per trovare il pane per gli affamati, come oggi dobbiamo trovare posti letto per i malati.
È una nonviolenza che ha radici antiche. Pensiamo a Raoul Follerau che chiedeva a gran voce «il costo di un giorno di guerra per la pace» o ad Albert Schweitzer che già all’inizio del Novecento comprese il legame stretto tra spese militari e investimenti in salute. Fino a ieri sembravano due sognatori utili solo per farne santini da parrocchia, ma hanno invece anticipato di un secolo quel che oggi, messi al muro dall’evidenza, anche governanti europei sovranisti sono costretti ad ammettere: meglio avere un respiratore automatico in più, e una bomba o un missile in meno.
È evidente a tutti (tranne che a certi manager e a certi politici): abbiamo bisogno di caschi per la respirazione ventilata, non di caschi per i piloti degli F-35. Abbiamo bisogno di posti letto di terapia intensiva, non di posti di comando nelle caserme. L’industria bellica non è un settore essenziale e strategico: questa può essere l’occasione per un ripensamento e una riconversione necessaria (in primo luogo verso produzioni sanitarie).
Per la prima volta, forse, con il nuovo mondo nato dopo il conflitto mondiale che ha sconfitto il nazismo, e fatto nascere l’Onu, ci si rende conto che persino l’economia mondiale, viene dopo la salute individuale.
È una rivoluzione impensabile fino a qualche settimana fa. E tutti capiscono che per tutelare la salute propria e delle persone care, figli, nipoti, amici, è assolutamente indispensabile avere un sistema sanitario pubblico che funzioni. In Europa, nel bene e nel male, ce l’abbiamo, con pregi e difetti; là dove, invece, la sanità è considerata una merce come altre l’impatto della pandemia sarà ancora più devastante.
Per questo l’impegno delle reti e movimenti italiani per la Pace e il Disarmo si basa da tempo sulla richiesta di una drastica riduzione delle spese militari, a favore di quelle sociali. Si tratta dell’obiettivo politico principale della Campagna per la «Difesa civile, non armata e nonviolenta». Quando diciamo: «Un’altra difesa è possibile», significa che è necessario e ormai inderogabile invertire la rotta. Finché non sarà a disposizione delle nostre istituzioni anche una scelta possibile di azione non armata e nonviolenta sarà facile il ricatto di chi chiede soldi per le strutture militari e per le armi.
Mao Valpiana  Presidente del Movimento Nonviolento
Francesco Vignarca  Coordinatore Rete Italiana per il Disarmo

Pubblicato il 24.03.2020 alle ore 23:59

La corona di stelle sopra di noi

Questo corona virus a noi sembra più una corona di spine, come quella che i soldati romani misero per scherno sul capo di Gesù. Ma la corona è anche quella dei sovrani, o la corona di luce dei santi, quella d’alloro dei poeti. Non voglio suonare blasfemo, ma volta per volta, come in un caleidoscopio, intravedo dentro questa nuova situazione tante delle accezioni di ‘corona’.
La corona del martirio ma anche di una laica santità, in capo al personale medico ed infermieristico che combatte con dedizione e una sorta di disperazione dentro un’ autentica trincea, a volte proprio come i soldati francesi nella trincea di Orizzonti di Gloria di Kubrick – senza mezzi adeguati, quasi a mani nude.
La corona dei sovrani senza nobiltà, i fenomeni che si credono liberi da ogni costrizione ed esercitano l’arbitrio della loro vita irresponsabile, tra uno jogging e un aperitivo in compagnia, come se nulla fosse cambiato.
La corona d’alloro dei letterati, da Boccaccio a Manzoni a Camus, che della pestilenza e del contagio hanno scritto con mirabile e terribile concretezza emotiva.
Ma io vedo anche la corona di stelle, sopra di noi. La vedo con una suggestione nuova, con una nitidezza scintillante, che non avevo mai visto prima.
Respiro un’aria tersa, trasparente, cristallina, una fascinosa Sirena atmosferica che nasconde, come nell’Odissea, il nemico invisibile, pronto a colonizzare i nostri alveoli con la laboriosa implacabilità di uno sciame di formiche.
Sento per la prima volta, nel silenzio del genere umano, confinato nelle proprie case, il rumore del mondo prima di noi: lo stormire delle foglie, il canto degli uccelli, il suono della natura. E’ una sensazione di pace, una pace enorme, imposta da un despota, un gigante buono reso tiranno dal tedio per l’uomo dell’antropocene.
Ha l’aria di un messaggio.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Gli strati allo specchio

Sottili, di spessore o stratificati? Un lettore racconta lo specchio a cui si è trovato di fronte.

Gli strati allo specchio

Cara Riccarda,
ci sono persone che ti sembrano leggere, poi ti accorgi che hanno diverse stratificazioni, molte delle quali non sono ammesse e rimbalzano su di te come se fossi tu la causa. C’è chi ha un problema, non lo riconosce, lo stratifica su stesso e dà la colpa agli altri. Gli stratificati si manifestano quando il rapporto si fa più stretto, quando si diventa coppia: lì accade la messa a nudo di chi siamo. In pochi hanno voglia di mettersi allo specchio e capire fin dove arrivano, per me non è stato facile accettare fin dove arrivavo, ma si può fare.
Nicola

Caro Nicola,
lo specchio di noi che gli altri ci rimbalzano è terribile: una rifrazione che ci disturba, però si può scegliere se spegnere la luce o guardarla meglio quell’immagine.
Sono d’accordo con te, la coppia è lo spazio della verità. Per coppia non intendo la breve compagnia che ci si fa in un alcuni momenti della vita, intendo la continuità in cui non esiste volatilità.
Hai ragione, in pochi hanno voglia di mettersi allo specchio, di farsi scalare, di vedere, anche attraverso l’altro, fin dove arrivano o, spesso, non arrivano.
Riccarda

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (seconda tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

X

una pittura
che s-colpisce

XI

il classico
querela
il romantico
la nostalgia
ammalia
lo splendore

XII

Tu hai dietro
l’arte
della memoria
colori di marmo
cieli di vetro

XIII

la tua
antichità lucente
scura
prenatale
soggiace
alla cattura
dell’Italia rinascimentale

XIV

L’Italia
che perdura
forma

XV

culla del tempo
soggiorno di bellezza
apparsa rugiada
dopo la brezza
di Gea e Urano

XVI

pennello d’oltralpe
che incedi
sul terrazzo del mondo
ne dipingi il segreto

XVII

le sue
fattezze eterne
così fragili
così delicate
da spaventare
la morte

vai alla prima tappa

vai alla terza tappa

ALLA FINE, QUALE DEMOCRAZIA RIMARRA’?
Due virus e due emergenze a confronto: Covid-19 e Terrorismo

Le immagini di piazze e strade svuotate dal Covid-19, dove, ogni tanto, si vedono forze dell’ordine che, con diverse modalità, controllano spicchi di territorio fermando passanti e automobilisti, mi rimandano alla primavera del ’78.
Era l’inizio di aprile. Mi trovavo a Roma per alcuni giorni, per la Direzione Nazionale dei giovani delle ACLI. La prima sera, con alcuni amici veneti e romani, siamo usciti per mangiare qualcosa in un’osteria. Le strade del centro erano deserte, un silenzio spettrale. Girato l’angolo di un incrocio di Via Nazionale, ci siamo quasi scontrati con un gruppetto di soldati di pattuglia che camminavano nel mezzo della strada. Eravamo in pieno rapimento dell’on. Aldo Moro e il ‘virus del terrorismo’ si stava espandendo, facendo proseliti e, purtroppo, numerose vittime. Si cercavano covi clandestini, persone ‘infettate’ dal terrorismo, si cercava di liberare l’ostaggio Moro.

Oggi sappiamo una verità molto differente ma non ancora compiuta. Nonostante numerosi processi, commissioni e soprattutto importanti e approfondite indagini giornalistiche, mancano alcuni tasselli fondamentali che possano fare chiarezza su quell’epidemia politica, sugli ‘untori’ (e mandanti), sui diversi aguzzini.

L’emergenza virale che stiamo subendo in questi giorni, per essere vinta ha bisogno di comportamenti responsabili di tutti noi italiani, di lunga o breve appartenenza a questo amato/non amato Paese. Un Paese fatto di comunità dove il triste tributo di vittime è doloroso e sempre inaccettabile. Anche se sembra impossibile, vanno evitate altre ‘unzioni’ di comodo per trarre qualche temporaneo beneficio politico e, soprattutto, c’è bisogno di tempo per far sì che la ricerca scientifica trovi il vaccino che ci porti fuori da questa pandemia.

Diverso è lo scenario per quanto riguarda il 42esimo anniversario della morte dei componenti della scorta e del rapimento e uccisione di Moro, che ricorre in questi giorni. Il fattore tempo, per chi scrive queste brevi note ed è convinto che la parte più indicibile non sia stata svelata, sembra giocare a sfavore. Più ci si allontana dai fatti e meno testimoni restano. Mi si potrà obiettare che ci sono i documenti, le carte, ma ci dovrà essere qualcuno o qualcosa che ti permetta di poterle ‘leggere’ con cura ed intelligenza. La storia degli Anni di Piombo e delle Stragi di Stato è in gran parte una pagina vuota, un buco ancora da riempire di verità.

Molti si ricorderanno che, a suo tempo, una vulgata molto gettonata affermava che i corpi e gli ambiti infetti/infedeli erano stati debellati, sconfitti. Migliaia e migliaia di pagine dissero che il terrorismo, ‘il virus’, era stato sconfitto grazie alla politica della fermezza. Tutto si era risolto per il meglio, si diceva. La cura era stata efficace e la democrazia ne era uscita rafforzata. Una democrazia fatta di rinunce quotidiane anche dure, importanti, fatte per il bene del Paese.
Il giornalista e studioso Giovanni Fasanella, che ha scavato molto fra quelle carte, nei giorni scorsi sui social ha detto che il Caso Moro non fu solo una ’influenza’ e, se portò lo Stato a sconfiggere il “Partito armato’, a disarticolarlo: “vacillò, però, di fronte a un partito più potente, quello della ‘morte politica’ di Aldo Moro, il suo uomo più lucido […] e da allora il Paese è scivolato inesorabilmente verso il baratro”. Un virus che non ci ha aiutati ad uscire dall’emergenza.

Anche in queste settimane, di fronte al Covid-19, le rinunce sono tante. Vengono chiusi molti luoghi della produzione, della socialità, dell’istruzione, dello stare e fare assieme. La democrazia sembra tenere, anche se molte libertà e molti diritti sono messi in sordina. Rimangono però sul tappeto molte domande aperte. Le persone che oggi perdono il lavoro avranno davvero il sostegno delle comunità in cui vivono, delle forze politiche e sociali, del Governo, per ritrovare una nuova stabilità economica? E, alla fine dell’emergenza, quale democrazia rimarrà? Questa situazione avrà fatto ritrovare a tutti noi il senso di essere parte di una comunità, oppure non ci avrà insegnato niente?

Immagine della cover: di Beppe Briguglio, Patrizia Pulga, Medardo Pedrini, Marco Vaccari http://www.stragi.it/index.php?pagina=associazione&par=archivio, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4490241

 

A-pelle figlio di Apollo: una domenica in Rivana

Avevo parlato con Raffaele tre giorni fa, per farmi raccontare la drammatica situazione dei Senza Fissa Dimora e il grande lavoro degli operatori e dei volontari della Associazione Viale K. Poi nel mio articolo [lo puoi leggere QUI] scrivevo: “Lo stanno chiamando per un’altra emergenza, ma nel salutarlo ho anch’io una richiesta per lui: “Non fidarti troppo delle interviste, delle parole riportate, nemmeno di quelle che scriverò io. Trova un po’ di tempo, scrivi tu questa storia, tu sei bravo a scrivere”.
Beh, come avrete intuito, Raffaele corre tutto il giorno come un matto. Non ha punto tempo per darsi alla scrittura. Ma certe notti. Ad esempio questa notte, erano già passate le Due, ha postato ‘A-pelle’ sulla sua pagina Facebook e me l’ha mandato. Buona Lettura.
(Effe Emme)

1,2,3…fai passare prima la signora….8, 9 e 10. Stooop!
Don Domenico fa il vigile davanti al cancello. Il primo gruppo entra in mensa in fila indiana a un paio di metri di distanza l’uno dall’altro in attesa ognuno del proprio vassoio. ‘Romolo il cuoco’, dall’altra parte (profumata e calda) della barricata, pugni ai fianchi e parannanza, da gli ordini: Tu alla pasta asciutta! E a me: Tu ai secondi! un coppino di patate e un quarto di pollo, oppure, un coppino di patate (sempre quello di prima) con i pesciolini fritti. E io: Vabbuò. Francy, tu, tu e tu date i vassoi pieni.
Si comincia. Pasta asciutta, splaf splaaff, pronto anche il secondo. E via così i primi dieci  che poi arrivano i secondi dieci, e avanti così per altre due volte. Totale: 40 persone più qualche bis e piatto da asporto. Tra un secondo e l’altro. quando ormai ci ho preso la mano e ho smesso di contare, dico: Romolo il cuoco sei proprio bravo, il pollo ha tutta la pelle dorata e croccante. A casa le mie figlie litigano a chi si deve mangiare la pelle e a me, alla fine della guerra, tocca il petto tutto asciutto e stopposo tant’è che ci aggiungo la mayo sennò non mi scende. Proprio l’altra sera ho chiesto a mia figlia: Che parte del pollo vuoi? E lei: Quella con il manico! 
Il piccolo esercitino di volontari intorno: Ah ah ah ahhhh La risata collettiva risuona amplificata in tutta la sala, che proprio in quel momento mi accorgo muta come il refettorio del convento delle carmelitane scalze. E scalzo e muto mi son fatto anch’io. Non conto più, guardo i volti di quelle persone dall’altra parte della sala, uomini e donne, adulti e anziani, italiane e immigrate, sedute ai tavoli. E mi chiedo dove saranno mai le loro famiglie, se anche lì si litigava per la pelle di pollo. Uè Rafè svegliaaa! A quello dagli i pesciolini fritti e prepara altri due piatti così.
Finito il servizio vado fuori in fretta che son tre ore che non fumo. Scelgo un angolino isolato, mi siedo sul cordolo del marciapiede. Apro il pacchetto. Cavolo, ultima sigaretta, mè…, questa me la devo godere che è proprio l’ultima e poi me la sono guadagnata. Zip zip ziiip, a occhi chiusi porto la sigaretta alla fiamma e tiro e tiro. Qualcosa non va, puzza di bruciato, il filtro va a fuoco. Sto per imprecare cose che si imprecano quando fai cose così, ma l’uomo con la barba davanti a me ha visto tutto. Si avvicina con un bel sorriso stampato in faccia, si siede accanto a me e mi allunga una delle sue sigarette artigianali. Sai … pausa di silenzio … anch’io avevo una figlia, e gli davo tutta la pelle di pollo ….

SCUOLA O VILLAGGIO VACANZE?
A proposito di valutazione alla scuola primaria

Parto dal presupposto che le difficoltà di questa nuova situazione siano sotto gli occhi di tutti e che, mai come ora, si senta un bisogno forte di scuola: lo sentono gli alunni (anche quelli ‘insospettabili’), lo sentono le famiglie (anche quelle ‘impensabili’), lo sentono gli amministratori (anche quelli ‘insostenibili’), lo sentono i cittadini (anche quelli ‘inimmaginabili’) e lo sentiamo moltissimo anche noi insegnanti (anche quelli ‘incredibili’).

A mio modo di vedere, però, il bisogno di scuola non si soddisfa con la didattica a distanza, anche se ben fatta, perché non si può normalizzare una situazione che normale non è. È ovvio, però, che noi insegnanti continueremo ad attivarci perfezionandola, perché è l’unico modo che abbiamo in questo momento.
Detto questo mi chiedo come qualcuno possa parlare di ‘normale’ valutazione in maniera così superficiale in una situazione che di scuola ‘normale’ ha ben poco.

Per me, adottare la didattica a distanza vuol dire essere costretti a scegliere una modalità di trasmissione delle conoscenze che non è quella che privilegerei se io fossi a scuola. Quindi se questa non è la mia scuola, la nostra scuola, ‘la scuola normale’, cosa pretendono che si valuti dal Ministero?

Se un bambino o una bambina sono capaci di stare davanti ad un monitor per tante ore?
Se sono in grado di usare una piattaforma web?
Se sanno fare ad inviare una mail con gli allegati?
Se sanno fare bene i compiti a casa?
Se sono bravi a fingersi abili col computer nascondendo l’aiuto che ricevono dai familiari

E come vorrebbero che tutto ciò si valutasse?
Si preoccupano di sapere se tutti i bambini e le bambine di una classe hanno a disposizione uno strumento tecnologico idoneo?
Si chiedono se sono tutti nelle condizioni di partecipare attivamente?
Si interrogano su come coinvolgere gli alunni con disabilità mentre il resto della classe è connesso?
Si domandano come arrivare meglio agli alunni che parlano un’altra lingua?
Oppure c’è solo interesse a valutare se le famiglie possono permettersi un tablet, uno smartphone o un computer e la linea veloce?
Che voto si metterà nella pagella di un bambino che non ha un computer, un tablet o uno smartphone?
Che giudizio di comportamento si scriverà a chi ha pochi giga?
Bisognerà mettere “Insufficiente” a chi non ha i mezzi ‘sufficienti’?

È questa la scuola che dobbiamo prepararci a fare? Io spero proprio di no perché la scuola fatta così sembra un ‘villaggio vacanze’ dove un cosiddetto ‘utente’ vi è stato dirottato dopo la chiusura di tutti gli alberghi ed i campeggi, dove desidera fare un soggiorno ‘normale’, ma si ritrova attorno degli animatori che gli propongono/impongono un sacco di attività (alcune più o meno divertenti e coinvolgenti, alcune davvero insulse o addirittura stupide ed umilianti); dove ci sarà sempre chi non può o non vuole partecipare perché preferisce altro oppure è altro; dove i suoi accompagnatori lo vorrebbero intrattenere diversamente; dove le valutazioni ed i premi finali ci saranno solo per alcuni di quelli che, stando al gioco, hanno potuto o voluto partecipare.

Io credo che, in questo difficilissimo momento storico, occorra stare attenti al rischio di incentivare una scuola delle differenze tra chi ha e chi non ha, tra chi è e chi non è, tra chi può e chi non può. Penso che, in questa emergenza, si stia giocando il senso stesso del fare scuola; avverto il pericolo che conquiste avvenute negli anni passino in secondo piano. Molti genitori pensano al proprio figlio, diversi colleghi pensano alla loro classe, alcuni dirigenti pensano al loro istituto… in sintesi, in un momento in cui ci sarebbe bisogno di un pensiero collettivo, in molti pensano individualmente. Credo sia normale farlo in una situazione simile in cui tutti ci sentiamo sotto pressione, ma noi, noi che siamo insegnanti dobbiamo stare attenti a queste spinte egoistiche e provare a dare equilibrio, dobbiamo provare ad allargare le vedute, partendo dalle certezze che abbiamo e che risiedono nel nostro ‘arcipelago di certezze’, rappresentato dalla scuola della Costituzione.

Un prete scomodo, a cui devo molto della mia visione professionale scriveva, insieme ai suoi alunni: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”
Mai come loro la scuola ha bisogno di una politica seria che, dal basso, si attivi per affrontare i problemi enormi che questa emergenza ci consegna.

Passerà questa nottata.
“Il mio Canto Libero dei medici italiani”: guarda il video

Nell’ora più buia, tante candele accese

Qualcuno ha detto che dobbiamo smetterla con le frasi fatte, di incoronare ‘Eroe’ questo o quello. E anche i medici e gli infermieri intervistati in Tv lo ripetono sempre: “Non mi sento un eroe, faccio solo il mio dovere. Come sempre.”.  Quel che è certo è che oggi, ogni giorno di più,” Les héros sont fatigués”, i medici, gli infermieri, i barellieri, tutto il  personale medico e paramedico che sta in prima linea, di fronte al nemico, contro questo minuscolo virus che vuole annientarci, tutti loro sono stanchi. Stanchissimi. Tanti di loro hanno già perso la vita. Assomigliano molto ai poveri ‘fanticini’ della Grande Guerra che stavano nelle trincee del Grappa o del Monte Calvo.
A tutti loro, a chi lavora all’ospedale di Cona, all’ospedale del Delta e quelli del 118, ai medici di guardia e ai medici di famiglia, agli infermieri e a tutto il personale delle cliniche e della case di riposo. A tutti loro: che stiano a Ferrara, o a Bergamo e Brescia, in Italia, in Europa, nel mondo (che è la nostra patria), vogliamo ripetere un semplice GRAZIE, NON MOLLATE. E dir loro che è molto bello sentirli cantare “Il mio Canto Libero”. E’ come vedere delle candele, accese, anche sotto una tempesta di vento.
Qui, nelle retrovie, noi faremo la nostra parte. Il nostro dovere. Passerà questa nottata.
#noirestiamoacasa
#andratuttobene

Effe Emme

 

La tristezza al tempo della peste

Per omologia non più il sorriso ma la tristezza coinvolge le mie note di questa settimana. Una tristezza che non fa ovviamente aggio sul comportamento dei miei simili, ma sulla profonda, sostanziale incapacità di tenere a freno il proprio egoismo, la propria irrinunciabile volontà di essere il solo, l’unico, secondo una atavica propensione che ha fatto e modellato ‘l’essere così’ degli italiani.

Certo questa cifra, connaturata all’individualismo più sfrenato, ne ha fatto il popolo più ‘artistico’ del mondo. L’ha reso fondamentalmente unico. E questo da quando si è creata una coscienza dell’essere così, dalla triade assoluta, Dante Petrarca Boccaccio, ai critici di quell’atteggiamento, che lo hanno rinforzato, come Leonardo che si dichiarava “homo sanza lettere” per sprezzantemente e onnipotentemente dichiararsi con quel rifiuto, l’unico, il sommo. O il più grande di tutti, il conte Giacomo, che predicava il nulla per sapersi il migliore (vero, amico Fiorenzo Baratelli?). Allo stesso tempo l’unicità è declinata dai dittatori come elemento fondante di un popolo. Si spreca e forse in modo non corretto il termine fascismo o neonazismo, per denunciare la volontà di unicità di alcuni leader, come di termini quali sovranismo e .. ‘via col tango’ ( attenzione al modo di dire perché nel termine si annida il coronavirus, come sappiamo dall’infezione propalata dai ‘tanghéri’ – e non ‘tàngheri’ – infettatisi a vicenda all’hotel Astra di Ferrara.

Sul principio di unicità, helas!, si spiegano ma non si comprendono le discese al Sud dei ragazzi pronti a rifugiarsi nelle braccia di nonni e padri in nome della loro sfida: “io sono unico e che me frega del virus: tutte cazzate”. “Dai! Facciamo una corsa, un po’ di bicicletta, andiamo a magnà al mare”. E i vecchietti, molti, che si rispecchiano nella loro adorata prole, a seguirli sorridendo da beoti nelle imprese ginnico-turistiche degli ‘unici’.

Intendiamoci. Questo popolo ferito e incapace di unità, non di unicità, dimostra poi l’eroismo che ogni giorno vediamo esercitarsi negli ospedali, negli aiuti ai più deboli. Ieri però mentre disciplinatamente aspettavo il mio turno agli alimentari, una dama munita di mascherina, quasi imprecando, ululava contro ignari passanti che osavano avvicinarsi a 90 cm invece che a un metro. Saputo poi che in farmacia erano arrivati i gel igienizzanti, con stridii imperiosi chiedeva immediatamente che gliene mettessero da parte almeno due!!!. Le mie fruttivendole, con calma meravigliosa e sorriso incoraggiante, mi chiedono un balletto per l’uva stupenda, ma dietro di me esseri fasciati (umani?) borbottavano chiedendosi cosa erano tutte quelle cazzate. Enrico invece, amico medico meraviglioso in fila dietro di me, mi consiglia le orecchiette con i broccoli. Ho seguito il consiglio e al pomeriggio in casa confeziono, sotto l’esperta guida della moglie, stupendi cappellacci con la zucca, rimandando al domani, o forse a molto più tardi, i severi studi che mi attendono.

Il pazientissimo ‘San Lorenzo’, il mio amatissimo tecnico, mi aiuta seguendomi pazientemente al telefono ad ordinare gli ultimi tre libri di Eshkol Nevo che non ho ancora letto. E sapere che li avrò il 6 aprile mi rende più leggera la clausura. Poi, ieri notte mentre divoravo l’ultimo romanzo dello scrittore israeliano, L’ultima intervista, mi folgora una considerazione che trovo a p. 59 della traduzione italiana:  “Quando hai vent’anni e una sigaretta, un avvertimento è una mosca da scacciare con la mano”. Quindi l’avvertimento di chiusura che vien dato ai giovani di ogni continente diventa una ‘mosca da scacciare’. Si potrebbe allora concludere che al fondo di questi atteggiamenti si potrebbe essere ben innestata la paura: la paura di stare con se stessi, come è universalmente vero in tutte le giovinezze del mondo. Allora la tristezza si muta, nei più avvertiti, in necessità di portare un aiuto che, al di là di quello fisico così generosamente prestato, deve farci riavvicinare a quei giovani che hanno paura e sono tristi.

INTERVISTA ESCLUSIVA al Prof. Giovanni Gugg, Antropologo dei Disastri
“Dentro l’Emergenza dovremmo ripensare tutto: politica e relazioni sociali”

Giovanni Gugg
Giovanni Gugg

In piena crisi da coronavirus è difficile poter fare delle previsioni su cosa potrà aspettarci dopo, soprattutto quando l’emergenza sanitaria non sembra arrestarsi. Abbiamo però provato a dare uno sguardo alla realtà diverso e per farlo ci siamo affidati a Giovanni Gugg, esperto di “Antropologia dei disastri” e docente di “Antropologia Urbana” presso il dipartimento di ingegneria dell’Università di Napoli “Federico II, il quale vive, però, a Nizza, nel Sud-Est della Francia.

Primo punto: com’è la situazione in Francia?
Dal punto di vista sanitario, in Francia la situazione è quella dell’Italia una decina di giorni fa: oggi, 20 marzo, i casi di persone positive al Covid-2019 sono 12.612, grosso modo quante ne aveva l’Italia l’11 marzo (12.462; oggi ne ha 47.021, con un raddoppio ogni 4-5 giorni).
Dal punto di vista politico-sociale si è in ritardo e si sono compiuti errori gravissimi: la Francia aveva a disposizione l’esperienza italiana, ma l’ha ignorata o sottovalutata per molto tempo, addirittura confermando il primo turno delle elezioni municipali, il 15 marzo, per poi, già il giorno successivo, decidere di rinviare a data da destinarsi il ballottaggio, dinnanzi alla scarsissima affluenza degli elettori. Da domenica 15 sono chiusi i locali pubblici, da lunedì 16 le scuole e le università, da martedì 17 c’è la quarantena, da venerdì 20 – almeno a Nizza – c’è il coprifuoco dalle ore 23 alle 5 del mattino: è vietato uscire, se non per emergenza.

Com’è vista la situazione italiana dai nostri cugini d’oltralpe?
Nel giro di pochi giorni lo sguardo francese sull’Italia è cambiato radicalmente: fino a una settimana fa era piuttosto sostenuta l’idea che l’estensione dell’epidemia in Italia fosse dovuta a un lacunoso sistema sanitario e a scelte governative errate. Giusto una settimana fa, un opinionista in tv ha bollato il caso italiano come una “tragedia teatralizzata”. In realtà erano paraocchi con cui evitare di guardare quel che stava accadendo nella stessa Francia, così come in Spagna e in altri Paesei d’Europa: tutti gli esperti di epidemiologia e di statistica ripetevano che ovunque il contagio avanzava ad enorme velocità, eppure si è scelto di attendere, al punto di mantenere le elezioni, come dicevo. Anche per questa ragione io e il giornalista Marco Casa, con cui gestisco “Radio Nizza – Italiani in Costa Azzurra”, un sito di informazione locale e podcast, abbiamo deciso di pubblicare ogni giorno una sorta di newsletter sulla situazione sanitaria in Francia; stiamo finendo la terza settimana di bollettini quotidiani, quindi abbiamo seguito la situazione ben prima della quarantena. La percezione pubblica sulla serietà dell’infezione è cresciuta con i giorni, infatti ora verso l’Italia c’è attenzione profonda: si copiano i decreti del governo Conte e, in qualche caso, li si applica in maniera ancora più stringente, come anche i provvedimenti in campo economico.

Secondo lei Macron sta facendo abbastanza?
Quel che adesso sta facendo il presidente Macron è tentare di recuperare una situazione che probabilmente poteva essere meno grave se avesse avuto maggior coraggio o determinazione, una settimana prima. C’è da dire, però, che per quanto in Francia il capo di stato abbia molto potere, vi è comunque una negoziazione politica come in qualsiasi democrazia europea, per cui, secondo dei retroscena giornalistici, pare che lui volesse rinviare le tanto contestate elezioni municipali, ma che le minoranze si siano fortemente opposte, pretendendole. In ogni modo, è chiaro che la responsabilità prevalente è del presidente, il quale poi ha pronunciato un paio di discorsi alla nazione molto potenti e solenni, ripetendo più volte che quella in corso è una vera e propria “guerra sanitaria”.

Cosa ha pensato allo scoppio dell’epidemia in Italia?
Seguivo l’epidemia con particolare cura fin dalle prime notizie in Cina, non solo attraverso le fonti ufficiali o i giornali più autorevoli, ma anche seguendo gli aggiornamenti di alcune persone specifiche, come Ilham Mounssif, ambasciatrice culturale in Cina che su Instagram racconta ancora oggi il suo quotidiano, oppure dialogando con un dottorando di mia moglie, che è originario proprio di Wuhan. Pertanto, quando l’epidemia è arrivata in Italia mi sono preoccupato immediatamente e ne ho parlato subito in famiglia, agli amici e ai miei studenti. Certo, però, non immaginavo che in qualche settimana l’intero Paese potesse essere chiuso in quarantena perché non si riesce in nessun altro modo a contenere i contagi.

Lei è un antropologo esperto anche del continente africano: ora il Congo è in emergenza per il morbillo, cosa prevede possa accadere se dovesse diffondersi anche lì il coronavirus?
La Repubblica Democratica del Congo è un Paese immenso e di estremo interesse, che dovremmo osservare con rispetto anche per imparare ad affrontare crisi sanitarie gravissime. Attualmente vi sono almeno tre urgenze mediche in corso: il colera, il morbillo e la poliomielite. Si tratta di epidemie concentrate in alcune province, ma dove la precarietà delle infrastrutture, la povertà e la violenza accentuano in maniera indicibile le difficoltà e il dolore. Tuttavia, come dicevo, molti Paesi dell’Africa potrebbero insegnarci la caparbietà e la speranza, la resilienza e la resistenza. Agli inizi di marzo, ad esempio, è stata dimessa l’ultima paziente in cura per ebola nella Repubblica Democratica del Congo, un’epidemia terribile scoppiata un anno e mezzo prima; ora si è in attesa che passino 42 giorni senza nuove infezioni per dichiarare conclusa l’emergenza. Per quanto riguarda il covid-19, invece, bisogna dire che è già arrivato in Africa, generalmente portato da europei asintomatici, e se dovesse diffondersi sarebbe una tragedia difficile da contenere.

Molti pensavano che sarebbe arrivato proprio dall’Africa in Italia, non è stato così. Cosa pensa al riguardo?
Quelle sono state speculazioni vergognose messe in circolo da imprenditori politici della paura, personaggi senza argomenti se non quello dell’odio e senza altro interesse se non il consenso. Tra i primi effetti del nuovo coronavirus c’è stata un’esplosione xenofoba, prima contro i cinesi, poi, appunto, contro gli africani e, in genere, i migranti. Si tratta di una forma di strumentalizzazione piuttosto nota: sono anni che certi ambienti mettono in circolo paure immotivate – negli ultimi anni, ad esempio, in merito alla scabbia e all’ebola –, puntualmente smentite dai controlli sanitari che i migranti ricevono alla frontiera.

Può spiegarci cos’è la “antropologia dei disastri”?
È una branca specifica dell’antropologia culturale, con cui si osserva e analizza il disastro in quanto processo sociale. In altre parole, ponendo attenzione sull’emergenza, cioè su un evento che irrompe nella vita sociale e ne interrompe il flusso regolare, si scorgono i tratti più autentici della normalità, gli elementi più strutturali dell’ordinario. Le crisi, per quanto devastanti e logoranti, sono dei momenti che svelano e, pertanto, che insegnano. Gli scienziati sociali (non solo antropologi, ma anche sociologi, storici, geografi umani…) che si occupano di disastri si focalizzano sulle responsabilità, sulle retoriche, sulla gestione, sulla visione messa a nudo dagli eventi drammatici, come sismi, eruzioni, inondazioni, incendi, frane… o, come nel caso che stiamo vivendo, epidemie e pandemie.

Tutto questo, come cambierà la nostra realtà?
Le crisi profonde mettono in gioco dei rapporti di potere, e una malattia come quella causata dal nuovo coronavirus, insinuandosi nelle maglie del sociale, può far vacillare la legittimità e l’autorità del potere. Storicamente, questo è avvenuto spesso proprio in occasione delle epidemie. Nella nostra società del XXI, la pandemia covid-19 sembra aver fatto svanire l’illusione di onnipotenza a cui il progresso tecnologico e scientifico ci avevano abituati (anche in campo medico); forse era un delirio collettivo, ma certamente non eravamo preparati ad un impatto simile. Anche per le ricadute economiche che il blocco di gran parte del mondo industrializzato sta subendo, è verosimile pensare che quando questa crisi passerà, molte cose saranno cambiate e cambieranno anche su altri piani, come quello politico interno ai Paesi colpiti, geopolitico tra aree del mondo, macro-economico, sociale e culturale. Il punto è sapere quando questa crisi finirà, perché più sarà lunga, più le misure restrittive adottate nelle ultime settimane incideranno e lo “stato di eccezione” sarà ritenuto una normalità, tra confinamenti e coprifuoco, divieti di jogging e chiusure dei supermercati.

Il professor Marco Aime sostiene che ci saranno tantissimi studi su una situazione nuova ed eccezionale come questa, cosa c’è di nuovo rispetto alle altre epidemie vissute dall’essere umano?
Si, ci saranno molti studi soci-antropologici su questa fase, come ce ne sono stati tanti in Giappone in seguito al disastro di Fukushima o, per stare in Italia, al sisma dell’Aquila (evento che, in effetti, ha fatto crescere molto gli studi antropologici sui disastri). Per noi europei questa pandemia è qualcosa di nuovo nel senso che era almeno un secolo che nel continente non si dovevano affrontare epidemie su vasta scala, come la terribile “influenza spagnola” che tra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone. Certo, in realtà successivamente l’Europa ha avuto molte altre epidemie, anche negli anni recenti, ma non erano generalizzate, perché colpivano soprattutto determinate fasce della popolazione o luoghi molto precisi, come l’aids per gli omosessuali o il colera a Napoli.

Come ci si risolleva da una situazione del genere?
Difficile dirlo in poche battute, consapevole che una crisi complessa deve essere affrontata a molteplici livelli. Innanzitutto è necessario uscire dall’emergenza sanitaria, dunque fermare i contagi e curare al meglio tutti i pazienti, ma poi sarà essenziale rialzarci dalla recessione economica che si sta aprendo sotto i nostri piedi, e quindi sarà importante redistribuire e sostenere. Inoltre bisognerà fare una disanima storica delle politiche sociali in Italia e in Europa, tra tagli e austerità che hanno indebolito il sistema sanitario nazionale, palesemente in difficoltà anche nelle regioni più ricche d’Italia, come Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte. Ciò significa che in Italia andrà ricalibrata la politica sociale e andrà abbassato l’enorme debito pubblico che grava sulla nostra credibilità internazionale. Tuttavia bisognerà agire anche sull’Unione Europea e le sue regole sulla stabilità, costruendo uno spirito solidale che oggi fa fatica ad emergere proprio in occasione delle crisi più gravi. Infine, per il bene della democrazia, sarà necessario fare attenzione ai populismi futuri, cioè al ritorno di movimenti neo-identitari che prosperano sulla paura e alle ciniche semplificazioni di chi farà leva sul malcontento e la frustrazione, ancor più di quanto abbiamo visto nell’ultimo decennio.

I rapporti tra gli esseri umani come cambiano nel durante e nel dopo? Si tornerà ad una normalità?
La normalità è un concetto mobile, il “centro di gravità permanente” cantato da Franco Battiato non esiste e, se esiste, è vero solo per un baleno. La normalità a cui molti fanno riferimento è la nostalgia di uno stato di privilegio goduto solo da una parte della società e che l’epidemia ha scombussolato. La nuova normalità che dobbiamo costruire deve essere necessariamente più equa, perché la sicurezza – come stiamo drammaticamente verificando – è un bene comune: se stanno bene gli altri, stiamo bene anche noi. In questo periodo ci sentiamo disorientati, come dopo un disastro: non riconosciamo i nostri luoghi (vuoti come in un film apocalittico) e non ritroviamo la nostra comunità (smembrata e atomizzata in case che sono sia rifugio che prigione). Ciò è particolarmente vero durante queste settimane di quarantena, perché siamo fisicamente isolati e impossibilitati a incontrarci. È per questo che dai balconi tentiamo di conservare la relazione attraverso cori e applausi. Come detto prima, la questione riguarda il quando: fino a quando queste strategie culturali di controllo dell’ansia saranno efficaci? Gli effetti devastanti del virus cominciano ad avvicinarsi, vediamo la fotografia di una colonna di camion pieni di salme a Bergamo e ci passa la voglia di cantare, diventiamo più cupi e irascibili. La tenuta psicologica in queste condizioni è molto fragile, per cui diventa essenziale trovare nuove modalità di socialità.

Lei è anche un docente “viaggiatore”, com’è cambiato il suo modo di fare lezione?
Si, vivo a Nizza e ho un insegnamento a Napoli, per cui durante il secondo semestre viaggio molto tra queste due città. Ma quest’anno sono riuscito a tenere solo una lezione in aula, poiché subito dopo c’è stata la chiusura in Italia delle scuole e delle università. Immediatamente, però, ci siamo organizzati per via telematica, così il semestre non andrà perduto e gli studenti potranno sostenere gli esami, anche se davanti ad un computer.

È ugualmente valida la didattica a distanza?
Io ho la fortuna di avere un ottimo dialogo con i miei studenti, perché anni fa ho creato un gruppo-Facebook del mio corso e, pertanto, ho continui scambi gli studenti e studentesse. La lezione in diretta streaming, però, mi mancava, quindi c’è voluto un po’ per prendere dimestichezza con questo strumento, ma con la disponibilità di tutti stiamo riuscendo a coprire gli argomenti previsti dal corso. La lezione in aula ha un coinvolgimento maggiore, perché vi si riesce a comunicare anche con lo sguardo e la postura, tuttavia ho l’impressione che gli studenti siano molto consapevoli dell’eccezionalità di questa situazione, per cui si sono posti tutti in maniera molto costruttiva e propositiva.

Come vede il futuro? È preoccupato?
Ho i miei timori, certo. Ho due bambine piccole e dei genitori anziani; ho studenti che mi chiedono se andrà bene… Ed io rispondo a tutti che certamente andrà bene, ma ci vorrà tempo, coraggio, capacità di sopportazione. Dall’inizio dell’epidemia, in Italia si sono avuti 4000 morti; un dato destinato a crescere che non può non mettere angoscia. Eppure non possiamo crollare proprio ora, per cui io stesso mi dico di dover resistere e di non cedere allo sconforto.