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I DIALOGHI DELLA VAGINA
Tre uomini in barca…

Mi aspettavo lettere di donne, a difesa della propria mobilità nei punti di vista, e invece, tre uomini hanno ammesso come si sentono (anche quando vanno a sbattere tra le colonne). Poi ha scritto Alice, che rinuncia.
Ecco i loro pensieri.

L’IMBECILLE?

Non ho capito perché una che fa i suoi comodi sia rinascimentale e io che mi ‘sbatto’, sembro un imbecille.
C.

IL GEOMETRA

Credo che la prospettiva personale sia un paradosso: vale solo nel mio perimetro, ma la riconosco solo quando è confrontata con le prospettive altrui. I punti di vista sono talmente tanti da fare perdere il senso dell’equilibrio. Per alcuni è pazzia, per altri è risveglio.
Paolo

IL PODISTA

Io metto in pratica la corsa tra le colonne e non sto quasi mai a osservare le fontane.
Stefano

… E CHI RINUNCIA!

Cara Riccarda,
io non ci provo più a mettermi nella sua prospettiva. E’ fatica sprecata. Non esiste nessuna prospettiva. Credo che i maschi abbiano una genetica inabilità a concentrarsi su quello che stanno ascoltando, a meno che non riguardi vagheggiate e del tutto astratte storie di sesso e sport. Devono essere storie molto vaghe, però. Quel tipo di storie in cui possono sognare senza correre nessun pericolo, senza mettersi in pericolo. Come se avessero un joystick in mano.
Alice

Cari C., Paolo e Stefano,
Alice vi fa inabili e predestinati. Ho la tentazione di pensarla come lei, anche se ho conosciuto eccezioni. Credo che abbia del tutto ragione quando parla del pericolo: sarà un paradosso, ma gli uomini hanno molta più paura delle donne quando si tratta di passare dal vagheggiamento alla realtà, dal joystick alla pelle.
Riccarda

Potete scrivere a: parliamone.rddv@gmail.com

COME VIVONO, COSA SOGNANO I GIOVANI?
Vorrei sentire le nuove voci, anche su questo giornale.

I fiumi di parole e di immagini che scorrono sui quotidiani, su media  e social, in questa sorta  di ‘cattività sociale‘ in cui ci ha confinato il Coronavirus, portano qualcuno di noi a preoccuparsi, non tanto per le conseguenze anche letali a cui questa pandemia ci può portare, quanto a pensare alla condizione di isolamento in cui siamo, dichiarandoci addirittura in regime di ‘libertà violata’. In  questa  condizione di isolamento ‘carcerario’ così come molti lo dipingono, forse qualcuno comincia ad accorgersi quanto manchino i rapporti interpersonali, pur riconoscendo al digitale un ruolo nuovo e alla comunicazione quello di essere veicolo importante per allentare quel senso di paura che ci ha costretto a fermarci. Una condizione mai provata e tanto meno mai pensata prima.

E’ altrettanto evidente che la paura porta costantemente alla ricerca di informazioni e di comunicazioni, le più disparate, sulla condizione attuale e qui non abbiamo che da aprire social, media e news, che ci sbattono in ogni istante della giornata quantità iperboliche di informazioni, spesso anche senza alcun filtro critico. Ma la razionalità imporrebbe che, anche in queste condizioni, non dovremmo farci prendere da questa insofferenza e paura. Come? Certo le ricette non sono facili, soprattutto quando dietro la paura c’è davvero un’emergenza economica. Stiamo assistendo a cosa produce la privazione dei beni di prima necessità, cioè i beni che ci consentono di sfamarci. Si tratta di elementi concreti, che consentono a molte persone di vivere, o quantomeno di sopravvivere, perché chi vive in condizioni indigenti per aver perso il lavoro, o chi si trova su una strada, davvero non fa elucubrazioni sulla tristezza della solitudine che tanti  ‘costretti a restare in casa’ oggi lamentano, ma è piuttosto alla disperata ricerca di continuare ad esistere. Abbiamo, infatti, una miriade di situazioni concrete che mettono soprattutto le classi più deboli e emarginate di fronte ad un ulteriore e più complesso problema di sopravvivenza.

La sensazione tuttavia è quella che qualcosa di inspiegabile abbia trasformato il mondo anche a nostra insaputa e che l’invasione della informazione, a prescindere dalla qualità dei messaggi, ci lasci comunque in condizioni di minor capacità di reagire rispetto al passato. Cercando di razionalizzare, credo che l’uso o abuso distrattivo della rete non sia poi tanto di aiuto alla complessità del momento.

Proprio in questi giorni mi è capitato di leggere  un articolo  comparso sulla rivista MicroMega del 29 marzo scorso e mi parso molto interessante quello che i due autori (Nicola Grandi e Alex Piovan) hanno scritto rispetto a ciò che sta accadendo alle persone con la diffusione del Coronavirus:
“[…] Nelle ultime settimane, il COVID-19 ha stravolto le nostre abitudini, ha drasticamente modificato le nostre priorità e anche la nostra percezione della realtà. Il mondo, visto dalla finestra di casa e dal monitor del PC, ha un aspetto diverso. Questa vicenda, si dice, segnerà una generazione in modo irreversibile, come è accaduto per i nostri nonni con la guerra (o le guerre, in qualche caso). C’è però un aspetto che distingue la situazione che viviamo attualmente dalle poche situazioni paragonabili verificatesi negli scorsi decenni: alla pandemia, oggi, si associa quella che viene definita un’infodemia, cioè la diffusione di una quantità di informazioni enorme, provenienti da fonti diverse e dal fondamento spesso non verificabile Esattamente come i virus, oggi le notizie si diffondono in modo rapidissimo e attraverso canali molteplici. Il ‘contagio informativo’ ha l’effetto di rendere assai più complessa la gestione dell’emergenza, in quanto pregiudica la possibilità di trasmettere istruzioni chiare e univoche e di ottenere, quindi, comportamenti omogenei da parte della popolazione […]”

Condivido appieno che l’aspetto invasivo della comunicazione via web di un fenomeno come la diffusione del Covid 19 possa anche essere pericoloso, soprattutto perché si diffonde in modo rapidissimo (forse ancor più del virus) e non concede tempo e modalità di verifica della veridicità dell’informazione di qualsiasi tipo. Questo virus ci ha posto dinnanzi a difficoltà mai prima incontrate e il bombardamento di notizie che non riusciamo quasi mai a controllare, rischiano talora  di deformare la realtà dei fatti provocando paure, sottovalutazioni e comportamenti contraddittori, anche sul piano della difesa della salute. In pratica, per la stragrande maggioranza di noi, subire la sudditanza di un isolamento forzato e di una non precisa informazione su ciò che ci capiterà durante e dopo questa condizione, è senza dubbio preoccupante.

Insomma stiamo forse cominciando a capire che il nostro futuro non lo possiamo dare per scontato, abituati come eravamo a fare, continuando a vivere in un unico tempo, quasi ormai senza storia né passata, né da costruire. Paradossalmente, in modo inaspettato e violento, ci stiamo accorgendo che un meccanismo del nostro modo di vivere si è inceppato. La realtà vicina è sempre più lontana e, di fatto, molti sentono una solitudine e un isolamento mai prima conosciuto, nonostante la ‘infodemia‘ stia invadendo l’etere e renda ancor più ansiogena la condizione di attesa di una fine di questo nuovo virulento fenomeno,come se proprio a noi non avesse mai potuto capitare un problema del genere!

Mi interesserebbe  più di ogni altra cosa, abituata come sono a pensare al valore della educazione permanente  e dell’apprendimento in qualsiasi momento della vita, basato anche e soprattutto sulla qualità delle relazioni fin dai primi anni di vita, cosa ne pensano di questa nuova condizione i nostri bambini, i nostri giovani, costretti loro malgrado a starsene in casa, agganciati perennemente alla comunicazione in rete. Credo che  sarebbe interessante avviare un colloquio, con chi lo volesse fare, per sentire quali pensieri, quale idea si sono fatti di questa inaspettata condizione di forzata reclusione in casa, quali sentimenti e riflessioni suscitano loro l’essere effettivamente distanti dagli amici, dallo sport, dai loro interessi quotidiani.

Soprattutto mi piacerebbe sentire le loro voci rispetto a come giudicano questo mondo di adulti, come e cosa si aspettano dal mondo che sarà per loro. C’è qualcuno che pensa al perché questo mondo che si sono ritrovati, si ferma per una ‘semplice’ diffusione di un virus? A chi e a cosa danno la colpa (se di colpa vogliamo parlare)  di tutto questo disastro che sta capitando? Pensano che la loro vita di relazione si sia improvvisamente fermata o ritengono che il web ne sia il degno sostituto? Come convivono in famiglia questo tipo di condizione, ne parlano direttamente con i genitori o familiari? Com’è il rapporto con gli insegnanti? Sentono la mancanza delle relazioni dirette, di guardarsi negli occhi, di parlare? Come se lo immaginano un loro futuro dopo questa ‘nuova  pestilenza’? Tutto tornerà come prima o sono portati a ragionare sul fatto che il comportamento umano potrebbe o dovrebbe anche cambiare? E come? Cosa sarebbe per loro importante fare? Utilizzano solo la comunicazione virtuale o la lettura li ha aiutati a capire e supportare l’isolamento?

Insomma mi piacerebbe  e credo che sarebbe importante per molti, sentire la voce dei giovani, dei ragazzi e delle ragazze, dei bambini e delle bambine. Sono convinta che le loro riflessioni potrebbero aiutarci ad uscire da questa situazione davvero strana e pericolosa. Perché non lanciare l’idea di ricevere le loro riflessioni su questo network per poi farne oggetto di vero e approfondito confronto? Chi ha figli, nipoti, amici, potrebbe veicolare quest’idea e ritengo che potrebbe essere un modo per rimettere in moto un pensiero critico, utile a riflettere su come stiamo vivendo, anche e soprattutto, per noi adulti.

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LA “NUOVA SCUOLA” VA IN VACANZA
E’ sempre la vecchia scuola che naviga a distanza

Così della didattica in presenza, quella fatta di aule di pietra e cemento, di banchi e lavagne, di lezioni, interrogazioni e voti, se ne parlerà a settembre. Cosa accadrà nel frattempo, a parte esami e scrutini, non si hanno notizie. Sarà un fiorire di compiti per le vacanze online con la speranza di improbabili recuperi. Neppure l’eccezionalità del momento è in grado di produrre eccezioni.
Ad esempio, visto che ci si è attrezzati, perché non continuare con la didattica a distanza anche nei mesi che ci separano da settembre? Non è necessario mantenere il rigore degli orari scolastici, collegarsi con l’aula virtuale ancora in pigiama per fare l’appello, si possono praticare modalità più soft. Non è che i professori hanno tre mesi di ferie; con una buona organizzazione delle risorse umane si possono coprire anche i mesi di giugno, luglio e agosto. La didattica a distanza in questo caso servirebbe ad accorciare le distanze dai programmi da svolgere, come dai recuperi e dai debiti da colmare. Pensare che un anno scolastico, già stravolto dall’emergenza, debba seguire le date del calendario scolastico in tempi normali è per lo meno discutibile.

Più dei debiti di ragazze e ragazze, ci sarebbe da ragionare del debito che la scuola tutta ha accumulato nei confronti dei suoi studenti, dall’infanzia alle superiori. È la scuola che deve pensare a come colmare il debito che ha contratto con questa generazione sconvolta dalla pandemia. Il tempo, che è la risorsa più preziosa nell’età della crescita e della formazione, che qualità ha avuto, come è stato investito?
La questione non è di poco conto perché chiama in causa la responsabilità che noi adulti portiamo verso i più giovani. Se avessimo coltivato la pratica dell’apprendimento permanente, anziché relegarlo al recupero dell’istruzione degli adulti, ora potremmo disporre dei mezzi in grado di garantire le opportunità formative a tutti i nostri ragazzi.

L’idea dell’autosufficienza del sistema scolastico denuncia tutta la miopia e l’angustia di questa prospettiva. Abbiamo ignorato per anni gli inviti della Commissione Europea, da Lisbona 2000, a tessere una rete di apprendimenti formali e non formali, di capitalizzazione delle risorse formative dalle scuole al territorio. Cosa servono i depositi del sapere, dai musei alle biblioteche, dalle università ai centri di ricerca, se ora non sappiamo metterli al servizio di un grande progetto di apprendimento e di formazione capace di oltrepassare le pareti di un’aula per offrire in modo intelligente, coinvolgente, epistemologicamente corretto le conoscenze disciplinari che costituiscono il nerbo dei nostri programmi scolastici.

Il progetto di una società a rilevanza formativa è rimasto sulla carta dei manuali di pedagogia, dove avevamo letto che si apprende per tutta la vita, dalla nascita alla morte, perché tutto è apprendimento e tutto può essere appreso a qualunque età, come non più di quattro secoli fa ci ammoniva il polacco Amos Comenio e la chiamava “nuova didattica”. Quanta vecchia didattica ammuffita abbiamo al contrario coltivato negli orti delle nostre scuole, mentre si tagliavano le risorse per l’istruzione e la formazione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi veniva affidata alle mani di sempre più improvvidi ministri dell’istruzione. Ora la responsabilità non è dei ragazzi, che non si impegnano e accumulano debiti, ma tutta nostra che mai ci siamo impegnati accumulando i debiti che ora sono giunti al dunque.
Avevamo inaugurato il secolo della società della conoscenza, invece abbiamo praticato e guidato società di piccolo cabotaggio, senza respiro e senza immaginazione e che il male ci accumuni ad altri non è certo una consolazione. Il nostro difetto peggiore è la mediocrità e nonostante tutto non abbiamo ancora imparato ad evitarla.

Il ministro in carica nomina una task force perché a settembre la scuola torni il più possibile come prima. La progettazione di come riempire i mesi estivi di bambine e bambini, di ragazze e ragazzi è saltata a piè pari, così la riflessione su come usare le risorse dei territori per una formazione permanente, con scuole ad orario continuato, usando laboratori, spazi, risorse e opportunità sul territorio da mettere al servizio dell’istruzione. Occorrerebbe dotare il sistema formativo di una comune piattaforma e-learning,  anziché ricorrere episodicamente alle offerte della rete, come sarebbe necessario pensare a come frantumare le classi in piccoli gruppi di studenti da seguire e curare.

Ma tutto ciò pare non aver sfiorato la mente del ministro e dei dirigenti di viale Trastevere. L’ottusa chiusura nei confronti di quanto non sia scuola come da sempre l’abbiamo conosciuta resta inscalfibile. All’appello mancano soggetti importanti, portatori di intelligenze e di competenze. Le intelligenze e le competenze che suggeriscano al Paese come si potrebbe cogliere oggi l’occasione di una scuola nuova, profondamente rinnovata e di come realizzarla. Anziché progettare un sistema formativo con un ampio respiro sociale, che faccia delle risorse presenti in ogni territorio i gangli della sua missione, si prospetta una vecchia scuola blended, ad apprendimento ibrido, metà aula, metà connessa con l’isolamento di ogni studente a casa propria.
E tutto con gli ottanta milioni messi a disposizione dal ministro per la didattica a distanza, che divisi per il numero delle istituzioni scolastiche statali e paritarie, fa poco più di mille euro a istituzione scolastica, neanche ci paghi le connessioni.

Sole Nero

Molti di noi hanno subito avvertito  la sensazione, niente di più, per lo meno all’inizio della pandemia,  di essere di fronte a qualcosa di inedito.
Abbiamo assistito, in seguito, al succedersi di provvedimenti di distanziamento sociale e di limitazione della libertà personale, sempre più restrittivi, che hanno modificato profondamente  la vita quotidiana personale di ognuno di noi.

Ad un certo punto poi  è come se qualcuno avesse tolto il fermo, collegato alla televisione, che viene attivato ogni sera a cena mentre ascoltiamo un notiziario e che impedisce alle immagini di morte e sofferenza, provenienti da ogni angolo della terra, di essere sentite dentro, oltre che guardate con gli occhi dall’esterno. Le inquadrature quotidiane delle persone vittime del virus, nei reparti di terapia intensiva, pur pietosamente filtrate, hanno assunto un aspetto dolorosamente reale per tutti. L’assenza di vita nell’ospedale diventa ben presto speculare a quella delle strade delle nostre città.

Cambia tutto. Improvvisamente… dentro e fuori di noi.

Tutto quello che c’era prima, dai problemi più piccoli a quelli più grandi, sembra essere quasi del tutto scomparso: l’angoscia per l’attesa di un referto, le violenze tra le mura di casa, i problemi economici, le liti coi figli…di tutto ciò in giro non si sente più nulla, sembra essere  evaporato sotto una nuova dimensione angosciante che a fatica riusciamo ad accettare come la nostra nuova realtà.
Scrive Massimo Recalcati su la Repubblica dell’11 aprile: “Questa nuova angoscia assume i caratteri di una sorta di lutto collettivo. Abbiamo perso il nostro mondo, le nostre abitudini, la possibilità di vivere insieme come prima. E’ l’atmosfera francamente depressiva in cui tutti siamo finiti di fronte al ritratto delle città del mondo trasformate in deserti”. [Qui]

Comprendiamo allora che non è stato aggredito solo il corpo, ma è stato raggiunto anche lo spirito. Sulle malattie dello spirito c’è sempre un certa ritrosia a invocarne l’attenzione, quasi che possano essere ancora considerate inevitabili effetti collaterali di altre e ben più importanti, concrete priorità, mentre le prime sono spiacevoli conseguenze da accettare con umana sopportazione.
Le certezze del nostro ’io‘ traballano sopraffatte da innumerevoli dubbi riguardanti la correttezza della gestione tecnico-sanitaria dell’emergenza, la sostenibilità dell’entità dei danni economici presto  da pagare e in modo particolare viene annichilito dai fantasmi dell’insicurezza, dell’angoscia e della paura che, cacciati nel retrobottega da diversi consolidati meccanismi psicologici, escono fuori oggi ad aggredire drammaticamente la relazione con l’altro.

Sin dal principio ‘l’Altro’ è sempre stato un problema. Ma è sempre stato anche la soluzione!
L’Uomo nella Genesi, signore assoluto del Giardino, scopre, con la creazione della Donna, di non essere più tale: gli viene posto a fianco un termine di confronto che ridefinirà per sempre il suo potere. L’esistenza dell’altro ricorda al nostro io che non può possedere tutto, non può avere tutto per sempre; la presenza dell’altro pone così un limite alla soddisfazione dei propri desideri. Non posso evitare di crescere; non posso tenere presso di me i miei amori per sempre; non posso evitare di invecchiare; non posso evitare la perdita. Se non si riesce ad elaborare questa perdita il rischio è quello di perdere se stessi: la depressione mi segnala che visto che non so ‘perdere’, ‘perdo’ me stesso; visto che non so lasciare andare, mi lascio andare.

“Piuttosto che cercare il senso della disperazione, confessiamo che non si ha senso fuori della disperazione.”(J.Kristeva, Sole Nero, Roma, 2013, p.9).
Della ‘Cosa’ di cui sentiamo la perdita, percepita quale oggetto ambivalente odio-amore, Nerval ne dà una splendida metafora come un sole sognato, chiaro e nero insieme. (vedi G.de Nerval, Le figlie del fuoco, Milano, 1979, p.223)

Il  mio sentirmi inadeguato mi porta ad essere attratto dall’oggetto del mio ‘amore’, attraverso una sorta di processo di identificazione con l’altro; oggetto allo stesso tempo anche del mio ‘odio’, poiché la mia inadeguatezza lo ha eretto a mio giudice tirannico, che desidero liquidare. E’ questa ‘mancanza’ che mi definisce in senso depressivo, che mi devasta dentro, che non mi fa abitare il mondo su cui vedo sorgere ogni mattina il sole, un sole nero.

Per capire meglio la natura di questa mancanza pensiamo alla famosa battuta del film Ninotchka di Lubitsch:
“Cameriere! Vorrei un caffè senza panna!”
“Mi dispiace signore la panna è finita abbiamo solo latte, posso darle un caffè senza latte?“
(citato in S. Zizek, Come un ladro in pieno giorno, 2019, p.79).
Questo è quello che combiniamo: un caffè semplice e un caffè senza panna a livello fattuale, sono la stessa cosa. Siamo noi che aggiungendo una negazione abbiamo trasformato ‘un normale caffè’ in ‘un caffè a cui manca qualcosa’.

E questa negazione diventa la cifra nella nostra vita! La nostra vita sarà quindi una vita connotata dalla mancanza: non faremo mai abbastanza, non saremo mai all’altezza. Gli altri non si accorgeranno di nulla, vedranno un semplice caffè…noi vedremo un caffè a cui manca la panna.
Questa mancanza a livello profondo genera angoscia, angoscia di non aver seguito il proprio desiderio, di non essere in grado di poterlo fare.
Il desiderio per Lacan è sempre desiderio dell’altro, è una relazione profonda di contatto con qualcuno. Se si dovesse  rappresentarlo con un’immagine si potrebbe dire che è un ‘tendere verso’.(M.Recalcati, Ritratti del desiderio, 2012).
Se l’angoscia proviene dall’incontro con il proprio desiderio, la depressione annulla l’angoscia e di conseguenza proietta il desiderio nello stagno immobile di un tempo senza avvenire. Consiste in questo per Lacan la viltà etica che accompagna l’affetto depressivo, ossia la scelta di indietreggiare di fronte al proprio desiderio e di preferire ad esso il rifugio in un godimento solitario e distruttivo capace di sottrarci al campo delle relazioni umane”. (M. Recalcati, Un desiderio di desideri, in Il manifesto) [Qui] 

Nel racconto di Dino Buzzati Nuovi strani amici  il protagonista, Stefano Martella, si ritrova, dopo la morte, in una città tanto bella e pulita che pensa di essere giunto in Paradiso. Nel posto dove si trova il Martella c’è proprio tutto; il problema è proprio questo, non c’è nulla da desiderare. Arrivato al circolo della città ritrova cari amici e uno di questi alla fine gli rivela: “Sei venuto qui a marcire, non hai ancora capito? A migliaia ne arrivano come te, ogni giorno lo sai?… e non hanno  né ansie, né paure, né rimorsi, né desideri, né niente… Ma non l’hai ancora capito che noi siamo all’inferno?” ( Dino Buzzati, Nuovi strani amici, in Paura alla scala, Oscar Mondadori, 1984).

Riporto, alla fine di questo breve viaggio nella nostra interiorità profonda, gli angelici versi di questa lirica di Emily Dickinson, con l’augurio che possano sostenere, almeno loro, chi continua ad aprire ogni mattino con mano tremante e occhi socchiusi, le finestre della propria anima all’altro,  sperando di non vedere più sorgere all’orizzonte un sole nero, ma finalmente una luce … una luce molto più viva.

Non conosciamo mai la nostra altezza
Finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
Arriva al cielo la nostra statura.

L’eroismo che allora recitiamo
Sarebbe quotidiano, se noi stessi
Non c’incurvassimo di cubiti
Per la paura di essere dei re

PER CERTI VERSI
Covid 19

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

COVID 19

Sento voci frequenti parlare del virus
Come di una guerra
Voci che la guerra mai l’hanno vissuta
Una catastrofe innominabile
Questa è un ennesimo segnale
Per una società malata
Per un uomo malato
Ad umanità intermittente
Che vive di nuove schiavitù
Che non ha tempo
Che non guarda negli occhi
Che stravolge la natura
Non parliamo di guerra
Parliamo di cura

L’israeliano Yoram Hazony sostiene “Le virtù del nazionalismo”.
Ma la storia d’Europa ci insegna l’esatto contrario

In tempi di costrizione in casa da pandemia, mi sono preso il tempo di leggere Le virtù del nazionalismo, il libro di Yoram Hazony presentato fresco di stampa a Ferrara lo scorso 12 dicembre 2019.
Dico subito che sono tante le cose che non so, per avere la pretesa di fare il pelo e contro pelo a chi è ritenuto fra i più vivaci intellettuali israeliani contemporanei: filosofo, pensatore politico, biblista, presidente del The Herzl Institute di Gerusalemme. Eppure qualche osservazione si può osare, rispetto a uno studio che entra senza giri di parole in un tema di bollente attualità.

Per quel poco di sintesi che si può fare di 323 pagine, Hazony sostiene che il miglior ordinamento politico sia un ordine mondiale di stati nazionali e indipendenti, mentre il peggiore è quello che si vuole basare su istituzioni internazionali: dall’ONU fino all’Unione Europea. Il motivo di fondo è che questo secondo modello è la costante riedizione di un potere imperiale che, inesorabilmente, finisce sempre per soggiogare e umiliare i legittimi interessi nazionali. Questa convinzione si fonda a partire dalla Bibbia ebraica (la TaNaK, sigla delle iniziali delle raccolte di libri che la compongono: Torah,  ossia i cinque libri del Pentateuco – Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio -, Neviim, i Profeti, e i Ketuvim, tutti gli altri Scritti).
Secondo Hazony, la storia biblica è un lineare e costante anelito alla fondazione dello stato (regno) nazionale d’Israele, contro le brame imperialiste del tempo (dalla schiavitù e della fuga dall’Egitto, con il celebre episodio del passaggio del Mar Rosso, alla cattività babilonese). Le radici religiose delle ‘virtù’ del nazionalismo proseguono con la Riforma protestante, in opposizione, ancora, all’imperialismo della Chiesa di Roma, incarnato nel principio espansionista della sua cattolicità, cioè universalità. Anche il milieu protestante viene ricondotto alle sorgenti del testo sacro d’Israele, dal momento che la Bibbia (in volgare), unitamente alla rivoluzione della stampa, per Lutero fu il cardine della sua svolta.
A sostegno di questo secondo movimento della storia, l’autore legge lo scontro tra Elisabetta (figlia di Enrico VIII) e l’Invincibile Armada di Filippo II di Spagna (1588), ossia contro l’imperialismo cattolico stile Sacro romano impero. Così presero le mosse le storie nazionali d’Inghilterra (con una chiesa nazionale), cui l’autore aggiunge altri paesi come l’Olanda e la nascita degli Stati Uniti d’America. Esattamente come la Bibbia ebraica sarebbe all’origine anche del peculiare itinerario del cattolicesimo nazionale francese, “testardamente resistendo – scrive – a papi e imperatori”.

Già questo primo basamento nella tradizione biblica a sostegno della causa nazionalista, merita una prima riflessione. Piero Stefani  nel suo Il grande racconto della Bibbia (2017) ricorda che, nonostante le aspirazioni, fu breve l’unità d’Israele, divisosi poi nei regni del Nord e di Giuda, non certo a causa di un’aggressione esterna.
Silvia Zanconato, biblista ferrarese, fa inoltre notare come la Torah, ovvero la Legge al cuore dell’identità e fedeltà ebraica, si chiuda con la visione della Terra promessa, non con la sua conquista e il suo possesso. In altre parole, nella Bibbia convivono e discutono chiavi di lettura in tensione: quella nazionalista, certo, ma anche quella che s’interroga sulla iineliminabile presenza dell’ ‘altro’, compagno, fratello, amico, straniero o nemico, ma sempre imprescindibilmente in rapporto.

Universalismo uguale Imperialismo

Continuando a seguire le tesi di Hazony, si arriva al pensiero liberale-illuminista (da Locke a Kant), messo sul banco degli imputati perché reo di essere anch’esso imperialista. Vediamo perché.
Non convince il filosofo israeliano nemmeno la teoria classica del contratto sociale, in base alla quale dallo Stato Naturale di libertà, l’uomo si emancipa, dando vita alla società per via del consenso, cioè facendo appello alla ragione. Una teoria che sfocia in un universalismo, perché accomuna tutti gli uomini nella cifra della ragione che ne fonda la libertà e, quindi, l’uguaglianza.
Anche in questo caso, universalismo viene letto come imperialismo, al quale Hazony oppone il principio del “patto di mutua fedeltà”, ossia il senso di appartenenza dell’uomo alla famiglia, clan, tribù e, infine, alla Nazione. Un ragionamento che si basa sulla sfera del sé, nel senso che ciascuno sente ogni minaccia come rivolta a se stesso, ai propri genitori, fratelli, parenti, nonni, comunità (clan, tribù) e alla Nazione di cui si sente parte, per cultura, tradizione, educazione e religione.
Viceversa, l’uomo non sentirebbe la medesima intima appartenenza verso una astratta comunità internazionale. Un’analisi che trae forza dalle lezioni filosofiche dello scetticismo ed empirismo anglosassoni, in opposizione all’astrattismo illuminista. Da qui il senso della Nazione che, tradotto, pare l’espressione della triade dio, patria, famiglia. E in difesa della Nazione, ogni uomo sarebbe disposto a qualsiasi sacrificio, mentre non proverebbe alcuna temperatura morale per un universalismo percepito come un’imposizione. E, come tale, imperialista.
Gli esempi storici di Napoleone e di Hitler, sarebbero, secondo questa lunghezza d’onda, compresi nel novero dell’imperialismo, perché intimamente connotati da un espansionismo estraneo al nazionalismo, più tendenzialmente geloso di tutelare-conservare i propri confini, innanzitutto culturali. Il fatto stesso che il Terzo Reich nazista fosse un richiamo esplicito al Primo Reich, si concepisse cioè come la riedizione del Sacro romano impero, è portato come conferma del ragionamento.

Una tesi di destra che non convince

Non convince, almeno me, come si possa trascurare che la follia nazista si sia compiuta nel nome di una ‘tedeschità’ sacralmente investita di dominare il mondo, sulla scorta di una degenerata superiorità razziale, verrebbe da dire, della tribù germanica. Come, del resto, il disastro bonapartista non è stato perpetrato tanto nel nome dei principi illuministi, quanto di un’esondante grandeur tutta francese.
Non sarebbe il caso di ammettere che il verme dell’odio espansionista e oppressivo ha abitato (e abita) sia il pensiero nazionale che quello sovranazionale?
Le nazioni che Hazony annovera virtuosamente alla tradizione della Bibbia ebraica, non hanno forse un passato (e un presente) colonialista: Gran Bretagna, Olanda e Usa?
Non esiste forse una linea tragicamente sottile nel nazionalismo, fra le legittime istanze di liberazione dall’oppressione imperialista (il Risorgimento italiano), e le tentazioni di dominio (la Serbia di Milosevic e di Mladic)?
E quanto la spietata pulizia etnica messa in opera da Tito con le foibe, è da attribuire all’imperialismo marxista,e quanto è invece riconducibile a un nazionalismo slavo?

La parabola autoritaria dittatoriale di Viktor Orban e il 

Arrivando alla cronaca di questi giorni, cosa dire della parabola dell’Ungheria di Orban che, approfittando cinicamente dell’emergenza pandemica, invoca e ottiene i pieni poteri mettendo sotto chiave libertà e garanzie democratiche, tanto che la stessa destra magiara ha gridato al colpo di Stato?
Gli organismi internazionali dovrebbero astenersi dallo stigmatizzare questa pericolosa e inquietante deriva, solo perché sarebbe ‘un’indebita intromissione imperialista’ negli interessi inviolabili di quella nazione?
E sarebbero imperialiste le tante voci che, in tempi di contagio pandemico, lamentano la mancanza di organizzazioni internazionali autorevoli per fare fronte comune ed evitare che ogni Paese vada per conto proprio, ripetendo i tragici errori del passato?
Resto dell’opinione che l’Unione europea, per quanto oggi onestamente inguardabile, debba la sua nascita non alla mai sopita tentazione imperiale, ma al desiderio di prevenire i disastri di un egualmente pericoloso nazionalismo, anch’esso tutt’altro che immune dal virus dell’odio razziale e dell’oppressione. Esattamente come, all’opposto, nell’opzione sovranazionale sarebbe il caso di riconoscere diritto di cittadinanza alla libera e pacifica collaborazione tra i popoli, come possibilità di ordine internazionale e non come voce esclusiva e necessaria della tentazione imperiale.

 

PRESTO DI MATTINA
SIAMO TUTTI CLAUDICANTI, TUTTI MIGRANTI:
Non cerchiamolo in cielo, è sulla Terra che troviamo Cristo

Anni fa, quando m’imbattei nell’opera pittorica di Georges Rouault (1871-1958), ne rimasi sorpreso. Le sue tele ‒ pensai ‒ riflettono bensì la disumanità dell’uomo, ma testimoniano al contempo anche il volto umano di Dio nel mondo. È nella realtà del suo tempo, segnata da profonde disuguaglianze sociali mascherate da un’ipocrisia dilagante, che egli trova la sua ispirazione, intrecciando il tutto con una spiritualità incarnata. Emerge così nella sua narrazione pittorica un carattere sacro generato da una duplice polarità: fede e vita, spiritualità e realtà, si fondono assieme inducendo lo stesso autore a definire la propria opera come un’ardente testimonianza della compassione di Dio per gli uomini. Con gli occhi della sua pietà, il pittore ritrae questa vicinanza di Cristo agli uomini e alle donne del proprio tempo sull’orlo di un abisso esistenziale; una prossimità che lo porta a condividere con loro, tanto l’esclusione e il rifiuto, quanto la speranza di un riscatto che proviene dalla Sua stessa vita.
Domani è l’ottava di pasqua. La settimana vissuta come fosse un solo giorno, quello di Pasqua, in cui facciamo memoria dell’incontro di Gesù Risorto con Tommaso: un episodio dipinto più volte proprio da Georges da Rouault in quadri che egli intitolò “Seigneur, c’est vous, je vous reconnais”. Vi si ritrae il riconoscere di un altro irriconoscibile, uno straniero del quale, come a Emmaus, il Risorto assume le sembianze. «Sei tu Signore, ti riconosco»: da allora questa frase risale in me ogni volta che accade un incontro, specie se difficile, l’incontro con il dolore e la sofferenza. Perché ormai queste parole si sono inestricabilmente intrecciate alle altre ‒ che parimenti tengono insieme fede e vita riflettendo l’opera di giustizia su cui riposa la benedizione del Signore ‒: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto…».

Colpisce il fatto che nel Tommaso di Rouault alla fine le ferite non vengono toccate; il riconoscimento accade prima, senza dipendere dal vedere le piaghe nelle mani e nei piedi del Cristo o nel mettere la mano nel suo costato. Il riconoscimento del Risorto scaturisce dalla pietà, da quella compassione, da quell’amore verso la condizione umana calpestata  che supplisce ogni vedere e toccare ed è generativa del credere. L’amore come forma di fede, propria di quei credenti cui si rivolge la beatitudine finale di questo brano del vangelo: «beati quelli che non hanno visto ‒ e potremmo anche dire: amato ‒ e hanno creduto!».
Ecco l’invito della Pasqua: quello di vedere con il cuore, di riconoscere nell’altro noi stessi, e in lui vedere anche la nostra fragilità, il nostro dolore. Nel Risorto convergono, in fondo, il suo e il nostro destino, così come quello di ogni uomo. Per questo, come narrato ne La leggenda del Grande Inquisitore (il manifesto del pensiero religioso di Dostoevskij ndr.), Egli non è da cercare in cielo. Lo ricorda anche l’evangelista Luca negli Atti degli apostoli.«Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”». È qui, dunque, sulla terra, che Cristo va cercato e incontrato, perché egli è già qui e viene sempre. È da cercare claudicante con chi zoppica, sulle strade della nostra quotidianità, che egli percorre per rialzarci e così disvelare il valore della nostra claudicanza.
Pasqua è un essere rialzati: o meglio innalzati proprio perché, prima, ci si è abbandonati, come Gesù, nelle mani del Padre. Innalzati perché siamo stati amati e perché riusciamo ad amare nonostante la nostra fragilità, comprendendo che cercare le cose di lassù significa cercare il Risorto tra noi.

Alzarsi è il verbo della risurrezione; non più disteso ma in piedi, libero dalle bende, perché liberato dai legami della morte. Colui che si è abbassato fino alla morte e alla morte di Croce è stato innalzato dal Padre, che gli ha dato il nome sopra ogni altro nome, affinché in Gesù ciascuno di noi venga rialzato e rimesso in cammino.
La fede a Pasqua non è una fede trionfante ma claudicante: cammina zoppicando. Parola nuova per dire la nostra fragilità, il nostro farci e divenire, progredendo nella vita come nella fede. E se ci pensate bene, anche l’amicizia ‒ che «è metà della vita» come mi disse una volta don Ones , parroco prima di me a S. Maria in Vado ‒ è esperienza di claudicanza. Perché l’amicizia autentica ci rende consapevoli che senza l’altro si è zoppicanti. E parimenti anche la fede è zoppa senza uno a cui affidarsi.
Ma questa debolezza del credere è anche la nostra forza, rendendoci capaci di distogliere lo sguardo da noi stessi per rivolgerlo oltre, al di fuori, vero l’incontro con l’altro.
È nella relazione, nella compagnia della fede, scoprendo che l’altro mi manca e non posso vivere senza, che avviene la crescita che ci trasforma. Come la pasta in compagnia del lievito, il cibo del sale, il seme in compagnia della terra, così anche noi in compagnia della dolce amicizia del Cristo che come uno straniero si accompagna mentre siamo in cammino, trasformiamo la nostra vita. Nella nostra condizione umana sta fortunatamente una claudicanza che ci impedisce di esistere da soli, come una torre senza porte e finestre, una vita vuota in solitudine.

Lo constatiamo anche in questa situazione di quarantena: cosa saremo senza gli altri? I malati senza i medici, noi senza farmacie e alimentari aperti, senza i vicini che ci rivolgono una voce. La nostra realtà più profonda, quella di esseri incompiuti ma orientati, in trasformazione verso una pienezza, in movimento verso un compimento, ci viene allora manifestata proprio dalla claudicanza: essa ci spinge a cercare sempre di nuovo e oltre, in profondità e fuori, in avanti e al di sopra. Ci distoglie dal nostro io, e se in apparenza ci sottrae a noi stessi, in realtà ci completa nella relazione, come il seme che diventa spiga, o il fiore frutto.
In fondo, siamo pellegrini e ospiti anche in questa città, di cui pure siamo responsabili. Lo sguardo resta però rivolto alla città di lassù, nella consapevolezza ‒ altro aspetto della nostra claudicanza umana ‒ che non abbiamo qui una città definitiva. Una condizione che ci rende per definizione precari, tutti indistintamente migranti, ridimensionando la nostra illusione di onnipotenza, scalzata dal desiderio di condividere e moltiplicare con gli altri il pane della Pasqua, che è pane per tutti, anzi pane di tutti.

Spezzate il pane alla vostra tavola oggi, e ricordate che così ha fatto anche Gesù condividendo con chiunque desiderasse stargli accanto. Forse che non ci si restringe quando nasce un figlio? E quando vien un ospite, non ci si rimpicciolisce e gli si lascia il posto più bello? Il tutto senza sacrificio, perché la loro presenza ci completa, ci fa evolvere, ci darà la stessa gioia che emozionò i due di Emmaus nel riconoscere il Signore. Vedete che si può rimpicciolire senza diminuirsi.
I discepoli a Pasqua sono come i bambini che hanno appena iniziato a vedere o a camminare, che stanno in piedi a malapena. È l’esperienza di Pietro e Giovanni: uno corre e arriva prima, ma si ferma e lascia entrare il secondo claudicante che lo segue. Vedete: la fede di uno aiuta la fede dell’altro, e così si completano. Per questo dobbiamo pensare  che anche la Chiesa è una realtà claudicante.
Ce lo ricorda il Concilio che paragona la Chiesa alla luna. Cosa sarebbe infatti la luna senza la luce del sole; resterebbe buia, non diminuirebbe ma non crescerebbe nemmeno, rimanendo spenta e invisibile. Così anche la Chiesa, senza rimpicciolirsi e far posto a Cristo e ai fratelli, non potrebbe riflettere colui che è la luce delle genti; non sarebbe più inviata né missionaria; non sarebbe più niente.

Per concludere, una piccolissima parabola nella quale ci si ricorda che chi si rimpicciolisce, come la luna, per fare spazio agli altri, ascoltarli ed aiutarli, e donare anche la vita, avrà la gratitudine di molti e la vita per sempre nel Signore risorto.
Si racconta che quando il Creatore fece i due grandi luminari del cielo, la luna protestò: “Due sovrani non possono fregiarsi della medesima corona.”
“Hai ragione”, rispose il Creatore, “non ci avevo pensato, vai e rimpicciolisciti.”
La luna rimase a dir poco mortificata, allora il creatore riprese. “Vai, la tua incompiutezza ti darà una moltitudine di sorelle e fratelli. Rimpicciolirsi non significa diminuirsi ma aprirsi e fare spazio all’intero universo.”
La luna esitò un momento e in quell’attimo, come ogni chicco di grano che sta per essere gettato nella terra od ogni uomo che sta per morire, sentì una grandissima solitudine ed ebbe paura. Ma fu solo un attimo, perché subito ricordò quella parola, “Sia la luce”, che aveva illuminato ogni cosa, e senza più indugiare si tuffò nella luce. In quel momento l’oscuro denso orizzonte del nulla si aprì all’infinito, e una moltitudine di stelle, pianeti, galassie si dispiegò a perdita d’occhio, senza fine, sotto il suo sguardo, incredulo per la gioia.
Sono i mistici, i genitori e i poeti i più sensibili al dovere di rimpicciolirsi davanti al mistero della vita, al mistero di Dio e al mistero della parola generatrice di senso. La scrittrice Lalla Romano così ci racconta la fede: “Fede non è sapere / che l’altro esiste /  è vivere dentro di lui / Calore / nelle sue vene / Sogno / nei suoi pensieri / Qui aggirarsi dormendo / in lui destarsi.”.
Destarsi in lui: questa è la Pasqua.

Nostalgia delle nostre vite associative

Da: Paola Zanardi, Presidente Associazione Amici della Biblioteca Ariostea

Leggo l’articolo del dott. Fioravanti “FERRARA IN QUARANTENA: la cultura è una rete vuota, senza pesci e pescatori” di cui, premetto, condivido l’osservazione in merito al silenzio generale in cui le istituzioni culturali cittadine sono cadute, ammutolite per la catastrofe sanitaria che ha colpito la nostra comunità locale, nazionale (e mondiale). Lasciatemi, però, distinguere fra i tanti tipi di silenzio e i tanti tipi di chiacchiericcio, presenti in questo nostro mondo “social” nel quale siamo immersi.
In queste settimane abbiamo rischiato la overdose della comunicazione social: infiniti messaggi, vignette, filmati, più o meno di buon gusto, sono giunti nei nostri cellulari, attraverso Twitter , Facebook, o Instagram . Un’ondata irrefrenabile che, inizialmente ci può aver allietato, fatto fare qualche risata, esorcizzato ansie e paure diffuse, informato tempestivamente, ma che ora, fortunatamente, lascia il passo a un po’ di quiete, a momenti silenziosi, devo dire particolarmente apprezzati, che possono essere riempiti con buone letture, lavori domestici, ascolti musicali, cura dei giardini o delle piante, telefonate d’ascolto ad amici e parenti. Abbiamo navigato a lungo in questo mare virtuale di offerte provenienti da tutte le parti per riempire il nostro tempo, ma mai come adesso abbiamo una grande nostalgia delle nostre vite associative , dei nostri incontri nei luoghi preposti alla condivisione culturale come la biblioteca, il teatro, il cinema, i musei.
Le nostre associazioni che, ahimè, raccolgono adesioni fra un pubblico ormai molto adulto sono state strutturate su un modello aggregativo costruito su interessi culturali condivisi. La passione per i libri, le biblioteche, la visita ai luoghi storici dell’arte italiana e straniera. Molti dei nostri soci non utilizzano il computer in modo regolare e faticano a stare al passo con un mondo che corre troppo velocemente e che ora comunque si deve fermare per respirare. Non possiamo lasciare indietro alcuni semplicemente perché non si sono alfabetizzati con il digitale.
Perché il problema è proprio questo: le attività in rete non si improvvisano; richiedono competenze, capacità, mezzi. Non possono consistere nel trasferimento puro e semplice nel web del modello culturale attivato in presenza; organizzare seminari, conferenze, presentazioni online non vuol dire semplicemente trasferire su una piattaforma i contenuti usualmente proposti in una sala davanti al pubblico. Vuol dire modificare radicalmente la proposta culturale adattandola ai nuovi media e immaginando un uditorio che non può che essere diverso da quello che tradizionalmente segue le iniziative cittadine
Le nostre pagine istituzionali presenti nel web vivono del lavoro di qualcuno che è privo di supporti tecnologici adeguati per produrre forme di comunicazione accattivanti. Noi, come Associazione Amici della Biblioteca Ariostea, continuiamo a stare vicini ai nostri soci con modalità comunicative forse in parte antiquate ma certamente ancora molto apprezzate. Siamo vicini ai carcerati che da tempo sono anche loro nostri interlocutori con un aiuto per fare una telefonata in più ai loro parenti di quelle consentite dalla Direzione della Casa Circondariale..
Questo non emerge dalle pagine del web ma è parte importante del lavoro delle associazioni che il dottor Fioravanti non vede e non considera in nome della Smart knowledge.

Dopo Covid: SI PUO’ IMBOCCARE UNA STRADA NUOVA?
Cominciamo dalla domanda di Troisi-postino al poeta Neruda

 

Postino: “Cioè voi che volete dire allora, che il mondo intero no? il mondo intero proprio… dico col mare, col cielo, con la pioggia, le nuvole…”
Neruda: “Ora tu puoi già dire eccetera eccetera…”
Postino: “Eh, eccetera eccetera… cioè il mondo intero allora è la metafora di qualcosa?

Chi ha amato Massimo Troisi avrà riconosciuto senz’altro uno dei dialoghi più belli tra il poeta Pablo Neruda (Philippe Noiret) e Mario Ruoppolo (Massimo Troisi) presenti nel film Il postino, vero e proprio testamento spirituale della sua parabola umana e artistica. Nelle righe seguenti vorrei giustificare come, nella domanda posta da Troisi-postino al poeta Neruda, possa essere ritrovato l’inizio di un percorso che conduca ad un ‘mondo diverso’, auspicato anche da quel #andràtuttobenesenontorneràtuttocomeprima,  lanciato pochi giorni or sono da questo giornale.

Il vecchio modello deterministico

Possiamo riconoscere, nella logica sottesa ai numerosissimi contributi comparsi sui media nelle ultime settimane sugli scenari successivi alla fase emergenziale della panidemia, l’adesione ad una impostazione deterministica, causa/effetto, dove in modo automatico si fanno discendere conseguenze positive nel caso in cui verranno presi certi provvedimenti o, al contrario, situazioni problematiche, in caso di scelte opposte.
Scrive sulle pagine del Financial Times Y. N. Harari [Qui]:L’umanità deve fare una scelta. Vuole proseguire sulla strada della divisione o prendere quella della solidarietà globale? Se sceglierà la divisione, non solo prolungherà la crisi ma probabilmente provocherà catastrofi ancora peggiori in futuro. Se sceglierà la solidarietà globale, la sua sarà una vittoria non solo sul nuovo coronavirus, ma anche su tutte le epidemie future e sulle crisi che potrebbero scoppiare in questo secolo.”.
In questa, ma in tantissime altre analisi, si presuppone cioè un cambiamento del modello produttivo e sociale così radicale e profondo che, per essere attuato, dovrà vieppiù basarsi su una mobilitazione sociale e politica sostenibile, a meno di dover pensare ad una auto-correzione del sistema decisamente poco credibile. Ma se da un lato si può convenire sulla direzione tracciata, auspicandone peraltro calorosamente la realizzazione, dal’altra parte il modello di interpretazione utilizzato, quello meccanicistico, lascia per forza di cose, muti sullo sfondo, i soggetti a cui consegnare tale portata innovativa, affidandone le modalità attuative alle stesse istituzioni economiche e politiche, le stesse che hanno condotto il pianeta a tale impasse, delegando proprio a loro l’eventuale conversione.
Il rischio sotteso a tale impostazione è che, dopo un primo periodo di esaltazione riformatrice seguente alla presa di coscienza nelle diverse comunità della profondità dei danni causati dal modello di sviluppo fin qui seguito, vi sia un riassestamento dei ‘poteri forti’, tendente solo ad un restyling economico-finanziario, i cui costi sarebbero semplicemente redistribuiti su più Paesi, ma sempre sui medesimi soggetti e soprattutto al di fuori di una differente presa in carico istituzionale delle nuove responsabilità politiche che un tale nuovo corso comporterebbe. Scrive S. Zizek che: “per cambiare davvero le cose bisognerebbe ammettere che all’interno del sistema esistente niente può esser davvero cambiato” (Come un ladro in pieno giorno,2019, p.22) .
Proviamo, quindi, a modificare l’approccio metodologico. Le soluzioni adottate dai governi per uscire dall’emergenza ci hanno posto di fronte a delle grandi novità, che prefigurano una soluzione basata su rapporti completamente diversi dal mondo fino ad oggi conosciuto. Un mondo fondato sostanzialmente sulla centralità dell’individuo, sull’interesse e sul mercato globale. Si vorrebbe invece dare inizio, prefigurare un mondo diverso, completamente nuovo.

Metafora di qualcosa d’altro

Nel dialogo proposto all’inizio di queste note, il postino Troisi chiede se il mondo della quotidianità presente “è metafora di qualcosa d’altro“. Proviamo a riproporre qui, all’interno di questo percorso, la stessa domanda. Nella nuova realtà che stiamo vivendo oggi, vediamo agire una comunità scientifica mai come ora così disposta a mettere in comune conoscenze utili a tutti; governi che nelle sedi internazionali tentano di superare tabù economici mai messi in discussione prima; cittadini che toccano con mano tutta la differenza esistente, di fronte a problemi vitali per la sopravvivenza, dall’essere guidati da leadership responsabili rispetto a imbonitori capaci solo a soddisfare pulsioni del momento. Bene, questa nuova realtà può essere considerata ‘metafora’ di qualcosa d’altro?
In un testo di H.J.Berman veramente fondamentale per la comprensione dello sviluppo delle istituzioni politiche e sociali, testo che fu molto amato dallo storico Paolo Prodi, troviamo scritto: E’ stato detto che le metafore dell’altro ieri, sono le analogie di ieri, e i concetti di oggi.” (H.J.Berman, Diritto e rivoluzione, Il Mulino,1998,p.175).
Ecco il percorso: dalla ricerca di ‘metafore‘, attraverso il riconoscimento di ‘analogie , per arrivare infine ai ‘concettiutili per passare dall’ignoto al noto. Pensare per metafore e analogie porta, nel corso del tempo, a superare una logica causale, a poter accogliere via via nuove relazioni che, collegando il ‘nuovo’ con il ‘vecchio’, possono individuare le altre idee che sono in grado di mantenere il cambiamento.
Negli ultimi tempi, è sempre più evidente e tangibile come gli aspetti del linguaggio siano fondamentali per comprendere la dinamica dei cambiamenti: non solo per gli apporti letterari, ma anche per quelli scientifici in generale. Osserva a tal proposito Alessandro Pascolini (uno ricercatore senior dell’Università di Padova, già docente di fisica teorica e di scienze per la pace) in una sua straordinaria relazione dal titolo Metafore e comunicazione scientifica: “Mentre le metafore proiettano il ‘noto’ verso ‘l’ignoto’, le analogie si sforzano di riportare ‘l’ignoto’ al ‘noto’: davanti a un oggetto o a un fenomeno ancora largamente sconosciuto ne tentano la spiegazione ricorrendo all’analogia con un oggetto o con un fenomeno conosciuto.”  [Qui]

Con la metafora viene attuato un  procedimento di trasposizione simbolica di immagini, ed ecco che, ad esempio,le spighe di grano ondeggiano, come se fossero un mare. Con tale espediente, da una realtà conosciuta (nella domanda di Troisi “dal nostro mondo”), dal mondo in cui viviamo, possiamo arrivare ad avere immagini di realtà non conosciute. Quello di cui siamo alla ricerca. Sempre seguendo l’interrogativo del film, attraverso la lettura metaforica, il mondo e tutto ciò che ci appare, lo possiamo interpretare come un indice dell’esistenza di ‘Qualcuno’ o ‘Qualcosa’ che, attraverso la natura e i suoi i dati sensibili, ci svela la sua esistenza.
Rapportato tutto ciò al nostro ragionamento, possiamo leggere quindi  la realtà di condivisione e di superamento degli interessi personalistici (‘nessuno si salva da solo’), che stiamo sperimentando nella situazione di epidemia, quale metafora di un mondo ancora a noi sconosciuto e di cui stiamo cercando la tracce. Con la trasposizione metaforica, quindi, ci è consegnato  l’elemento ignoto, il nuovo ordine che vorremmo costruire perché ci salva, e di cui già oggi abbiamo manifestazioni embrionali ma concrete nelle politiche collaborative tra le società coinvolte.
Adesso si pone il problema della costruzione di quel mondo nuovo e del come fare ad acquisirne altri elementi caratterizzanti la sua definizione.

L’analogia: come utilizzare il nostro passato per orientarci nel presente

Ed ecco il secondo momento con l’utilizzo dell’analogia. L’analogia, sfruttando elementi di somiglianza già accaduti in passato, permette di leggere un fenomeno ‘ignoto’ alla luce di uno ‘noto’, ci aiuta a comportarci in una situazione sconosciuta ma che abbiamo visto essere analoga ad una che abbiamo già sperimentata. L’analogia è lo strumento che ci permette di usare il nostro passato per orientarci nel presente. Quindi, per riferire tutto ciò ai fini del nostro discorso, a cosa ancoreremo quel mondo nuovo che oggi solo metaforicamente stiamo conoscendo? A quali analogie potremmo ricorrere? La ricerca è del tutto libera e aperta. Si propone qui a titolo di esempio un percorso tra i tanti possibili, con cui legare in modo concreto ‘analogie utilizzabili’ tra passato e presente.
Molto stimolante risulta essere il riferimento al processo di formazione dello Stato moderno, un processo che, avviatosi tra il 1400 e il 1600, si è concretizzato grazie al superamento delle frammentazioni politiche e delle frammentazioni territoriali precedenti, arrivando a compimento con lo Stato assoluto e poi via via, fino all’approvazione delle Costituzioni.

A tal riguardo, le analogie da prendere in considerazione sono molto interessanti. Certo, non rapportandosi più allo Stato nazionale ma ad una comunità più vasta, come l’Unione europea. Proponiamo di cominciare con la Carta  Costituzionale, punto di arrivo dello Stato nazionale moderno e punto di ri-partenza per la costruzione di una autentica comunità sovranazionale. Non a caso l’attuale establishment, legato soprattutto a tutelare propri interessi economici, non è riuscito fino ad ora ad arrivare all’approvazione di una  Carta Costituzionale Europea, che costituisce il nuovo ‘concetto’ simbolico di cui abbiamo bisogno per legarci anche politicamente in modo serio.
Come le Carte Costituzionali liberali hanno sancito, con il riconoscimento dei diritti  alla libertà e alluguaglianza, la protezione del diritto fondamentale alla proprietà privata dell’individuo rispetto allo Stato, analogalmente una condivisa Carta Costituzionale Europea dovrebbe sancire il diritto delle comunità ad interessi superiori a quelli dei singoli Stati di appartenenza. In realtà, un tentativo di redigere tale Costituzione Europea è già stato fatto, ma definitivamente abbandonato nel 2007 [per approfondire] a seguito dello stop alle ratifiche imposto dalla vittoria del ‘no’ ai referendum in Francia e nei Paesi Bassi.

Tutto questo però prima. Adesso si aprono nuove possibilità, poiché stiamo facendo esperienza diretta di quello che vorrebbe significare per ognuno di noi andare in senso contrario. Utopia? Possiamo ancora rispondere con le parole di Slavoj Zizek, pensatore sloveno oggi tra i più impegnati e propositivi in questa ricerca di possibili vie di uscita e che sta lavorando a un libro aperto dal titolo emblematico, per l’appunto Virus. Scrive Zizek in un recente intervento apparso su Internazionale:Non sono un utopista, non invoco una solidarietà idealizzata tra esseri umani. Ma la crisi attuale dimostra chiaramente che la solidarietà e la collaborazione globale sono nell’interesse di tutti e di ciascuno di noi”[Qui]  
Si tratta quindi di cominciare a cercare sulla Terra, ma anche metaforicamente anche sopra, di andare per l’universo e di guardare non solo a ‘terre nuove’ ma anche a ‘cieli nuovi’, perché lassù è impossibile costruire muri.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Le prospettive dell’altro

Mia figlia deve fare un tema: parla della prospettiva. Spero che non sia la solita ricerca sulla prospettiva nell’arte, voglio credere che l’insegnante chieda a dei quindicenni cosa sia la prospettiva nei rapporti, li spinga a muoversi anche dall’altra parte, ad allenarsi a chiudere gli occhi e poi riaprirli per guardare meglio, un po’ più là.
Mi confronto con un’amica: dai, ti pare che sia così banale da dovere fare una ricerca sui pittori che tanto i ragazzi lo sanno già chi ha inventato la prospettiva.
Alla mia amica non interessa tanto il tema di mia figlia, ma della prospettiva sua e del marito, sì. E anche un po’ di un’opera d’arte mancata.
“Io mi sento come se stessi osservando uno di quei quadri rinascimentali che raffigurano piazze e colonne – mi dice -, mio marito è fermo al centro, seduto su una fontana a godersi, immobile, ciò che la vita gli offre. Io, invece, mi alzo, mi allontano, corro costeggiando le infinite colonne, verso un punto lontano, in divenire”.
Mi confida di interrogarsi sulle prospettive del loro rapporto e nella loro vita quotidiana, di come si siano spenti i tempi in cui “tra noi c’era una forte empatia, come quando si ammira un quadro dalla stessa angolazione”. Poi, però, le cose sono cambiate, piano piano, talmente sottovoce che non saprebbe quando e perché, sa solo che un velo di noia ha rarefatto vicinanza, complicità, sguardi.
Lei ha provato a parlargli, gliela ha posta come sensazione, delicatamente, ha provato a dirgli condividiamo quello che potrebbe diventare un problema, per favore ascoltami. Lui ha risposto nella maniera più semplice possibile: succede.
Le rispondo che è fortunata perché a stare immobili seduti su una fontana non ci si gode niente, a correre tra colonne, magari anche sbattendoci contro, si vive.

E voi la prospettiva siete capaci di viverla anche dalla parte dell’altro, e poi magari cambiarla, rovesciarla, abbandonarla?

Potete scrivere a: parliamone.rddv@gmail.com

LA POSTA IN GIOCO
Un Eurogruppo senza coraggio. Ma la partita è ancora aperta

Si è dunque arrivati ad un accordo nella riunione dei ministri delle finanze dell’Eurogruppo per definire le scelte economiche da mettere in campo nella crisi derivante dalla vicenda Coronavirus. Nella sostanza, si è stabilito che ci saranno circa 500 miliardi di € a disposizione tra interventi della BEI (Banca Europea degli Investimenti), programma SURE (una sorta di cassa integrazione europea) e MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), anche se questi ultimi pare saranno erogati senza condizioni solo per le spese sanitarie e connesse ad esse. Si potranno poi aggiungere circa altri 500 miliardi provenienti dal cosiddetto ‘Fondo per la Ripresa’, la cui definizione precisa e le modalità di finanziamento sono però slittate in avanti.
Si è parlato di queste decisioni come di un compromesso, dopo un duro scontro tra i diversi Paesi, realizzato ‘scambiando’ risorse significative stanziate – anche se insufficienti, vista la profondità della crisi che si annuncia- e il fatto che sparisce ogni riferimento rispetto alla condivisione dei debiti, i famosi Eurobonds o Coronabonds che dir si voglia. In realtà, a me non pare che le cose stiano in questi termini: in realtà, siamo di fronte ad un arretramento serio rispetto alla possibilità di affrontare positivamente la crisi economica e sociale che si prospetta, al prevalere di spinte nazionalistiche dei singoli Stati, che rafforza purtroppo la realtà di un’Europa incapace di una visione progettuale all’altezza delle vicende in corso, che, a sua volta, è destinata a favorire ulteriori derive nazionalistiche e populistiche.

La differenza sostanziale fra MES ed Eurobonds 

Avanzo questa valutazione cercando di analizzare un po’ meglio il merito e la natura della discussione che si è svolta, alzando un po’ lo sguardo al di là delle polemiche piccine della politica nostrana, alimentate in particolare da una destra che continua a saper fare solo propaganda. Il primo punto che va chiarito è la grande differenza tra utilizzare il MES  (Meccanismo Europeo di Stabilità) e gli altri strumenti varati nella riunione dell’Eurogruppo – sia pure in quelle parti senza “condizionalità”, gergo un po’ tecnico che significa già oggi impegnarsi per rimettere in atto in futuro politiche di austerità – e il ricorso agli Eurobonds, o Coronabonds, che dir si voglia.
Il dato di fondo è che, nel primo caso, ogni singolo Stato che accede a tali risorse risponde della propria situazione economica e debitoria, mentre con gli Eurobonds si realizza una condivisione del debito, cioè si emettono obbligazioni garantite dall’insieme degli Stati europei.
Questa è la differenza sostanziale tra questi due approcci, che non è semplicemente un fatto quantitativo, cioè relativo alla possibilità e al costo dell’ indebitamento, ma, almeno potenzialmente, comporta una modifica dei meccanismi del ricorso e del finanziamento del debito pubblico, quello che ha governato le scelte dell’Europa degli ultimi decenni e imposto le politiche di austerità.

L’importanza di chi possiede il Debito: ad esempio il Giappone

Infatti, quel che è successo, in termini generali, da diversi decenni in qua in Europa, è che si è definito che sono i cosiddetti mercati – che non sono un’entità astratta, ma che rispondono al capitale e alla finanza internazionale – a decidere se finanziare o meno il debito pubblico dei singoli Stati e, alla fine, stabilire se uno Stato è a rischio di insolvenza, di poter andare in default. Il meccanismo è semplice: i singoli Stati, nel momento in cui emettono titoli di debito, svolgono un’asta alla quale partecipano i vari soggetti economici e finanziari che intervengono per comprarli o meno, senza che ci sia un vincolo di intervento per l’acquisto da parte delle autorità monetarie, cioè delle Banche centrali o della BCE.
Questa è stata una scelta, più o meno consapevole, abbracciata dall’insieme degli Stati europei, che hanno sposato una linea di politica economica neoliberista – quella appunto che affida i poteri di fondo e la regolazione sociale al mercato e alla finanza – per cui, quando i problemi diventano stringenti, come nel caso della Grecia nel 2015, le alternative diventano solo due: il fallimento dello Stato con l’impoverimento che ne consegue o feroci politiche di austerità.
Non è sempre stato così e, neanche oggi, è così dappertutto, anche in Europa (ma vedremo dopo il caso Germania). Infatti, la questione del debito pubblico non è semplicemente, come troppo spesso ci hanno fatto credere, quella della sua quantità assoluta e del rapporto Debito/PIL. Conta, per certi versi ancor di più, quali sono i soggetti che possiedono il debito, quelli che, alla fine, decidono della sua sostenibilità. Prendiamo – anche se è un caso particolare e dunque va preso con le pinze – la situazione del Giappone: lì il debito inizia a lievitare nei primi anni ’90 quando, dopo lo scoppio dell’enorme bolla immobiliare, l’economia scivola in uno scenario di bassa crescita. In 20 anni il rapporto Debito/PIL esplode dal 60% al 250% del PIL alla fine del 2018 (altro che il 132% dell’Italia!). Eppure il Giappone non ha particolari problemi di stabilità finanziaria, né tanto meno è a rischio di default: il fatto è che il governo giapponese emette obbligazioni (Japanese Government Bonds – JGB) a tasso zero/negativo per rifinanziare il debito, e la Bank of Japan e gli investitori istituzionali le comprano a prescindere dal rendimento offerto. Il debito è detenuto all’88% nelle mani di istituzioni pubbliche o semi-pubbliche.

Il caso Italia e la strada maestra degli Eurobonds

La situazione è assai diversa per Italia e Spagna: in particolare, per il nostro Paese, dove, secondo un’elaborazione di Prometeia, la maggior parte dei titoli pubblici è detenuta dal mercato, pari al 60% del debito complessivo. Il che significa che siamo particolarmente esposti, appunto, agli ‘umori’ dei mercati, quelli che determinano il famoso spread (il differenziale tra i rendimenti di due titoli di stato, in genere fra l’Italia e la Germania.), che altro non sono che i movimenti del capitale finanziario rispetto ai rischi che presentano i singoli Stati sovrani secondo gli stessi mercati, visto che sono loro i valutatori e i decisori.
Ora, tornando agli Eurobonds (e alla differenza con gli altri strumenti individuati), incamminarsi sulla strada della loro emissione, significa proprio iniziare a mettere in discussione il potere dei mercati sul giudizio del debito, nel momento in cui si dovrebbero misurare con un rapporto Debito/PIL su scala europea,  che vale circa l’80% anziché il nostro 132%. Emettere Eurobonds avrebbe, così, effetti rilevanti, ad esempio di limitare le spinte speculative per lucrare sui differenti rendimenti dei titoli dei singoli Stati e, soprattutto, si aprirebbe la strada al loro acquisto diretto da parte della BCE – cosa che oggi essa, ahimè, non può fare – per arrivare successivamente a farla diventare a tutti gli effetti Banca Centrale pubblica.
Insomma, non c’è paragone tra le due opzioni in campo. Quella del MES, SURE e consimili, sono risorse quantitative alle quali eventualmente far ricorso; ciò avverrebbe in un quadro in cui quel che conta rimane il dato quantitativo e qualitativo dell’indebitamento di ogni singolo Stato, che continua a soggiacere al ‘giudizio dei mercati’. Con la conseguenza che, nelle dinamiche della crisi annunciata, nella quale non è difficile prevedere che il nostro debito pubblico superi il 150% del PIL, le distanze tra i singoli Stati aumenteranno, i più forti lo diventeranno ancor più e i più deboli pure. Percorrere questa strada significa che una politica comune europea diventerà ancor più di oggi una chimera.

La partita è ancora aperta

Giunti a questo punto, non possiamo far altro che rassegnarci a questi nefasti scenari? In realtà, la partita è ancora aperta: nonostante tutto, anche in Europa, dove i nodi ‘duri’ della crisi devono ancora venire al pettine. E non si tratta tanto di sperare in qualche ripensamento, a partire dalla vicenda degli Eurobonds, per la quale non si può certo essere ottimisti dopo le conclusioni dellEurogruppo, semplicemente perché non sono ancora del tutto definiti i meccanismi dell’ipotizzato futuro ‘Fondo per la Ripresa’ di marca francese. La possibilità di cambiar strada ci viene offerta dalla realtà dei fatti.  E la realtà è che le contraddizioni e i problemi sono destinati a crescere in futuro, e su questi si potrà lavorare con la mobilitazione e la costruzione di alleanze.
Diventa soprattutto necessario compiere passi importanti, a livello nazionale, per intervenire sui meccanismi che presiedono il nostro debito pubblico. Ci sono almeno due diverse strade da battere. La prima è comportarsi come la Germania che, a differenza della politiche praticate in Europa per cui, come abbiamo visto, lasciano che siano i mercati a decidere del debito dei singoli Stati, si comporta in altro modo (come, tocca dirlo, ha ricordato l’ex ministro Tremonti): in Germania solo una quota di titoli di debito pubblico viene messa all’asta e un’altra viene trattenuta dalla Banca centrale tedesca, la Bundesbank, che poi provvede a farla acquistare dalla BCE.
La seconda è quella suggerita da un nutrito gruppo di economisti della Luiss (che non appartengono alla schiera, se poi esiste, degli economisti ‘rivoluzionari’), i quali  hanno proposto di costruire un prestito obbligazionario ad hoc, rivolto ai risparmiatori italiani, che detengono risorse cospicue e non sono interessati a movimenti speculativi, per sostenere le spese derivanti dalla necessità di fronteggiare la crisi e i futuri investimenti.

Il bivio davanti a noi

Tutte e due ipotesi  possono iniziare a mettere in discussione il dogma neoliberista secondo il quale mercati a decidere e il potere pubblico viene messo di lato, quando in realtà esiste la possibilità di un governo politico del finanziamento del debito e di sottrarsi al ricatto dei mercati.
Poi (ma senza aspettare tanto) occorrerà iniziare a porsi il problema di chi ripagherà il debito e di come costruire una nuova fase di investimenti e interventi pubblici per prospettare un nuovo modello produttivo e sociale, in una logica di giustizia sociale e di nuove priorità e finalità cui indirizzare il sistema economico.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

FERRARA IN QUARANTENA:
la cultura è una rete vuota, senza pesci e pescatori

Un giorno, ho messo in fila sulla carta i luoghi che disegnano il profilo delle occasioni culturali che offre la città di Ferrara, una sorta di rete dell’apprendimento di cui istituzioni culturali, associazioni,  teatri e cinema formano i nodi.
L’inventario mi portò ad elencare, senza dubbio per difetto, duecentocinquanta luoghi di apprendimento formale e non formale. Una rete che attende di essere riconosciuta e valorizzata dentro un progetto di città intelligente.

In questi giorni di clausura, questa rete, che potrebbe essere utile per riempire le nostre giornate, è invece silente, come se non fosse mai esistita. Eppure questa era una buona occasione per stare interconnessi, diffondere le proprie proposte, i risultati delle proprie attività, organizzare webinar. C’è da chiedersi quanto smart sia la nostra città. Se è possibile, oltre allo smart working, la smart knowledge. La risposta ahimè è decisamente negativa.

La rete offre link alla visita virtuale di decine di musei, da quelli Vaticani alla Galleria degli Uffizi, alla Pinacoteca di Brera, oltre ai più importanti musei nel mondo dal Metropolitan di New York  alla National Gallery di Londra. Fino alla visita virtuale alle mostre, a partire da quella di Raffaello.

A Ferrara non c’è museo che offra tutto questo. Nulla a Palazzo Schifanoia, nulla per la Pinacoteca Nazionale; il Museo archeologico nazionale di Spina, più attento alla digitalizzazione, propone percorsi molto statici con fotografie, spiegazioni con audio guide, più una documentazione che una visita virtuale vera e propria. Così il Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara si presenta con alcune pagine che sembrano più un album di figurine commentate, anziché essere una scoperta in 3D delle sue sale. I siti del Castello e del Palazzo dei Diamanti non oltrevalicano la dimensione della promozione dei loro eventi. La pagina del Teatro Comunale che pure potrebbe mettere in rete i video di concerti, di prosa e di danza non propone nulla. Per non parlare delle sale cinematografiche, che non riescono a concepirsi, se non per la programmazione in presenza; attraverso i loro siti potrebbero invece offrire rassegne e remake, anche a pagamento, ovviamente. Eppure nulla si muove, come se il Covid 19 oltre a colpire i corpi avesse colpito anche le menti.

Resta attiva la rete delle biblioteche per l’accesso alle librerie digitali. Ma le biblioteche avrebbero potuto farsi promotrici di seminari, conferenze, presentazioni di libri online. Invece di essere creativi si è scelto di essere routinari; eppure sono servizi che dovrebbero fare cultura, ma non sono ancora in grado di concepirsi al di fuori delle loro quattro mura, della loro autoreferenzialità istituzionale.
Neppure associazioni come gli Amici della Biblioteca Ariostea o del Musei e Monumenti Ferraresi brillano per iniziativa, presenza e fantasia. Quasi fossero altro che una accolita di affezionati. Eppure questa era un’occasione per offrire dalle loro piattaforme web iniziative e proposte culturali per tutta la città.
Uniche a  dimostrare intelligenza, iniziativa e invenzione sono le scuole e il CPIA, il Centro Provinciale di Istruzione per gli Adulti, che continuano nella loro offerta di didattica online.

Le attività culturali in rete andrebbero viste come una importante funzione strategica che dovrebbe far parte normalmente dell’impegno e del lavoro corrente delle istituzioni culturali ferraresi: musei, biblioteche, archivi, soprintendenze. Invece tocchiamo con mano quanto siamo distanti, quanto è il ritardo accumulato, quanta miopia nella gestione della cultura. La città della conoscenza, per la quale da queste pagine ci battiamo da anni, è ancora lontana dall’essere compresa, l’idea del sapere diffuso e permanente non appartiene alla città e alle sue istituzioni culturali.

In rete ci sono siti come POSSO, il portale dove ognuno mette a disposizione degli altri il proprio tempo e le proprie conoscenze. Una community dove imparare e condividere ciò che si sa fare, che permette il contatto tra le persone disposte a condividere le proprie competenze quali che siano. Bella idea per condividere una cittadinanza, ma la città interconnessa non esiste e ora ne sentiamo la mancanza.
Da questo punto di vista Ferrara non è una smart city, il sito del Comune non offre nessuna iniziativa, nessuno strumento, nessuna piattaforma per dialogare tra cittadini, perché è un’idea che non si è mai concepita, perché non si è in grado di lanciare il proprio sguardo oltre la gestione della quotidianità. Perché l’idea di una città diversa non è passata a nessuno per la testa  a partire dai nostri amministratori. Perché solo gli eventi straordinari ci fanno scoprire l’ordinarietà delle nostre giornate, dei nostri programmi, la miopia delle nostre prospettive, l’ordinarietà delle politiche nella gestione della città. Ma se non si nutre la creatività nei tempi ordinari, quando giungono quelli straordinari si resta con un pugno di mosche in mano. E qui a fregare è ancora una volta l’assenza di cultura.

PRIMAVERA A DOMICILIO:
scatti di fioriture nelle aree pubbliche di Ferrara

Nel caso non ve ne siate accorti. O siate impossibilitati a verificarlo di persona… questo giornale è lieto di comunicarvi che la Primavera, a Ferrara e ovunque, se ne fotte (con rispetto parlando) del Coronavirus. Continua a fiorire impunemente. E’ evidente che Lei, la Primavera, non sopporta autocertificazioni, quarantene o divieti di sorta.
Un grazie allo ‘straordinario’ – è il caso di dirlo – servizio di Giorgia Mazzotti. E un augurio di buon risveglio a tutti. Presto, si spera.

(Effe Emme)

Il ciliegio in fiore e la sua immagine dipinta e poi fotografata da Simone Bavia nel Giardino del Palazzo Schifanoia, a Ferrara

Le fioriture sono uno spettacolo stagionale, che va colto nel breve arco di tempo in cui le gemme si trasformano nei petali colorati, destinati ad appassire e disperdersi nel giro dei pochi giorni. In questo periodo di isolamento legato all’emergenza sanitaria da Coronavirus è però impossibile – a Ferrara come un po’ ovunque – andare a vedere da vicino quegli alberi che stanno rinnovando la fioritura, colorando con quegli spazi pubblici eppure un po’ segreti e – adesso – segregati.

Fiori del ciliegio giapponese (foto SB)

Per i ferraresi ci sono alcuni luoghi che ogni anno in queste settimane sono meta di pellegrinaggi mirati proprio a cogliere la bellezza delle piante che ci sono: il chiostro del monastero di Sant’Antonio in Polesine, il giardino interno di Palazzo Schifanoia, ma anche parchi pubblici, aree verdi  e i viali alberati che costeggiano le Mura tutt’intorno alla città. A portare una ventata di primavera a domicilio stavolta ci pensa, quindi, un servizio civico che del verde pubblico si occupa in collaborazione con alcuni addetti ai lavori di cura del verde.

Ramo del ciliegio giapponese e di un altro albero nello spiazzo verde di via Podgora a Ferrara (foto GioM)

A fare una ricognizione sulle fioriture degli alberi in aree pubbliche che ora sono inaccessibili viene prima di tutto in soccorso l’Ufficio Verde del Comune.
Una sorta di vedetta in avanscoperta per dare, ai cittadini nostalgici di Mura e di natura, un aggiornamento su quelle piante che normalmente sono oggetto di visite più o meno mirate e che – in questo caso – solo gli addetti ai lavori o i singoli abitanti delle specifiche zone cittadine possono tenere d’occhio in presa diretta.

Albero di Giuda nei giardini dell’Acquedotto
Ciliegio comune nel Sottomura da via Azzo Novello
Ciliegio di Sant’Antonio in Polesine (foto Ufficio Verde)

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“Le alberature che sono in fiore in questi giorni – spiega Giovanna Rio – sono quelle di Ciliegio giapponese (rosa), Albero di Giuda (rosa intenso) e arbusti come la forsizia (giallo)”.

Albero di Giuda all’Acquedotto (foto GioM)
Arbusto di forsizia in via Podgora (foto GioM)

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In esplosione in questa settimana sono le gemme che ogni anno portano una nuvola rosa nel chiostro davanti al monastero di Sant’Antonio in Polesine (via del Gambone 14/a, Ferrara) nel piazzale interno, e ora blindato da un cancello, a metà dell’antica via Beatrice d’Este.

Ciliegio giapponese nel chiostro del monastero di Sant’Antonio in Polesine, a Ferrara (foto GioM)

Uno splendore adesso sono poi le alberature dell’accogliente ed estraniante giardino che si trova nella parte interna di Palazzo Schifanoia (via Scandiana 21, Ferrara), che possiamo vedere grazie al contributo di Simone Bavia, titolare della ‘Caffetteria-ristoro Schifanoia’. Simone racconta che a fiorire in questo momento ci sono il ciliegio comune, con petali bianchi, e il grande ciliegio giapponese con i caratteristici petali rosa.

Panoramica del Giardino di Palazzo Schifanoia a Ferrara (foto Simone Bavia)

“Quello con i fiori bianchi – dice Bavia – è un comune ciliegio da frutta, che fra un mese inizierà a produrre le ciliegie. La sua particolarità è che non essendo mai stato ridimensionato è riuscito ad ingrandirsi molto. Penso che avrà 50 anni ed è alto 25 metri”.

Chiome dei Ciliegi in fiore sul cielo sopra la Caffetteria ristoro Schifanoia, a Ferrara (foto Simone Bavia)

Per quel che riguarda il ciliegio con i fiori rosa, Simone ricorda che “è sempre stato l’attrazione più importante della primavera per i ferraresi e non solo, perché venivano a visitarlo anche da Bologna, da Modena e persino dall’estero. È alto 15 metri e penso che avrà 30 anni. La fioritura, che è ormai al suo apice, dovrebbe restare per alcuni giorni ancora, credo fino al martedì dopo Pasqua, purché nel frattempo non venga a piovere e non si alzi forte vento. A breve fiorirà poi il glicine, che ho potato per dargli una forma molto particolare e suggestiva”.

Ciliegio in fiore nel giardino del Palazzo Schifanoia (foto Simone Bavia)

Ci si domanda anche – mentre si viaggia verso un centro commerciale fuori dalle mura cittadine – che specie sono quegli alberi che di sfuggita sfilano rosei sulla pista ciclo-pedonale di via Padova che collega via Galvani con la pista di pattinaggio tra il quartiere di Barco e Pontelagoscuro. “Quelli – spiega un giardiniere di Ferrara Tua – sono innesti di ciliegio giapponese e altri, uguali, sono stati piantati anche sull’argine del canale di Volano che scorre parallelo a via Darsena dietro allo studentato e al centro commerciale dove c’è la multisala del Cinestar”.

Fiori di ciliegio giapponese lungo l’argine del canale di Volano dietro a via Darsena (foto GioM)

“La scelta del verde – fa notare il giardiniere – risente delle mode. E la tendenza florovivaistica degli ultimi anni ha visto una grande diffusione di questa tipologia di pianta. Negli anni Settanta, invece, andava per la maggiore il Cercis siliquastrum, conosciuto come Albero di Giuda, che è molto bello, ha fiori di un rosa violaceo e un fusto che tende a crescere storto, creando inclinazioni particolari. Tanti di questi alberi sono ora in fiore nei giardini dell’Acquedotto monumentale“.

Due dei numerosi alberi di Giuda che sono attualmente in fiore nei giardini dell’Acquedotto monumentale (foto GioM)

Macchie gialle e rosa pallido colorano le aiuole in via Podgora, fuori dallo spiazzo del giardino dell’Acquedotto, tra piazza XXIV Maggio e corso Isonzo. Quelli gialli quelli sono arbusti di forsizia.

Arbusto di forsizia in via Podgora tra corso Isonzo e l’Acquedotto di Ferrara (foto GioM)

I fiori rosa delle aiuole di via Podgora sono ancora quelli di ciliegi giapponesi piantati in tempi recenti.

Ciliegio giapponesi nell’aiuola di via Podgora (foto GioM)

Ormai sfiorite, invece le magnolie di tipo stellato o lobato e le mimose. I prossimi fiori a sbocciare, tra quelli presenti nelle aree comunali, saranno qi fiori degli ippocastani, la magnolia sempreverde, come quella che si trova nel giardino interno dove ha vissuto lo scrittore Giorgio Bassani, e i glicini violetti come il rampicante che si trova nel giardino della caffetteria di Palazzo Schifanoia, potato dal gestore per dargli un’ampia forma ondulata e decorativa.

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (settima tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

LII

il bianchello
del Metauro
era alla mano
accompagnando
il profumo
delle sogliole
allo Squero
di Fano

LIII

io sono
più
antifascista
di te
ecco
l’italietta
da caffè

LIV

il silenzio
senza aggettivi
sulla via
degli Angeli
immobile
scorre
non ha bivi

LV

impara l’arte
e finisci in disparte

LVI

l’ambiente
è in prognosi
riservata
frane
piene
plastiche
svastiche

LVII

certi personaggi
della Bassa
li trovi
solo al Po
l’unico fiume
che ha un mondo

LVIII

Canaletto
forse Venezia
la luce
l’acqua
non va
mai a letto

LIX

il colore
del lago
di Tenno
la critica
della ragion pura
gli occhi
di Brenno

LX

in Istria
certe case
invase
dalla solitudine
dal silenzio
fatto di spine
frammenti
d’Italia
oltre confine

vai alla sesta tappa

vai alla ottava tappa

PRESTO DI MATTINA
Nessuno è Straniero: nessuno è escluso dalla rivoluzione della Pasqua.

La sera del venerdì, quando lo deposero dalla croce erano ormai in pochi. Il pittore Gaetano Previati traduce in una tela del 1912, intitolata Trafugamento del corpo di Cristo, una religiosità umanizzata, il momento di una solitudine desolata, di radicale spogliazione di fronte alla morte, per di più una morte crocifissa. L’orizzonte dipinto nel quadro è diviso in due da una linea obliqua: terra ocra il cielo, terra scura la terra. Sullo sfondo tre croci in cima alla collina, una centrale vuota, le altre ai lati coi corpi stilizzati dei due ladroni. E giù per l’erta, in primo piano, come fuggiaschi o ladri tre persone, una delle quali, portata dalle altre, senz’anima. È il deposto dalla croce; ed essi non staccavano lo sguardo da lui e si tenevano per gli occhi.

Poi il sabato di silenzio, inoperoso. Ma il mattino dopo il sabato, fu tutto uno stropicciarsi di occhi increduli. Gli occhi delle donne che portavano gli aromi, arrivate per prime davanti al sepolcro vuoto; e poi quelli degli altri, i seguaci, che faticavano a credere. Erano come “il tamerisco nella steppa che quando viene il bene non lo vede” (Ger 17,16). Increduli all’annuncio delle donne, aspettavano colui che sapeva aprire gli occhi, e quando lo videro, “per la grande gioia – ci narra Luca 24,4,1 – ancora non credevano ed erano stupefatti”. Mi sono chiesto varie volte perché il tamerisco nella steppa non veda il bene. Così un giorno, incrociando il rabbino in via Mazzini, glielo domandai. E la risposta fu tutt’altro che banale: “perché non ha occhi”. Il che mi fece pensare che anche i discepoli, pur dotati di occhi, non erano diversi dal tamerisco, perché lo sguardo di cui parla Geremia è, in realtà, quello della fede in una parola promessa. Eppure Egli disse loro: “non sia turbato il vostro cuore, non abbiate timore, abbiate fede in Dio ed anche in me (…) Vado e tornerò a voi; se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate” (Gv 14,28).

Ma non è facile accogliere un ‘altro da noi’, un nuovo nato, anzi risorto. Non è forse vero che anche quando nasce un bambino, egli risulta straniero persino agli occhi dei suoi genitori. “Che sarà mai di lui”, di Giovanni il precursore, si domandarono Elisabetta e suo padre Zaccaria. Non diversamente, tutti i genitori non sanno nulla del loro neonato, non vedono oltre la sua forma e la figura esterna; sono ciechi rispetto a quel che c’è dietro, anzi dentro, eppure sono chiamati a ospitare anche l’invisibile mistero che lo abita. Così come lui dovrà affidarsi a loro, pur non conoscendone nemmeno il nome, parimenti essi dovranno rischiare e affidarsi a lui e insieme ‘osservare’, che significa prendersi cura, custodire, e avere addosso l’uno gli occhi dell’altro.


Sì, straniero. Il risorto non lo riconobbero; nemmeno quando si accompagnò loro sulla strada di Emmaus. Prima dovettero percorrere molta strada assieme, conversare, con-venire con lui, non solo con le parole e l’ascolto, ma farsi ospitali e condividere la sua solitudine, sino a dirgli “resta con noi, perché si fa sera”. Ma non è tutto quanto dicono e fanno anche due genitori quando nasce loro un figlio? Nel loro abbraccio risuona quel “Resta con noi e piano piano ti sentirai come a casa tua”.

Straniero. C’è un inno della liturgia ortodossa, cantato nella Settimana santa, che lo sottolinea con insistenza, immaginando le parole di Giuseppe di Arimatea quando si recò da Pilato per richiedere il corpo di Gesù: “Vedendo il sole nascondere i suoi raggi e il velo del Tempio squarciarsi alla morte del Salvatore, Giuseppe andò da Pilato, implorandolo, gli disse: Dammi questo straniero, che dall’infanzia fu ospite in questo mondo come uno straniero. Dammi questo straniero, alla vista della cui estranea morte sono meravigliato. Dammi questo straniero, che conobbe come dare ospitalità al povero e allo straniero. Dammi questo straniero, così che possa nasconderlo in una tomba lui, che, come straniero, non ha un luogo dove porre il capo”.

Ma allora cos’è Pasqua? Una rivoluzione dello sguardo dell’uomo in quello della fede che germina, cresce e matura nel tempo. Ci sono voluti cinquanta giorni ai discepoli per riconoscere ed accogliere il Risorto come la loro vita, allo stesso modo dei genitori, che prendono con sé colui che è appena venuto alla luce. Cinquanta giorni evocativi di un tempo lungo una vita come i cinquant’anni del Giubileo biblico.

Ma cos’è la rivoluzione dello sguardo e come si attua? La risposta non è affatto scontata. La trasformazione cui siamo chiamati si compie nella relazione con l’altro, nel guardare e lasciarci guardare, anzi scrutare dagli occhi dell’altro. Solo così, in questa reciprocità, lo riconosceremo nel gesto che condivide e moltiplica: nello spezzare il pane con gli altri. Questa è la rivoluzione dello sguardo: quella che fa entrare il proprio cuore negli occhi, nelle mani, nei piedi dell’altro per indovinarne il bisogno, che diventa in quello stesso istante bisogno nostro e ce ne facciamo carico, magari anche senza che l’altro se ne accorga.

Trasformazione dello sguardo. Lo stesso che accadde anche a Maria di Magdala. Gesù era lì davanti a lei nel giardino, ma lei non lo vedeva e solo quando il Risorto la chiamò per nome, le si aprirono gli occhi e lo riconobbe – “Maestro mio” – per poi correre dagli altri discepoli con il Risorto negli occhi.

Ed anche per Tommaso fu una rivoluzione dello sguardo. Lui, incredulo alle parole degli altri, ostinato nel non fidarsi dei loro occhi, nel pretendere di vederlo: lui, di persona, senza mediatori, anzi addirittura di toccarlo, di mettere il dito nelle ferite dei chiodi e la mano nel costato. Poi gli bastò vederlo in quella umanità ferita, ma vittoriosa, umiliata fino alla morte, ma di nuovo vivente per i suoi e in Dio. Dalla sua ostinazione, egli strappò per noi, pellegrini nel tempo e nella storia, un dono, anzi una beatitudine per tutti “quelli che non hanno visto e hanno creduto.” (Gv 20, 31).

Ma, allora, l’annuncio di Pasqua non sarà solo per i cristiani, ma per tutti. Nessuno è escluso dalla Pasqua: da quella rivoluzione dello sguardo che risana la cecità del cuore e riapre lo sguardo della fede. È sufficiente che si assuma lo stile del Samaritano. Fu questa rivoluzione dello sguardo che caratterizzò l’azione di papa Giovanni XXIII, quando, nell’inverno della Chiesa, seppe intravvedere una primavera che fioriva. Per questo convocò il Concilio, affinché la Chiesa tutta sapesse guardare con occhi nuovi l’umanità, cui da sempre era stata mandata. E a quanti temevano un cambiamento del vangelo egli rispondeva “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Perché per lui il vangelo era inseparabile dalla storia e una più profonda penetrazione della fede della Chiesa avrebbe comportato un rinnovamento pastorale capace di comprendere e vivere con maggiore fedeltà il vangelo.

Anche Paolo VI, lui il cantore della gioia pasquale, venne irriso come uomo triste, quando fu chiamato a guidare la barca della chiesa nelle rapide e fra gli scogli del post-concilio. Ma con fermezza, a quanti lo accusavano che la chiesa al concilio avesse deviato verso l’antropocentrismo, egli nel discorso di chiusura del concilio rispose: “Deviato no! Rivolto lo sguardo sì”, ribadendo così che tutto l’impegno dei padri conciliari fu rivolto a servire l’uomo, l’uomo concreto, storico con le sue vittorie e le sue cadute, tra speranze ed angosce, indicando nell’icona del Samaritano la spiritualità stessa dell’evento conciliare.

Pasqua: una rivoluzione dello sguardo sul dolore della gente, che ritrovo – per concludere – in un testo della tradizione ebraica:
“Se un uomo soffre da solo, è chiaro che la sua pena è solo per lui. Ma se un altro lo guarda e dice:
– Quanto soffri, fratello? che cosa succede?
– Prende il male dell’amico negli occhi suoi
– E anche se è cieco, pensi che possa prenderlo lo stesso?
– Certo, con le orecchie! E se è sordo, con le mani.
E se l’altro è lontano, se non lo può né sentire né vedere e neanche toccarlo, pensi che possa prendere il suo male?
Può forse indovinarlo.
Hai detto bene. Ecco esattamente quel che fa il giusto: egli indovina tutto il male che esiste sulla terra e se lo prende in cuore.
Forse il male della gente va preso senza che quelli se ne accorgano?
Sì, è così che bisogna prenderlo”.

SCHEI
Un incantesimo, anzi un incubo:
economia domestica durante la quarantena

Ti ci è voluta una settimana di clausura perché ci facessi caso. Poi hai iniziato a renderti conto, e poi hai cominciato proprio a farli, i conti. Come se fosse un gioco, anche perché dovevi pure trovarlo un modo per far passare il tempo.

Di benzina, risparmi circa quaranta euro la settimana. Fa centosessanta euro al mese. La spesa la fai, ma la concentri una volta ogni dieci giorni e compri le cose essenziali – quelle definite non essenziali tanto non si possono acquistare. Anzi, compri cose che nessuno comprava più e che adesso vanno a ruba. Farina, lievito: introvabile, sei fortunato se lo trovi sottobanco da qualche fornaio. Lievito e farina, il nuovo petrolio. E’ bizzarro, ma a pensarci non sembra così irragionevole. Col petrolio non ti fai la pizza a casa, la torta di mele, il pane. All’improvviso Masterchef diventa un programma datato. Tutta questa competizione tra veri o presunti fenomeni dei fornelli ti appare sotto una luce diversa, meno sinistramente affascinante di prima. Hai appena scoperto che anche tu sai farti da mangiare, quindi hai ridotto le distanze.

Confronti i tre scontrini con quelli del mese prima. Per la spesa alimentare, in un mese avrai risparmiato cento euro. Non ti sembrano tantissimi, meno di quelli che pensavi, visto che a casa tua non inviti più nessuno per cena (ovviamente catering a domicilio, per fare bella figura) e che non compri più i preparati pronti o le buste surgelate che ti fanno risparmiare tempo ma ti fanno spendere soldi. Sono prodotti costosi non per la loro qualità, costano perché sono comodi: ci paghi sopra il tempo che risparmi a farti la cena, ma adesso di tempo ne hai da vendere. Quindi cucini tu, con acqua, farina, uova, zucchero, sale… Allora, perché non hai risparmiato di più? Ah, ecco. Per il vino. Un buon vino adesso è un genere di prima necessità, e per una bottiglia decente sei euro almeno al supermercato li devi spendere. Al giorno? Sì, al giorno. E che cazzo. Comunque, già duecentosessanta euro risparmiati.

I bar sono chiusi. La colazione con cappuccio e cornetto era uno dei pochi lussi che ti permettevi. Adesso non puoi, e non puoi nemmeno farti al bar il caffè di metà mattina. Sono tre euro e mezzo risparmiati al giorno, trentatrè euro al mese. Duecentonovantatrè. A pranzo adesso sei a casa. Saresti fuori, di solito. Altri dieci euro a botta, vuol dire circa duecentoventi euro non spesi. Aggiungici un paio di pizze e cinque aperitivi al mese, altri cento euro. Somma trecentoventi a duecentonovantatré, fa seicentotredici euro.  Il giornale non lo prendi più. Dovresti uscire apposta, trovare un’edicola aperta, e poi quello che c’è scritto lo ascolti a tutte le ore in televisione. Altri trenta euro abbondanti che ti tieni in tasca. Seicentoquarantatrè.

In casa consumi qualcosa in più di luce, ma le tariffe nel frattempo sono calate. Inconsciamente, visto che sei in modalità spartano, inizi anche a risparmiare sull’acqua. Non è che non ti lavi, ma consumi meno acqua possibile. Dove non è arrivata Greta, è arrivato il virus. Coi consumi domestici tutto sommato fai una patta, via. E poi risparmi quel libro al mese, quella mostra, quel cinema, quel teatro. Siccome non sei un tipo mondano, facciamo che ti tieni in saccoccia altri cinquanta euro. Dimenticavi la palestra. Adesso fai corpo libero a casa, quindi risparmi altri quaranta euro di tessera.

In totale hai risparmiato settecentotrentatré euro. In un mese, il primo mese. Se continua così, in tre mesi ti sei tenuto in tasca uno stipendio. Roba da anni sessanta, quando con sei mesi di cinghia tirata tuo padre si era potuto permettere il Fiat millecento. Ah. Quest’anno non andrai in vacanza. Altro stipendio risparmiato.

A questo punto ti accorgi di quattro cose. Una dietro l’altra. Fino alla terza, sembra un incantesimo.

La prima cosa di cui ti accorgi è che la quantità di oggetti o servizi che hai sempre considerato primari nella tua vita, non lo sono. Ne stai facendo a meno, e non stai morendo (sempre se non finisci in terapia intensiva. Se finisci lì vuol dire che stai rischiando di morire, anche se probabilmente non morirai, perché sei comunque nel posto migliore per evitare di finire sottoterra). Anzi, stai scoprendo che puoi godere di altri piaceri che ti sei sempre negato, perché la tua vita era piena di cose che dovevano farti risparmiare tempo, ma te lo riempivano al punto da non averne mai abbastanza.

La seconda cosa di cui ti accorgi è che il tuo stipendio non è quella miseria di cui ti lamentavi. Improvvisamente, ti basta e avanza. I soldi che guadagni non ti servono tutti, anzi ne puoi mettere da parte per chiudere i debiti, mandare a quel paese i banchieri che ti vogliono prestare soldi e i consulenti che, per farti guadagnare il tre per cento, mettono a rischio il tuo cento per cento. Il cento per cento ti basta e ti avanza, del tre per cento non te ne fai niente.

La terza cosa della quale ti accorgi è che questa condizione, dopo alcuni giorni di comprensibile smarrimento, ti sembra d’incanto incredibilmente naturale, raggiunta senza alcun particolare sforzo, senza alcuna terribile privazione.  Una condizione preindustriale, ma con le comodità della società industriale a portata di mano, pur con le dovute cautele. Una fortuna.

La quarta cosa di cui ti accorgi è che la tua fortuna è a tempo. La data di scadenza non ti è nota, ma arriverà di sicuro. Questo incantesimo non durerà per sempre, soprattutto perché il tuo stipendio, che fino ad un certo momento ti garantisce questa situazione prodigiosa, non è una variabile indipendente. Anzi, più tempo passa in questa situazione, più le fonti di finanziamento del tuo stipendio si assottigliano. E questo nonostante il tuo stipendio, se sei arrivato fino a qui, sia uno di quelli che risentono per ultimi della paralisi totale di tutte le attività economiche legate ai bisogni dell’uomo. Per ultimi, certo. Perché mentre tu sei lì che continui a risparmiare, nel frattempo un mucchio di gente ha già perso un pezzo del suo, di stipendio, oppure ha perso addirittura il lavoro. E tutta questa gente che perde stipendio e lavoro prima di te, inevitabilmente farà sì che, prima o poi, non ci sia più modo di pagare nemmeno il tuo, che dipende, in maniera diretta o indiretta, ma inesorabile, dal loro. Ti rendi anche conto che più la lista dei bisogni dell’uomo si riduce all’essenziale, più breve sarà il tuo incantesimo. Perché il mondo nel quale vivi è troppo interconnesso, troppo incistato al tuo, da permetterti di vivere consumando in autarchia i prodotti del tuo orto (sì, nel frattempo avrai anche iniziato a coltivare un orto). Perché tra un po’ non troverai nemmeno un posto dove acquistare i semi e le piantine.

Tutte e quattro le cose di cui ti accorgi sono vere. Tutte e quattro potrebbero essere uno spunto per un futuro possibile – il tuo futuro, certo. Che poi, ti piaccia o no, è anche quello degli altri.

La prima cosa, se avrai sufficiente memoria per ricordartene quando tutto sarà rientrato (in qualche modo, tutto questo rientrerà, anche se nulla sarà esattamente come lo hai lasciato), è un invito alla sobrietà. Tu pensavi di essere un tipo con poche pretese, ma non è vero. Puoi essere molto più parco nei confronti delle cose, ti lascerà molto più tempo ed energia per dedicarti alle persone. Mica tutte, quelle importanti. Anche sulle persone infatti dovresti operare una selezione, e questo incantesimo, se ti ci concentri, ti ha già consegnato le persone da tenere e quelle da mollare.

La seconda cosa potrebbe suggerirti che i soldi che guadagni, da un certo punto di vista (che chiameremo zenith), non sono mai abbastanza, mentre da un altro punto di vista (che chiameremo nadir) sono sempre abbastanza (naturalmente entro certi limiti, che però questo periodo potrebbe averti indicato come individuare). Il problema non sono i soldi che guadagnavi, ma come li spendevi.

La terza cosa ti suggerisce che ogni condizione è transitoria, e in continuo movimento. Sia essa una situazione che ti fa stare bene, sia essa una situazione che ti mette a disagio, entrambe passeranno, per lasciare il posto ad una situazione nuova, e poi ancora, e ancora. Se questo è lo stato dell’arte fuori di te, e non lo puoi cambiare, il problema è dentro di te. E’ lì che puoi lavorare.

La quarta cosa ti dice che la ‘decrescita felice‘ è un’espressione bucolica ma puramente pubblicitaria, alla quale non corrisponde la realizzazione di un’utopia, piuttosto assomigliando alla concretizzazione di una distopia; una specie di incubo lovecraftiano, che passa dall’inquietarti dalle pagine di un romanzo a morderti direttamente i polmoni in una corsia d’ospedale, o ti sorprende in fila con la tua gavetta ad un centro della Caritas, dove non avresti mai pensato di mettere piede. Però ti suggerisce anche che non esiste una crescita infinita, e che anche se esistesse non sarebbe un obiettivo degno della tua vita. E, pare, nemmeno della vita del pianeta nel quale vivi.

“NON COME GLI ITALIANI”
Cosa pensavano (e cosa pensano ora) i tedeschi degli amici d’Oltralpe

da Monaco di Baviera

Forse sarà una sorpresa per tanti Italiani: in Germania, in questi giorni di feroce, quasi rivoluzionaria, ‘Corona-Crisi‘, si parla molto spesso dell’Italia, come non era mai successo negli ultimi anni. Ma questa esplosione d’interesse è molto ambigua, si alimenta di vecchi clichè e di una nuova ignoranza. Un giudizio, questo, che può essere esteso anche a tanti italiani, che della Germania ammirano la potenza tecnologica ed economica, ma non sanno nulla o quasi nulla dei problemi sociali del paese della Mercedes, di Adidas e di Angela Merkel.

All’inizio dell’epidemia emergeva l’immagine stereotipata del paese sotto le Alpi: gli italiani che sono in grado godere la ‘dolce vita’ sul balcone durante i giorni di coprifuoco; gli italiani che cantano nel cortile, O sole mio‚ Azzurro, Volare o l’inno nazionale quando, fuori dalle case in cui sono bloccati, c’è l’inferno.
Tutti i tedeschi, anche quelli che normalmente sono molto riservati, addirittura anche gli xenofobi, gli anti stranieri sempre e comunque, in quel primo periodo del contagio, hanno elogiato ‘gli amici italiani‘, che fanno pizze fantastiche, quelli che ci hanno donato il Va pensiero di Verdi, lo splendido tenore Luciano Pavarotti, la musica rock di Gianna Nannini o il gentile e amatissimo allenatore Trappattoni. Quel cliché degli Italiani allegri malgrado tutto è sempre stato molto diffuso fra i tedeschi: valeva anche per la mia personale biografia, poiché sono cresciuto in una piccola città del Nordovest, dove i primi stranieri erano i camerieri italiani di una gelateria. Sempre allegri, sempre gentili, parlavano tedesco con un accento strano e divertente. Questo atteggiamento verso gli italiani non si è mai interrotto in Germania, nemmeno nei primi  giorni della Corona-Crisi.  BILD, il giornale boulevard più diffuso in Germania, aveva pubblicato una decina di giorni fa, una pagina intera dedicata solo agli italiani che piangono migliaia di morti a causa del virus orrendo. Lì si leggeva: ”Ciao Italia. Ci rivedremo presto. A bere un caffè o un bicchiere di vino rosso. In vacanza oppure in pizzeria. Italiani, siamo con voi.”

Ma oggi, e sono passati solo pochi giorni, l’attuale Realpolitik della Germania verso gli amici italiani in crisi è diventata diversa, molto diversa. Appena la pandemia è arrivata anche in Germania, con un po’ di ritardo rispetto all‘Italia, il vento della grande amicizia è cambiato profondamente nell’opinione pubblica. Si è iniziato a sentire sempre più spesso, con il ritmo di un rosario: “Non vogliamo una situazione come in Italia“. Una frase che sintetizza quella parte di sentimento negativo che accompagna da sempre il cliché positivo dell’italiano allegro.

Quando le cose vanno molto male (e non solo nel contesto dell’attuale pandemia) tra tantissimi tedeschi, sia al vertice della classe politica, sia nei media, sia tra la gente comune della strada, circola e si ripete sempre la stessa frase: “Non dobbiamo fare le cose come le fanno gli italiani“.
Questo pregiudizio non è un osservazione meramente folkloristica (pregiudizio che in forma diversa esiste anche in Italia contro i Teutonici), ma si concretizza in una proposta di politica fiscale dura, chiusa, tutta indirizzata a difendere gli interessi propri, contro i non tedeschi, anche se costoro, come gli italiani appunto, fanno parte di un stato fondatore dell’Europa d’oggi.
Dire ‘Deutschland zuerst (‘Prima la Germania’) è per i tedeschi, a causa della storia del nazismo, giustamente un tabù. Neppure qualcuno della estrema destra direbbe quello slogan in pubblico. Ma il leitmotiv della politica reale, soprattutto della politica fiscale, in Germana, è sempre un modo per blindare l’economia tedesca, quella delle Grandi Banche, di Mercedes, di BMW, e di Volkswagen. Sono loro ad essere diventati, durante gli ultimi anni del boom, i veri sovrani della politica tedesca. Ne Schröder, il cancelliere del Centro Sinistra, né Angela Merkel, la cancelliera del Centro Destra, potevano e possono fare qualcosa in politica senza l’approvazione da Wolfsburg (VW), da Stoccarda (Mercedes), da Monaco (BMW) o da Francoforte (sede della borsa e delle grandi banche tedesche).

Contro questo blocco di potere è cresciuta negli ultimi anni anche una opposizione nuova: da parte della sinistra e pro Europa, i Verdi, molto forti soprattutto nelle grandi città della Germania Ovest, da parte dell’estrema destra, l’AfD (Alternative für Deutschland), forte soprattutto nella Germania dell’Est. Il partito dei Verdi respinge il ‘Fiscalnazionalismo’ (Philipp Ther) della Grande Coalizione contro l’Italia e la Spagna, ma davanti al ‘matrimonio di fatto’ fra Realpolitik e grandi aziende a Bruxelles, i Verdi non contano molto. Per l’estrema destra invece, la Merkel o la  Von der  Leyen sono rappresentanti odiati di una politica troppo molle verso gli emigrati e anche verso quegli Stati del Sud Europa che non sono in grado di curare il proprio sistema sanitario (vedi la diffusione dell’epidemia) e di eliminare la corruzione nello Stato.

In ogni caso, al di là delle simpatie ed antipatie dell’opinione pubblica tedesca, al di là delle opposizioni di destra e di sinistra, in questo momento storico buio e molto incerto per tutti i paesi d’Europa, cresce anche in Germania un malumore diffuso, che ha trovato voce soprattutto fra i tanti intellettuali, artisti, musicisti, giornalisti, scrittori, scienziati. Al centro delle loro preoccupazioni non è la Germania, né l’Italia o la Spagna, ma l’Europa. Per loro (firmatari di un appello per il Coronabond lanciato anche dalle pagine di questo giornale [Qui]), l’Europa fondata dopo la Guerra era, e resta ancora, una roccaforte contro la rinascita di un nazionalismo che ha distrutto la civilizzazione umana e democratica del Continente, con conseguenze che si sentono ancora oggi. Come europei abbiamo un grande bisogno di una politica comune per risolvere i danni enormi causati dallo tsunami Covid19.
Grande ed emozionante è stato lo spettacolo delle canzoni sui balconi, nobili sono gli atti di Caritas e dei tanti che sono in prima linea nella lotta contro la pandemia, ma per salvare non solo le vite ma anche i valori fondamentali d’Europa ci vuole di più. Per gran parte dell’elettorato tedesco l’Europa è troppo importante anche nel gioco dei grandi poteri globali per lasciarla ai nazionalisti, ai populisti d’ogni genere e ai Big Boss dell’economia capitalistica.

 

USCIRE DALLA GRANDE CRISI: QUANDO E COME

Non bisogna sottovalutare che, oltre all’emergenza sanitaria, c’è una lotta geopolitica in corso. Chi pagherà il prezzo più alto in termini di vite umane sono Spagna e Italia (l’indice dei morti per milione su abitanti è all’8 aprile 269 e 273 –in Spagna in forte ascesa-, rispetto a 30 di Usa –in forte crescita- e 2,5 di Cina –ormai ferma).
L’Italia ha avuto nell’ultima settimana (2-8 aprile) la minor crescita dei contagi (18%) dopo l’Austria (15%). Cina e Sud Corea hanno ormai bloccato il virus e stanno riaprendo tutto. L’Austria ha deciso una prima apertura parziale di scuole, asili e piccoli negozi dal 14 aprile. Anche Repubblica Ceca aprirà parzialmente (scuole e negozi) dall’8 aprile e Danimarca dal 15 aprile. La Germania dal 20 al 27 aprile. Sono Paesi con un tasso di letalità molto basso (1,3/3,8% rispetto a 12% dell’Italia), ma un tasso di crescita dei contagi molto più alto dell’Italia. L’Italia ha quindi l’opportunità di essere tra i primi a ‘riaprire’. Ciò comporta un vantaggio enorme se lo useremo bene e se fatto in sicurezza.

Avremo una probabile de-globalizzazione che costringerà a ridurre la lunghezza (fino a Cina e Asia) di alcune filiere manifatturiere. Aumenteranno quindi le lavorazioni in patria a basso costo che necessitano di politiche di buona programmazione degli immigrati. Su ciò sono attrezzati Paesi di antica immigrazione (Usa, UK, Germania, Nord Europa), mentre noi – con una scarsa esperienza e la recente teoria sovranista di prima gli italiani” – siamo molto impreparati.
Da sempre c’è una correlazione tra crescita economica ed uso intelligente e programmato degli immigrati (di cui c’è necessità). Un esempio è l’agricoltura dove oggi mancano in Italia 200mila lavoratori stagionali, che verranno solo in parte rimpiazzati dai nostri studenti universitari o dai nativi. Un settore che sarà molto colpito dalla crisi sarà il turismo. Saranno favorite le località che organizzeranno meglio il ‘distanziamento’ (le seconde case più degli hotel, quindi i lidi ferraresi più dei romagnoli) e chi parte da spazi ampi (Ferrara più di Venezia o Firenze), sempre che ci si organizzi a dovere (che è il nostro lato B, quello debole).

Gli USA, La CINA e L’EUROPA

L’impatto economico sarà imponente. In Usa le domande di disoccupazione sono salite su base mensile da 650mila del 2008, a 6,7 milioni e si avviano ad avere una disoccupazione di massa come nella Grande Crisi del 1929, poiché non esiste la cassa integrazione e si può licenziare senza pagare indennità. L’ enorme quantità di dollari dallo Stato non è detto che questa volta riesca a far ripartire il Paese così in fretta come è successo con l’ultima crisi, quella del 2008. Ma gli Usa hanno una capacità di reazione enormemente più rapida rispetto all’Europa (così come facilmente si licenzia, altrettanto si assume e si riparte). Gli Usa contano su un grande mercato interno di 320 milioni di consumatori e sul dollaro (moneta forte).
Il grande mercato interno è quello della Cina, già in gran spolvero di ripartenza, possiede metà del debito Usa ed ha una enorme liquidità con cui potrebbe comprare mezza Europa (da qui la Golden Share sulle nostre aziende strategiche).
L’altro grande mercato interno che può mitigare i danni nei singoli Paesi partecipanti è l’Europa. Questa è la ragione principale per cui mai come ora a nessuno conviene uscire dall’Europa. Non a caso che da quando è scoppiata la pandemia la sterlina ha perso il 6% sull’euro.
Nei prossimi giorni è probabile un primo passo dell’Europa verso un prestito e debito comune. In tal senso vanno i 100 miliardi per Sure, la nuova formula di “riassicurazione europea contro la disoccupazione”. Si potrebbe così avviare una discussione tra tutti gli Europei (imprese e sindacati) su come poi costruire una sorta di “cassa integrazione europea”, per tutelare chi perde il lavoro, ridurre gli orari, cercarne un altro lavoro, avere una formazione, etc.. Un unico strumento europeo di tutela sul lavoro. Le imprese e i sindacati tedeschi usano il KurzArbeit (lavoro corto), mentre noi usiamo di più la Cassa Integrazione (ma abbiamo anche i contratti di solidarietà). Una seria discussione tra italiani e tedeschi con tutti gli altri europei porterebbe a forme innovative, meno autoreferenziali e più utili per tutti, un modo di costruire una nuova Europa del lavoro.

Il Piano B ‘alla giapponese’

Su un prestito/debito comune di lungo periodo la soluzione europea è quella di serie A, ma ci sarebbe anche un piano B  italiano ‘alla giapponese’, fattibile solo da noi, ‘in casa nostra’ (come ad alcuni piace dire), che ci farebbe risparmiare moltissimo e che sarebbe una sorta di pre-verifica se ci sia davvero intenzione di uscire dall’Europa. Gli italiani hanno 1.200 miliardi di risparmi in conti correnti bancari più 3.448 di crediti tra titoli e obbligazioni (ma anche 926 miliardi di debiti e mutui); le aziende hanno risparmi complessivi per 1.840 miliardi. In complesso, a parte le proprietà di case e terreni e i debiti, c’è un risparmio italiano privatissimo di 5.288 miliardi.
Il Tesoro italiano ha bisogno ogni anno di circa 400 miliardi di euro per finanziare il debito pubblico (e pagare stipendi e pensioni, che da sole valgono 300 miliardi). Se gli italiani si comprassero tutte le emissioni, comprese quelle aggiuntive europee di cui si parla ora (l’hanno proposto vari in forme diverse, anche Tremonti e Monti), pagheremmo (come i Giapponesi) molto meno interessi per un debito molto più grande. Infatti, i giapponesi pagano il 12,6% delle loro entrate fiscali per un debito del 250% sul PIl, mentre noi italiani il 14% per un debito molto più piccolo (138% del Pil).
Bisogna però vedere se gli italiani siano davvero disposti a questa operazione in uno “Stato povero…abitato da gente ricca che ha dimostrato di non essere per nulla patriottica”. Non è un caso che, a fine 2019, le famiglie e le imprese italiane detengano solo il 5,8% del debito pubblico italiano e sono tutti siano ‘scappati’ dai Bot nazionali quando nel 2008  è iniziata la recessione (allora ne avevano il 22,4%). Non oso pensare quale sarebbe la svalutazione della lira italiana se uscissimo dall’Euro (30%?). Questa è la ragione per cui c’è una vasta area, proprio al Nord, di imprenditori, operai e, ancor più, pensionati contro la cosiddetta Italexit. Per i vantaggi che, con la de-globalizzazione, vengono da un grande mercato interno (Europa, Usa, Cina), penso che per un po’ di tempo nessuno parlerà più di Italexit.

Ripartire il prima possibile: da Ferrara per esempio

Ripartire in fretta è ora il tema urgente. Però in modo sicuro, se no è come fare uno scatto in salita sapendo che tra un km la ruota si buca. Una prima questione sarebbe evitare di partire tutti insieme, se c’è qualcuno che può partire prima in sicurezza. Dovrebbero essere le zone meno contagiate, spesso più periferiche, che sono spesso le più deboli economicamente e nelle quali, peraltro, potrebbe essere più facile (perché più piccole e sperimentali) arrivare ad individuare gli ‘immunizzati’ (coi test che arriveranno).
Tra queste, in Emilia-Romagna, c’è per esempio Ferrara. La Regione dovrebbe dunque essere coerente e ‘favorirci’, avendo detto che si devono aiutare le zone deboli. Si dovranno poi privilegiare le industrie manifatturiere e i servizi vendibili che sono quelli che producono quel valore aggiunto che regge l’intera economia (se chiude una fabbrica il danno per l’intera comunità è molto maggiore di quello della chiusura di un supermercato, che può riaprire se ritorna un reddito diffuso, mentre la cosa non vale per le fabbriche). E sono soprattutto quelle che esportano o che hanno commesse.
In ogni caso, dovrebbero riaprire anche tutti coloro che garantiscono condizioni di sicurezza (librerie, piccoli negozi,…che possono essere sicuri come le edicole, se ci si organizza, così le piccole e medie aziende artigiane che hanno un capannone enorme con pochi dipendenti che possono stare lontani anche 10 metri e non si capisce perché devono stare chiuse). Il problema è che l’Italia ha scarsa cultura organizzativa per cui prevale l’idea di vietare, perché è più semplice che organizzare la complessità e, soprattutto, non ci si prendono delle responsabilità (della serie “chi fa sbaglia, chi non fa non sbaglia”).
Tutti dicono che l’Europa è chiusa…ma in realtà le fabbriche tedesche, olandesi, francesi…sono molto più ‘aperte’ di quel che si dica. E’ certo più complicato e complesso controllare e verificare le condizioni di sicurezza e di distanziamento in fabbriche e negozi (un esempio clamoroso e negativo è stata la Val Seriana a Bergamo) ma, anche sulla base di questi gravissimi errori, si possono organizzare le riaperture in base a criteri solidi e complessi (non si è forse detto che oggi ritorna l’importanza della competenza pluridisciplinare?).
Ne va del nostro futuro economico e anche della vivibilità delle comunità, perché da un tracollo socio-economico saremmo tutti travolti. Non ci si può quindi affidare a decisioni semplici o solo centralistiche, o ai codici Ateco, per selezionare le imprese, e tanto meno ai Prefetti. Occorre mettere a punto la complessità del come fare, indicare criteri, coinvolgere esperti e parti sociali, innalzare la cultura organizzativa: oggi il lavoro sicuro interessa anche alle aziende.

 

IRROMPE NEL MONDO L’INVISIBILE
Questa scienza ha fallito: per un mondo nuovo, serve una nuova scienza

In questi ultimi giorni molti sostengono che dobbiamo fidarci della Scienza. Io, però, vorrei porre una questione. Cosa vuole dire fidarsi della scienza? La scienza è una disciplina umana e come tale  fallibile. Dopo tutto oggi è particolarmente evidente: assistiamo in modo quasi distopico a svariate conclusioni, per niente univoche, sulle grandi questioni contemporanee, malattie, pandemie,  disastri ambientali, crisi climatiche etc.

Ebbene dunque cosa vuole dire fidarsi della scienza?  Personalmente diffido di quella scienza che ha fatto del  materialismo scientifico  il suo orizzonte fino a enunciare che solo ciò che ha un peso, che si tocca, che si vede, esiste. Un’idea meccanicistica del mondo, dei nostri stessi corpi, che cancella dal reale  il valore dell’invisibile. Come donna so bene che l’invisibile prende corpo nel mio corpo per rispondere all’imperativo della continuazione della specie. Prende corpo dentro al nostro corpo e dà la vita. Dunque per me ciò che non è visibile è importante tanto quanto ciò che è visibile e fa parte della realtà.

E allora chiedo, a chi mi intima che mi devo fidare della scienza, di quale scienza mi devo fidare? La scienza che è riuscita a mettere al centro della sua ricerca la narrazione dei corpi e del mondo come fossero solo oggetti meccanici? Quella scienza che oggi invita uomini e donne a ‘donare’ sperma e ovuli, in nome della ricerca per perseguire il sogno onnipotente dell’uomo perfetto?  e poi, andando  oltre,  che invita le donne a ‘donare’ ( immettere sul mercato) la loro  salute , il loro  tempo, il loro ecosistema interno e il loro  potere riproduttivo narrandolo come puro  atto di amore? Questa scienza main stream, ovviamente unitamente ai guru dell’economia, ha indicato ai potenti della terra  il mercato dei corpi come ultima frontiera conquistabile per un capitalismo che altrimenti collasserebbe, nello stesso modo in cui ha indicato la via dello sfruttamento indiscriminato  della natura come unica strada per dare da mangiare a tutti. Questa scienza non vede l’evidente: ha accettato, pur di perseguire il controllo sul tutto e in nome del progresso,  che la vita invisibile, come quella che  viene al mondo dentro un corpo di una donna, venga deliberatamente e violentemente staccata  dal ventre materno, dal suo ambiente. Questa stessa scienza è quella che  non pensa che la terra sia un organismo vivente, e l’umanità cellule viventi dentro a un grande grembo vivente.

Oggi, però, irrompe nel mondo l’invisibile e ci intima uno stop. Chiede a tutti noi di metterci in attesa per dare luce a un altro mondo, più sostenibile , più solidale, più umano, in una parola: vivente.  E, curiosamente, senza essere una scienziata , questo stop mi risuona nel profondo. Dunque, oggi più di prima il mio sguardo si rivolge a quegli scienziati e a quelle scienziate che lasciano spazio, nel loro orizzonte, all’invisibile; che lo contemplano con umiltà e cercano di aiutare l’umanità a orientarsi nel mistero della vita senza dogmi materialistici alle spalle. Molti di questi scienziati però sono tacciati di eresia e addirittura radiati dai loro campi di studi perché non in linea con certa ‘Scienza’.

Dunque torno a porre la questione, cosa vuole dire fidarsi della scienza? Perché io la mia scelta l’ho fatta; mi fido di quella aperta al mistero del vivente, una scienza che non smette di interrogarsi, consapevole di essere in cammino, e che ha il coraggio di cambiare assunti che fino a ieri sembravano verità assolute ma che oggi sono crollate miseramente.

Vite di carta /
L’Arminuta… ecologia e solidarietà

Vite di carta. L’Arminuta… ecologia e solidarietà

Non c’è che L’Arminuta per compensare il vuoto. Anche questo mercoledì la piazza del mio paese è deserta, non ci sono le vocianti bancarelle del mercato e la regola dominante rimane il distanziamento sociale. In realtà la regola numero uno è “Restate a casa”.

Resto a casa e riapro L’Arminuta, il romanzo con cui Donatella di Pietrantonio ha vinto il Premio Campiello nel 2018. Uno di quei libri in cui mentre leggo e capisco che è perfetto divento ancora più vigile. Ingaggio con l’opera una sfida sotterranea: scorro le pagine, seguendo la storia ma sotto, più in profondità, controllo la forma, la sua orchestrazione, le scelte lessicali ed il ritmo, la potenza definitoria di ogni vocabolo, le combinazioni. Alla fine vince lei.

Ma andiamo con ordine. Non è per la scrittura ineccepibile che ho pensato a questo terzo bellissimo romanzo della Di Pietrantonio. La parabola di vita che vi si profila  mi è sembrata funzionale  a tante riflessioni sul presente che leggo dai giornali o sento nei dibattiti infiniti alla tv. Sono le proiezioni sul futuro che vivremo a farmi di nuovo avvicinare al libro.

Al centro della storia c’è un regresso, un processo di peggioramento per la vita della protagonista: ecco la prima somiglianza col nostro presente. Abbiamo cambiato di colpo abitudini e convinzioni; lo spazio vitale coincide con la nostra casa e poco altro. Se c’è una parola che può riassumere la vita che facciamo è ‘rinuncia.

L’Arminuta ha tredici anni e all’improvviso viene restituita, questo è il significato della parola nella parlata abruzzese, alla sua vera famiglia. Dalla bella casa in città, dove ha vissuto fino al giorno prima come figlia unica di una coppia borghese, il padre carabiniere la conduce in un paesino dell’entroterra di Pescara e la lascia coi suoi bagagli, “una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse”, dentro la casa povera dove vivono i suoi veri genitori e i fratelli che lei non ha mai saputo di avere.

“La madre” e “il padre”, così per tutto il romanzo chiamerà i genitori che ora conosce e che non la baciano, non l’abbracciano, privi di qualunque comunicazione affettiva. Il padre lavora in una fornace e i soldi che guadagna non bastano a mantenere la moglie, i due figli maschi che sono già adolescenti, il terzo maschio solo nominato per la sua vivacità, la piccola Adriana che aiuta la madre nei lavori di casa ed è una bambina già adulta, l’ultimo nato Giuseppe, che ha pochi mesi di vita e manifesta i segni di un ritardo mentale e ora la figlia restituita da una cugina materna e dal marito, che se l’erano presa e portata a vivere con loro quando aveva solo sei mesi.

La casa è piccola, i figli dormono in un’unica stanza e Adriana divide il letto con la sorella appena arrivata,  la restituita di cui non viene detto il nome. Lascio dire a lei, che narra la sua storia in prima persona, come sono le prime notti e i primi giorni nella nuova famiglia. Non è stato preparato il letto in attesa del suo arrivo: “Domani vediamo, aveva detto il padre, ma poi si è dimenticato. Io e Adriana non gli abbiamo chiesto niente. Ogni sera mi prestava una pianta del piede da tenere sulla guancia. Non avevo altro, in quel buio popolato di fiati.”

“Mi sono impegnata a pulire, quello non era difficile.. ..Le faccende che mi chiedeva di sbrigare non erano molte, in confronto a quelle di Adriana. Forse mi stava risparmiando, o forse si dimenticava che c’ero. Di sicuro non mi riteneva capace, e non aveva torto. A volte nemmeno capivo cosa ordinava, in quel dialetto veloce e contratto”.

In città la sua vita era trascorsa tra la scuola, le amicizie, la danza. A questo pensa con dolore  quando comincia a darsi da fare per essere di aiuto in casa, dovendo rimanere lì dove è stata riportata, con la motivazione che sua madre (quella di città) è seriamente ammalata. Non capisce nemmeno la lingua che si parla in quella casa.

Anche noi ora viviamo in una casa, la nostra, che ci appare diversa, con risorse, angoli o passatempi che non sapevamo che avesse. Anche la nostra lingua si sta modificando, pensiamo ai termini finora poco usati che sono spuntati come funghi sulla bocca degli esperti intervistati dai media.

Ci guardiamo allo specchio e ci chiediamo: – E se fossi ‘un asintomatico’?- E intanto ci atteniamo alle ‘regole draconiane’ imposte dalla ‘pandemia’ e non sfuggiamo (come sarebbe possibile?) alla ‘infodemia’ del momento. E ora che la protagonista ci travolge col suo spaesamento cosa verrà fuori dalla sua storia? E dalla nostra clausura forzata, dalle nostre rinunce cosa risulterà? Ne usciremo peggiori o migliori di prima?

L’Arminuta impiega mesi a entrare nelle dinamiche affettive dei suoi familiari, specie i fratelli. Adriana è il suo sostegno, è quella che le insegna a vivere nella povertà ma che le trasmette anche slanci e piccole felicità. In una delle anticipazioni sparse nel libro la protagonista dice che la somiglianza tra loro due, evidente quando erano piccole, dopo vent’anni non si sarebbe notata quasi più.

Dunque ce l’ha fatta. È entrata poco a poco nel cuore della  famiglia e la famiglia in lei; ha sofferto per la morte tragica del fratello maggiore; è rimasta a vivere nella stessa casa, pur continuando gli studi a spese della madre di città, la madre ricca. Adalgisa, questo è il suo nome,  non è mai stata ammalata: si è separata dal marito e si è sposata con un altro uomo, avendo anche un figlio da lui.

L’Arminuta va a trovarla alla casa sul mare che era stata anche la sua casa. La accompagna Adriana, sempre solidale e preziosa nelle giornate faticose là in paese, e oggi pronta all’avventura di andare una volta tanto in città. Alla protagonista la casa  sembra uguale, ma anche irrimediabilmente cambiata, anche se ad essere cambiata è prima di tutto Adalgisa, felice di avere lì la “figlia”, ma al tempo stesso incerta e soggiogata dal nuovo marito.

Nell’andare via dalla città l’arminuta regala il mare ad Adriana, che non lo conosce. Il libro si chiude sulla scena del bagno che fanno insieme: sono di fronte le due sorelle e l’acqua arriva al petto di una, al collo dell’altra. L’una, l’arminuta, ha appena compreso qual è il suo posto e si è lasciata alle spalle la madre di prima, dell’altra, di Adriana, dice  una cosa bellissima, la definisce “un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia”. E ammette: “Da lei ho appreso la resistenza”.

Ripongo il libro e mi dico che siamo anche noi messi alla prova nel nostro romanzo di formazione e abbiamo la possibilità di uscire dalle peripezie di oggi con una nuova consapevolezza. Per l’eroe di tanta narrativa è la consapevolezza dei propri limiti e della raggiunta maturità, per noi della necessità di ridimensionarci e di un bel po’ di altre cose. Le due più importanti è meglio non ripeterle qui, le ho messe nel titolo e lì devono stare, prima di ogni altra parola.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (sesta tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

XXXXIV

figlio
di Partigia
e Caravaggio
forse
Pontormo
Carracci
quel rosso
alla cappella
Brancacci

XXXXV

l’Italia
è pura
immensa
mente
scialata
la sua
solitaria
bellezza
da Monte Amiata

XLVI

l’italiano
in automobile
si crede
il mondo

XLVII

Castelluccio
visto
col bestiale
azzurro
del Pilato
è L’Italia
la sua bandiera
a perdifiato

XLVIII

Genova
di colpo
brusca di pioggia
una corrente

XIL

o mia terra
delle api
dei fiori
degli inventori
dei furbetti
lestofanti
dei Signori
o mia terra
delle api
bio
diversa
mente
grembo
di mezzo mondo

L

Trinacria
disegno
pitagorico
segreto
di amore
e morte
mare

LI

donna
fu
la mia fresca
faggeta
sul capo
di Piero
della Francesca

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I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Un paradosso dal cuore

In A due piazze, Riccarda e Nickname si sono chiesti con quali paradossi viviamo, quali contraddizioni danno senso ai nostri giorni. Un lettore ha raccontato la sua.

Un paradosso dal cuore

Cara Riccarda, caro Nickname,
Il paradosso più assurdo che quotidianamente vivo è l’amore. È qualcosa a cui non riesco a rinunciare e riempie le mie giornate, ma che continuo a ricercare anche quando lo trovo. Manca sempre qualcosa. L’amore è un paradosso: ne abbiamo bisogno, ma a volte lo snobbiamo, quando finisce lo rivogliamo. E quando lo abbiamo, capita che lo rendiamo flebile. Non so perché.
Nicola B.

Caro Nicola,
A me sta bene che l’amore sia un paradosso, anzi, solo così lo conosco (e riconosco): tra ciò che perdo e poi rincorro, rifiuto e riafferro, amo e detesto, capisco e non capisco, domino e subisco. E non c’è un prima e un dopo, capita sempre tutto insieme, confusamente, paradossalmente. Per fortuna. Sì, non voglio doverci ragionare. Non lo voglio come materia di studio, ma solo come oggetto d’amore.
Riccarda

Caro Nicola,
Dal paradosso al casino, oppure all’essenza delle cose. L’amore è passione, ricerca e conquista, per cui si affievolisce allo scemare di queste? Oppure è una costruzione che vuole buone basi ma necessita anche di robusti pilastri, da edificare nel tempo?
Per me, che comunque non lo so, ci sono tutte queste componenti. A meno che tu non sia costituzionalmente votato al rinnovarsi del desiderio, che implica anche il cambio dell’oggetto (o soggetto) del desiderio stesso.
Nickname

NON SENTO INCROCIAR DI SPADE
E non capisco questa guerra alla parola ‘guerra’

Diverse voci in questi giorni si sono levate a deprecare l’uso della parola ‘guerra’ a proposito della pandemia prodotta dal Covid-19. Sarebbe pericoloso e fuorviante, perché la parola guerra, insistentemente ripetuta, è destinata a diffondere un pericoloso clima bellico di contrapposizione, anziché alimentare i sentimenti di responsabilità e di solidarietà di cui ha bisogno ora il paese.
Perfino uno come Gesù Cristo usò termini violenti e, se vogliamo, anche inappropriati per un contesto che voleva significare la lotta contro il Male e contro Satana. Non sappiamo se effettivamente parlò così, o se queste parole gli sono state messe in bocca dagli evangelisti: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada.” (Mt 10,32).

Da tempo all’uso semantico e sintattico delle parole si è aggiunto quello pragmatico, quello perlocutorio, per dirlo con Austin e Searle. Pertanto la scelta di una parola forte come guerra ha la sua giustificazione nel fine comunicativo di indurre tutti i cittadini a comprendere la pericolosità del momento e a combattere tutti insieme il nemico comune. E del resto perché mai edulcorare la realtà in un paese che, segregato nelle case, ogni giorno conta migliaia di vittime, con la sanità in trincea, sì ‘in trincea’, per difendere le nostre vite.
Mi sembra un esercizio futile, da chierici vaganti, da bacchettoni del linguaggio quello di preoccuparsi in questo momento di censurare una parola e di additarne un uso strumentale. Come se il termine guerra fosse, nella volontà di coloro che hanno dato inizio all’uso, un messaggio subliminale volto a renderci più violenti, o ad assuefarci all’idea di una guerra prima o poi.

Del resto lo spettro semantico della parola guerra è così ampio da comprendere diverse accezioni e sfumature. È sufficiente consultare un buon dizionario per rendersi conto che con la parola guerra si vuole significare la ‘lotta di forze contrastanti’, ad esempio la lotta dell’uomo contro gli elementi naturali e comunque tutte le azioni che mirano a rendere inefficace qualcosa. Esattamente quello che si sta facendo nel paese dall’inizio dell’epidemia. Se seguissimo il ragionamento di coloro che osteggiano l’uso della parola guerra, dovremmo pure condannare l’ossimoro della ‘lotta nonviolenta’ per la pace. Per i paladini anti bellum, termini come ‘pandemia’, ‘malattia’, ‘contagio’, ‘emergenza’ dovrebbero essere sufficienti al vocabolario del lessico, per descrivere questi giorni e il nostro impegno a debellare (ecco che ricado nel termine ‘guerra’) le cause di questa tragica parentesi della nostra vita.

Pandemia, malattia, contagio, emergenza sono tutti sintomi non sono le cause; la lotta intrapresa è appunto la guerra alle cause, che devono essere combattute, e quando si combatte si conduce una guerra, non il corpo a corpo della lotta, ma in questo caso con le armi della ricerca e della scienza. Allora anche l’uso del termine ‘armi’ a proposito di scienza e ricerca è inopportuno per i suoi rimandi. Il nemico va sconfitto, e per riuscire a sconfiggerlo bisogna combattere, che significa prendere parte attiva a una ‘lotta armata., Si combattono i virus e le malattie, è una guerra che non deve turbare gli animi troppo sensibili, perché si conduce con le armi della medicina.

In questo momento i sofismi non ci aiutano, all’appello è chiamata tutta la nostra intelligenza e la nostra forza d’animo. E che ci sia qualcuno, che pensa di vivere in un paese di sottosviluppati che non sanno attribuire significato alle parole a seconda del contesto in cui vengono usate, mi preoccupa molto di più dell’uso della parola guerra.
Il concetto di guerra non è la sua rappresentazione, non è la ‘guerra di religione’, come non è i ‘conflitti mondiali’. I significati sono quelli che noi attribuiamo alle parole nella costruzione della realtà, nella narrazione che ne facciamo. Adesso non si racconta di guerra ma semmai di ‘peste’, quale tra le due sia la peggiore nella portata semantica ed evocativa, nella diffusione del terrore, è difficile da stabilire. Comunque non si sente incrociare di spade o esplosioni d’armi, è invece un fiorire di citazioni dalla Tebe di Edipo al Decameron, da Manzoni a Camus, fino a Cecità di José Saramago.
In altre parole, più che nutrire spiriti belluini, questa guerra aiuterà qualcuno a farsi una cultura.

In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

IL PANE DI TUTTI
Questo piccolo giornale e le inutili polemiche

Ecco come siamo. Come dentro una grande tempesta. Come Re Lear, camminiamo dentro una nuvola di tormenta che ci impedisce di vedere anche un breve orizzonte. Non sappiamo cosa ci troveremo davanti, cosa sarà di noi, come sarà il mondo di domani, cosa rimarrà della vita – amata e odiata – che abbiamo attraversato fino ad oggi. Nessun politico, nessun scienziato, nessun profeta è in grado di dircelo.
Prima di Covid, nell’era dell’ Anthropocene, camminavamo senza pensare, continuavamo a mettere un giorno sopra all’altro, un anno dietro all’altro. Venivamo al mondo, qualcuno ci insegnava a parlare e a camminare, qualcuno ci dava il latte, poi la pappa, infine piatto, posate e tovagliolo. A scuola imparavamo a leggere, scrivere e a far di conto. Poi il lavoro, la famiglia, gli amici e tutto il resto: tutto il bello e il brutto che accade nella vita di ognuno. Ma tutto questo senza il bisogno di pensare, perché il mondo ‘andava avanti da solo’; c’era qualcuno che decideva e provvedeva per noi: la politica, il mercato, la finanza. In ogni caso, non c’era bisogno di noi, dei nostri pensieri, delle nostre domande, delle nostre idee o dei nostri sogni. Non era ben chiaro chi comandava, chi ‘mandava avanti tutta la baracca’. Avevamo idee diverse in proposito: a destra e a sinistra. Ma non c’era da preoccuparsi più di tanto: tutti sapevamo che dopo oggi, ci sarebbe stato domani, e un dopodomani, una prossima settimana, un anno venturo. 

Quando sei nella tempesta ti vengono i pensieri. A me, non credo di essere il solo, viene il pensiero di me bambino. Così mi vedo in una lontana domenica mattina, seduto al tavolo di cucina (la mia testa spunta appena dal piano del tavolo), i miei fratelli seduti accanto a me, mia mamma in piedi a prepararci la prima colazione. Vedo benissimo, sento le voci, l’odore del latte caldo, i bisticci coi miei fratelli per il ‘diritto di precedenza’.
Faccio una parentesi colta: chi ha meglio di tutti ha raccontato questa cosa, questo totale e improvviso precipitare nel nostro passato, chi ci ha spiegato per filo e per segno questa epifania, è stato lo scrittore Marcel Proust. Ma tutte le donne e gli uomini del mondo, indistintamente, hanno fatto questa esperienza. E questo giornale – quello che è oggi e quello che diverrà nei prossimi mesi – vuole parlare sia ai lettori di Proust sia a quelli che Proust non l’hanno mai sentito nominare. Chiusa la parentesi.
Dunque è domenica mattina e c’è il burro (gli altri giorni solo il pane, niente burro), mia madre ha vicino a sé un grosso sacchetto di carta con dentro tutti i vecchi crostini di pane avanzati nella settimana, uno alla volta prende in mano un crostino, con il coltello gli mette in punta una piccola porzione di burro, taglia, il pezzo di pane imburrato cade sul tavolo. Ripete l’operazione, velocissima, perché siamo in quattro a contenderci i pezzi di crostino imburrati. Da lì, dal pane – anzi, dal pane con il burronasce la contesa sul diritto di precedenza.

Ora sono tornato: lunedì 6 marzo 2020. Il diritto di precedenza oggi si chiama Ordine di Priorità. L’Italia, al numero 7 nella classifica dei Paesi più industrializzati, si accorge improvvisamente di avere una emergenza alimentare. E scopre i suoi poveri, quelli che anche prima facevano fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, ‘quelli dell’Istat’, quelli che la politica aveva ben altro a cui pensare, quelli che quel ‘comunista’ di Papa Francesco ci ricorda tutti i santi i giorni (non solo a Pasqua), ma che per la maggioranza di noi sono solo un numero, una entità astratta. I poveri, gli affamati, erano chissà dove (in Africa probabilmente), comunque fuori dal nostro campo visivo, fuori dai nostri pensieri, fuori dal piccolo recinto della nostra vita.
Allora il Governo apre il portafoglio e decide “misure urgenti di solidarietà alimentare (buoni spesa)” per soddisfare le gravi necessità dei nuclei familiari in difficoltà. Da Roma arrivano un po’ di soldi in tutti i Comuni d’Italia, per ‘dar da mangiare agli affamati’. Non c’entra necessariamente il vangelo e la carità cristiana, è una misura elementare di umanità e di civiltà. Da quel momento – a Ferrara, a Parma e altrove –  scoppia la protesta e la polemica. Su che cosa? Su un punto fondamentale. A chi dare e a chi non dare il buono spesa? Chi ne ha diritto e chi non ne ha (o non ne avrebbe) il diritto? E chi ne ha diritto per primo e chi deve invece mettersi in coda per vedere se, alla fine, c’è rimasto qualcosa nel fondo della pentola?

Spero non vi sfugga l’enormità e la novità di questi interrogativi. Vi era mai capitato prima di vedere e sentire una cosa del genere, qui, nella nostra Italia ‘grassa e bottegaia’? Sono la perfetta dimostrazione che siamo già arrivati dentro ‘un’altro mondo’. Un mondo strano e terribile, dove a un medico può capitare di dover decidere chi intubare per primo, o dove a un sindaco non viene chiesto di inaugurare una mostra con la fascia tricolore, ma di distribuire buoni spesa, è un mondo che si è già lasciato alle spalle, a mille anni luce, il mondo che fino a ieri ci era familiare.
Davanti a tutto questo –  e al tanto altro che ci aspetta nelle prossime settimane, mesi e anni – confesso di non sopportare quelli che continuano a pensare ‘come prima‘, che parlano e si comportano ‘come se non fosse successo niente’. Pare impossibile ma è così. Accendete la televisione, guardate i giornali, navigate sui social e vedrete tanti politici e altrettanti giornalisti che ragionano con la vecchia logica di bottega. Sotto il grande velo buonista, si coltivano i soliti interessi elettorali, si mandano avvertimenti incrociati, si preparano rivincite, si affilano coltelli, si ricerca la gloria effimera dello scoop.
Politica e Informazione stanno dando una pessima prova di sé, e se la classe politica e i media (vecchi e nuovi) accendono fuochi invece di spegnerli, alimentano il contagio dell’odio e della paura invece di usare serietà e consapevolezza, il rischio è che tutto il Paese, tutti noi, seguiamo questo pessimo esempio.Un rischio reale, tanti commenti truci, tanti scambi di insulti che leggo sui social ne sono la prova.
Nel mio precedente editoriale [Qui] mi occupavo delle decisioni di un Sindaco, lo attaccavo, gli chiedevo di tornare sui suoi passi, arrivavo a proporgli delle onorevoli dimissioni, per aver agito contro il dettato costituzionale e, peggio, contro i più naturali sentimenti di umanità. Non ho cambiato idea ma, leggendo il mare dei commenti, sul giornale e soprattutto sui social media, mi sono accorto che  non mi sono spiegato bene, o non bene abbastanza. L’oggetto dell’articolo non era un sindaco, ma il pane (e la fame). Per questo motivo avevo scelto di mettere il pane in copertina, Anche ora parlo di pane, è questo l’argomento principale: qui a casa, avrei voluto fare una foto: una tazza di latte e un crostino, propaggine estrema e prelibata  della coppia ferrarese.

Il sindaco di Parma Pizzarotti ha chiesto scusa e ha cambiato il modulo per l’assegnazione dei buoni spesa. I poveri che abitano a Parma avranno tutti il medesimo diritto. Anche se uno si dichiara fascista xenofobo? Sì, anche fosse un nazista. Perché il pane non si può negare a nessuno. Invece il sindaco di Ferrara Fabbri continua a difendere il suo Ordine di Priorità e a sostenere la discriminazione verso gli extracomunitari e le persone non in regola con il permesso di soggiorno. Ho scritto, e qui lo ripeto, che mi è parso un atto di incoscienza politica e di pochezza morale. La fame mia vale come la fame tua. Non sopporta classifiche. Occorre spendere altre parole?

Questo piccolo giornale – lo vedrete cambiare nelle prossime settimane e a giugno indossare un vestito nuovo – non ha la pretesa di ‘fare politica’. Non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Certo, ‘tutto è politica’, ma non siamo né un partito né una roba del genere; tanto meno pensiamo di metterci a capo di qualcuno o di qualcosa. Non è questo il compito di un giornale. Ferraraitalia (io e i tanti che vi scrivono) vuole solo avere la libertà di dire quel che pensa, esercitare il diritto di critica: lo abbiamo fatto con la Giunta Tagliani, lo facciamo oggi, cambiato il colore, con la Giunta Fabbri,. Abbiamo però un’altra ambizione, vogliamo fare una cosa di ancora più importante: dentro questa tormenta che sta spazzando via il nostro quotidiano e tutto il mondo conosciuto, vogliamo continuare a pensare, e invitare al pensiero tutti i nostri lettori.
Fra tutti gli hashtag che rimbalzano nella Rete come palline impazzite, ne abbiamo scelto uno. Anzi, l’abbiamo inventato di sana pianta. Se vi interessa una dichiarazione d’intenti, se volete conoscere la mission di questo giornale, se a tutti i costi volete attribuirci una posizione politica, eccola riassunta in questa lunghissima parola: #andràtuttobenesenontorneràtuttocomeprima.

 

Il tempo circolare: i segreti e la lezione dei criceti

In un tempo lontano ho avuto a che fare con quelle bestioline chiamate criceti che era molto comune allevare in molte case ferraresi. Quello che mi affascinava era la presenza di una ruota all’interno della gabbia che come spiega Wikipedia ha una sua funzione precisa:
“La gabbia per un criceto nano (russo) (siberiano) deve essere di almeno 75×47 cm mentre per i roborosky, i dorati e i cinesi almeno 120×60. È essenziale la presenza di una ruota (20 cm per i siberiani e i russi, 28 cm per i dorati, roborosky e cinesi), perché si mantengano fisicamente in salute e di una tana per dormire.”
M’incantavo a vederli muovere con impegno la ruota, anche se la loro fisicità mi procurava un leggero imbarazzo, ma ancor più mi sorprendevo a pensare che quella ruota, che essi giravano con tanto impegno, creava uno spazio/tempo circolare e che, quando improvvisamente la abbandonavano, la dimensione spazio-temporale si fermava e quel che restava a loro era un presente assoluto.

Mentre compio il mio consueto giretto per casa in questi momenti della fase 2, ‘il pianoro’, come si dice usando una metafora paesaggistica, in cui è necessario non trasgredire ai severi provvedimenti per abbattere l’orribile virus (quello che la raffinata amica e grande linguista Portia Prebys mi suggerisce debba essere chiamato come in Inghilterra walk about) mi si presenta la condizione del criceto. A nulla serve per uscirne di pregustare gli impegni più interessanti che mi aspettano: scrivere questo Diario, affrontare il saggio su Magris, telefonare all’universo mondo, chiamare in video conferenza gli amici del cuore e i pronipotini, aprire il cd Steinway Legends rimasto inspiegabilmente inascoltato della mia Martha Argerich.
Mi fermo e rendo così il tempo un eterno presente senza passato e tantomeno senza futuro. Come un criceto che smette di girare la sua ruota. Sarà la mia reale condizione di vecchio che si prepara a sospendere il tempo? Per sempre?

Non è che ogni giorno rifletta sulla mia somiglianza con i criceti. Fossero almeno i miei adoratissimi pelosi cani, o in seconda scelta i gatti, lo tollererei. Ma i criceti….! Eppure questo è ‘ciò che passa il convento’, come sentenziava nonna Adalgisa, mettendomi davanti, io bambino, l’orrenda zuppa di cavolo tra le non amate verdure la più odiata.
E’ dunque meglio pensare ai segreti, una delle mie fissazioni da sempre. I segreti amatissimi che ho sempre adorato divulgare e che ovviamente non sono i ‘veri’ segreti, che non si confessano nemmeno a se stessi, oppure son tali da diventare materia di scrittura per il solito inesorabile principio di credersi helas! scrittore.

Il mio romanziere preferito in questi mesi si chiama Eshkol Nevo, che in L’ultima intervista (Neri Pozza, 2019) tra verità e fantasia spiega cos’è un segreto tremendo di cui il protagonista viene a conoscenza. Narra di uno scrittore famoso di polizieschi, lo svedese Axel Wolf, che viene trovato quasi morto nella sua camera d’albergo e da lui viene soccorso. All’ospedale incontra la moglie di Wolf, Camilla, alla quale chiede cosa significhi una frase che Axel pronunciava in continuazione. La moglie glielo rivela, ma gli dice che sarà costretta ad ucciderlo, perché a sua volta non lo sveli. E’ un segreto, terribile, ma ovviamente non lo spiattello qui per rispetto alla trama del libro. Ma invece è importante commentare, sentendo la rivelazione di Camilla, la sua interpretazione sul significato del segreto. Rivela la donna a p.369:
“Questo mi sembra veramente importante. Affrontare cosa debba essere la consapevolezza del segreto. E tutto il Novecento si nutre di segreti: da Proust a Joyce e soprattutto D’Annunzio, che non esita orgogliosamente di intitolare parte de Le faville del maglio:Secretum’, ponendosi in rapporto diretto con il primo e forse più straordinario custode e diffusore al tempo stesso del segreto, Francesco Petrarca“.

Ma i miei lettori l’avranno già intuito: io propendo per ‘i segretucci’, quelli cioè che sono di necessità svelabili. Sono l’essenza stessa di ciò che chiamiamo ‘cicaleccio’, ‘chiacchiericcio’, il ‘parlar improprio’, quello che è così straordinariamente diffuso tra i politici che ha dato luogo a ciò che la Treccani definisce ‘cicalecciocrazia’, cioè l’improvvisazione sul dilungarsi a parlare seriosamente di ciò che non si sa. E naturalmente gli esempi recenti sono così evidenti, che sarebbe un altro ‘cicaleccio’ esibire i nomi.
Tra costoro che sono poi i più attenti a parlare, usando quei neologismi di cui già riferimmo nel Diario precedente, quelli che fanno più male sono quelli usati dai politici, che s’intromettono nelle decisioni dei provvedimenti assunti dagli specialisti. Nascono così le storie più incredibili: dal virus prodotto in laboratorio, che sfugge al controllo degli scienziati all’uso della mascherina, dei guanti, del tampone. E in questo campo le storie, le rivelazioni, diventano oggetto di possibili e straordinarie novelle o racconti.
Allora rimando ad un delizioso spot dove la dottoressa di turno insegna, con fare suadente e convincente, come si sanificano le mascherine per riusarle, visto la quasi introvabilità delle stesse.
Ma in fondo, in fondo meglio rivelare i ‘segretucci innocenti’ come, ad esempio, che non avevo comprato le paste perché me ne ero dimenticato, mentre ne avevo fatto una scorpacciata terrificante e non lo volevo dire. Poi si sa amor vincit omnia alla fine ho confessato.

 

PER CERTI VERSI
Frammenti d’Italia (quinta tappa)

La descrizione, frammento dopo frammento, di un paese meraviglioso…
Ma questo paese è il nostro paese!
E proprio questa intensa opera lirica dà la misura della bellezza incomparabilmente varia di una terra ammirata e invidiata da tutti eppure, forse proprio per questo, denigrata da molti.
In un’Italia che in questa drammatica emergenza rischia d’andare in pezzi, ma che – ne sono convinto – saprà riemergere più forte e coesa di prima, è forse arrivato il momento per noi tutti di comprendere quanta fortuna significhi esservi nati e cresciuti, nonché l’onore d’esserne figli. Scopriamolo scrutandone i frammenti nell’omaggio poetico di Roberto Dall’Olio che, per quattro settimane, si rinnoverà ogni domenica e ogni mercoledì.
Buona lettura e buon viaggio.

Carlo Tassi

FRAMMENTI D’ITALIA

XXXV

se tutte le ginestre
fossero occhi
e noi ciechi
di luce
vedremmo l’isola
una galassia di soli
sardegna

XXXVI

l’acqua di vetro
di carloforte
il suo verde
nel gelato bianco
delle case
memoria
del tuo
colore
purezza marina
isola
magistrale

XXXVII

bagheria
polare
con siracusa
al maestrale
tutto torna
da Tindari
alle falesie
di san vito
lo capo

XXXVIII

il medioevo
scuro
violento azzurro
giallo
sfrontato
edere di torri
il nudo galante
petroniano

XXXIX

quei bronzi
sapidi
di mare
alteggiano
sui misteri
delle origini

XL

lo so
che da Piazza Maggiore
spiavi
i mandorli
in fiore
il latte
della tua arte

XXXXI

non v’è
silenzio
più chiaro
la via degli Angeli
in ore qualsiasi
quella pace
senza confronti

XXXXII

Wiligelmo
pacca col bianco
l’intonaco
della via
Emilia

XXXXIII

è
come se
la Resistenza
fosse in te
un chiasso
enorme
solo interiore

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