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“«Come fate a parlare con tanta calma, dopo essere andato con la testa in un fosso?» domandò Alice mentre lo trascinava per i piedi e lo stendeva su un monticello di terra accanto alla riva. Il Cavaliere sembrò sorpreso per questa domanda. «Che importa dove si trova il mio corpo? – egli disse. – L’importante è che la mia mente lavori lo stesso. Anzi, più volte vado a testa in giù e più invento nuove cose»”. È Lewis Carroll, Nel mondo dello specchio.

Evidentemente noi stiamo sempre ben ritti sulle nostre zampe di bipedi, perché siamo speciali nel rincorrere il già visto, l’usato sicuro.

L’ultima performance del gattopardesco genio italico riguarda i voti a scuola. In tempi in cui l’ibrido è tornato di moda anche nella didattica, ecco che ti scopro l’ibrido docimologico: voti numerici a metà anno, giudizi alla sua conclusione.
Per cui, se qualcuno s’era mai illuso di una svolta storica compiuta da grilli parlanti e pdiessini in sonno, ha dovuto immediatamente scuotersi dalla meraviglia, perché la promessa abolizione dei voti nella scuola primaria dei bambini dai sei ai dieci anni, era solo una ‘sola’. Uno zelante consigliere della ministra ha fatto presente che il decreto con cui  si sarebbe dovuto celebrare il funerale della valutazione numerica, almeno per i più piccoli, altro non era che una farsa affidata al sofistico burocratese dei nostri azzeccagarbugli. Sì, perché la legge con la quale sono stati introdotti, al posto dei numeri, giudizi disciplina per disciplina recita: “valutazione finale”. Capirai, stabilire quando la valutazione inizia e quando finisce è oggetto di speculazione filosofica per il ministero dell’istruzione, così poiché, come ci hanno insegnato i nostri padri latini, in aurea mediocritas, il gioco è fatto: voti e giudizi convivono, per non smentire la prassi della scuola italiana, esperta nel tenere insieme antico e moderno  in modo da non cambiare nulla.

In un’epoca ormai lontana nel tempo, correva l’anno 1977 del secolo scorso, per mano di una ministra dell’allora aborrita Democrazia Cristiana i voti erano stati aboliti. Anni di fermenti pedagogici quelli, che con i decenni a venire andranno esaurendosi, sempre più ostacolati  e aggrediti da striscianti controriforme. Quel provvedimento di legge nasceva sulla spinta di maestre e maestri aderenti al Movimento di Cooperazione Educativa che si rifiutavano di dare i voti e di compilare le pagelle.

Leggere Freinet, prendere in mano i libri di Mario Lodi e di Bruno Ciari non avrebbe guastato alla cultura dei ministri che si sono succeduti alla guida del dicastero della Pubblica Istruzione, recentemente divenuto dell’Istruzione Nazionale, con un infelice retrogusto da regime.
Se fossimo in grado di stare ogni tanto a testa in giù come il cavaliere di Alice, forse ci renderemmo conto che non c’è niente di più stupido dei voti. Il compito di quei numeri dallo zero al dieci dovrebbe consistere nel misurare il sapere, alunno per alunno, come il metro di un sarto.

Voglio proporvi la conversazione che Gregory Bateson intrattiene con sua figlia, una bambina delle scuole elementari.

Prende l’avvio dalla domanda che la figlia rivolge al papà: – Papà, quante cose sai? –
La prima risposta va a peso: – ..so circa un chilo di cose… –
La ragazza ribadisce che gli ha chiesto per davvero quante cose sa, vuole, dunque, un calcolo numerico.
Il papà replica: -..il mio cervello pesa circa un chilo e penso di usarne circa un quarto…Quindi diciamo due etti e mezzo.
La ragazza incalza: – Ma tu sai più cose del papà di Johnny? Sai più cose di me? –

Bateson racconta: ” […] una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: “I padri sanno sempre più cose dei figli?” e il padre rispose: “Sì”. Poi il ragazzino chiese : “Papà chi ha inventato la macchina a vapore?” e il padre: “James Watt”. E allora il figlio gli ribatté: “Ma perché non l’ha inventata il padre di James Watt?”.
Il papà fa osservare alla figlia: -…che il sapere è tutto intrecciato insieme, o intessuto, come una stoffa, e ciascun pezzo di sapere è significativo o utile solo in virtù degli altri pezzi,…-

Questa osservazione che è già stata di Goethe, il famoso telaio, porta la bambina a osservare che allora se il sapere è una stoffa non si potrà contare ma si può però misurare in metri! Bateson osserva che ci sono diversi generi di sapere e che questo sistema di misurare il sapere non consente certo di misurare ‘il sapere sul sapere’. Perché non si possono mescolare i pensieri. Il sapere non si può contare, perché contare è aggiungere semplicemente una cosa all’altra. E per i pensieri come per il sapere questo non lo si può fare assolutamente.

Misurare il sapere è dunque come voler riempire d’acqua un secchio bucato. Pretendere poi di misurarlo nelle bambine e nei bambini è una delle tante violenze perpetrate dalla divisione in graduatorie e dalla smania di gara della società degli adulti, quella stessa che porta i genitori a litigare alle partite di calcio dei loro figlioli.

Ci dovremmo preoccupare che a cinquant’anni di distanza stiamo ancora a discutere delle cose di ieri, dell’involuzione che ci separa da allora. Nel 1974 Mario Lodi pubblica Insieme. Giornale di una quinta elementare. Scrive nell’introduzione: “ In questi ultimi anni molti educatori sono passati dalla critica al libro di testo al rifiuto della sua adozione e del suo uso. Con questo atto responsabile hanno quindi rifiutato anche il metodo della scuola autoritaria selettiva fondata sulla lezione da studiare e da ripetere, sul voto e sulla bocciatura. Si sono perciò impegnati a realizzare , all’interno della scuola ufficiale, una scuola diversa che valorizzi il patrimonio ora sprecato delle capacità individuali da utilizzare per sé e per gli altri, contrapponendo all’individualismo egoistico e quindi alla competitività  della scuola e della società attuale, i valori che dovrebbero essere alla base di una società nuova, umana.”

Non è poi necessario mettersi a testa in giù come il cavaliere di Alice, c’è qualcuno che l’ha già fatto per noi, cercando di guardare alla scuola da un’altra prospettiva. Invece dovremmo vergognarci, questo sì,  non solo di aver rubato il futuro alle nostre ragazze e ragazzi, ma anche di avergli trafugato il passato.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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