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FEMMINICIDI: UNA RIFLESSIONE
il fenomeno della violenza di genere è in buona parte sommerso

Secondo il rapporto Eures, nel 2019 i femminicidi in Italia sono stati 95. L’ultima vittima dello scorso anno si chiamava Elisa, strangolata in casa dal marito mentre le figlie dormivano. Oltre l’85% dei casi di femminicidio avviene tra le mura domestiche per mano di un compagno o ex compagno della vittima. Dal 2000 a oggi le donne uccise in Italia sono state 3.230, di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio compagno. Nel 2018, le donne uccise sono state 142, una in più dell’anno precedente. Il 2019 ha registrato dunque 47 vittime in meno del 2018, ma anche  un aumento degli episodi di stalking. Una situazione davvero triste e che colpisce sempre per la sua violenza, la sua sistematicità, la sua capillarità sul territorio.

Più se ne scrive e parla e più sembra che la situazione non migliori, anzi. Credo che le cause dello scatenamento di tale violenza siano ormai conosciute e si possano riassumere in:
– una cultura sessista che perpetra l’idea del maschio ‘padrone’;
– una educazione dei bambini che (a volte) associa all’idea di maschio quella di violenza, aggressività, arrivismo;
– una interiorizzazione del ruolo maschile come soggetto dominante che poi non trova attuazione nella vita reale in quanto le donne chiedono parità, ma l’uomo educato e socializzato come prepotente (e quindi in uno stato di grande fragilità) non può accettare tale richiesta;
situazioni di grandi degrado: spazi non sufficienti, presenza di più generazioni di persone nella stessa abitazione, matrimoni spezzati e ricuciti e ricuciti ancora che creano problemi relazionali a tutti;
– il problema del lavoro come agente d’identità maschile quasi esclusivo (senza lavoro un uomo rischia di sentirsi una nullità in quanto la sua socializzazione l’ha addestrato alla esclusiva funzione di capo branco);
– l’incapacità del maschio di sopportare l’abbandono e il tradimento, da qui la conseguente vendetta piena di odio e rancore.
Ci sono poi anche dei casi limite che rasentano la follia più assoluta: rapimenti dei figli, uccisione dei figli con conseguente annientamento dei cadaveri, omicidi e suicidi in contemporanea.

Esistono centri specializzati per le donne vittima di violenza; Provincie e Commissioni sulle P.O. gestiscono centri di ascolto, counseling, sportelli di orientamento e, con il supporto del terzo settore, comunità di accoglienza. Il Ministero delle Pari Opportunità mette a disposizione ogni anno molti soldi per il contrasto al fenomeno.
Eppure la situazione non migliora. Non migliora e non si riesce a farlo emergere. Le donne che subiscono violenza sono spesso confinate all’interno delle loro mura domestiche, hanno un lavoro, ma questo non garantisce loro sufficiente autonomia decisionale, sufficiente forza per ribellarsi. La violenza subita tende a essere giustificata da una personalità femminile che si annulla nell’obbedienza a tutti i costi, nella spasmodica ricerca di un senso a una quotidianità che, di suo, sarebbe assolutamente inaccettabile. Le ‘botte’ diventano meritate e ci si tormenta sullo sbaglio commesso come causa dell’evento drammatico.
C’è una alterazione del meccanismo di causa-effetto. Siccome nessuno di noi può sopportare degli effetti senza una causa riconosciuta e soggettivamente legittima, l’attribuzione di causa diventa ‘strana’ e si orienta su predisposizioni interiori del soggetto che subisce la violenza. Per farla breve, la persona che subisce violenza arriva in molti casi a pensare di essersela meritata e che un suo comportamento diverso potrebbe cambiare la situazione. Per acquisire consapevolezza che si è vicino all’annientamento della personalità e alla traslazione soggettiva del principio di causa-effetto su oggetti non reali, ci possono volere anni, a volte non ci si riesce mai.

Ci sono anche casi in cui la donna è riuscita, dopo molte sofferenze, a ribellarsi, ad andarsene da casa, a chiedere il divorzio. Alcune di queste donne coraggiose sono state uccise. La nostra società con tutti i suoi servizi, tutti suoi esperti e le forze dell’ordine dedicate non è riuscite a proteggerle. E loro sono morte lasciando bambini e famigliari disperati.
Quindi una dei primi auspici è che si aumenti ulteriormente la tutela delle donne che hanno cercato, dopo travagli interiori indicibili, di andarsene.

Una seconda questione fondamentale è quella dei luoghi dove si può davvero intercettare il fenomeno. Bisogna conoscere e mappare i luoghi dove le donne si ‘confidano’: parrucchieri e estetisti sono molto più aggiornati dei centri preposti a tale funzione. E’ più facile che una donna con questo tipo di problema  si confidi con il suo estetista, piuttosto che con qualcuno che non conosce e di cui non si fida (anche se ha ufficialmente una funzione coerente). Le persone in forte stato di disagio sono molto diffidenti. Tendono a non fidarsi di nessuno. Hanno paura. I luoghi dove davvero si possono intercettare donne maltrattate sono quelli informali da loro abitualmente frequentati, all’interno  dei quali agiscono  soggetti di cui loro si fidano. E’ qui che si può/deve intervenire in maniera più radicale e capillare con la speranza che possa essere, almeno in alcuni casi, risolutiva. E’ il lavoro quotidiano sul territorio che, almeno in alcuni casi, paga.

L’ultima nota riguarda una esperienza di femminicidio che ho visto da vicino: una donna uccisa dal marito. L’uomo è attualmente condannato all’ergastolo. Una situazione in cui la donna si era ribellata, aveva lasciato il marito che la riempiva di ‘botte’ e  vissuto protetta per alcuni anni in una comunità di  Brescia. Poi aveva provato a ricostruirsi una vita affittando un appartamento sempre a Brescia, dove era andata a vivere con i suoi bambini. Il marito è riuscito a trovarla e l’ha uccisa. Molte persone sapevano, conoscevano la situazione, ma chi ha provato ad aiutarla non ha trovato la giusta strada, non ha saputo mettere in atto tutti sistemi di protezione necessari. Il problema è radicato in quanto riguarda il nostro tessuto sociale, il nostro stile di relazione, le nostre forme di tutela del disagio e i nostri standard istituzionali di risposta. L’intervento possibile va ripensato partendo dal coinvolgimento dei soggetti informali del territorio che davvero conoscono le situazioni drammatiche sommerse.  Siamo alle prese con un problema molto serio che necessita di ripensamento sia delle cause che delle risposte.

Secondo il CNR (indagine CNR- IRPPS su rilevazioni del 2017) sono complessivamente 338 i centri e i servizi specializzati nel sostegno alle donne vittime di violenza, ai quali si sono rivolte almeno una volta in un anno 54.706 donne; di queste il 59,6% ha poi iniziato un percorso di uscita dalla violenza. A quanto pare, questa organizzazione e questo tipo di risposta seppure ben strutturata, non basta, serve altro, serve l’aiuto di tutti coloro che davvero sanno.

LA SCUOLA DELL’I CARE:
Dalla classe al patto formativo

È difficile credere che la pandemia cambierà la nostra scuola. Non si è fatto prima, quando si sarebbe potuto farlo, perché mai ora, per di più in una situazione di crisi economica aggravata. È più facile che la pandemia la cambi in peggio e già ora i segnali ci sono a partire da una didattica dilaniata tra presenza e distanza, tra reale e virtuale.
Qualcuno, che si scuote da un lungo assopimento, pare scoprire solo ora le prodigiose opportunità offerte dal  territorio, come se il territorio non fosse una grande aula da frequentare fin dai tempi del Pestalozzi, che proprio non era il massimo della pedagogia, potremmo dire addirittura che, con la sua fiducia nelle innate capacità educative della madre, sia stato un antesignano delle homeschooling.

Dopo l’elogio della predella di Galli della Loggia oggi leggiamo l’elogio della classe di Asor Rosa. Sempre con gli occhi nella nuca a guardare indietro, soprattutto con il timore dell’innovazione e del cambiamento. Preoccupa la resistenza dei luoghi comuni, degli stereotipi a proposito della scuola, preoccupa sentire ancora parlare degli esami di stato come riti di passaggio, che devono essere celebrati. Sembra che a esprimersi siano menti decerebrate, incapaci di intendere che le sfide dell’istruzione e i bisogni dei nostri giovani necessitino di ben altro.
Che non si possa cambiare perché non ci sono i soldi passi, ma che non si voglia cambiare perché ciascuno difende i propri occhiali, con cui guarda al presente e al passato senza riuscire a guardare lontano, non è più possibile né tollerabile.

Per decenni in questo paese si sono frapposti ostacoli allo sviluppo di un discorso nuovo sulla scuola, senza rendersi conto che la storia non stava ferma e che intanto qualcosa cambiava a proposito di istruzione come, ad esempio, il rapporto tra conoscenza e competenza, che certo non apparteneva alla cultura del paese all’epoca della predella e della classe, quando a scuola ci andavano Galli della Loggia e Asor Rosa.
Si impone la necessità di dotarsi di strumenti di misurazione e di valutazione non per continuare ad appioppare voti ad alunni e studenti, ma per disporre di informazioni importanti sull’efficacia del sistema formativo e sul funzionamento dei suoi istituti; penso inoltre alla sempre più crescente tendenza a personalizzare i percorsi di apprendimento, che la classe di Asor Rosa certamente escludeva.

Ciò che la storia ha cambiato nella cultura dell’istruzione è la conquista dell’integrazione di tutti e l’avvento dell’I Care. Che certo all’epoca dei giovani Galli della Loggia e Asor Rosa non erano neppure immaginabili. Oggi, la scuola o è la scuola dell’I Care o non è. La scuola che cura il successo formativo di ogni alunna o di ogni alunno. Se non si parte di qui non c’è cambiamento. Perché è con l’I Care che cadono tutti gli stereotipi e le pratiche insensate che abbiamo accumulato a proposito di educazione. L’I Care di don Milani che nella sua canonica a Barbiana non aveva classi. Si tratta di pensare ad un sistema formativo capace di assumere pienamente la responsabilità del progetto di vita di ogni bambina e bambino, di ogni ragazza e ragazzo, non indistintamente come avviene nella tradizione della classe, ma uno per uno, a ciascuno il suo e nel contempo di rispondere della qualità del fare scuola e del futuro che per ognuno si costruisce, un sistema formativo amico che cura, affianca e accompagna,  portatore del massimo interesse per la riuscita di ogni Gianni e Pierino.

E allora ci si renderebbe conto che la classe è un intralcio. La classificazione è la madre di ogni omologazione ed essere classificati per età anagrafica, come le classi di leva di una volta, antepone un accidente cronologico, come l’età anagrafica, alla considerazione dell’individuo in quanto tale, al suo essere, alla sua storia, alla sua unicità. A Barbiana i ragazzi erano diversi per età e per capacità, ognuno era lì con la sua biografia e la loro è stata indubbiamente un’esperienza di formazione unica e indimenticabile, senza classe, predelle ed altri orpelli.
Dunque non è la classe l’architrave del sistema formativo come sostiene Asor Rosa. La formazione è fatta di persone, esperienze ed incontri, non certo di banchi in fila in aule affollate a contemplare la nuca dei compagni e delle compagne che ti stanno davanti. Ciò che conta è la qualità del progetto formativo, quanto calzi con la tua storia e con le tue esperienze, con quello che sei e non con quello che dovresti essere e quanto ti coinvolge per interesse e motivazioni. Questo richiederebbe di essere accolti a scuola non per età anagrafica, e finire nella classe corrispondente, ma sulla base di un patto formativo concordato all’atto dell’iscrizione da ciascuno con la scuola, in modo da garantire la flessibilità dei gruppi, degli spazi, dei luoghi in cui apprendere, dentro e fuori dagli edifici scolastici, la ricchezza e la pluralità delle esperienze formative, delle relazioni e dei saperi, in un’epoca in cui l’istruzione non inizia e non finisce a scuola.
Ma temo che anche questa volta ci troveremo di fronte ad una occasione perduta.

INVISIBILE MA VERO!
Suggerimenti di un maestro ai bambini piccoli e ai genitori

I Centri per le Famiglie del Comune di Ferrara hanno inaugurato, lo scorso 12 marzo, la pagina Facebook Bambini e Genitori a Ferrara
Lo scopo della pagina è quello di facilitare la comunicazione verso le famiglie, di diffondere gli aggiornamenti su proposte, eventi, news, approfondimenti e di mantenere “viva”  la relazione , che si è interrotta improvvisamente , tra personale dei servizi educativi con i bambini e le loro famiglie.
Dal gruppo di coordinamento pedagogico mi è stato chiesto di registrare un breve intervento filmato rivolto ai bambini, alle bambine e ai genitori sul passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria in questo periodo delicatissimo.
Non sapendo bene cosa e come dire, mi sono messo le mani nei miei capelli… invisibili… ed è venuto fuori il video che vedete sotto. Buon ascolto e buona visione.

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

EMERGENZA AMBIENTALE NEL TEMPO DEL COVID-19
Fino ad ora si è fatto ben poco, e gridare al lupo non basta

Sembra che il virus Covid-19 possieda un potere ipnotico. Il nostro paese, in particolare, è immobilizzato in attesa che qualcuno o qualcosa risolva il problema, sicuramente di notevole entità, al posto nostro. Problema che sembra ormai essere l’unico in questo nostro mondo globalizzato: ma non è l’unico e nemmeno il più grave.
In occasione della Giornata della Terra, il 22 aprile scorso, il climatologo Luca Mercalli ha ricordato che 50 anni fa negli Stati Uniti la protesta contro i danni ambientali da inquinamento coinvolse venti milioni di persone. Gli USA emanarono le prime leggi in difesa di aria e acqua, e così fecero negli anni a seguire i principali paesi europei e l’Italia. In seguito, l’ambientalismo, invece di evolvere e crescere in consapevolezza, specie tra i cittadini, è stato considerato un ostacolo alla crescita economica, per le attività industriali, nell’agricoltura e nell’allevamento.
Con il passare degli anni le evidenze scientifiche della crisi ambientale sono diventate inequivocabili ma decenni di iniziative da parte degli organismi internazionali hanno portato a ben pochi risultati.

Mercalli, e con lui moltissimi altri scienziati e ricercatori, ci dicono da tempo che quella che verrà, anzi, che è già iniziata, è una crisi gravissima e, con molta probabilità, produrrà danni irreversibili e incalcolabili in molti luoghi del pianeta. Tuttavia, della crisi ambientale, a differenza dell’attuale crisi sanitaria, non ci si preoccupa più di tanto, in quanto gli effetti sono diluiti nel tempo. A detta di molti esperti, nel prossimo futuro, assisteremo a una accelerazione degli eventi: infatti come è vero che il virus sta mettendo in grande difficoltà molti paesi del mondo, questa crisi potrebbe essere ben poca cosa rispetto a quanto ci attende come effetti dei cambiamenti climatici.
Sempre Mercalli ci ricorda che il Covid-19 ha portato via all’età di 88 anni John Houghton, climatologo e fisico dell’atmosfera gallese, che ha condiviso il premio Nobel per la pace nel 2007 con Al Gore ed è stato curatore dei primi tre report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) negli anni 1990, 1995 e 2001. In un recente articolo, Mercalli e altri climatologi, affermano che tante sono le voci, scientifiche e non, che chiedono un mondo post-virus più rispettoso dei limiti ambientali e meno succube dei diktat dell’economia, ormai incompatibili con la sopravvivenza dell’ambiente naturale, di cui, vale la pena ricordarlo, l’essere umano fa parte. Le preoccupazioni economiche, si legge sul sito dell’ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), non devono allontanarci dall’obiettivo di contenere la temperatura, altrimenti pagheremo un prezzo anche più alto del Covid 19. Dobbiamo cambiare politiche, comportamenti, parametri [Qui]. Sempre Mercalli, in un recente numero di Micromega, afferma l’esistenza di una completa asimmetria tra il livello di allarme lanciato dalla scienza e i provvedimenti adottati dalla politica. In assenza di ‘scelte radicali’ da compiersi immediatamente, e che vanno dai comportamenti dei singoli (ci ha insegnato qualcosa la crisi sanitaria? abbiamo modificato il nostro atteggiamento quando andiamo a fare la spesa?) fino alla messa in discussione dell’attuale modello economico, gli scienziati non potranno che continuare a svolgere il ruolo di Cassandre.

“Stiamo muovendo le montagne per affrontare il Coronavirus. Perché non facciamo altrettanto per la crisi climatica?”. “Viviamo in un mondo, afferma Robert Walker, presidente del Population Institute di Washington, su Newsweek, che sta cambiando rapidamente, pieno di sfide. Con la crescita dei centri urbani, i sistemi sanitari pubblici inadeguati e il maggior contatto degli umani con animali in grado di trasmettere virus mortali, il Covid 19 era una pandemia in agguato, ma non è l’unica sfida globale che dobbiamo affrontare. L’anno scorso 11mila scienziati hanno firmato una dichiarazione nella quale si avverte che senza una radicale riduzione dei gas serra il mondo si avvia a ‘sofferenze mai viste’. Se non cambiamo rotta, entro il 2050 più di 200 milioni di persone dovranno emigrare per la siccità, le inondazioni e l’aumento del livello dei mari. Molto prima della fine di questo secolo la quantità di persone uccise ogni anno dall’aumento della temperatura e dagli altri effetti climatici, compresa la diffusione delle malattie portate dagli insetti, potrebbe superare ampiamente il costo umano del Covid 19. L’anno scorso Michael Greenstone, co-direttore del Climate Impact Lab, ha avvertito che attorno al 2100 le morti premature dovute ai cambiamenti climatici supereranno ogni anno il numero di quelli che oggi muoiono per tutte le malattie infettive messe insieme. Inoltre l’insieme delle perdite economiche derivanti dalla crisi climatica sarà di gran lunga maggiore dei costi finanziari che subiremo quest’anno a seguito del Covid 19. Se la temperatura globale salirà di 2°C il prezzo da pagare potrebbe arrivare a 69mila miliardi di dollari entro il 2100. Ma l’aumento delle temperature ridurrà anche la resa dei raccolti, perché ogni grado di aumento riduce del 6% la produzione agricola. Ci sarà anche un’accelerazione della perdita di biodiversità. Entro cinquant’anni un terzo delle specie vegetali e animali andrà perduto.” Questa crisi dovrebbe far capire che non è possibile lasciare ai meccanismi economico-finanziari le scelte strategiche per il futuro: è il momento della rivalsa della politica che deve iniziare a fare scelte importanti per il futuro del pianeta. Nei centri storici e/o in vaste aree opportunamente individuate delle città potrebbe essere permesso solo l’uso di auto elettriche o ibride, o il prezzo dei combustibili potrebbe essere aumentato per chi non effettua la ristrutturazione degli edifici per migliorarne l’efficienza energetica, mentre per quelli di nuova costruzione la sostenibilità ambientale dovrebbe essere un obbligo.

La biologa e saggista Meehan Crist, in un articolo apparso sul New York Times, scrive che la crisi globale derivante dal Covid-19 è anche un punto di svolta per l’altra crisi globale, quella ambientale, più lenta ma con una posta in gioco ancora più elevata, e si chiede se a lungo termine il virus aiuterà o danneggerà il clima. Il coronavirus ha provocato una stupefacente chiusura delle attività produttive e una drastica riduzione nell’uso dei combustibili fossili. Le abitudini di consumo e di viaggio stanno cambiando, e, forse, la percezione di cosa ci serve davvero si modificherà. In tutto il mondo i livelli di inquinamento stanno calando rapidamente, scrivono Leslie Hook e Aleksandra Wisniewska per il Financial Times. Le misure di contrasto alla pandemia, che stanno coinvolgendo circa 2,6 miliardi di persone, iniziano ad avere effetto non solo sul virus, ma sull’intero pianeta. Le emissioni dovute ai trasporti e alle attività produttive sono crollate. Secondo una stima di Sia Partners, società di consulenza francese, in Unione Europea le emissioni quotidiane si sono ridotte del 58% rispetto ai tempi pre-crisi. Ma, ci ricorda la Crist, per avere un effetto significativo sulle emissioni globali, i cambiamenti nei consumi devono andare oltre gli individui ed estendersi alle grandi strutture e che cambiare le abitudini personali non servirà a molto se non riusciamo anche a ‘decarbonizzare’ l’economia globale. Le emissioni sono calate anche durante la crisi finanziaria del 2008 e gli shock petroliferi degli anni ’70 del secolo scorso, per poi risalire una volta superata l’emergenza: è probabile che dopo la fase acuta la produzione industriale e le emissioni aumenteranno di nuovo, anche perché una recessione globale potrebbe rallentare o fermare la transizione verso le energie pulite. BloombergNef, una società di analisi sulle energie pulite, ha già ridimensionato le previsioni per il 2020 sul mercato del fotovoltaico, delle batterie e dei veicoli elettrici, evidenziando un rallentamento della transizione energetica, proprio quando avremmo bisogno di accelerarla, a maggior ragione se il prezzo del petrolio resterà basso a causa del calo della domanda.

Qualche ragione perché il dopo Covid-19 sia diverso da quello che ci ha preceduto comunque c’è: ad inizio aprile i governi di 10 paesi europei, compresa l’Italia, hanno inviato una lettera alla Commissione europea per chiedere di mettere il green deal al centro dei piani per la ripresa economica, lettera poi firmata da altri sette governi, ma non da quasi tutti quelli dell’Est Europa. Un’altra ragione per insistere su questa linea è quella che i posti di lavoro nel settore delle rinnovabili, secondo un nuovo rapporto dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (Irena) potrebbero quadruplicare (arrivando a 42 milioni) e le emissioni di C02 nella produzione di energia ridursi del 70%, a fronte di una accelerazione degli investimenti nel green che porterebbe una crescita globale di 98 mila miliardi di dollari entro i prossimi 30 anni. Dobbiamo ricordare, afferma infine Meehan Crist, che “gli esseri umani fanno parte della natura e l’attività umana che danneggia l’ambiente danneggia anche noi”. In Cina, dice Marshall Burke del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Stanford, sono bastati due mesi di riduzione dell’inquinamento per salvare le vite di 4 mila bambini sotto i cinque anni e 73 mila adulti sopra i settant’anni.
Forse la vera domanda che dobbiamo porci non è se il virus sia un bene o un male per il clima, ma se possiamo creare un’economia funzionante che sostenga le persone senza minacciare la vita sulla Terra, inclusa la nostra”.

LO CUNTO DE LI CUNTI
Un posto segreto

Rubrica a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini

Continua la rassegna di racconti Lo Cunto de li Cunti che vi accompagnerà per tutta la prossima estate. In questa  ottava puntata: un nuovo autore e una nuova interprete. L’autore del racconto è un nome noto ai lettori di Ferraraitalia: Carlo Tassi è con sicurezza la punta creativa della squadra redazionale. Sue le vignette periodiche del quotidiano firmate Cart e sue molte elaborazioni grafiche per le cover. Carlo Tassi è un grafico, un disegnatore, un “fumettaro”, ma soprattutto è uno scrittore.
L’interpretazione del racconto è invece lasciata ad Alessandra  Arlotti, una brava attrice ferrarese. Buon ascolto, buona visione, buona lettura.
(I Curatori)

Carlo Tassi, Un posto segreto (2018) – letto da Alessandra Arlotti

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UN POSTO SEGRETO

Esiste un posto che non ho mai detto.
Esiste da quando quella volta decisi d’andar dietro a un sogno. Perché erano tante notti che veniva a trovarmi.

Ogni notte, puntuale, sentivo bussare alla finestra della mia cameretta. L’orologio alla parete segnava le tre e trentatré, e lui compariva dal buio oltre il vetro, e mi guardava senza far nulla. Io mi nascondevo sotto coperte e lenzuola e aspettavo che se ne andasse. Ero paralizzato dalla paura, non l’avevo mai visto in faccia ma vedevo la sua ombra, fuori nell’oscurità, e mi terrorizzava.
Poi, una notte, lo sentii singhiozzare. Era un pianto sommesso, discreto. E quando mi decisi a sbirciare da sotto il lenzuolo, quando ne alzai un lembo e provai a guardare verso la finestra, lui non c’era più.

La mattina seguente, mia madre entrò nella cameretta per svegliarmi e intravide qualcosa sul davanzale della finestra. Aprì le imposte e scoprì un piccolo fiore spuntare da una fessura della pietra. Era un gelsomino giallo, nato, non so come, proprio quella notte appena passata.
Quando me lo fece vedere, pensai fosse stato lui a lasciarlo, pensai che era un segno d’amicizia. Forse non era cattivo, forse m’ero sbagliato, e quel fiore era nato dalle sue lacrime.

Giunse un’altra notte e restai sveglio ad aspettarlo, volevo conoscerlo, scusarmi e ringraziarlo.
Mia madre aveva piantato il fiore con tutte le radici in un vaso, ci aveva messo della terra morbida e l’aveva innaffiata. Il vaso col fiore era sul davanzale, e io mi misi alla finestra, sperando che il mio visitatore misterioso tornasse a trovarmi. Aspettai tutta la notte fino al mattino, ma non venne. Feci altrettanto la notte dopo, e quella dopo ancora. Ma non venne mai, non venne più.

Passarono i giorni, e i giorni divennero settimane, così mi decisi: una sera aprii la finestra, presi il vaso – incredibilmente il piccolo fiore era diventato una bella pianta di gelsomini gialli e profumati – e lo posai sul comodino, poi mi coricai a letto e m’addormentai.
Alle tre e trentatré sentii bussare alla finestra. Era lui. Era tornato!
Misi da parte la paura, mi alzai dal letto, andai alla finestra e finalmente lo vidi.
Emerse dall’oscurità, era il mio sogno: un bambino uguale a me, e mi sorrideva.
Poi mi prese la mano e m’invitò a seguirlo.

Abbandonammo la mia cameretta uscendo dalla finestra. Non facemmo alcun rumore, proprio come due creature dell’oscurità. E l’oscurità non era affatto terribile come avevo sempre creduto.
Finimmo sul greto d’un torrente in mezzo al bosco. Attorno a noi c’erano gli abitanti della notte. Tutti quegli esseri che avevo sempre temuto e guardato con sospetto. Erano vicinissimi, illuminati dalla luna piena. E tutti ad accoglierci in pace.
Così falene, pipistrelli, gufi, volpi, grilli, lepri, donnole, gatti, marmotte, ricci, civette, toporagni, lupi e tanti altri esseri ancor più strani e misteriosi apparvero dal nulla e s’affollarono tutt’intorno incuriositi, quasi fossero folletti.
E per la verità – ora lo posso dire con certezza – erano proprio folletti!
Esatto cari miei. I folletti esistono per davvero. Vivono nei sogni dei bambini e degli stessi animali, ne hanno tutto l’aspetto. E oggi, ogni animale è mio amico, così come ogni creatura dei sogni, perché è proprio grazie a loro che tanti anni fa ho vinto la paura del buio.

Tornando a quella notte, quell’unica notte, rimasi a lungo nel bosco in compagnia delle sue fantastiche creature. Tanto a lungo che poi m’addormentai di nuovo.
Più tardi, al mattino, mia madre entrò nella cameretta e mi svegliò. S’era accorta che sul davanzale della finestra mancava la pianta di gelsomino e mi chiese dov’era finita. Io le risposi che non lo sapevo, e lei, poco convinta, la cercò in ogni angolo della stanza senza trovarla. Alla fine si rassegnò e uscì dandomi un’occhiataccia.

In fondo cosa avrei dovuto dirle? Che l’avevo lasciata in un posto segreto, sul letto di un torrente in mezzo al bosco, lontano miglia e miglia da casa?

Carlo Tassi, Un posto segreto, racconto inedito, 2018

Vuoi scaricare il testo? Clicca qui:  Carlo Tassi – Un posto segreto

Guarda le altre videoletture del Cunto de li Cunti [Qui] 

Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
Philosophenweg (parte 2)

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

PHILOSOPHENWEG (PARTE 2)

Sai dove si trova
Quel luogo dove tutto brilla di luce e la birra sembra una spremuta di luna
E la città vecchia un po’ diroccata
Porta in seno il mistero delle affinità elettive
Al philosophenweg
solatio
Trastullo delle weltanschaaungen
E incruento silenzio
Pagine aperte
Meditazioni sul lembo della collina
Heidelberg ancora mi porta
La tua memoria
E quando compari dalla piccola selva
Sei l’anima bella
Del mitico giardino
Tra Epicuro e Orazio
La guerra è sparita
O mondo
O vita

Lettera aperta del Sindacato al Comune di Ferrara

Da: Ufficio Stampa CGIL CISL UIL

Non avendo ormai da tempo, e non per colpa nostra, nessun tipo di confronto con l’Amministrazione comunale di Ferrara abbiamo appreso dalla Stampa che la stessa avrebbe concordato, con tutte le forze economiche, un piano di rilancio dell’economia locale chiamato “Ferrara rinasce”.

E’ evidente anche per il Sindacato che l’effetto del fermo produttivo/commerciale di tantissime delle attività locali a causa dei provvedimenti relativi a Covid-19, produrrà gravi difficoltà alle imprese locali e ai dipendenti che vi lavorano.
Premesso che tutte le misure adottate in sicurezza tese a far ripartire e a dare un impulso al tessuto economico locale nella cosiddetta fase 2, non possono che trovare il sostegno delle OO.SS. Tuttavia se fosse stata data l’opportunità anche a noi di sedere a quel tavolo, avremo posto alcune domande.

1. Visto che le entrate dell’Ente non aumenteranno, anzi verranno meno diversi milioni per parcheggi gratuiti, tassa di soggiorno, canoni di attività chiuse, servizi a domanda individuale (rette, trasporti scolastici, ecc), permessi ZTL, ingressi ai musei, diminuzione di ICI su terreni Agricoli, scontistica sui servizi di igiene ambientale, ecc.: quali saranno i capitoli di spesa che saranno tagliati? E in quale misura? O quali misure verranno attuate per incrementare le entrate?
2. Si stanzieranno 1,5 Milioni di Euro a fondo perduto a favore del Commercio. E perché non al settore degli artigiani? C’è l’intenzione di vincolarli al rispetto della legalità?
3. da quanto si legge, gli aiuti saranno uguali per tutti con due sole unità di misura: realtà completamente inattive e realtà parzialmente inattive. Ciò a prescindere dai guadagni o dai volumi d’affari (e quindi imposte) dichiarati in precedenza? Si terrà conto dell’occupazione prodotta? Vi sarà un incentivo a chi incrementa posti di lavoro?
4. i beneficiari potranno utilizzarli per pagare utenze, costi di affitto, beni necessari. Tali misure non rischiano di sovrapporsi (vedi affitto) alle stesse che sta predisponendo il Governo con il cosiddetto DL “Aprile”?
5. Ai 1,5 Milioni di aiuti al settore si dovrebbero aggiungere, solo per citare le agevolazioni dirette, 2 Milioni di Cosap, 1,9 Milioni di Imposta sulla Pubblicità, per un totale 4,4 milioni?
Tutte queste agevolazioni che significano minori entrate non possono tradursi in un mancato incremento dei servizi per i cittadini.
6. Il comune intende definire misure quantitative altrettanto importanti a rafforzamento del sistema di Welfare che sarà sempre più necessario sostenere a causa della crisi economica? (si possono esplicitare le tante misure)
7. Sono previsti controlli e da parte di chi? E’ prevista la cancellazione dell’agevolazione alle aziende che percepiscono il contributo se le autorità preposte ai diversi controlli dovessero rilevare sanzioni?
8. Quale sarà il contributo di idee e proposte che il comune rappresentato dall’Assessore Travagli, si era impegnato a fornire alla Consulta dell’Economia e del Lavoro? Le promesse fatte ai dipendenti del Mercatone Uno non si sono ancora concretizzate.
9. quali investimenti strutturali si intendono mettere in campo?

C’è bisogno di visione per dare risposte ai tanti giovani studenti pendolari, a quelli in cerca di lavoro, ai dipendenti dei commercianti e non solo ai commercianti, alle migliaia di anziani che vivono con una misera pensione attraverso il rafforzamento del welfare e non con premesse che prefigurano la sua destrutturazione, alle tante mamme e ai tanti papà che vivono di lavoro e che devono avere certezze sugli investimenti al sistema scolastico, ai tanti lavoratori pendolari e non da ultimo a quel mondo del lavoro che viene lasciato nell’illegalità e che rappresenta la piaga per tutta la nostra economia.

Cristiano Zagatti, Bruna Barberis e Massimo Zanirato (CGIL CISL UIL Ferrara)

CONTRO VERSO / FILASTROCCA ABITATA
Cantilene all’incontrario per adulti coraggiosi

Quando Elena mi parlò della sua idea per una rubrica su Ferraraitalia, ci misi un po’ a capire dove volesse andare a parare. Volevo a tutti i costi che la sua penna fosse presente su un giornale che stava diventando, come da programma, sempre più “diverso da tutti gli altri” che si incontrano sulla bancarella della Rete. Ma questa idea balzana delle filastrocche per adulti sarebbe stata capita dai lettori? Elena mi ha raccontato com’è nata la sua quotidiana frequentazione con le filastrocche: lo racconta anche qui nella sua introduzione. Me ne ha lette quattro o cinque, mi ha convinto, del tutto. Le sue filastrocche CONTRO VERSO sono molto ben scritte, molto “graziose”, ma sono anche dei sassi nello stagno della pigrizia e del conformismo degli adulti. A volte, uso le stesse parole della curatrice, sono un “pugno nello stomaco”. E sono anche – per chi come me ama e coltiva il gioco infinito delle parole – dei piccoli “esercizi di stile”.
Che ci vuole a leggere una filastrocca? In questo particolare caso, non basta “avere orecchio”, ci vuole coraggio. Se crescendo, diventando grandi, entrando nella routine della vita adulta, avete conservato un po’ di coraggio, di curiosità, di meraviglia,
CONTRO VERSO è esattamente la rubrica che fa per voi. La troverete puntuale ogni venerdì.
(Effe Emme)

Tutto è iniziato da un senso di nausea. Che forse si può astrarre in rifiuto, incompatibilità, protesta. Per riuscire a conviverci gli ho dato un verso. Potrei spiegare così la nascita di  queste filastrocche che parlano di bambini ma non sono per bambini. Si rivolgono agli adulti e difatti sono incongrue, non si è mai visto che dopo i… 13 anni, toh, qualcuno si fermi a leggere una cantilena. Eppure in quel momento mi sono sembrate la forma più adatta al contenuto che volevo esprimere.

La ragione della mia piccola e personale protesta era duplice: quando si guardano le famiglie dal di dentro, come succede scegliendo certi mestieri (per me, 12 anni nella giustizia minorile), si prende contatto con ciò che tanti bambini vivono e la rabbia viene da sé; se poi, con quella consapevolezza, si assaggia la melassa di cui è imbevuto il discorso pubblico sulla famiglia a ogni ora del nostro palinsesto, la nausea subentra, inevitabile.
Eccomi allora, arruffata di storie, volti, voci di persone ascoltate in udienza, salire sul regionale Bologna-Ferrara e qualche volta – non sempre, non per obbligo, né per calcolo – estrarre il cellulare e ritrovarmi a scrivere, appunto, una filastrocca, nella quale riversare un’emozione, restituire il succo di un incontro, provare a raccontare.
Si dirà: perché non, ad esempio, un racconto o un romanzo. Mi è venuto istintivo, i motivi li ho capiti dopo. In parte è stata una questione di convenienza: nella mezz’ora del viaggio di ritorno potevo iniziare e finire una filastrocca, anche più di una, non qualcosa di più impegnativo, e i ritmi lavorativi di quel periodo erano tali per cui difficilmente avrei potuto lavorare a un testo in continuità, tenere il filo di una trama complessa.

I motivi sono anche altri. Io credo che leggere una filastrocca ci riavvicini automaticamente alla parte bambina che in ognuno di noi è ben presente, più o meno consapevolmente, più o meno impolverata. Forse richiama anche la retorica dell’infanzia. Ammetto perciò di avere usato la leggerezza della rima per provare a sistemare qualche trappola. Il ritmo ci porta a spasso come fanno a volte i bambini, quando corrono saltellando e comunicano a chi li guarda un’allegria, una spensieratezza contagiose. Ma se trottando ci conducono sull’orlo di un dirupo, l’impatto del vuoto può essere forte. Ecco io quell’impatto so di averlo cercato, riuscirci poi è un altro discorso, e quanto più la storia era dura – bambini maltrattati dai genitori fisicamente o sessualmente, figli che dovevano affrontare la morte di un genitore per mano dell’altro, fratelli o sorelle di bambini uccisi dal papà o dalla mamma – tanto più la sofferenza e la rabbia erano intrecciati, profondi, e non potevo digerirli da sola. Che il pugno nello stomaco arrivasse anche ad altri. Non per sadismo, credo – spero – ma per il desiderio di ripulire un po’ di quella melassa.

Vi conforta vivere su una nuvoletta rosa, credete ai bambini sempre sicuri e ben accuditi tra le mura domestiche? Ecco allora venite con me, guardate ciò che è nascosto. Solo se saremo capaci di guardarlo davvero, ognuno e collettivamente, se capiremo che quell’oltraggio è nostro, non è mostruoso ma è umano e ci riguarda, avremo forse il coraggio di intervenire. Di prevenire e di rimediare, di confortare e di proteggere. Di aprire strade nuove per chi vuole osare, a partire dagli adulti.

In alcune storie ho dato voce proprio agli adulti, quasi sempre genitori, qualche volta anche operatori o familiari ma soprattutto padri e madri. Anche loro stavano soffrendo. Un’altra lezione che si impara stando sul bordo è – paradossalmente – non dare giudizi affrettati: i genitori maltrattanti o abusanti non sono mostri e quasi mai traggono gusto dai loro comportamenti. Ho detto “quasi”. I perversi esistono, ne ho incontrati, la loro ferita è più nascosta, ma tutti gli altri e cioè la stragrande maggioranza sono palesemente tormentati, o inconsapevoli, o devastati da mancanze, traumi, dipendenze, trascuratezze e maltrattamenti a loro volta subiti, miserie ben più profonde della povertà. Questi genitori provocano molto dolore, occorre lavorare per un cambiamento, con loro ogni volta che si può e senza di loro quando non si può, ma il rispetto è dovuto anche a loro e non si può liquidarli in fretta.
A volte una sola filastrocca non mi bastava a raccontare una storia familiare perché ogni protagonista aveva una sua verità da esprimere e così le filastrocche uscivano a grappolo, una ciascuno, di modo che ogni soggetto avesse il proprio spazio. Nel tempo mi è anche successo di distaccarmi dalle udienze e di prendere spunto da fatti di cronaca molto noti relativi, sempre, all’infanzia. Tutte insieme sono diventate centinaia, un piccolo diario privato e pubblico che incomincia nell’autunno del 2014 e continua anche ora.

Ha meno importanza ma c’è anche questo: il piacere di compiere scelte espressive entro limiti che mi sono imposti e sfuggono al mio controllo. La filastrocca, per funzionare, deve obbedire al ritmo e alla rima, e scrivendo si fa esperienza di come le regole diventano motore creativo. Ad esempio, in italiano “guerra” suona bene con “terra”, tante canzoni e filastrocche italiane sfruttano questa rima che in un’altra lingua non c’è – war e hearth in inglese, krig e jord in danese… – quindi quell’accostamento di significati non viene neppure in mente. Chi scrive filastrocche sulla guerra nel Regno Unito o in Danimarca genera immagini diverse obbedendo al suo linguaggio. E sul fatto che seguire le regole possa tramutarsi in esperienza creativa, credo che la quarantena lo abbia suggerito a molti di noi.

Filastrocca abitata

Io colleziono i nomi
le facce, le fratture
so di maledizioni
conosco sfumature.

Gianfranco adolescente
Ilenia neonata
vi trovo nella mente.
Mi sento abitata.

Se mi fai un forellino
nella pancia o sul volto
appare un angolino
delle vite che ascolto.

Sfilano questa sera
e tutte non riesco
a ricordarvi, ma ora
siete un prezioso affresco.

Non è una presunzione
mi ritrovo agganciata
come una congiunzione
tra incontri di passata.

Non sembri vanagloria
l’ascolto è una carezza.
Custodire la storia
è l’unica certezza.

Cover: Immagine di Giulia Boari

Al cantón fraréś
Bruno Pasini: La név ad Magg

Bruno Pasini: poeta in dialetto ferrarese fra i più importanti e rappresentativi.
La sua poetica spazia dai temi dell’amore, alla drammaticità esistenziale, alla morte. L’autore sa esprimere con intense suggestioni i colori, le voci, gli odori del paesaggio rurale e del Delta. Coglie con sensualità, nelle immagini delle stagioni, nostalgie, personaggi, emozioni.
In questa poesia evoca, complici i piumini di maggio, un corteggiamento antico e il sorriso della primavera.
(Ciarìn)

La név ad Magg
                                                  Ad Alfonso Ferraguti

I vién col vént ad Magg, butà dai piòpp, [1]
dai sàlas di curtìl dla mié zzità,
che i pianz su i mur,
a rént a il pòrt e ai scur,
com candliér d’un vérd sémpr’ impizzà.
Jè i biànch plumìn dl’amór, jè il mill parpàj
che i vént purtànd i ssnùma, sula scorta
di amrùs d’na volta, quand ai dì di Mai
i lassava i bèj fiur da porta in porta. [2]
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
D’in zzima d’un balcon, su ‘na ringhiéra,
la pògia i sò bèj pum ‘na bèla mòra…
l’am guarda e l’am surìd… l’è primavera!

La neve di maggio
Vengono col vento di maggio, rilasciati dai pioppi, / dai salici dei cortili della mia città, / che piangono sui muri, / aderenti alle porte e agli scuri, / come candelieri di un verde sempre acceso. / Sono i bianchi piumini dell’amore, sono le mille farfalle / che i venti muovono come una carezza, come / i morosi d’un tempo, quando nei giorni di maggio / lasciavano bei fiori di porta in porta, /

Sopra ad un balcone, su una ringhiera, / appoggia i suoi bei pomi una bella mora… / mi guarda e mi sorride… è primavera!

[1] Sono i “pappi” dei fiori, specie di batuffoli cotonosi, caratteristici principalmente dei pioppi e che servono per facilitare la dispersione dei semi ad opera del vento (disseminazione anemofila).
[2] In certe zone della campagna ferrarese, alcuni vecchi, in riferimento a questo singolare e caratteristico messaggio d’amore, ricordano e citano ancora un noto e popolare aforisma: “Molti vòlt, int al dì dl’Assénsa, as porta al Mai a chi an al pénsa” (Molte volte, nel giorno dell’Ascensione, si porta il Maggio a chi non lo pensa).

Tratto da: Bruno Pasini, Tra i zunch e il cann. Poesie dialettali ferraresi, FerraraSATE, 1967.
In copertina: Nemesio Orsatti, Palude, acquaforte.

Bruno Pasini (Massafiscaglia 1916 – Ferrara 1999)
Laureato in Scienze Agrarie, direttore dell’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura di Ferrara. Autore di scritti di carattere tecnico-agrario e saggi sul rapporto fra lingua e dialetto. Ha pubblicato le sillogi poetiche Tra i zunch e il cann (1967) e Lamént par Nani (1980) che assieme a Fiùr salvàdagh sono confluite nella raccolta Vós dla mié tèra (1983). Stampate postume ne Il canto del cigno (2001) le poesie inedite.

Al cantóη fraréś , l’appuntamento settimanale con il dialetto e i suoi autori, torna ogni venerdì. Guarda le puntate precedenti [Qui] 

UN GRUPPO DI FERRARESI: SIAMO PREOCCUPATI
“Sindaco e Vicesindaco non rispettano le sentenze e la Costituzione”

Brucia al  Sindaco Alan Fabbri la sentenza del Tribunale di Ferrara sui buoni spesa.
Il  Tribunale, infatti, qualche giorno fa aveva bocciato la delibera approvata dal Comune di Ferrara  in “condotta discriminatoria”, ordinando all’amministrazione stessa di riformulare i criteri dell’atto. La decisione era arrivata dopo che ASGI (Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione) e i sindacati avevano presentato ricorso contro l’atto della Giunta guidata da Alan Fabbri. Il principio adottato dal Tribunale era stato che “l’assistenza e la solidarietà sociale devono essere riconosciute non solo al cittadino, ma anche allo straniero”. Il Giudice Mauro Martinelli nella sua ordinanza aveva rilevato che i criteri contenuti nella delibera della Giunta ferrarese sono discriminatori perché “contengono, per gli stranieri extra UE, il requisito del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo, anziché i soli requisiti relativi alla condizione di disagio economico e alla domiciliazione nel territorio comunale”.
A fronte di questa ordinanza, cosa fa il sindaco Alan Fabbri? Oltre a dare mandato ai suoi uffici legali per presentare reclamo, attacca i sindacati.  

Nel giro di pochi giorni, il Vicesindaco Nicola Lodi e il Sindaco Alan Fabbri si sono scagliati in modo scomposto  contro i rappresentanti di alcuni importanti poteri dello Stato: il Prefetto e il Tribunale. Ha dichiarato il Sindaco Fabbri: “Non prendo lezioni di politica dai sindacalisti”. Forse entrambi dovrebbero prendere lezioni di Diritto Costituzionale per imparare come funziona uno Stato di diritto e conoscere cosa prescrive la Costituzione che così recita all’art. 2:   “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…”.
E tra questi diritti, come è scritto nella sentenza del Tribunale, c’è prima di tutto il diritto all’alimentazione. Inoltre, è volgare e rozzo l’attacco  personale che il Sindaco porta al segretario della Cgil Zagatti al quale esprimiamo la nostra solidarietà.
In queste giornate le due anime della Lega ferrarese, rappresentate da Lodi e da Fabbri, hanno ritrovato l’unità. Ed è unità su alcuni fondamentali che caratterizzano la Lega fin dalle sue origini: arroganza,  disprezzo per i valori fondanti della nostra Costituzione, ovvero solidarietà e giustizia sociale.
Siamo preoccupati e proponiamo alla attenzione critica della cittadinanza uno stile di governo che in diversi ambiti si sta muovendo con spirito di divisione, discriminazione, non riconoscimento del pluralismo che caratterizza la vita associativa, politica, culturale e istituzionale della città.
P.S.
Molti lettori hanno chiesto come aderire all’appello. Per farlo, scrivere direttamente a: fiorenzobaratelli28@gmail.com

    Seguono 328 firme:

  1. Aguiari Francesco
  2. Ajmone Alberto
  3. Albano Laura
  4. Alberghini Marianna
  5. Alessandrini Nicola
  6. Alvisi Angela
  7. Andreatti Giuliana
  8. Angelini Gianni
  9. Antonelli Massimo
  10. Ardizzoni Luigi
  11. Arnoffi Sandro
  12. Atik Adam
  13. Atti Raffaele
  14. Aurora Margherita
  15. Babetto Mary
  16. Balestra Adriana
  17. Baraldi  Lorenzo
  18. Baratelli Chiara
  19. Baratelli Fiorenzo
  20. Barattoni Andrea
  21. Barattoni Massimiliano
  22. Baroni Adele
  23. Baroni Egidio
  24. Baroni Giorgio
  25. Bassi Paolo
  26. Battara Andrea
  27. Beccati Carlo Alberto
  28. Belcastro Salvatore
  29. Benazzi Nadia
  30. Benini Annalisa
  31. Benfenati Gloria
  32. Benvenuti Chiara
  33. Benvenuti Marilena
  34. Bernardini Franca
  35. Bersanetti Fabio
  36. Bersanetti Renata
  37. Bertacchini Olga
  38. Bertasi Elisa
  39. Bertocchi Gabriella
  40. Bertoni Laura
  41. Bianchi Pietro
  42. Bigoni Giuseppe
  43. Biolcati Rinaldi Andrea
  44. Bittolo Piero
  45. Boarini Milvia
  46. Bolognesi Dino
  47. Bonazza Daniela
  48. Bonazza Dino
  49. Bondi Loredana
  50. Bonfa’ Livia
  51. Bonini Paola
  52. Bonora Emanuela
  53. Bonora Fabrizio
  54. Bordini Maria
  55. Borghi Andrea
  56. Bottoni Daniele
  57. Bregola Irene
  58. Bruni Maurizio
  59. Bulgarello Nausicaa
  60. Buratti Narcella
  61. Buono De Andrade Rosangela
  62. Buzzoni Massimo
  63. Cagnoni Guido
  64. Calabrese Maria
  65. Caleffi Simonetta
  66. Callegari Vincenzo
  67. Cambioli David
  68. Campilli Alberto
  69. Cappagli Daniela
  70. Capra Lucetta
  71. Capucci Roberta
  72. Carantoni Cinzia
  73. Cardinali Sandro
  74. Cariani Daniela
  75. Casarini Roberto
  76. Castelli Lucia
  77. Cassoli Roberto
  78. Cattani  Luigi
  79. Cavallari Patrizia
  80. Caveduri  Gabriele
  81. Cavicchi Emanuela
  82. Cazzola Franco
  83. Cavallini Nicola
  84. Cecchi Luciano
  85. Celati Barbara
  86. Celeghini Gino
  87. Chendi Arianna
  88. Chiappini Alessandra
  89. Chiari Alessandro
  90. Chinelli Agnese
  91. Cia Caterina
  92. Civolani Daniele
  93. Cocchi Luigi
  94. Cocchi Paola
  95. Coghi Marco
  96. Cori Maria Grazia
  97. Cossutta Gianna
  98. Costantini Irma
  99. Crepaldi Gianpaolo
  100. Cristofori Roberta
  101. Cuoghi Tito
  102. D’Antonio Umberto
  103. Dalla Muta Graziano
  104. Dallaporta Stefano
  105. Dal Passo Sabrina
  106. Damigiano Carmelo
  107. De Iure Jorge
  108. De Marchi Mauro
  109. De Palo  Roberto
  110. Diolaiti Barbara
  111. Ducati Rosanna
  112. Dugoni Gabriella
  113. Eliot Robert
  114. Gallesini Isabella
  115. Galletti Ivan
  116. Gallinelli Franco
  117. Gallini Giuliano
  118. Gamberoni Valeria
  119. Gambetti Michele
  120. Gambi Silvano
  121. Gasparini Marco
  122. Gavioli Odilia
  123. Gennaro Cristina
  124. Gessi Sergio
  125. Ghetti Ivan
  126. Gianisella Gianna
  127. Giberti Stefano
  128. Giorgi Dario
  129. Giovannoni Beatrice
  130. Giuriola Luciano
  131. Golinelli Anna
  132. Golinelli Piergiorgio
  133. Golinelli Sergio
  134. Gozzolino Marco
  135. Grandi Enrico
  136. Grassi Leonardo
  137. Grossi Alessandro
  138. Gualandi Cristina.
  139. Gull Carola
  140. Guidarelli Guido
  141. Guidetti Ivano
  142. Guidi Simonetta
  143. Guietti Giuliano
  144. Guizzardi Sandro
  145. Guzzinati Alberto
  146. Fabbri Naty
  147. Fabbri Natasha
  148. Fabbri Stefania
  149. Faccini Anna
  150. Faggioli Lucia
  151. Fantoni Manuela
  152. Fatoum Malek
  153. Farina Carla
  154. Farina Luciano
  155. Farina Paola
  156. Ferranti Eleonora
  157. Ferrigato Cristina
  158. Ferioli Maurizio
  159. Ferruzzi Annalisa
  160. Farone Anna
  161. Felloni Daniela
  162. Ferranti Davide
  163. Ferraresi Daniele
  164. Finotti Luca
  165. Fioranelli Cinzia
  166. Fiorentini Leonardo
  167. Folletti Marcello
  168. Franchi Maura
  169. Frigerio Friz
  170. Fusari Roberta
  171. Haardt Spaeth Lisei
  172. Lavezzi Francesco
  173. Leonardi Gioacchino
  174. Levorato Chiara
  175. Lhomy Nora Raquel
  176. Libanori Daniela
  177. Lodi Daniele
  178. Lodi Giancarlo
  179. Lodi Giuliano
  180. Lugli Daniele
  181. Lugli Brunella
  182. Macinenti Roberto
  183. Malago’ Silvia
  184. Malservisi Silvia
  185. Mambriani Paola
  186. Mandini Stefania
  187. Manfredini Mauro
  188. Manfredini Monica
  189. Mangolini Fabio
  190. Mangolini Mara
  191. Mangolini Norberto
  192. Mantovani Aurora
  193. Mantovani Carla
  194. Mantovani Valerio
  195. Manzoli Silvia
  196. Maran Felice
  197. Marini Lara
  198. Marino Beniamino
  199. Martini Stefano
  200. Marzola Luca
  201. Marzola Roberto
  202. Marzola Sara
  203. Marchi Marzia
  204. Marchiano’ Giovanna
  205. Marmocchi Gloria
  206. Mascellani Mario
  207. Mazzini Sergio
  208. Menarini Loris
  209. Mazzetti Corinna
  210. Melloni Leonardo
  211. Melloni Francesca
  212. Merli Irene
  213. Messina Stella
  214. Mezzogori Andrea
  215. Micheli Mirco
  216. Milani Valeria
  217. Mirella Nicoletta
  218. Modeni Maurizia
  219. Mohammad Shahzeb
  220. Mondini Maria Grazia
  221. Morelli Roberta
  222. Mosca Gil
  223. Muntoni Alessandra
  224. Nannini Fabrizio
  225. Nannini Fiorenza
  226. Nascosi Laura
  227. Novelli Bruna
  228. Occhi Marcello
  229. Oddi Corrado
  230. Paganini Samuel
  231. Pagnoni Cinzia
  232. Pallara Lorenzo
  233. Pallara Loreta
  234. Pallara Paolo
  235. Paolucci Vittorio
  236. Parenti Maria Rosa
  237. Pareschi Sandra
  238. Patrizi Renata
  239. Pavani Anna
  240. Pavanelli Lina
  241. Peca  Maria Debora
  242. Pedroni Marino
  243. Perelli Elvio
  244. Perin Gino
  245. Peverati Carolina
  246. Peverin Paola
  247. Piccolo Maddalena
  248. Pietrogrande Margherita
  249. Piola Graziella
  250. Pirani Bruni Fiorella
  251. Pirazzini Paolo
  252. Pocaterra Claudia
  253. Pollina Alessandra
  254. Ponti Susanna
  255. Poser Michela
  256. Poverin Paola
  257. Prati Maura
  258. Presini Mauro
  259. Prevali Renzo
  260. Previati Giovanna
  261. Pusinanti Cinzia
  262. Ranzani Andrea
  263. Ravani Anna
  264. Ravani Maurizio
  265. Renga  Simonetta
  266. Ricitiello Sonia
  267. Righetti Giuseppina
  268. Rizzati Roberta
  269. Rodia Giuseppe
  270. Romagnoli Maria Chiara
  271. Rossi Francesco
  272. Rotola Carmela
  273. Roversi Milva
  274. Sacchi Luciano
  275. Salmi Fabrizio
  276. Santimone Alfonso
  277. Saponaro Irene
  278. Satta Grazia
  279. Scalabrino Sasso Giorgio
  280. Scardovelli Rita
  281. Scarpa Grazia Carla
  282. Scavo Savina
  283. Schiavi Daniela
  284. Schiavina Claretta
  285. Sitta Valeria
  286. Sivieri Annamaria
  287. Somma Alessandro
  288. Sorrentino Ugo
  289. Spisani Claudia
  290. Squarzoni Maria Cristina
  291. Stabellini Gianna
  292. Stancari Francesco
  293. Stefani Franco
  294. Stefani Piero
  295. Stefanini Milena
  296. Strozzi Veleda
  297. Tagliati Oreliano
  298. Tassinati Cardin Marisa
  299. Tassinari Chiara
  300. Tassinati Emanuele
  301. Tinarelli  Alberto
  302. Tortora Luca
  303. Trondoli Adriana
  304. Tunioli Tiziana
  305. Turati Rita
  306. Turchi Marco
  307. Valenti Graziana
  308. Varjas Andrea
  309. Vecchiattini Morena
  310. Vecchio Silvana
  311. Ventimiglia Lorenza
  312. Venturi Ivana
  313. Verri Roberta
  314. Vinci Francesco
  315. Vita Finzi Rita
  316. Venturi Gianni
  317. Valente Alfredo
  318. Vincenzi Franco
  319. Vinci Antonio
  320. Vona Vincenzo
  321. Ursino Gabriella
  322. Zaccaria Nino
  323. Zamorani Mario
  324. Zanardi Paola
  325. Zanetti Loredana
  326. Zanirato Massimo
  327. Zanotti Claudia
  328. Zucchini Maurizio

Vite di carta /
Io Khaled vendo uomini e sono innocente

Vite di carta. Io Khaled vendo uomini e sono innocente

Io Khaled vendo uomini e sono innocente è un libro duro. Oggi l’ho scelto per questa rubrica, perché può essere benissimo un libro d’occasione, nel senso che ben si attaglia al quadro confuso e tragico in cui stiamo vivendo. E’ un libro che parla della situazione attuale in Libia, di scafisti e di barconi carichi di ‘negri’, che partono verso l’Europa.

Quando lo scorso settembre Francesca Mannocchi, l’autrice, ne ha parlato a Mantova in un evento molto partecipato del Festivaletteratura e mi ha colpito questa sua frase: “Dobbiamo alzarci al mattino e pensare ad affrontare la complessità, dobbiamo fare ginnastica mentale per essere in grado ogni giorno di affrontarla”.

Lei e l’altro giovane giornalista Lorenzo Tondo stavano completando il proprio intervento su due situazioni piuttosto calde in terra d’Africa e su aspetti poco conosciuti del fenomeno migratorio; a quel punto Mannocchi ha ribadito quali risposte ha tratto dalle sue inchieste.

Sono risposte soprattutto sul metodo che deve supportare un buon giornalismo. Non semplificare, avvicinare la complessa situazione della zona in cui si sta lavorando con occhi aperti su diversi punti di vista. Nutrire dubbi, fermarsi a riflettere sui nodi irrisolti. Non semplificare ciò che semplice non è. Succede anche troppo in giro per i media.

In effetti, quando ho letto il libro su Kahled il trafficante, per lavorarci con una mia classe e quando ne ho discusso con i ragazzi in due recenti lezioni on line, ho trovato davvero impegnativa la recente storia della Libia. Khaled, che narra la propria parabola di rivoluzionario per abbattere Gheddafi prima e di trafficante poi, gira lo sguardo intorno a sé e mette a fuoco i diversi soggetti che brulicano nella Libia del dopo Gheddafi.

Tutti alla accanita ricerca di pane e denaro. Di armi. Di potere. Molti con l’atteggiamento del camaleonte, che cambia vestito a ogni nuova stagione della Storia. Difficile dire chi ora governi davvero il popolo libico: il governo di accordo nazionale guidato da Serraj e riconosciuto dall’ONU, o l’esercito nazionale di Haftar, oppure le milizie tribali, che provengono dalla coalizione dei ribelli a Gheddafi e che continuano a scontrarsi duramente.

Ancora più difficile tracciare il discrimine tra bene e male. Come ha osservato Giorgia, “In Libia a definire l’innocenza non è un principio etico”. Ha ben compreso ciò che Mannocchi ha detto a lei e ai suoi compagni, incontrandoli lo scorso dicembre al teatro San Benedetto; dagli appunti che mi ha passato Giulia leggo infatti: “Chi è un adulto occidentale cataloga il bene e il male, ma in questo caso ci sono molteplici scale di grigio”. Difficile orientarsi e decodificarle.

In un quadro come questo, è colpevole Khaled, il trafficante di migranti? Lui si definisce innocente: un figlio della Libia, che sta pagando a caro prezzo la presa d’atto del fallimento dei rivoluzionari come lui. Organizza barconi carichi di negri per l’Europa, ma si ritiene un figlio del deserto più che del mare. Rievoca l’educazione avuta dal nonno, mentre prova disprezzo per il padre a causa dei i suoi rapporti con il regime. E il nonno lo ha messo in guardia sulla voracità del mare, che vuole le sue vittime.

Sono tanti i morti in mare, i caduti dai barconi dopo mesi di attesa in terra libica, chiusi in vere e proprie carceri tra stenti e torture. Khaled organizza la loro partenza e intasca i loro soldi; pensa che smetterà, quando avrà messo da parte il denaro per comprarsi una casa a Istanbul. Non è tra i più spietati, anche se ha dovuto imparare a non sentire più niente verso i migranti che partono, verso le loro storie disperate. È deluso dalla corruzione che c’è nel suo paese, dal dopo-rivoluzione gattopardesco, che ha eliminato di scena Gheddafi, ma non la sete di potere dei diversi soggetti che si contendono il controllo sul paese.

In definitiva, come possiamo noi lettori rapportarci a Khaled? Margherita e Zoe hanno scritto che il lettore con la sua “comoda coscienza” fatica a prendere il largo dalla sua minuscola vita e a stabilire se Khaled sia il carnefice o la vittima. Simone d’altra parte ha concluso la lettura del libro, provando un brivido e finisce il suo intenso commento dicendo: “Solo alla fine del libro si può capire davvero chi è Khaled: uno scafista sì, ma prima di tutto un uomo!”

Questi ragazzi del quarto anno di liceo hanno diciotto anni. Hanno sentito pronunciare da noi insegnanti chissà quante volte la parola ‘complesso: “è un problema complesso”,” la complessità del quadro culturale” e cento altre espressioni simili. Bene, ora sono immersi dentro una fase complessa della loro s(S)toria.

La lettura di Io Khaled vendo uomini e sono innocente è nata come una iniziativa della scuola rivolta al libro che ha vinto l’ultima edizione del Premio Estense. I ragazzi hanno messo in campo la loro sensibilità e, perché non dirlo, la fatica di leggere un libro come questo. Hanno ascoltato me che avevo già incontrato l’autrice, hanno incontrato lei e l’hanno ascoltata parlare della Libia ed anche della sua professione di reporter.

Voglio credere che in un’attività di questo tipo abbiano fatto ‘ginnastica mentale’ e si siano allenati almeno un po’ ad affrontare la ‘complessità’ nel metodo prima che nel merito, come ha indicato Francesca Mannocchi, ponendo e ponendosi domande. Da un libro alla realtà che hanno intorno non è cosa facile. D’altra parte la competenza ad affrontare nuovi problemi passa anche dalla conoscenza di quadri vicini e lontani da noi, dalla lettura, specie se condivisa e messa come oggetto di discussione. La competenza passa dalla scuola, dai libri.

Non posso dimenticare quello che, sempre a Mantova lo scorso settembre, ha detto Michela Murgia durante la presentazione del libro-capolavoro di Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti. Un libro che restituisce la migrazione dei bambini dell’America centrale verso gli States col respiro grande dell’epica, l’epica di questo nostro tempo. Un libro che per temi e struttura e profondità dello sguardo io giudico un capolavoro.

Michela Murgia ha fatto emergere dalla conversazione con l’autrice il valore di un racconto, che rende giustizia a una realtà poco studiata, non raggiunta da certo giornalismo frettoloso e semplificatorio, dai servizi televisivi che mostrano una carrellata di migranti ‘a volo di uccello’; poi ha fatto un pausa, ha fissato il pubblico e ha detto: “Fidatevi della letteratura”.

Consigli di lettura:

  • Francesca Mannocchi, Io Khaled vendo uomini e sono innocente, Einaudi Stile Libero EXTRA, 2019
  • Lorenzo Tondo, Il Generale, La nave di Teseo, 2018
  • Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti, La Nuova Frontiera, 2019

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Tre maschi ai tempi del…

L’isolamento affettivo e il vagheggiamento a distanza. I lettori uomini raccontano come vivono il loro distanziamento asociale.

Il benzinaio

Cara Riccarda, caro Nickname,
il mio isolamento affettivo lo vivo in contatto omeopatico via etere, immagazzinando combustibile per le prossime fiammate.
Marco

Il cameriere

Cara Riccarda, caro Nickname,
io apparecchio quasi tutte le sere davanti a uno schermo.
F.

Il pavido

Cara Riccarda, caro Nickname,
l’ho conosciuta prima che i confini venissero chiusi, siamo stati insieme una volta sola e poi, solo il video ci ha uniti fino a oggi. E continueremo così perché abitiamo in regioni diverse. Ma io mi chiedo, come sarà un rapporto in presenza ora che mi sto abituando a guardarla soltanto da lontano? A volte una punta di paura mi prende perché la conosco più a distanza che da vicino.
G.

Cari uomini,
ma soprattutto amico G., che ammetti di temere quello che in molti preferiscono, cioè la mediazione piuttosto che il contatto. L’appiattimento sull’unica forma di interazione che in questi mesi ci è stata possibile (lo schermo), è vero che può innescare anche il dubbio di come sarà poi tornare a vivere in mezzo agli altri. Ci dovremo riabituare e cambiare ritmo soprattutto perché contatto è diventato sinonimo di contagio e credo che la prudenza la praticheremo ancora per molto e in modo istintivo. Quando la rivedrai, ti dominerà, senza che tu te ne accorga, la memoria olfattiva, quel profumo di lei che sicuramente non hai dimenticato.
Riccarda

Da Nickname
@ Marco,
molti apprezzano l’omeopatia, nonostante lo scetticismo della scienza ufficiale. Piuttosto, attento a che non esploda il serbatoio del combustibile.

@ F.,
nel senso che dietro lo schermo c’è qualcuno, o nel senso che il tuo partner è uno schermo?

@ G.,
spero tu abbia avuto il tempo di innamorarti del suo odore. Altrimenti il ritorno alla carne potrebbe essere spiazzante. Male che vada, ritorna in quarantena e goditela da lontano.

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

SE VI CAPITA DI PARLARE CON IL FRIGORIFERO…
Shock, terapia d’urto e lo scippo della conoscenza

La conoscenza negata. Ne scrive anche Roberto Saviano su L’ Espresso della settimana scorsa: “Il trattamento riservato alla scuola è una metafora del trattamento riservato alla conoscenza: semplicemente non è una priorità”. Ci troviamo di fronte a un grande enigma cognitivo: l’incapacità di valutare la portata del pericolo imprevisto che insidia le nostre vite, perché al sequestro delle nostre esistenze non corrispondono gli strumenti per conoscere e comprendere senza essere vittime dell’infodemia a cui concorre anche il governo.
Questa è la prima grave lesione che ha subito il tessuto democratico della nostra convivenza. Non essere padroni di noi stessi perché ci vengono sottratte le fonti della conoscenza, le chiavi di lettura riservate alla scienza e ai manipolatori della comunicazione, lo schermo della trasparenza è infranto, per trattarci come bambini incapaci di essere responsabili e da gestire solo con i divieti e i castighi, non fare questo non fare quest’altro, un popolo infantile, che va preso per mano da un governo padre padrone.

Non credo che ci sia un pericolo tanto grande da giustificare a lungo tutto questo. Di fronte alle minacce ci si attrezza, innanzitutto fornendo a tutti le conoscenze, non quelle per fini strumentali, ma quelle reali, perché ciascuno sia dotato dei mezzi per riconoscerle, per difendersi e assumersi le proprie responsabilità. Passato l’impatto del primo assalto, si dispone l’ambiente per riprendere la vita, non si chiudono le persone nei loro recinti, con un’ibernazione delle vite in attesa di una rinascita.
Stare in casa senza governare il sapere induce a scivolare in uno stato di shock, porta a vivere soli con la propria condizione di confusione e turbamento, esposti e vulnerabili di fronte all’autorità e alle sue parole. Neppure il terrorismo islamico, che il coronavirus pare aver sconfitto, visto che è scomparso dall’orizzonte e dall’informazione, ha indotto tale terrore.

L’attacco alla Costituzione non sta nelle modalità scelte dal governo per assumere decisioni e provvedimenti, ma abita nel disorientamento prodotto sulla popolazione, nell’aver confuso i poli e le direzioni.
Ascoltiamo la scienza ma poi decide il consiglio dei ministri. Nessuno di noi possiede il controllo sul linguaggio della scienza e neppure sulle ragioni della politica, che determinano l’azione del governo. Così si manovra la popolazione usando gli strumenti già collaudati dello shock e della paura, anziché fornire ad ogni cittadino le armi per essere in grado di condurre la propria battaglia.
Fino a ieri il brand della politica era il razzismo e la paura dell’altro, ora l’altro sfila nelle bare trasportate dai carri dell’esercito, per scomparire nelle ceneri della cremazione, innalzando di fronte agli occhi dell’opinione pubblica la trincea dell’orrore, per chiuderci nelle nostre case con la ‘terapia d’urto’, con la sindrome della apocalisse farcita dalle invocazioni papali, che dall’inizio della pandemia ci vengono quotidianamente somministrate dalla televisione di stato. Che siamo ad un’era dell’umanità che necessita ancora di queste liturgie è spaventoso, offensivo, pericoloso.
Se questo è il brand della classe politica che ci governa, significa che essa non è all’altezza e che noi siamo alla disperazione. Dai non luoghi di Marc Augè, siamo giunti ai non luoghi dell’epidemia: gli ospedali, le scuole a distanza, le nostre case, le nostre città e paesi.

La conoscenza, che spinge a sapere e ad agire, è stata beffata dal dogma della paura e dell’obbedienza. Invece di apprendere a difenderci dal virus si è preferito innalzare la religione del virus, il demone che si appropria delle vite, il demone a cui immolare i corpi, il demone a cui pagare il tributo di sangue. Si attendono i responsi di Pizia sugli umori del demone e si invita il popolo a celebrare i sacrifici.
Senza conoscere è difficile riprendere in mano la propria vita, che ora è in ostaggio dei dati e dei grafici che ogni giorno ci vengono propinati senza che ci sia concesso di comprendere come gli stregoni li abbiano confezionati. E l’assoluta mancanza di conoscenze, di controllo, di garanzie, l’assenza di trasparenza sono gravi non solo ora, ma lo saranno tanto più dopo, quando dovremo affrontare le conseguenze violente di questo shock e certamente non potremo farlo ancora tenuti per mano da un governo padre padrone che ci impone come doverci comportare.

Intanto, chiusi nelle nostre solitudini, non siamo più quelli di prima, imbrigliati nella tela di ragno del web, spinti dalla ricerca della conoscenza e dalla voglia di incontrare altre intelligenze per porre un argine al nostro disorientamento. Ciò che prima dello shock ci pareva da combattere, come l’eccessiva esposizione dei nostri ragazzi allo schermo del computer, con i pericoli del cyberbullismo, ora, con la scuola a distanza, non allarma più.
Il web, i social e i nostri device digitali ci hanno catturati, con il rischio di una metamorfosi sociale, di una nuova antropologia, di un villaggio di rinchiusi nei propri mondi virtuali, forse più facile da controllare e governare. Potrebbe allora essere che diventi buono il comunicato dell’Ordine degli psichiatri: “Se parlate ai muri o al frigorifero, non preoccupatevi, contattateci solo se vi rispondono”.

LA FOTO DEL ‘POLIFEMO’ DI BALAMOS TEATRO
sulla Cover di National Geographic Italia, Maggio 2020

Da: Ufficio Stampa Balamòs Teatro – Ferrara

La copertina della rivista National Geographic del mese di Maggio 2020, ha una foto tratta dallo spettacolo “voci e suoni da un’avventura leggendaria”, diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e responsabile dei laboratori teatrali al Centro Teatro Universitario di Ferrara, con gli allievi delle prime classi medie della scuola “T.Tasso” di Ferrara, la partecipazione della musicista Martina Monti, che è stato presentato alla Camera Anecoica dell’Università di Ferrara il 6 Maggio 2019.

Lo spettacolo era la conclusione del progetto teatrale “Sguardi Diversi”, promosso dal Comune di Ferrara, in collaborazione con l’Università di Ferrara, Centro Teatro Universitario dell’Ateneo e la
Fondazione Teatro Comunale di Ferrara.

Siamo molto soddisfatti per questo risultato, frutto di un lavoro di ricerca teatrale pluriennale e perseverante con le giovani generazioni che si svolge in più direzioni (scuola, teatro, università, carcere), e che mette in campo e in sinergia attraverso un lavoro di rete, il Comune di Ferrara, l’Università, la Scuola, gli Istituti Penitenziari di Venezia e la nostra Associazione.

BUONGIORNO PROF, LE SCRIVO PERCHE’…

Alice:
Buongiorno prof,
le scrivo perché so di essere ascoltata e perché probabilmente nessuno meglio di lei in questo momento può capirmi. L’attesa è molto peggio dell’azione. Noi ragazzi continuiamo a brancolare nel buio, non sappiamo di che morte dobbiamo morire; continuiamo ad aspettare risposte da febbraio. Mi mancano le aule, gli atri, i corridoi. I miei ritardi brevi, che stavo ormai collezionando attentamente dalla prima. Mi mancano i cambi d’ora, le ore buche, ma anche l’ansia di un’interrogazione a tappeto. Mi manca pensare “quanto mi mancherà tutto questo”.
Non avrei mai pensato mi mancasse così tanto il liceo ancora prima di finirlo, forse mi manca proprio, perché mi è stato portato via prima del previsto. Eppure, sembra che cinque anni non siano abbastanza per darci una valutazione completa: il sistema esige un esame conclusivo.
Ho chiesto a molti miei amici che cosa ne pensassero della didattica online e i risultati sono tutti pressoché simili: i maturandi dicono no, gli universitari dicono sì. La risposta che mi sono data, considerando il risultato, è stata molto semplice in realtà. L’ambiente universitario ha un modus operandi completamente diverso dalla scuola superiore, l’autonomia è un’esigenza, mentre alla scuola superiore è semplicemente una qualità aggiuntiva. Su alcuni social, sono state aperte pagine che rifiutano la maturità 2020 e con le quali, personalmente mi trovo in completo accordo. Non per l’esame in quanto tale, ma per quello che sta diventando. Un unico orale ridotto a brandelli e che è solo la parodia dell’esame di stato, eppure non sia mai, non ci si può rinunciare.
Spero che la scuola, una volta per tutte glorifichi quello che siamo e che siamo stati da cinque anni a questa parte e che, se proprio dobbiamo farlo, abbia più importanza del nostro orale claudicante.
Non so più in cosa sperare, scusi il disturbo, le auguro una buona giornata, a domani.

Roberta:
Cara Alice,

sei stata ascoltata. Dal Miur arrivano ormai quotidianamente ordinanze, voci, sussurri e grida. Direi che è più di una voce il meccanismo del voto, che sarà in centesimi, ma con i pesi capovolti: peso del curricolo nel triennio fino a 60 punti e peso del colloquio d’esame fino a 40. Rischiate poco. Una sorta di garantismo più o meno palpabile farà sì che usciate poco segnati dalla esperienza dell’esame. Ti manca, però, l’ambiente della scuola. Senti la mancanza dei piccoli riti di ogni giorno, sia i tuoi (ahimè, i piccoli ritardi), sia quelli collettivi e piuttosto antichi che chiami ‘interrogazione a tappeto’ (dove l’idea di ‘strage’ regna sovrana). Se interpreto bene la parte in cui dici che ti manca il liceo perché ti è stato portato via prima del previsto, vorresti averlo assaporato fino in fondo, esame compreso. Lo accetteresti come un rito di passaggio che fa paura, ma al tempo stesso vi marchia e vi promuove a una fase più adulta della vita; e come te lo affronterebbero molti tuoi compagni. Lo vorresti regolare. Con tutte le sue fasi. Tu che ami scrivere, vorresti affrontarla la sfida degli scritti, vorresti svelarti. A che scopo allora ridurre tutto ad un esamino? Resta il rischio, resta la paura prima di affrontare il colloquio, ma si annulla ogni sentore epico. O tutto o niente. Finiamola così, con uno scrutinio. Me ne avevi fatto cenno e io ci ho riflettuto. Sento che hai ragione. Sarebbe plausibile che ad una emergenza tanto carnevalesca corrispondessero soluzioni altrettanto decise e radicali. Su questa spinta, ti dico che potrebbe anche essere modificato il calendario scolastico. Potremmo accorciare la lunga pausa estiva, per esempio. Potremmo modificare, oltre ai tempi, anche i metodi dell’attività didattica. Ricorderai le tante volte in cui la rigidità dell’orario scolastico è stata un impaccio alle nostre iniziative fuori dalle mura della scuola. Torno all’esame che dovremo affrontare, ognuna di noi due nel suo ruolo. Sono aggiustamenti, Alice. Svolgere un colloquio davanti ad una commissione di soli docenti interni con un presidente esterno è un aggiustamento; non sappiamo ancora con certezza se da remoto o ‘in praesentia’. Lo voglio dire così, con l’espressione latina che mi fa assaporare fino in fondo il piacere, almeno quello, di vederci mentre parliamo. Spero almeno di varcare la soglia del liceo per un po’ di giorni, quelli così luminosi di giugno. Spero che potremo  vederci e giocare con gli sguardi e sorriderci per darci accoglienza reciproca. Vorrei sentire il profumo che avete messo per l’occasione, percepire le vostre mani sudate. Questo colloquio salverà il valore legale del vostro esame, almeno credo. E se ripenso alla mia carriera, non è certo  la prima volta che sono chiamata a riempire di senso un’esperienza che sulla carta sembra averne poco. Vedi, anch’io vado per aggiustamenti, mi assesto su alcune sfumature di grigio, laddove tu opti per il bianco o per il nero. Non ho da un pezzo la tua età, ma l’ho avuta e ne ricordo bene il paesaggio interiore. Voglio dirti con questo che eserciteremo insieme il nostro senso critico verso quello che siamo chiamati a fare, ma lo faremo. Ce la faremo.

P.S. Domani, mentre siamo connessi, ne parliamo anche con i tuoi compagni

Su questo stesso quotidiano leggi anche: 
PANDEMIA E CLAUSURA di Loredana Bondi
BUONGIORNO RAGAZZI, SIETE CONNESSI? di Alice & Roberta

PANDEMIA E CLAUSURA
La parola ai ragazzi: Maria, Klea, Giorgia, Iris

Nell’articolo che ho scritto qualche giorno fa su ferraraitalia [Qui]  mi ponevo il problema di come vivono, cosa sognano i bambini e i giovani in questo lungo e strano periodo di pandemia. Si è praticamente chiuso il loro rapporto diretto con la scuola, con lo sport, con i loro interessi e con gli amici, stravolgendo le relazioni interpersonali che facevano parte del loro quotidiano. Me lo sono chiesta anche perché, sfogliando la rassegna stampa dal mese di febbraio ad oggi, di scuola, di ragazzi e di insegnanti si è parlato ben poco. Quel che è certo è che tutte le scuole e i servizi educativi resteranno chiusi almeno fino a settembre. Nell’articolo dicevo che mi sarebbe piaciuto più di ogni altra cosa – abituata come sono a pensare al valore della educazione permanente e dell’apprendimento in qualsiasi momento della vita, basato anche e soprattutto sulla qualità delle relazioni fin dai primi anni di vita – sapere cosa pensassero di questa nuova condizione i nostri bambini, i nostri giovani, costretti loro malgrado a starsene in casa, agganciati perennemente alla comunicazione in rete. Credo sia importante sentire la voce dei giovani, dei ragazzi e delle ragazze, dei bambini e delle bambine. Ho raccolto alcune testimonianze, che vorrei condividere su questo network, alcuni spunti e riflessioni che ritengo utili a sollecitare un approfondito confronto.

MARIA – 10 anni da Milano:
“Questo articolo secondo me è molto, molto bello. Tratta argomenti veritieri e di cui si dovrebbero occupare tutti. Mi è piaciuto molto il fatto che la signora Bondi abbia cercato il parere dei bambini. Non molti adulti infatti prendono in considerazione il nostro parere. Ma sbagliano. Secondo me, la voce di un bambino, piccolo o grande che sia, è priva di favoritismi e quindi più sincera. Lo dico in tutta sincerità, non credo che questa sia la ‘semplice diffusione di un virus’, questa è una pandemia! Ed è anche grave! Quindi penso che sia doveroso fermare questo mondo. La colpa non la do a nessuno, neanche al virus. Espandersi è nella sua natura e noi non dobbiamo e non possiamo dare la colpa a lui. Anche se dobbiamo impegnarci per sconfiggerlo. Il web sicuramente aiuta molto ma, essendo una persona che riesce anche a stare in solitudine, non credo sia cosi necessario. I miei insegnanti hanno iniziato relativamente tardi a fare le video-lezioni; una settimana dopo l’inizio della quarantena hanno inviato i compiti sulle piattaforme scolastiche, ma solamente ieri hanno iniziato a fare le video-lezioni. La scuola secondo me sta facendo quello che deve fare, cioè continuare a fare lezione. Certo, se facesse qualcosa in più le sarei grata, per esempio interrogarmi, perché io adoro essere interrogata. Sento la mancanza delle relazioni dirette, anche se riesco a parlare con quattro/cinque amici, che però sono ‘veri’. Il telefono con le video-chiamate aiuta, ma ovviamente non è lo stesso rispetto al parlarsi faccia a faccia. Sarebbe importante che le scuole riaprissero –naturalmente in sicurezza- e che i ragazzi provassero insieme ai loro insegnanti a rivedere il modo di fare scuola .Bisognerebbe iniziare già da subito ad adattarsi a questa nuova situazione.
Il futuro sicuramente non sarà lo stesso, perché come ogni malattia, questo virus lascerà il segno e probabilmente, quando se ne andrà, dovremmo attenerci a precauzioni molto più rigide. Ma personalmente penso che alla fine dovremmo accettarlo. Perché non mi faccio mica delle illusioni: è naturale che non tornerà tutto come prima. Penso che il comportamento umano debba e possa cambiare, usando le misure restrittive e stando molto attenti all’igiene personale. Sicuramente stare più attenti a se stessi e agli altri.
La lettura mi aiuta molto soprattutto perché io la adoro. Inoltre penso che molte persone stanno abusando della tecnologia; insomma è utile, certo, ma pensiamo magari ai videogame: molti bambini giocano alla playstation due o tre ore nei tempi normali, ma adesso ci giocheranno molto di più, fermandosi solo per dormire, mangiare e occasionalmente fare i compiti. E questo non credo sia salubre. In queste settimane ho notato che molte persone danno molta più importanza a coloro con cui parlano, persone che prima quasi non consideravano, passandoci anche delle ore. Quindi penso che almeno una cosa positiva c’è nelle relazioni: stiamo iniziando a dare importanza a ciò che prima consideravamo superfluo e scontato.”

KLEA PEROCI – 15 anni liceale di Ferrara:
“Ritengo fermamente che il lockdown, a cui siamo stati sottoposti sia dovuto ad una tutela della salute pubblica e perciò assolutamente lecito. Sarebbe più appropriato parlare di mancata responsabilità della gente, più che di colpa effettiva. Infatti, ad oggi, dopo quasi due mesi da quando è stata dichiarata la situazione di emergenza da Covid-19, il numero dei contagiati rimane elevato. Alla luce di ciò, si deduce che i decreti non siano stati adeguatamente rispettati da una parte della popolazione. Per quanto riguarda i sistemi comunicativi, sicuramente il web rappresenta uno strumento attraverso il quale è possibile continuare ad intrattenere le relazioni personali. Tuttavia non sostituisce affatto il contatto diretto. Purtroppo sono costretta ad affermare che utilizzo maggiormente la comunicazione virtuale, a discapito della lettura. Infatti, avendo numerosi impegni scolastici, i momenti in cui mi fermo a leggere un libro sono quantomeno rari. Raramente mi ritrovo a discutere con la mia famiglia di quanto mi manchino le mie amiche ed i miei compagni di classe, ma credo che se ne rendano conto dal fatto che spendo parecchie ore della mia giornata, chiacchierando con loro in video-chiamata. Al momento svolgo le video-lezioni esclusivamente con l’insegnante di matematica e fisica e con la docente di italiano e storia. Senza dubbio, la mia realtà attuale non corrisponde a quella a cui si assisterebbe in classe. L’immagine dell’insegnante, appiattita sullo schermo del mio pc, non coincide con l’insegnante ‘in carne ed ossa’, così come chiedere la parola, attivando un microfono, non sostituisce l’alzata di mano durante la lezione. Ritengo che il comportamento umano possa cambiare, anzi sarebbe auspicabile un tale cambiamento. Spero che gli uomini imparino ad essere più rispettosi nei confronti del prossimo, meno intransigenti ed indifferenti rispetto a quello che li circonda, e che imparino a non sottovalutare l’importanza dei piccoli gesti, capaci di renderli felici.”

GIORGIA – 17 anni, studentessa liceale di Ferrara:
“In questo periodo di reclusione, non posso vedere le mie migliori amiche, i miei parenti. Tuttavia, grazie ai social media, posso sentirli ogni giorno. Ritengo però che ciò non sia assolutamente un ‘degno sostituto’ delle relazioni sociali ‘dal vivo’: preferisco mille volte abbracciare una persona a cui voglio bene, chiacchierarci per ore, uscire a prendere un gelato in centro…Ma dato che ora non posso farlo, almeno cerco di mantenere i contatti. Vivendo con i miei genitori, ho comunque un po’ di compagnia e discutiamo spesso di questa situazione così ‘paradossale’: dobbiamo solamente resistere e pensare positivo, non facendoci contagiare dal panico collettivo, che talvolta si intravvede nella gente, anche solo appena si esce di casa. Questo periodo di quarantena, può essere un periodo di intensa riflessione, che può cambiare a livello interiore, ma non solo. A livello esteriore, fisico, si può cercare di mangiare più sano, facendo attività fisica, o in ogni caso  dedicarsi alla lettura, oppure ascoltare la musica o, ancora, suonare uno strumento. Questo può aiutarci molto a capire il mondo. Nei nostri atteggiamenti, anche verso gli altri, bisognerebbe incoraggiare la solidarietà, il rispetto, l’educazione, che purtroppo sono spesso tralasciati dagli adolescenti, ma anche dagli adulti (e ciò è ancor più grave). A mio parere, questa pandemia è come se fosse un modo da parte di Mother Earth di dirci di fermarci, perché stiamo esagerando: inquinamento, surriscaldamento globale… La scienza ci dice che, riducendo gli spostamenti per via della quarantena, è possibile diminuire l’intensità dei fattori inquinanti e alcuni grafici ci dimostrano quanto sia notevole il cambiamento rispetto a prima. Questo deve servirci da incentivo a comportarci meglio anche nei confronti dell’ambiente. Eppure, persino in questo difficile periodo della nostra vita, che stiamo vivendo tutti insieme (e forse questo ci rende meno soli), io riesco a sperare in un futuro diverso: un futuro in cui possiamo tornare ad abbracciarci, ad uscire insieme, a viaggiare e visitare i posti più belli del mondo. Ma non tutti  la pensano come me: molti ragazzi della mia età sono più pessimisti e non riescono, in questo momento e in queste circostanze, ad intravvedere un loro futuro. Suggerirei, a chiunque di  prendere questo periodo come un momento di riflessione, di meditazione, un modo per conoscerci meglio e cercare di migliorarci, di essere sinceri con noi stessi ed accettarci per ciò che siamo.”

IRIS – 17 anni  studentessa liceale di Ferrara.
“…Nonostante non frequenti la scuola oramai da un mese, le attività scolastiche proseguono a distanza e tengono impegnati gli studenti di tutta Italia. Tutte le mattine frequento le lezioni, anche se comodamente da casa e non vi sono variazioni rispetto al carico di compiti assegnati. Probabilmente gli insegnanti desiderano conservare gli stessi schemi della vita quotidiana, da noi spesso sottovalutata e di cui sentiamo sempre più la mancanza. In effetti, mi chiedo perché riusciamo ad apprezzare ‘la normalità’ solo quando questa viene a mancare. Passiamo il tempo a lamentarci degli innumerevoli impegni scolastici, che sottraggono tempo prezioso alle attività che più preferiamo svolgere, senza renderci conto dell’importanza che esercitano su di noi un’amichevole chiacchierata a scuola, una battuta che scatena grasse risate, o una passeggiata in bicicletta. Attività semplici, quasi banali, ma essenziali. Tuttavia, devo anche sottolineare che è stato proprio durante queste ultime settimane che ho riscoperto il piacere di guardare un film in famiglia, di dedicarmi alla lettura di un libro, di rispolverare un gioco da tavolo e tanto altro. Talvolta mi sono fermata a riflettere e mi sono convinta che l’emergenza da coronavirus rappresenta una vera e propria lezione di vita.  È in queste situazioni che scopriamo di non essere invincibili, ma fragili e vulnerabili. Ripensiamo a quanto avremmo potuto essere più pazienti, più cortesi, più generosi nei confronti del prossimo, così come molti paesi hanno dimostrato in questo periodo (Cina, Russia, Cuba e Albania), inviando staff medici in soccorso dell’Italia. Altri ancora si sono mobilitati donando al nostro paese milioni di mascherine e preziose attrezzature sanitarie. Sempre più spesso, mi tornano in mente gli appelli di medici e scienziati di non vanificare lo sforzo sanitario restando in casa. Dunque una questione di responsabilità e altruismo: tutelare tutti coloro che curano e che tutti i giorni rischiano la propria vita. Tuttavia, devo ammettere che l’immagine che più di tutte mi ha commossa è stata quella di vedere i due paramedici del Magen David Adom, il servizio di soccorso sanitario israeliano, pregare insieme. Uno ebreo, Avraham Mintz, in piedi e rivolto verso Gerusalemme, e l’altro musulmano, Zoher Abu Jama, in ginocchio con il volto in direzione della Mecca. Riporto le parole di quest’ultimo, degne di nota: “Questa è una malattia che non fa distinzione di religione o di altro genere. Le differenze le mette da parte. Lavoriamo insieme, viviamo insieme; questa è la nostra vita. Il virus non fa distinzioni di età, sesso, razza e religione, perché noi uomini invece siamo sempre propensi a farle e spesso in senso negativo?”

Al cantón fraréś
Bruno Zannoni: I canaròl dal Délta

Una poesia sul canaròl, che assieme al brazànt, al pascadór e al scariulànt abitavano il Delta del Po. Negli endecasillabi dell’autore sono efficaci le immagini del lavoro come sopravvivenza: la fatica (i fas bumbà ch’i péśa cóm al piómb), la miseria (… chi caśón tirà su con tri pal e uη muć ad cana), l’ambiente ostile (pùntagh, saηguétul, bis, vèsp e ziηzàll,), la fame (par amìga la fam, e da magnàr aη gh’jéra gnént).
Avviso ai lettori:
Al cantóη fraréś , l’appuntamento con il dialetto e i suoi autori vi terrà compagnia tutti i venerdì. Non perdetevelo. 
(Il curatore della rubrica: Ciarìn)

 I canaròl dal Délta

I źóvan j’a-n al sà quànta fadìga
l’à fat, chi źó int la bàsa, tanta źént
quand che la gh’éva, sóla, par amìga
la fam, e da magnàr aη gh’jéra gnént.
Bén, tra sta źént a gh’jéra i canaròl
coi pié intrigà int la màlta dal bunèl
par tut ‘n iηvéran (ill n’è mina fòl!)
a cójar cana ch’taja cmé uη curtèl,
la faza e ill man e tut chi miśar straz
ch’i s’è infasà ch’i par di buratìn;
e indóv an taja ill cann, al róśga al giaz
cla càran d’póvar stiàη séηza destìn.

Iη cla spianàda d’cann a gh’è l’iηféraη:
pùntagh, saηguétul, bis, vèsp e ziηzàll,
mó lór j ‘à da tajàr, pr’un témp etéran;
e quànd s’avśìna al scur sóra la val
j’a-s càrga sóra ill spall i fas bumbà
ch’i péśa cóm al piómb, ch’j’agh stróηca j’òs
che’ gnàηca ill cann ill par avér pietà
d’st’j’óman e dònn con źa la mòrt adòs.

A s’è fat óra ormài d’andàr in tana:
l’è quést al nóm più giùst par chi caśón
tirà su con tri pal e uη muć ad cana
indóv j’a-s cùcia d’nòt sóra i pajóη
che quànd sul délta a sùpia fòrt la buóra
i fnìs a mój, senz’usta, d’na marèa
ch’a par ch’l’a-s gòda a far pagàr ηcóra
àltar suplìzî a źént sémpr’in trincéa.
E al vént ch’l’intìzia iηcóntr’a lór al mar
al squàsa chi caśón e al spiηź al fum
źó dal camìn e, acsì, tant par scarzàr,
al śmòrza dal carbùro l’ùltim lùm.
Sóra na fiàma stràca ch’la trabàla,
una scudèla coi faśó par zéna;
l’è cvérta d’mufa la pulénta zala,
l’aqua dal Po da bévar, l’è na péna.

Chi dì ch’a pióv o quànd dal mar l’arìva
una fumàna ch’par una muràia,
an s’véd, là sul bunèl, n’ànima viva
ch’j aspèta, i canaròl, sóra la paia
sperànd ch’al témp a s’tira su a la svélta,
e coη peηsiér ch’j’a-s màśara int al mój,
acsì cóm ill marzìs ill cann dal délta
a i dì d’iηquó, che più nisùn a cój.
di Bruno Zannoni

Traduzione dell’autore
I cannaiuoli del Delta (del Po)
I giovani non sanno quanta fatica / ha fatto, qui giù nella bassa [1], tanta gente / quando aveva, sola, per amica / la fame, e da mangiare non c’era niente. / Ebbene, fra questa gente c’erano i cannaiuoli[2] / coi piedi affondati nel fango del bonello[3] / per tutto un inverno (non sono mica storie!) / a raccogliere canna tagliente come un coltello, / il viso e le mani e tutti quei miseri stracci / con cui si sono fasciati, che sembrano fantocci[4]; / e ove non feriscono le canne, ròsica il ghiaccio / quella carne di povera gente senza destino. /

In quella spianata di canne c’è l’inferno: / topi, sanguisughe, rettili, vespe e zanzare, / ma loro devono tagliare, per un tempo eterno; / e quando si approssima il buio sopra la valle / si caricano sulle spalle i fasci inzuppati / che pesano come il piombo, da stroncargli le ossa / poiché nemmeno le canne sembrano avere pietà / di questi uomini e donne con già la morte addosso. /

Si è fatta l’ora ormai di andare nella tana: / è questo il termine più giusto per quei casoni[5] / tirati su con tre pali e un mucchio di canna, / dove si accucciano di notte sopra i pagliericci / che quando sul delta soffia forte la bora / finiscono a mollo, senza rispetto, di una marea / che sembra si diverta a far pagare ancora / altri supplizi a gente sempre in trincea. / E il vento che aizza contro di loro il mare / sconvolge quei casoni e spinge il fumo / giù dal camino e, così, tanto per scherzare, / spegne l’ultimo lume del carburo. / Sopra una fiamma stanca che traballa, / una scodella con i fagioli per cena; / è ricoperta di muffa la polente gialla, / l’acqua del Po da bere, è una pena. /

Nei giorni in cui piove o quando dal mare arriva / una nebbia che sembra un muro, / non si vede, là sul bonello, un’anima viva / poiché aspettano, i cannaiuoli, sopra la paglia / sperando che il tempo si rimetta al più presto, / e con i pensieri che si macerano nell’umido, / così come marciscono le canne del delta / ai giorni nostri, poichè nessuno più le raccoglie.

[1] La zona del territorio della provincia di Ferrara che si trova a ridosso del delta del fiume Po.
[2] Così venivano chiamati, nei primi anni del 1900, i raccoglitori di canne palustri delle quali, nelle plaghe del delta del fiume Po, si faceva incetta, per quattro soldi, per la fabbricazione di scope e di graticci.
[3] Bonello (terreno buono): piccola porzione di terreno emergente in una valle.
[4] I cannaiuoli cercavano di proteggersi dalle canne taglienti, fasciandosi volto e mani con miseri stracci.
[5] Abitazioni improvvisate, costruite con pali e canne palustri, ove si ricoveravano i cannaiuoli per rifocillarsi e riposare.

Poesia premiata al Concorso Nazionale di poesie dialettali “Vittorio Monaco” di Pescara del 2016.

Bruno Zannoni (Bagnacavallo 1940)
Ha lavorato per decenni al petrolchimico di Ferrara, impegnandosi nel Sindacato Chimici Confederali. Oggi svolge attività volontaria per il Centro studi e ricerche socio-economiche CDS. Nato in Romagna, vive da decenni a Ferrara. Scrive in entrambi i dialetti, con ampie soddisfazioni nei concorsi nazionali. Ha recentemente pubblicato: I miei dialetti. Rime in romagnolo e in ferrarese (con traduzione a fronte), Napoli, Kairòs Edizioni, 2018.

Cover: Foto di scena tratta dallo sceneggiato televisivo Il mulino del Po di Sandro Bolchi, 1963

BUONI SPESA: ORA PARLIAMO NOI
I ragazzi di Occhio ai Media chiedono al Comune di Ferrara di cambiar strada

ULTIMORA Avevo appena “montato” in prima pagina il pezzo degli amici di Occhio ai Media ed è arrivata la notizia in redazione: il Sindaco di Ferrara Alan Fabbri ha perso il ricorso. IL TRIBUNALE DI FERRARA HA ACCERTATO il carattere discriminatorio della Giunta del Comune di Ferrara nell’avere adottato criteri e modalità di selezione (prima gli italiani ecc) per l’erogazione dei buoni spesa… anziché tener conto dei soli requisiti di disagio economico e domiciliazione nel territorio comunale. ORDINA al SINDACO di riformulare i criteri e le modalità consentendo la presentazione di nuove richieste.
Più chiaro di così?!? Aggiungerei solo una piccola citazione dai
Promessi Sposi: “a questo mondo c’è giustizia, finalmente!”. (Effe Emme)

La Redazione di Occhioaimedia

L’emergenza Coronavirus ha investito le vite di tutti noi. Come gruppo di ragazzi attivisti che monitorano gli articoli discriminatori nella stampa ci siamo sempre tenuti in contatto, sperando che, in un’occasione delicata come questa, venissero risparmiati i soliti bersagliamenti verso quella fetta di società che sono gli stranieri. Purtroppo non è andata così: infatti l’11 marzo viene pubblicato sulla stampa locale un articolo – che abbiamo segnalato sul nostro sito – riportante un’intervista al Vicesindaco di Ferrara nella quale, parlando delle restrizioni in seguito al Covid-19, viene data più rilevanza ai controlli sui negozi multietnici e gestiti da stranieri, rispetto all’emergenza stessa.
La segnalazione, postata nella pagina Facebook di Occhio ai Media, ha ottenuto numerosi commenti, tra cui ne citiamo solo uno, per la sua ironia: “[…] è ancora convinto (il vicesindaco Nicola Naomo Lodi. ndr.) che il virus si prenda mangiando un kebab”.

Quando il Governo ha stanziato i buoni spesa per aiutare i cittadini più in difficoltà a causa dell’emergenza Covid-19, il Comune di Ferrara ha optato per l’assegnazione prioritaria dei bonus ai cittadini italiani, rispetto a chi invece ha altre cittadinanze, indipendentemente dalla reale necessità economica degli individui o dei nuclei familiari.
Una decisione che abbiamo subito ritenuto ingiusta, irrazionale, priva di qualsiasi buon senso ed etica. L’ennesima propaganda politica, il solito slogan “prima gli italiani”, che non fa altro che dividere di più le persone in una situazione in cui è necessario e doveroso tutelare tutti, italiani o no, in ordine a un bisogno primario, come la necessità alimentare (visto che si parla di Buoni Spesa), non di nazionalità. Se la fame non distingue nessuno, perché gli aiuti alimentari invece sì?.

Il 2 aprile abbiamo condiviso sui nostri siti web e social media il comunicato della CGIL che criticava severamente i parametri discriminatori adottati dal Comune, e il giorno seguente abbiamo pubblicato una dichiarazione a nome dell’Associazione Cittadini del Mondo.A seguito del nostro comunicato, ci è stato chiesto se ci fosse una raccolta firme contro questa decisione comunale. Abbiamo perciò deciso di dare voce al dissenso e alla indignazione di migliaia di persone lanciando una petizione online, in modo da raggiungere l’Amministrazione comunale e sperare in un cambiamento.
Viste le numerose polemiche affiorate, giovedì 9 aprile abbiamo indetto una videoconferenza, con la partecipazione dell’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), la Cgil Emilia Romagna e L’Associazione Altro Diritto per approfondire e discutere il sistema comunale di erogazione dei Buoni Spesa.
Ecco i punti focali emersi nella videoconferenza: la mancanza di trasparenza del sistema, l’esclusiva modalità telefonica con cui si poteva effettuare la richiesta (del tutto inappropriata, visti gli altri mezzi a disposizione del Comune), e  soprattutto la totale discrezionalità del metodo di assegnazione, senza che fosse specificato alcun criterio di decisione. Infine, il Comune di Ferrara non fornisce nessuna esplicita risposta ai richiedenti e, in caso negativo, non vengono fornite le motivazioni.

La faccenda Buoni Spesa ha toccato direttamente anche i nuclei famigliari di alcuni membri del nostro gruppo. Possiamo quindi fornire una testimonianza diretta.  Alcuni non hanno neanche ricevuto risposta alla chiamata telefonica. Vogliamo qui citare, come esempio, il caso di S… – un cittadino rientrante nella categoria avente diritto al bonus – che dopo diversi tentativi, ha ricevuto alla fine una risposta alla sua telefonata, ma ad oggi, dopo più di due settimane, non sa ancora se la sua richiesta sia stata o meno accettata.
Vista la situazione difficoltosa di diverse famiglie presenti sul territorio ferrarese, M…, volontaria in una ONG, ha partecipato alla distribuzione di pacchi contenenti alimenti per le famiglie in difficoltà, sostenuti dalle donazioni dei cittadini che hanno deciso di intervenire in aiuto, vista l’esclusione dagli aiuti dettata dal Comune.

Raggiunte più di 20.000 firme nella petizione, dopo solo una decina di giorni, abbiamo scritto un comunicato stampa, ringraziando coloro che avevano firmato, e lo abbiamo inviato a quattro testate locali, solo due delle quali lo hanno pubblicato. In ogni caso il risultato, cioè l’adesione alla nostra petizione,  ci sembra straordinario. E’ un messaggio chiaro alla Giunta Comunale di Ferrara, di cui si denunciano le politiche denigratorie e propagandistiche che creano solo divisioni.
Noi non ci arrendiamo. Auspichiamo una presa di coscienza da parte della Amministrazione Comunale. Vorremmo soprattutto avere risposte concrete, non i soliti ritornelli patriottici stereotipati,  e ci auguriamo che si arrivi a una soluzione chiara e trasparente, che tuteli i diritti di tutti.

Redazione Occhioaimedia.org, Ferrara 30 Aprile 2020

 

VENEZIA, LUOGO DELL’ANIMA
Brodskij: migliora l’aspetto del tempo e abbellisce il futuro

– Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco
– Ne resta una di cui non parli mai
Marco Polo chinò il capo.
– Venezia – disse il Kan
Marco sorrise.E di che altro credevi che ti parlassi?
L’imperatore non batté ciglio. Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.
E Polo Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.

Così, nel sesto capitolo de Le città invisibili di Italo Calvino, Marco Polo spiega al melanconico imperatore dei Tartari, il Gran Khan Kubilai, cosa è la ‘sua Venezia‘.
L’imperatore vorrebbe ricondurre il suo visionario viaggiatore al racconto di una rappresentazione oggettiva di Venezia , completamente separata dalla descrizione delle altre città e non confusa con quelle, come fino ad ora aveva ascoltato dalla bocca del suo ospite straniero. Chiede cioè quello che pretende sempre dai suoi ambasciatori quando vuole essere informato su questioni a lui sconosciute: una relazione su Venezia “così com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi dei lei”.
Questo è il metro che sempre ha utilizzato per misurare le cose del mondo e questo gli ha permesso di arrivare a possedere uno sterminato potere. Invece Marco Polo restituisce non il riflesso di una unica realtà, ma tante immagini della memoria, ricordi della ‘sua Venezia’, ritrovate nelle altre città. Ma “le immagini della memoria, una volta fissate con le parole si cancellano, arrivando a ricostruire un’altra realtà; narrano di una città ideale, di un sogno, il sogno della propria vita.

E così come Polo ritrova le sue origini anche in altre città, così facciamo anche noi, raccontando ma ancheascoltando’ la nostra storia. E’ quello che capita quando altri rievocano episodi della nostra vita di cui non avevamo memoria, accaduti quando eravamo bambini: man mano che il tempo li allontana, vengono trasformati in nostri ricordi, anche se rammentati da altri. Di una persona cara scomparsa, dopo non molto, abbiamo difficoltà a rimembrare il suono della sua voce e anche i lineamenti esatti del viso comincerebbero a sfuggirci, se non ci fosse una sua fotografia a fissarne la ricordanza; l’espressione ritratta da quella immagine alla fine sarà ciò che rammenteremo di quella persona. E’ il passaggio del Tempo, che tutto trasforma in un sogno composto da un numero indefinito di immagini, suoni e colori provenienti da ogni dove.

E’ in questo modo che si incontra Venezia.
Subito dopo l’arrivo del treno in stazione, mentre si fanno i primi passi verso l’uscita, cercando di rimettere a posto la camicia sgualcita, di chiudere per bene il giubbotto, insomma di sistemarsi un poco dopo il viaggio, proprio mentre si alza frettolosamente lo sguardo per capire la direzione da prendere, ecco apparire in modo del tutto inaspettato, come racconta Fernand Braudel, uno dei maggiori storici del ‘900, un vero e proprio straordinario “spettacolo che si apre immediatamente davanti: l’acqua rabbrividita del Canal Grande, agitata dalle eliche dei motoscafi e che ricorda l’acqua di un fiume, la cupola in rame di san Simeone Piccolo, e le trattorie con le loro piante sempre verdi ben allineate…” (F.Braudel, Venezia, Il Mulino, p.10).

Si presenta così Venezia a chi la vede per la prima volta all’uscita della stazione di Santa Lucia, tutta, e tutta insieme, senza un elemento urbanistico che faccia da introduzione. L’assenza di un ‘prologo’ la fa apparire quale è, una creatura sublime e, per chi non l’avesse mai vista, una eterea visione.
Ma, come ogni visione, così come magicamente è comparsa dal nulla in tutta la sua bellezza, in un attimo può scomparire. Bene lo sa quel turista che, volendo iniziare il suo percorso attraversando il ponte della Costituzione, disegnato dall’architetto Santiago Calatrava, appena sceso l’ultimo gradino, mentre si accinge a proseguire verso il sestiere di Santa Croce, avverte un certo fastidio, notando sulla destra l’ultimo lembo di terraferma da dove partono e arrivano pullman e automobili di ogni genere e, spontaneamente, gira lo sguardo dall’altra parte, per ritrovare ciò che temeva di avere già perduto.

E’ per questa città sospesa nel tempo, visione che trascolora in personalissime partiture di illusioni, che lo scrittore russo Iosif Brodskij scrive Fondamenta degli Incurabili, entrando con le immagini dei suoi ricordi nella città che ha rappresentato ristoro e rifugio per la sua anima negli anni dell’esilio. Iosif Brodskij, originario di San Pietroburgo, dopo essere stato condannato per ‘parassitismo’ a cinque anni di lavori forzati, espulso dal regime sovietico, inizia a viaggiare e a tenere lezioni nelle università americane. Conseguita la cittadinanza statunitense, non smetterà mai di ritornare a Venezia con periodicità quasi annuale.
In Fondamenta degli Incurabili, presentato nel 1989 su richiesta del Consorzio Venezia Nuova, emerge tutto l’amore di Brodskij per la città, che ”a tratti assume connotati femminili ed erotici, a tratti suscita in lui una dimensione divina: l’acqua rispecchia Dio ed è l’immagine del tempo.Venezia è la città che più di ogni altra dialoga con l’acqua e la sfida con quella proprietà che il tempo-acqua, non possiede: la bellezza”. Leggo questa nota nel sito Turismo Letterario che caldeggia la lettura del volume di Brodskij  prima di visitare Venezia. [Consulta il blog]
Ma ascoltiamo le parole, stavo per scrivere i versi, con cui Brodskij conclude la sua memoria di Venezia: ” […] acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in gran parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama” (Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, Milano, Adelphi).

Il momento migliore per cogliere la visione di Venezia è l’alba. Quando la realtà turistica quotidiana non l’ha ancora inghiottita con tutto il suo ciccaleccio, è possibile sentire la città pulsare di vita propria attraverso l’ascolto delle sue pietre. Ed è il momento che ricorda di più la città prima della costruzione della ferrovia e della stazione, prima che l’impero Austro Ungarico promuovesse la costruzione del ponte ferroviario tra il 1842 e il 1846.
Sin dagli inizi dell’Ottocento i turisti inglesi, come il critico e professore d’arte John Ruskin, erano arrivati via mare e sbarcati in Piazzetta. Ed è con John Ruskin che, dopo esserci ripresi  dalla meraviglia iniziale dell’incontro con Venezia, mentre ci addentriamo nella città ancora deserta, assaporando fino in fondo l’odore dell’acqua salmastra nell’aria, continuiamo a ripetere quasi inconsapevolmente, l’esclamazione con cui lo scrittore inglese inizia il suo Diario Italiano 1840-1841, descrivendo il suo arrivo in laguna: “Grazie a Dio sono qui!” (John Ruskin, Diario Italiano 1840-1841, Mursia).

Vagando per calli e passando ponti lo sguardo abbraccia contemporaneamente cielo, terra e acqua, gli elementi fondamentali della vita. Non ci sono volumi, ma superfici, dove la luce riflessa dall’acqua si appoggia come un lenzuolo luminoso ricoprendo le facciate dei palazzi e passando per il vuoto dei ricami di marmo che impreziosiscono finestre, capitelli, bancali, cornicioni ne determina il ritmo. Un ritmo continuo. A Venezia infatti “il primum non è l’edificio singolo, ma ciò che lo lega agli altri in una continuità figurativa che è il canale, la calle, infine la città intera (Catalogo mostra Venezia e Bisanzio, Electa). Certo, continuità non tra le forme plastiche, ma tra le superfici, ma anche metafora di una comunità che è sopravvissuta perché gli uni hanno trovato appoggio negli altri, e dove anche ciò che potrebbe separare, il canale, viene congiunto da un ponte, mai collocato a metà del corso d’acqua, ma quasi sempre prima del suo sbocco, per garantire la continuità di passaggi e di sguardi.
Qui l’urbanistica e l’architettura non sono ottenute tracciando con la squadra angoli retti, prospettive perfette, simmetrie razionali: “non vi sono che incroci, rotture, deviazioni…cerchi deviati, verticali barcollanti, pilastri di diversa grossezza, capitelli eterogenei, spallette esitanti…nessuno schema unificatore”. Domina l’irrazionalità, o meglio una differente razionalità. Ed è la stessa logica che ha permesso a comunità le più diverse, per religione e provenienza, quali ebrei, turchi, dalmati, albanesi, greci, tedeschi di poter convivere in modo pacifico sotto lo stesso cielo.

Infine, arrivati a San Marco, il sogno  si concretizza e prende forma nella visione della Basilica d’Oro e qui le ultime, poche certezze cedono, come diceva scherzosamente Jean Cocteau, vedendo i piccioni camminare e i leoni volare. Una volti entrati nella Basilica, prima del mezzogiorno, è possibile infine vedere i raggi del sole che, colpendo l’oro dei mosaici, inondano lo spazio sotto le cupole di una luce vivida e calda. Alzando istintivamente gli occhi per scrutarne l’origine, lo sguardo non riesce a sostenere l’intensità ma, abbassandosi umilmente a cospetto di tanta bellezza, riesce a ritrovare la stessa luce dentro di sé.

Cover: foto di Beniamino Marino (cliccare per vedere l’immagine intera)

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Due gradi di separazione

L’isolamento affettivo cosa diventerà quando sarà finito? In A due piazze Riccarda e Nickname si confrontano: chi deve stare lontano, chi invece sceglie di farlo e chi è abituato a ritrovarsi e perdersi ogni volta.

N: Si avvicina, non disperate. Si avvicina il giorno in cui voi due, divisi da mesi, potrete riabbracciarvi. Si avvicina il giorno in cui voi due, uniti da mesi, potrete separarvi. La prima situazione mi fa venire in mente un incendio, che divampa violento e potrebbe spegnersi con la stessa rapidità. La seconda situazione mi ricorda un detenuto che ritrova la libertà dopo un lungo periodo di detenzione. Assapora la libertà con una vertigine che presto, dopo averlo inebriato, lo lascia disorientato, smarrito, perduto.
Questi due non riescono più a vivere insieme, ma non riescono ormai più nemmeno a vivere l’uno senza l’altro. I primi due non riescono più a pensarsi insieme senza immaginare già di lasciarsi di nuovo.

R: Mi chiedo in questa visione di opposti estremismi, dove tu sia collocato: se tra quelli incarcerati che poi immersi nella libertà, sentono un senso di agorafobia, smarrimento da mancanza di pareti tanto chiuse quanto protettive o se, invece, sei vicino all’ustione, al fuoco che va spento con una nuova e programmata separazione fra gli elementi. Oppure potresti essere da un’altra parte ancora, quella che non ha bisogno di distruggere per ricostruire.

N: A parte che parlo di “voi” e tu mi chiedi di me, che sarebbe come chiedere a Rob Breszny cosa ne pensa dell’oroscopo che lo riguarda…
Non mi sento collocabile. Perché sono in una reclusione in parte volontaria, e perché la separazione ed il ritrovarsi fa parte integrante della mia esistenza sentimentale. Quindi potrei essere collocabile ovunque!

R: Ti racconto cosa sta succedendo a me, a noi. È una separazione forzata, c’è qualche migliaio di chilometri di mezzo, ci sono aerei da prendere che non volano più, una connessione che se non va, allora vabbè ci sentiamo domani. Poi c’è stata una Pasqua isolata e forse lo saranno anche i rispettivi compleanni, così vicini sul calendario da fare una festa unica come l’anno scorso, quando tu hai regalato a entrambi un mazzo di fiori. Anche noi non siamo collocabili né fra i detenuti né tra gli incendi pericolosi che vanno spenti. Però ti invito al nostro compleanno, seduto di fronte a noi, come un anno fa. Questa volta, uno schermo di mezzo.

Come state vivendo la separazione da chi amate? Il vostro isolamento affettivo come lo state gestendo? Apparecchiate con un monitor davanti per farvi compagnia?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

CHIESA E CORONAVIRUS
Appellarsi alla libertà di culto nasconde altri fini. Poco nobili.

Fa discutere la sospensione delle celebrazioni liturgiche durante la pandemia da coronavirus, in osservanza ai Dpcm del governo italiano. Tanto che il tema è diventato nuova benzina nel serbatoio di chi, da tempo, sta muovendo dubia e attacchi a una Chiesa guidata da un pontificato giudicato troppo cedevole nei confronti di un mondo secolarizzato, che espelle riti e sacramenti, ossia l’essenza dell’annuncio evangelico.

Per la verità, fra le voci critiche che si sono levate, non è passata inosservata quella di Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose, in un articolo su La Repubblica lo scorso 15 marzo (pubblicato e in un secondo tempo scomparso sul sito di Bose), che titolava: Coronavirus, la Chiesa non può chiudere. Parole che sono sembrate come il sale su una ferita, sulla quale si ha l’impressione che in tanti abbiano l’interesse a mettere il dito, piuttosto che curare. A cominciare, sulla sponda politica, da chi, come Matteo Salvini, si è espresso apertamente per la riapertura di chiese e celebrazioni, recitando poi in Tv L’eterno riposo insieme a Barbara D’Urso! (30 marzo).

La puntata di Report del 20 aprile scorso ha raccontato i potenti intrecci internazionali all’opera, per acuire le tensioni vaticane e preparare la successione di papa Bergoglio, evidentemente data in un orizzonte ormai breve. Personalità come il cardinale Raymond Leo Burke, le sintonie tra la Fondazione russa San Basilio il Grande, il mondo ultraconservatore cristiano statunitense e l’attivismo dell’ex capo della strategia della Casa Bianca, Steve Bannon, oltre al fiume di denaro (circa un miliardo di dollari), che dagli Usa sta piovendo in Europa e in Italia, per alimentare la galassia tradizionalista all’insegna della riconquista cristiana, sono gli esempi citati dalla trasmissione di Rai 3.

In una recente intervista rilasciata al giornalista Aldo Maria Valli sul sito portoghese Dies Irae (un nome che è tutto un programma), l’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha detto parole in chiara continuità con questo programma: “Non lasciamoci intimidire! Non permettiamo che si metta il bavaglio della tolleranza a chi vuole proclamare la Verità!”. Una potenza di fuoco che mai come durante il pontificato di Francesco, almeno nella storia recente, sta alzando i toni di quello che a molti appare ormai un vero e proprio scontro, senza esclusione di colpi. Al punto che persino sul fronte opposto, specie nella fase  giudicata discendente dell’attuale pontificato, alcuni sembrano allargare le braccia.

Vito Mancuso, per esempio, sul suo sito lo scorso 21 aprile ha finito per ammettere: “Forse il sogno del Vaticano II si rivela alla fine quello che effettivamente è destinato a essere: solamente un sogno”. Fatto sta che, rileva il direttore della rivista dei Dehoniani di Bologna Il Regno, Gianfranco Brunelli, sul “digiuno liturgico” (le chiese chiuse e le messe senza fedeli) si sono registrate per settimane le prese di posizione di singoli vescovi, ma non della Conferenza Episcopale Italiana (Cei). Un silenzio colmato con un comunicato del 26 aprile, nel quale la Conferenza episcopale italiana conferma, in sostanza, di non poter “accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto”.
È innegabile, il problema esiste, come anche quello della limitazione delle libertà più in generale. Eppure fa pensare che, proprio nel tempo liturgico pasquale di risurrezione, la riflessione biblica e teologica potrebbe aiutare a fare un po’ di chiarezza sulla questione. “Il tempo messianico – scrive Gianfranco Brunelli – non è un altro tempo, ma una trasformazione profonda del tempo cronologico”. In altre parole, l’escatologia cristiana, cioè il compimento della salvezza, implica una trasformazione delle cose penultime, la storia, a partire da quelle ultime, non la loro contrapposizione. La riflessione teologica significa che la costruzione della vita ultima inizia qui e ora, a partire dalla vita di tutti. Se così è, vuol dire che la rinunzia alla vita liturgica in questa fase di emergenza in realtà non è una privazione, imposta e subita con imperdonabile debolezza, ma è l’offerta che la comunità ecclesiale fa innanzitutto per la vita di tutti. “Se si chiudono le chiese – continua Brunelli – è per la vita, nel suo significato evangelico di dono e non semplicemente per un provvedimento, pur necessario, di sanità pubblica”.

Se non si capisce questo snodo fondamentale, vuol dire che non è chiaro nemmeno il senso spirituale, biblico e teologico dell’eucaristia e della santa messa, cioè del corpo e sangue di nostro signore offerto per la vita di tutti. Dunque, non esisterebbe alcuna mutilazione alla libertà della Chiesa, bensì l’occasione storica per l’intera comunità ecclesiale di avere capito e di testimoniare a tutti il mandato di Cristo durante l’ultima cena: “Fate questo in memoria di me”.
La questione non è mettere il bavaglio alla vita liturgica, ci mancherebbe, ma se si accede a questo significato, a partire dalle radici bibliche, si esce dalla sua riduzione a puro diritto rituale, fino a issarlo come vessillo identitario contro ogni nemico e si entra nell’economia sacramentale, cioè in pieno cammino escatologico, che dovrebbe essere la ragione costitutiva della Chiesa. Altrimenti essa diventa (è) un’istituzione di potere come tante altre. Questo ha detto il concilio Vaticano II, che, evidentemente, non è una discontinuità eretica nella tradizione ecclesiale, come troppi sorprendentemente affermano, anche in posizioni di rilievo nella gerarchia, bensì è stata una straordinaria operazione di riscoperta delle sorgenti bibliche (in francese: ressourcement) e apostoliche della Chiesa. Più tradizione di così!

Discussioni come quella in atto dovrebbero suonare come un campanello d’allarme alle orecchie dell’intero popolo di Dio, per avvertire con maggiore consapevolezza di quanto non sembri, che il tema è usato come un pretesto per altre partite, che nulla hanno a che fare con il senso letterale del testo biblico.

Di conseguenza, su questo registro teologico e spirituale non si gioca la cedevolezza della Chiesa (tantomeno di Bergoglio) all’anticristo, ma il coraggio e tutta la potenza  di un amore eccedente, cioè di un messaggio di speranza per la vita di tutti, che conserva una straordinaria e spiazzante attualità.

Leggerei in questo senso anche la decisione dell’arcivescovo di Ferrara, Gian Carlo Perego, di esporre la bandiera italiana nella festa del 25 Aprile. Un gesto che non solo richiama la memoria del vescovo Ruggero Bovelli e la sede del CLN ferrarese proprio nel palazzo vescovile, ma che è in sé la volontà, che trova fonte nell’economia sacramentale, di includere coerentemente nella liturgia della vita ecclesiale le sorti, la vita e la libertà di tutta la comunità civile. In un certo senso, quella bandiera appesa è anche la messa che l’arcivescovo Perego ha celebrato, insieme con la comunità ecclesiale e tutti i ferraresi, nella Festa della Liberazione, perché nello spirito escatologico dell’eucaristia tutti siano una cosa sola.

 

 

Arresti domiciliari anche ai boss mafiosi del 41 bis? No grazie

La proposta di mandare i boss mafiosi ai domiciliari mentre si trovano al 41 bis, in un momento in cui tutto il paese è “agli arresti domiciliari”, è incomprensibile e scellerata. Mentre migliaia di persone muoiono in assoluta solitudine, migliaia di cittadini non hanno più un lavoro, un reddito, un futuro, lo Stato si preoccupa di liberare delinquenti e mafiosi assassini? Scarcerare i mafiosi con la scusa dell’epidemia del coronavirus equivale ad assassinare ancora una volta Falcone, Borsellino e tutte le altre vittime. Trasferire a casa, per esempio, il criminale mafioso Spatuzza, che si è macchiato del terribile assassinio di un bambino di 11 anni, Giuseppe Di Matteo, rapito, strangolato e sciolto nell’acido come ritorsione nei confronti del padre, Santo di Matteo, collaboratore di giustizia, è inconcepibile. E’ questa la legge?
Spero non sia vero! Mai come in questo momento il ricordo dell’amica Agnese Borsellino, moglie di Paolo Borsellino, scomparsa nel maggio 2013, mi angoscia ancor di più. A noi amiche del gruppo confidava che non aveva paura di morire, ma aveva paura della consapevolezza che non sarebbe riuscita a vedere la fine del processo sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, che le aveva strappato vigliaccamente il marito e il padre dei suoi figli. Da quel giorno, fino alla morte, causata da un tumore, ha trascorso gli anni della sua vita assieme ai figli e al cognato Salvatore Borsellino, alla ricerca della verità. “Borsellino e Falcone avevano capito da tempo che è la mafia che materialmente uccide, ma il mandate è qualcuno di molto in alto…”.
Molti di noi ricordano quell’intervista televisiva in cui Agnese dichiarò: “Mio marito, Paolo, dopo l’incontro con Mancino a pochi giorni dall’attentato, tornò a casa sconvolto, gli chiesi il motivo e lui mi rispose “oggi ho sentito odore di morte”.
In questi giorni, un altro amico, Giuseppe Giordano (Pippo), ex poliziotto ed Ispettore della Dia (Direzione Investigativa Antimafia), autore de Il sopravvissuto, collaboratore in prima linea alla lotta alla mafia, con Falcone, Borsellino, Cassarà e Montana e particolarmente coinvolto nella vicenda del rapimento e uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, sin dal giorno del suo sequestro, si dice sconcertato.
Da anni Giordano si reca nelle scuole di tutta Italia per far conoscere ai giovani i crimini mafiosi. “Questo Stato, al quale giurai fedeltà, mi sta facendo riaprire ferite mai emarginate. Questa Italia che dimentica il passato concedendo la libertà ai mafiosi è la stessa che ad ogni anniversario porta le corone per ricordare i martiri della violenza mafiosa. Fatemi un gradito favore, il 23 maggio (Giovanni Falcone) e il 19 luglio (Paolo Borsellino) state lontani da Capaci e da via D’Amelio, ci fate più bella figura. In questi giorni sono anche disgustato dal silenzio di alcune organizzazioni antimafia che non intervengono sull’avvenuta liberazione anticipata di mafiosi e di quelli che potrebbero beneficiarne. Zitti! Non comprendo questo silenzio. Se chi ha avuto l’idea di liberare anzitempo i mafiosi, con la scusa del coronavirus, avesse visto i corpi maciullati dei carabinieri, dei colleghi di Polizia, dei magistrati, come ha visto il sottoscritto, allora capirebbe tutta la mia amarezza e disgusto per questa scellerata decisione”.
Quaranta mafiosi stanno per uscire: è già uscito dal carcere Bonura (boss di mafia) per motivi di salute, come il boss Zagaria, e potrebbero beneficiare del ‘rischio coronavirus’ altri boss che oggi sono al 41bis, come il mandante della strage di Capaci (Bagarella), il mandante (Santapaola) dell’omicidio del giornalista Pippo Fava (per quest’ultimo giunge notizia che il giudice della Sorveglianza di Milano ne ha bocciato la richiesta proprio in questi giorni), il mandante (Pippo Calò) dell’omicidio del generale Dalla Chiesa e alcuni boss della Nuova Camorra Organizzata. Si tratta di una possibilità che ha generato polemiche e sconcerto nel mondo dell’Antimafia, negli italiani onesti e nei parenti delle vittime innocenti.
Anche l’amico giurista, il prof. Giuseppe Musacchio, presidente presso l’Osservatorio Antimafia del Molise e professore di diritto in varie università italiane e straniere, si dice sconvolto perché se dovessero uscire boss mafiosi del calibro di Cutolo, lo Stato avrà perso la sua credibilità e nessuno avrà più fiducia nelle giustizia. Nessuno avrà più il coraggio di denunciare e la mafia soffocherà definitivamente lo Stato. “Qualora si dovessero aprire le porte del carcere per gli autori delle stragi di Capaci e via D’Amelio si certificherebbe la sconfitta dello Stato e il trionfo delle mafie. Uno Stato responsabile non può”.

IMMUNI?
Cosa c’è sotto il dibattito sulla nuova App proposta dal governo

di Francesco Reyes

Si è innescato un discreto dibattito sulla nuova App proposta dal governo per monitorare i contagi da coronavirus.
Finalmente, anche in Italia, la questione della raccolta dei dati personali dei cittadini viene a galla, con domande lecite del tipo: “Come funzionerà, cosa produrrà davvero questa app”, “Può essere verificato grazie a un codice open source”, “Quali dati verranno raccolti”, “Dove e da chi verranno immagazzinati”, “Chi e per quanto tempo potrà avervi accesso”?

Sorprendentemente, da ciò che leggo sui giornali, il governo italiano sembra che stia considerando con attenzione queste criticità. Ciò che sembra invece fuori dal tempo è la reazione scandalizzata di molte persone di fronte a questa ipotesi di raccolta di dati personali.

Nell’Italia che sentiamo alla radio, in Tivù e sui social, si dà per scontato che non solo si possa, ma si debba avere uno smartphone Google-Android o Apple o un computer rigorosamente Windows. E su questo hardware, tutti abbiano installate una serie di applicazioni proprietarie (con il codice che le anima non verificabile da altri informatici). Queste applicazioni le conosciamo bene, si chiamano Google, WhatsApp, Instagram, Snapchat, Facebook, eccetera. Queste, sono tutte App voraci di informazioni personali, di ogni tipo: dal luogo in cui ci troviamo, alla lista dei nostri contatti, fino al movimento del nostro dito sullo schermo. Tutte queste informazioni sono raccolte allo scopo di predire e anticipare i nostri comportamenti.

Inoltre, è pluri-documentata la vendita dei dati raccolti, sia legale che illegale, così come la cessione ad aziende private e ad altri governi (anche quelli abituati a sostenere colpi di stato, come gli USA) con finalità tutt’altro che democratiche: manipolazione economica e politica delle masse, controllo e repressione degli individui più intraprendenti/pericolosi.

Adesso, facciamoci un esame di coscienza: abbiamo davvero a cuore le libertà guadagnate dai partigiani, dai nostri, padri, nonni e bisnonni? Tra queste libertà c’è il diritto inalienabile a una vita privata (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Articolo 12) e il diritto alla autodeterminazione. Questi diritti ci vengono silenziosamente sottratti ogni giorno. Davvero non ci sono alternative?

Su internet, in realtà, si trovano molte guide utili alla protezione dei dati personali: per fare un solo esempio miniguide.minifox.fr  [qui puoi consultarla]  Allora agiamo di conseguenza. Possiamo scegliere, possiamo sostituire WhatsApp, Google, Facebook con alternative free/open source, rispettose della privacy.

Forse è venuto il momento di metterci in testa che la tecnologia non è solo un bene, è anche una responsabilità. Oppure continuiamo pure a fare orecchie da mercante. Raccontiamoci pure che si tratta di semplici scambi commerciali, senza rischi sociopolitici e conseguenze macroeconomiche, senza un impatto grave e di lungo sulla vita quotidiana di ognuno di noi.

PRESTO DI MATTINA
La fratellanza e le dodici stelle dell’Europa

La Pasqua è un evento generativo di fraternità. Nel perdono del Crocifisso, che spezza la spirale di vendetta e rivalsa sui nemici, si origina un processo nuovo di riconciliazione nelle relazioni umane. Si spiega anche così la ragione per cui, a partire dalla Pasqua, i discepoli inizino a chiamarsi e sentirsi ‘fratelli’: tanto che negli Atti degli Apostoli sono ben 27 le ricorrenze di questo termine. D’altro canto, a Pasqua si svela la paternità di Dio. Un Dio che non ha lasciato nella tomba colui che, pur di rivelare la sorgente inesausta di un amore estremo – un amore all’eccesso –, non si è sottratto agli insulti e agli sputi, scegliendo di lasciarsi defraudare di questo amore, pur di manifestarne l’irreversibilità e la smisuratezza.

Un ‘amore all’eccesso‘: lo stesso sperimentato dai mistici che non hanno esitato a dare la vita; l’amore di cui sant’Ambrogio dice: “considera oggi l’eccesso della divina carità, e fin dove osò questo amore incomparabile”. Un amore disarmato – egli continua – in perdita, svuotato di sé stesso. Un amore per cui sant’Ignazio negli Esercizi scrive: “Come mai un Dio di tanta maestà sia giunto a tale eccesso di amore da ritrovare il modo con cui stare continuamente dal cielo a trattare e conversare con noi sì miserabili su questa terra”. La stessa ostinazione di amore che Paolo ricorda ai cristiani di Filippi, usando un termine ormai noto a molti, kenosis (svuotamento), pensando al quale mi viene sempre in mente l’immagine di un masso che precipita in un recipiente pieno d’acqua, e tale ne è la forza d’impatto che lo svuota completamente. È con analoga potenza che m’immagino questo Spirito di amore, questa ‘pesantezza di amore’, questa invadenza di amore, che ama per primo. Amore eccedente e sempre risorgente del Padre nel Figlio, amore che è esondato completamente fuori, senza tenere nulla per sé, per inondare l’intero genere umano e liberarlo dal male e dalla morte. Simile, se si vuole, all’amore di un padre e di una madre per un figlio in pericolo.

Apparentemente un ‘amore a perdere’; e nondimeno, come ricordava il cardinal Henry Newmann, generativo di un rapporto di fraternità. Il Figlio, nel dono di sé, diviene il “Primogenito di una moltitudine di fratelli” (cfr. Rm 8,29; Col 1,15); entrando nel mondo e resosi in tutto simile ai ‘fratelli’, egli non si è mai vergognato di chiamarci ‘fratelli’ (cfr. Eb 1,8; 2,18.11). Quando si ama, si accetta il limite, si rimpicciolisce, per amore dell’altro, per fare spazio all’altro, per poi ritrovarsi arricchiti, cresciuti nell’incontro che fa rinascere e aggiunge fratelli.

Ciò vale, beninteso, anche per noi, che aprendo le porte ai fratelli, è come se le aprissimo al Risorto. Sicché, contagiati anche solo un poco da quell’eccesso di amore che è la Pasqua, riusciremo a risultare ospitali verso l’inatteso, lo sconosciuto che chiede di entrare. Scopriremo così che tra i tanti nomi attribuiti a Dio, quello che più gli si addice è Agape, esplicitato in quel gesto del Risorto che spezza il pane nella taverna sulla strada di Emmaus e lo moltiplica per tutti senza chiedere contropartita in cambio. Questo amore è il sacramento della Pasqua, è il grande segno della Pasqua.

Lo celebra il vangelo di domani, che ci racconta di discepoli inizialmente tristi e delusi, in cammino verso Emmaus, che diventano fratelli gioiosi nell’incontro con lo straniero rivelatosi a loro nello spezzare il pane. Don Primo Mazzolari sottolinea che i due discepoli non conoscevano in anticipo – come noi lettori – l’identità dello straniero che si accompagnava loro. Eppure era rimasto in loro qualcosa di quell’amore all’eccesso che Gesù aveva trasmesso in vita, come un frammento eucaristico, un resto di quella dolce e fraterna amicizia che li aveva incantati, tanto da deciderli a divenire suoi discepoli. Così quella santità ospitale del Maestro che non rifiutava nessuno, li apre quanto basta per invitare lo straniero: “Resta con noi perché viene la sera e il giorno reclina nella notte”. Cresce così in loro, lungo il cammino, la capacità di farsi responsabili dell’altro, di dialogare con lui per ricevere la sua novità. Essi passano dall’estraneità alla comunione, che rimette in cammino; sono vivificati da un’amicizia, perduta e ritrovata, che fa nuove tutte le cose. Per questo da quell’incontro, essi scoprono un nuovo inizio e vanno ad annunciare ai fratelli che Lui è vivo, è tra noi ed è destinato a restarvi per sempre.

Anche taluni libri, dopo che li si è letti, paiono destinati a rimanere sempre con noi: si nascondono in qualche piega dell’anima e poi, ogni tanto, si ripresentano, riaffiorano e chiedono di risorgere attraverso una nuova lettura. Uno di questi è per me il libro di un grande biblista gesuita, padre Luis Alonso Schökel (1920-1998), dal titolo Dov’è tuo fratello. Pagine di fraternità nel libro della Genesi, nel quale peraltro, all’inizio del volume, l’autore racconta la parabola del ‘fratello-libro’, di un uomo in solitudine che incontrò un libro, lo lesse, incominciò a rivolgergli domande e a riceverne, tanto che venne a instaurarsi tra i due un legame spirituale così forte, come di fratellanza (è un’evidente metafora che l’Autore utilizza per indicare la relazione di fraternità che dovrebbe legarci ai libri della Bibbia). Ebbene, con questo lavoro padre Schökel si prefisse di indagare le molte relazioni familiari, e tra fratelli, nella Genesi il termine ricorre ben 38 volte. Relazioni spesso macchiate dall’esperienza traumatica e delirante della violenza omicida, fratricida. E tuttavia, l’autore sottolinea come, sin dagli inizi della creazione, accanto alla presenza di questa violenza omicida, si coglie la presenza di un percorso parallelo tracciato dal Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe volto a riaprire e far ripartire nuovamente la vita e l’alleanza creaturale. Per quanto abortita proprio nel suo sorgere con il gesto di Caino, Dio non manca di rinnovare la speranza (un arco di pace), dando avvio nella storia a una nuova alleanza, che lo indusse a porre la sua tenda in mezzo a dodici tribù nomadi per farne un popolo solo.

Si intravede così un ‘passante’ che va oltre il male; una ‘variante di valico‘ per così dire, o un ‘argine’ sotto altri profili, volto a contenere l’altra storia oscura, tumultuosa, di acque torbide, fragorose, irrefrenabili di conflittualità e sopraffazione tra fratelli. Il tutto ancora una volta alimentato dalla disponibilità amorosa e sempre risorgente di Dio, da cui presero ispirazione i molti patriarchi che non si rassegnarono al male. Tra cui mi piace qui ricordare Isacco, il quale, di fronte agli uomini che chiudevano i pozzi da lui scavati per il suo clan, non scelse di vendicarsi, né di muovere guerra, ma decise di scavarne altrove di nuovi. Recobot è il nome di uno di quei pozzi, in relazione al quale nella genesi si legge: “Si mosse di là e scavò un altro pozzo, per il quale non litigarono; allora egli lo chiamò Recobòt e disse: ‘Ora il Signore ci ha dato spazio libero, perché noi prosperiamo nella terra’”.

Vedete: c’è sempre un’alternativa alla violenza e attraverso le storie dei patriarchi, storie di fratelli quasi sempre in competizione e in conflitto (Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli, ecc.), riaffiora la speranza, che altro non è – come ci ricorda un proverbio africano – se non una strada di campagna formatasi perché taluno ha iniziato a percorrerla. Per questa ragione padre Schökel, commentando il versetto di Gen 33,10 (in cui Giacobbe, dopo avere temuto la vendetta del fratello Esaù, scopre il suo desiderio di riconciliazione), sostiene che si tratti di un versetto capitale: nella fraternità si riflette il volto stesso di Dio. “Esaù disse: ‘Ho beni in abbondanza, fratello mio, resti per te quello che è tuo!’ Ma Giacobbe disse: ‘No, ti prego, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, accetta dalla mia mano il mio dono, perché io sto alla tua presenza, come davanti a Dio, e tu mi hai gradito'”.

La fraternità – si badi – nasce pur sempre dalla differenziazione, e non esige omologazioni, ma chiede di essere riconosciuta e perseguita tramite la ricerca di punti di incontro, trattando, adattando, riprovando sempre di nuovo, senza disperare. Un esercizio, questo, che assomiglia a un gioco: ma non a quello del bambino con la palla, o del gatto con il topo. Un gioco paritario, intrapreso da compagni in posizione di eguaglianza fraterna, non antagonistica, tale da generare un’amicizia profonda, in grado di svelare la realtà buona dell’altro come portatore di benedizione, un’amicizia generatrice di creatività e responsabilità per il bene comune.

Sarebbe bene che lo ricordasse di questi tempi anche l’Europa, cui non guasterebbe ripensare alla propria storia alla luce della fraternità narrata dal libro Genesi. Del resto, le dodici stelle che compaiono nella bandiera europea non rappresentano, come taluni credono, il numero degli Stati fondatori – ed è per questo che rimangono sempre le stesse anche se gli Stati aderenti aumentano. Le dodici stelle furono scelte, semmai, proprio perché in alcune culture nazionali, tra cui la nostra, debitrici di quella ebraica, questo numero simboleggia la perfezione e la completezza nella complessità. Furono dodici, infatti, i figli di Giacobbe da cui originarono le tribù di Israele; dodici le stelle sulla corona della Donna dell’Apocalisse, dodici le porte della città futura, sulle quali stanno dodici angeli e i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele (Ap 21, 12). E le dodici porte (aperte) sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla (Ap. 21, 21).

Le stelle nel fondo blu dell’Europa fanno pensare al passaggio del Mar Rosso nel midrash a commento dell’Esodo: “le acque del mare si unirono a formare sopra le loro teste delle volte tracciando dodici sentieri – uno per ciascuna tribù –, e diventarono trasparenti come vetro, per cui ognuna di esse riusciva a scorgere le altre durante il cammino”. Come non leggervi nel numero dodici, che si trasforma in tre (1 + 2) il significato di una trasformazione profonda nel tempo, il passaggio ad una nuova età, ad un cambiamento d’epoca? Le tribù diventano nella loro diversità un unico popolo, non si perdono d’occhio anche se percorrono sentieri differenti, ma trasparenti. La stessa unione nella differenza che attraversa molta della storia biblica si coglie, per esempio, anche dal racconto del sogno di Giacobbe, in fuga da un passato conflittuale, in ricerca di una nuova realtà ancora sconosciuta e soltanto promessa.

“Giacobbe prese allora dodici pietre dall’altare sul quale suo padre Isacco era stato legato per il sacrificio, e disse: ‘Benché fosse nel disegno di Dio far sorgere dodici tribù, né Abramo né Isacco le hanno generate. Se ora queste dodici pietre si uniranno e diventeranno una sola, questo sarà il segno che sono io il predestinato a divenire il padre delle dodici tribù’. Ed ecco il prodigio: le pietre si unirono in una sola, e con questa Giacobbe si fece un capezzale, che a contatto col suo capo divenne morbido e soffice come un cuscino di piuma” (L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, vol. I, Dalla creazione al diluvio, Milano, Adelphi, 1995, p. 156 ss.). Quando si addormentava le dodici pietre si univano, quando si alzava le dodici pietre si separavano di nuovo, quasi a dire il dono e la responsabilità di una unione nella differenza.

PER CERTI VERSI
Dalla fine della guerra

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio, all’interno della sezione ‘Sestante: letture e narrazioni per orientarsi’

DALLA FINE DELLA GUERRA

Dalla fine della guerra
Siamo nati piano piano quasi tutti
Abbiamo sentito dibattere di grandi ideali costati sangue e vite umane torture e crudeltà
Abbiamo sentito parlare di Liberazione e di giustizia
Pace democrazia
E tutto questo
Ha nutrito la nostra libertà
Una parola
Perché siamo liberi nonostante qualche truce calamità
Guerre lontane
Disperate genti
Ma un tempo verrà
forse capiremo
Dei partigiani
l’eredità?

I LIBRI E LE ROSE
La BPG per il 23 aprile, giornata internazionale del libro.

di Emanuela Cavicchi

La sera del 22 aprile 1516 Ludovico Ariosto dev’essere andato a coricarsi stanco, felice, pensieroso di aspettative e di ripensamenti: quel giorno fu data alle stampe la prima versione dell’ Orlando Furioso. Uno dei poemi preferiti da Don Chisciotte, senz’altro da salvare dal rogo della sua biblioteca, ma solo nell’originale ariostesco: “non avrei nessun rispetto se lo trovassi qui tradotto, ma gli farei grande onore se invece parlasse nella sua lingua nativa”, dice il curato mentre scaraventa allegramente i libri di Don Chisciotte fuori dalla finestra, colpevoli, pensano molti, della follia dell’hidalgo.
Il 23 aprile 1616, in un corto circuito romanzesco, morivano Cervantes, Shakespeare e Inca Garcilaso de la Vega, primo scrittore dalla doppia origine, spagnola ed inca, a venire celebrato in Spagna. Veramente in Spagna ed in Inghilterra erano in uso due calendari diversi, per cui in realtà c’è qualche giorno di scarto tra la morte di Cervantes e quella di Shakespeare, anche se le cronache riortano per entrambi il 23 aprile. Ma è una coincidenza talmente suggestiva che questa data è stata proclamata GIORNATA MONDIALE DEpL LIBRO.

Questi destini, queste stelle devono aver incrociato i loro influssi: è così evidente! In una qualche vallata lunare Astolfo, Orlando, Don Chisciotte e Amleto brindano amabilmente con le ampolle delle nostre follie, mentre Sancho Panza attende bonario a Ronzinante e all’Ippogrifo, aiutato da Riccardo III, che ha finalmente ritrovato il suo cavallo.

Un anno fa, il 23 aprile 2019, stavamo montando scaffali e predisponendo per l’apertura della nostra biblioteca, la Biblioteca Popolare Giardino. Una biblioteca pubblica ‘come le altre’, tutte nostre sorelle, una biblioteca popolare ‘diversa da tutte le altre’: immaginata e costruita dal basso, completamente autogestita e autofinanziata. L’abbiamo inaugurata il 5 maggio con una festa molto partecipata, per poi cominciare ufficialmente le attività con la prima presentazione del 10 maggio 2019: Giulio Cavalli ci ha raccontato il suo romanzo Carnaio.
Abbiamo fortemente voluto aprire con la presentazione di un libro in una data simbolica, il 10 maggio, in cui ogni anno si ricorda il rogo di libri del 10 maggio 1933 perpetrato dai nazisti.
Avremmo voluto organizzare tante attività nella nostra biblioteca, per la giornata mondiale del libro, per il nostro primo compleanno, per la ricorrenza del 10 maggio. Nel locale della biblioteca, o nel giardino del grattacielo, come abbiamo fatto tante volte in passato. Come torneremo a fare in futuro. Speriamo presto.

Ora lo faremo a distanza, pubblicando ogni giorno delle letture, dei consigli, dei pensieri, in un percorso di parole da oggi al 10 maggio. Chiunque può mandare il proprio contributo: inviate un brano, una poesia, un commento sonoro, un video… al nostro indirizzo mail: bibliopopgiardino@gmail.com.
E venite a trovarci virtualmente [ecco il nostro sito] [la pagina Fb]. Il prossimo 5 maggio, per il nostro primo compleanno, stiamo preparando una sorpresa.

Oggi è anche San Giorgio, o Sant Jordi, patrono di Ferrara e della Catalogna, regione che ogni 23 aprile si adorna di migliaia di rose rosse, regalate alle donne e donate ad ogni persona che acquista un libro: narra la leggenda di Sant Jordi che il sangue sgorgato dal drago ucciso si sia tramutato in rose rosse.
Buon 23 aprile profumato di rose e di libri: da regalare, odorare, assaporare.

ROSPI / Prima la Cultura! Quella a pagamento però:
librerie aperte e biblioteche chiuse.

Una decina di giorni fa intervistavano in televisione un signore distinto, camicia, cravatta e un maglioncino di cashmere. Con una strana faccia, metà intellettuale e metà mercante. Era il presidente della Associazione Italiana Editori. Il quale, come tutti quelli che hanno un business da difendere, lamentava il disastro che la pandemia stava provocando nel suo settore. Nel 2020 si sarebbero stampati il 20% in meno di nuovi titoli: poco più di 60.000, invece degli 80.000 di quelli usciti nel 2019 (si sa che gli italiani non sono un popolo di lettori, sono un popolo di scrittori e poeti). Quindi milioni di copie in meno sugli scaffali delle librerie. Quindi milioni di Euro di fatturato in meno per grandi e piccoli editori.
La fosca previsione, assolutamente fondata, è arrivata certo alle orecchie del nostro solerte Ministro dei Beni Culturali. Che ha preso una decisione inedita, coraggiosa, ampiamente commentata dai media in Italia e nel mondo. Così, forse ispirandosi al vecchio adagio “non di solo pane vive l’uomo”, il governo ha disposto la riapertura, assieme a panetterie e supermercati, anche delle librerie.
Giusto, un libro è il ‘nutrimento dell’anima’. Io per esempio sono messo bene: ho la casa invasa dai libri, una scorta imponente, posso resistere all’emergenza coronavirus fino al 2030.
Peccato che il ministro Franceschini e tutto il governo si siano dimenticati delle biblioteche. Aprono, con tutte le precauzioni del caso, le librerie, mentre le biblioteche pubbliche (migliaia e sparse in tutti i borghi e città d’Italia) rimangono chiuse. Insomma, il ‘nutrimento dell’anima’ gli italiani possono andarselo a comprare (online o “di persona personalmente”), ma non possono prenderlo a prestito gratis. Forse non tutti sanno che il nostro Sistema Bibliotecario Nazionale (SBN) prevede che il prestito nelle biblioteche sia assolutamente gratuito. E’ un primato italiano, un segno di civiltà, che nessuno ricorda.
Dunque il made in italy delle biblioteche italiane rimane chiuso al pubblico. Chiuse le biblioteche e chiusi i musei. Se ne riparlerà a partire dal fatidico 4 maggio. Ha protestato perfino Vittorio Sgarbi: segno che anche uno come lui qualche volta ci azzecca.
Ecco quindi il rospo da sputare a cui allude il titolo di questo breve scritto. Abbiamo bisogno di cultura per uscire vivi dalla pandemia. Ne abbiamo bisogno come del pane. Ma tutta la cultura, non solo della cultura a pagamento. Caro Ministro, tu che nelle ore libere ti diletti a scriver romanzi, magari eri distratto, forse è stata solo una svista, ma ripensaci. E fallo subito: riapri le biblioteche.