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PRESTO DI MATTINA
Parole perdute e ritrovate

«La parola destinata a perdersi, così fuggevole nel suo rinascere costante, nella sua discesa e sùbita resurrezione… La parola – pietra che sorregge al costo di perdersi e di perderci, perché è istallata sulla fonte che anche di notte “butta e scorre”. E forse solo di notte, quando tutti i dire si placano, ed è possibile sentire il suo palpitare. Il palpitare inestinguibile di ciò che è vivo veramente» (Maria Zambrano, Dell’aurora, Genova 2000, 34 e 107). Questo ritrovarsi della parola ‒ nuovamente palpipante e viva nel suo perdersi, che è un rinascere come luce dalla notte, voce dal silenzio, vita dal sepolcro, come dall’inverno nuova primavera ‒ mi ha riportato alla memoria le parole perdute e ritrovate al Concilio Vaticano II, riemerse dai sotterranei della storia ecclesiale come un fiume carsico, come da lungo inverno.

Parole come «Regno di Dio; Popolo di Dio; Pastoralità; Sinodalità; Senso della fede dei fedeli; Segni dei tempi». Espressioni dimenticate da tempo riaffiorano dalla loro sorgente, e là le ritroviamo, dove sono nate, nel grembo dell’evento che le ha generate.
Così la volontà di ressourcement dei Padri conciliari, intenti a “riattingere alle sorgenti” cristiane della vita della Chiesa, ne ha animato il rinnovamento, dando vita a quella che fu per molti una rinnovata primavera nell’alternarsi discontinuo delle sue stagioni come fratture generative su cui si innesta il nuovo.

Occorre ribadirlo soprattutto in questo tempo di tensioni polarizzanti all’interno della Chiesa tra gerarchia e comunione, tradizione e profezia, dottrina e pastorale, istituzioni e carismi, conservazione e innovazione: il Concilio ha rappresentato bensì una novità rispetto al passato, ma senza ignorare la tradizione che lo ha preceduto, radicandosi in essa. Anzi, ha distinto tra la Tradizione con la con la “T” maiuscola, che è ciò che fa vivere la Chiesa, la linfa dello Spirito suscitatrice di nuove gemme e rami sull’albero e le tradizioni mutevoli nel tempo ciò che inaridisce, si secca e muore (cfr. Yves Congar, La tradizione e le tradizioni. Saggio storico, Roma 1964). Sicché, volendo ben si potrebbe affermare che l’ultimo Concilio è stato più rispettoso e fedele alla tradizione di quanto non lo fosse stato il Vaticano I, che si limitò, in sostanza, a risalire la corrente degli ultimi 150 anni della tradizione.

Ben oltre si è spinto invece il Vaticano II, risalendo dal passato prossimo al passato remoto se non remotissimo, sino alla Chiesa nascente. Fu una scelta profetica l’appello ecumenico di Giovanni XXIII dettato dalla necessità dell’unità di fronte alla divisione delle chiese, insieme a quella di riprendere il registro pastorale per rilanciare il dialogo con il mondo in vista dell’annuncio del vangelo; riscoprendo poi, nell’interrogarsi di Paolo VI «Chiesa cosa dici di te stessa?», l’identità più profonda, carismatica e missionaria della Chiesa “inviata ad gentes. Situandosi così coraggiosamente «all’opposto esatto di quella mentalità ‒ direbbe il teologo Giuseppe Ruggeri ‒ che ha avuto paura della vastità della tradizione globale della chiesa e ha preferito non mutare il tranquillo e ristretto equilibrio del passato prossimo. La novità principale del Vaticano II è piuttosto costituita dalla considerazione stessa della storia nel suo rapporto con il vangelo e la verità cristiana. Mentre per lo più nel passato si aveva consapevolezza che la storia vissuta dagli uomini fosse ultimamente indifferente per la comprensione del vangelo (parlo di “consapevolezza”, giacché “in realtà” non è mai stato così), la grande questione del concilio Vaticano II fu invece proprio qui, anche se le parole usate (pastoralità, aggiornamento, segni dei tempi) non furono subito lucidamente compresi da tutti… Per Giovanni XXII l’annuncio del vangelo era inseparabile dal riferimento alla storia» (Per un’ermeneutica del Vaticano II, in Concilium 1 (1999), 22-23). Di qui il profondo rinnovamento della Chiesa, scaturito ‒ come ricordava sempre Giovanni XXII ‒ non già da un mutamento del vangelo, quanto da una maggiore comprensione.

Una migliore comprensione che ha riguardato anche il mistero della Chiesa, non solo immaginata idealmente in un contesto sapienziale, ma colta qual è nella propria realtà storica ed esperienziale della sua missione profetica. Il paradigma sapienziale/dottrinale è stato così assunto e integrato dal linguaggio profetico, che è poi quello della storia, intento a comprendere il senso delle ‘rotture di soglie da cui ripartire’ ‒ siano esse piccoli o grandi avvenimenti ‒ di cui è fatta la trama del tempo.

Similmente, la struttura gerarchica della Chiesa è stata ricompresa in una dimensione comunionale all’interno del popolo di Dio in attuazione della propria vocazione battesimale e chiamata a formare con l’umanità la famiglia di Dio. Lungi infatti dal ridursi a un’istituzione da governare, la Chiesa non può che essere un luogo di relazioni umane, di sequela a Cristo, di fraternità, di reciprocità nel servizio, in ascolto, anzitutto dello Spirito di Cristo che la guida e, non di meno, dell’umanità in attesa del Vangelo della gioia. Un triplice sentire: Sentire cum Christo, sentire cum ecclesia, sentire cum mundo.

È dunque immersa nella storia che la Chiesa deve continuamente pensarsi e riformarsi – “Eccleasia semper reformada”: «la Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (Unitais Redintegratio, 6) ‒ affrontando le concrete contraddizioni che quotidianamente sperimenta per (ri-)trovare di continuo la sua via di fedeltà al vangelo, inteso non già in termini prescrittivi, ma come stile di comunione tra tutti i battezzati: «Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)».

Non sorprende allora che al Concilio si sia riscoperta la storia come “luogo teologico”, accanto alla scrittura santa e ai sacramenti. È nella storia, del resto, che Dio ha posto la sua tenda: proprio qui tra le case degli uomini, ove si fa conoscere come colui che fa proprie le vite delle sue creature, incrociando le sue vie, che non sono quelle degli uomini, con le nostre vie che è venuto a percorrere («un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione» cfr. Lc 10, 33).

È in questo modo che, al Concilio, ‘la verità del vangelo’ è stata interpretata e riaffermata attraverso ‘l’amore del vangelo’. Di qui la riscoperta ‘dell’ascolto della Parola di Dio’ non come in-formatrice e plasmatrice della dottrina, anche, ma primariamente quale legame che sancisce e tesse l’esistenza in alleanza, uno scambio, un mutuo riconoscimento tra un io un tu un noi, un tu che sta per tutti; un’apertura ospitale nella quale si dà e si prende la parola, in dialogo, cuore a cuore, mente a mente alleati, spalla a spalla per far riuscire la vita nella forma di un’intima comunione dell’uomo con Dio e degli uomini tra loro: «Impara a conoscere nelle parole di Dio il cuore di Dio», dice il papa Gregorio Magno.

Dentro la storia non si può che camminare insieme. Ecco allora riemergere la sinodalità ‒ che nel suo il significato primigenio, sun-odos, corrisponde a ‘strada con’, ‘camminare insieme’ ‒ la quale, come ci ricorda ancora Giuseppe Ruggeri, «è la categoria che traduce questo dinamismo della comunione, questa “somministrazione di ogni giuntura”, questa “energia di ognuno“. Essa è la “strada comune” che dobbiamo percorrere. Essa, nel rispetto dei doni di ognuno, è anteriore al bipolarismo clero-laicato» (G. Ruggeri, Sinodo di Noto).

La forma sinodale sembra allora ritornata a essere la dimensione essenziale, basilare della comunità ecclesiale: «Ciò che riguarda tutti deve essere dibattuto da tutti» (Giustiniano). Per Giovanni Crisostomo «la Chiesa ha nome sinodo». Non diversamente dalla Chiesa delle origini, informata al principio della sinodalità e della comunione, questi caratteri non possono che modellare anche il divenire della Chiesa in cammino, sino a plasmarne finanche la dottrina. Lo spunto trova autorevole avvallo nel pensiero di Gregorio Magno, il quale, nell’immagine quadriforme del Vangelo, faceva corrispondere i primi quattro grandi concili dei primi cinque secoli, volendo così attestare l’esistenza di una dimensione sinodale della “dottrina”, che non può non coinvolgere anche la liturgia, innescando un legame tra il momento eucaristico-sacramentale dell’assemblea e la sinodalità della vita ecclesiale (Cfr. Giuseppe Alberigo, Sinodo come liturgia, il Regno documenti, 13 207, 443).

Come concretamente praticare la sinodalità ce lo ha indicato Papa Francesco, che ha ripetutamente chiesto a tutte le comunità cristiane di esercitarsi e promuovere questo stile di partecipazione comunitaria sia nell’ambito pastorale sia in quello amministrativo.
Ha invitato così a fare esercizio sinodale declinando nella prassi due principi: “L’unità prevale sul conflitto” e “Il tutto è superiore alla parte” (EG 224 e 234). In particolare il primo ha come obbiettivo una comunione attraverso le differenze. La strada è «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo». Il tutto con la grazia di quegli «operatori di pace» nel cui comportamento è dato riconoscere l’impronta evangelica (Mt 5,9).

Nel secondo principio si coglie invece la tensione tra la globalizzazione e la localizzazione. L’esercizio cui siamo chiamati è dunque quello di «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi»: mantenersi così nel proprio piccolo, restando legati alle proprie radici, senza dimenticare però l’insieme in cui confluiscono e interagiscono tutte le altre parzialità.
Emblematico è allora, sotto questo profilo, il titolo che mons. Antonio Samaritani volle dare alla storia della nostra Diocesi: La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del suo territorio. Desiderò così declinare insieme la storia della cittadinanza e quella ecclesiale, svelarne gli intrecci solidali e le forme di partecipazione della gente comune. L’uso del termine “sinecistico”, “coabitante”, a lui così familiare ‒ indicante il processo di una vicendevole convergenza tra diversi in un’unica realtà, in modi «distinti ma non dissociati», in uno scambio reciproco e convergente ‒ si prestava a evidenziare nella nostra gente uno stile e una vocazione ad abitare insieme pur salvaguardando o integrando meglio, non senza lotte, le singolarità e le tradizioni di quanti hanno avuto origine altrove. Una sinodalità autentica, che mons. Samaritani viveva in profondità, mettendosene al servizio con l’intento di favorire la creazione e l’emersione di una “storia al plurale”.

Il tempo che la luna impiega per riallinearsi e ricongiungersi con la terra e il sole è detto rivoluzione sinodica o mese sinodico, che sta a indicare il tempo che intercorre tra un novilunio e l’altro. Insomma, camminano insieme il sole, la terra e la luna, uniti nella differenza ma accomunati, pure loro, da un’esperienza di sinodalità.
È allora significativo che un’antica tradizione, nel suo linguaggio simbolico, definisca il mistero della Chiesa ‒ chiamata a riflettere la luce di Cristo sugli uomini ‒ come Mysterium Lunae. Anche guardando in alto tra le sfere celesti si trova allora conferma che camminare insieme è la legge che governa l’universo.

PRESTO DI MATTINA, la rubrica di riflessioni di Andrea Zerbini, torna tutti i sabati su Ferraraitalia. Per leggere gli articoli precedenti, clicca [Qui]

RIPARTE LA CAMPAGNA OSM (OBIEZIONE ALLE SPESE MILITARI)

da: Davide Scaglianti – Rete Lilliput Ferrara

Anche quest’anno Rete Lilliput Ferrara vi propone di aderire ALLA CAMPAGNA OSM (OBIEZIONE ALLE SPESE MILITARI). UN’AZIONE SEMPLICE PER UN GESTO CONCRETO DI PACE.

Il Paese è in ginocchio, la diffusione del COVID19 ha messo a nudo la grave insufficienza di fondi destinati alla Sanità, alla Scuola e alle spese sociali, occorrono tanti soldi e contemporaneamente assistiamo al vergognoso spreco di enormi risorse  stanziate  per le spese militari,(72 milioni di euro al giorno, ogni anno in aumento, ) per l’acquisto di armi strumenti di morte e a un incremento delle esportazioni (anche ai paesi coinvolti in conflitti armati es Arabia Saudita).
Tutto questo è assolutamente inaccettabile e oggi, l’adesione alla campagna rappresenta l’occasione per manifestare la propria indignazione e il rifiuto di questa logica e pretendere a voce alta che i sacrifici siano equamente distribuiti e coinvolgano con drastici tagli la produzione e il commercio delle macchine da guerra

L’adesione alla campagna Osm rappresenta anche un appoggio al disegno di legge di iniziativa popolare “Un’altra difesa è possibile” che è stata consegnata alla Camera con più di 53 mila firme nel 2015. Su questo argomento,  nel giugno scorso è stata presentata  una petizione Al Parlamento. Con i contributi raccolti viene finanziato il progetto “Adopt Srebrenica”

Ogni anno in Italia viene proposta la Campagna di Obiezione alle Spese Militari per La Difesa Popolare Nonviolenta. che si pone i seguenti obiettivi:
– Riduzione delle spese militari a favore delle spese sociali
– Cambiamento del sistema di difesa offensivo attuale in un modello difensivo non armato e nonviolento.( Difesa Popolare Nonviolenta)
– Approvazione di una legge per l’opzione fiscale, ovvero la possibilità per ogni cittadino di devolvere la parte delle tasse pagate allo Stato per il militare, per un modello di difesa non armato e nonviolento.

Alla campagna Osm può aderire qualsiasi cittadino/a che voglia concorrere alla costruzione di un’alternativa alla difesa armata e perché lo Stato costruisca percorsi coerenti per la Pace. Negli ultimi anni le spese militari sono in costante aumento e occorre cambiare modello di difesa e operare perché la Pace non sia pensata solo durante e dopo i conflitti, perchè la difesa non rimanga in mano solo ai militari, perchè lo Stato crei apparati per la Pace e un modello di difesa nuovo che difenda non gli interessi economici, ma le persone e la democrazia di un territorio

Le forme di adesione sono diverse, quella che viene qui proposta è la più facile da realizzare.
Come nodo locale abbiamo confermato la scelta di sostenere anche quest’anno il progetto di pace “Adopt Srebrenica”, seguito dalla Fondazione Langer, che ha come obiettivo l’ aggregazione dei giovani di Srebrenica delle diverse etnie presenti sul territorio, attraverso la diffusione di una cultura di gestione nonviolenta dei conflitti. Questa scelta consente alla Fondazione Langer di avere una continuità anche economica a sostegno del progetto e al territorio ferrarese di consolidare un legame con Srebrenica che dura da  anni.

Il percorso da seguire è molto semplice,  analogo a quello del 2019, quando abbiamo avuto 142 adesioni e raccolto 3380 euro.

Chi è intenzionato a confermare l’adesione alla campagna OSM  o ad aderire quest’anno per la prima volta è pregato di contattare i seguenti recapiti telefonici: 0532 52000 oppure  333 4985319.

Al cantón fraréś
Romano Baiolini: “L’ólma”

L’abbattimento di un olmo (ulmus campestris), pianta un tempo molto presente nella pianura padana, per Baiolini è motivo di riflessione sul rapporto fra l’uomo e la natura, sulla trasformazione del paesaggio. Quell’albero emanava forza, meraviglia, protezione. Un legame antico e profondo col mondo vegetale spezzato in nome di un po’ di raccolto in più.

 

L’ólma

Pr’uη pugn ‘d furmént,
par dó biétul iη più,
t’at jé ciamà cuntént:
l’ólma, cla grànda at à abatù.

La jéra ‘η riferimént viv,
l’as guardàva da sota iη su
e fadìga jéra cuntàr j’uślìη
ch’agh bazigàva o j’és al nid lasù.

Mi a l’amiràva iη siléηzi,
ch’agh fus mi sól o coη j’amìgh:
maravié dla natura, pina ‘d frid,
gnu su int la val, int al graη spazi!

Nisuη séva dir parché
l’as catés vèrs a la “Mòta”
o se qualcùη l’avìs piantà,
parché i la rispetés la źént d’una volta.

E cla ciòlda rùźna, a testa schiza,
η’jérla forse lì par na barca stràca?
Dòp la “Mòta”, la tèra quaś bianca,
ill ca’ ill jéra sól iη luntanàηza.

Zént ann l’agh éva e fórsi più,
no vént, no tempuràl o àltar,
uη cuntadìη? No! Uη bàrbar
al l’à abatù!

 

L’olmo

Per un pugno di grano, / per due bietole in più, / ti sei chiamato contento: / l’olmo, quello grosso, hai abbattuto./
Era un riferimento vivo, / lo si guardava da sotto in su / e faticoso era contare gli uccelletti / che vi bazzigavano o con il nido lassù. /
Io l’ammiravo in silenzio, / che fossi solo o con gli amici: / meraviglia della natura, piena di ferite, / cresciuto nella valle, nel grande spazio! /
Nessuno sapeva dire perché / si trovasse verso la “Motta” / o se qualcuno l’avesse piantato, / perché lo rispettassero i vecchi di un tempo. /
E quel chiodo rugginoso, a testa piatta, / non era forse lì per una barca stanca? / Dopo la “Motta”, il terreno quasi bianco, / le case erano solo a distanza. /
Cento anni aveva o forse più, / non il vento non il temporale o altro, / un contadino? No! Un barbaro / l’ha abbattuto!

Tratto da Luigi Vincenzi (a cura di), Nòz d’arzént col nòstar bèl dialèt, Ferrara, Tréb dal Tridèl, 2007.

Romano Baiolini (Jolanda di Savoia 1927 – Codigoro 2010)
Agronomo. Da sempre attento ed instancabile ricercatore del lessico e delle forme espressive del dialetto locale, ha pubblicato il Saggio di dizionario etimologico del dialetto ferrarese, Ferrara, Edizioni Cartografica, Ferrara, 2001. Ha aggiornato continuamente i suoi repertori avvalendosi della collaborazione di Floriana Guidetti e altri. Fra le sue opere successive: Vocabolario del dialetto ferrarese (2004), Vocabolario del lagotto (2005), Saggio di grammatica comparata del dialetto ferrarese (2005), Nuovo vocabolario storico-etimologico del dialetto ferrarese (2008).

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: L’olmo del Parco Massari, Ferrara. Foto di M. Chiarini (settembre 2020) 

PAROLE A CAPO
Drugo: “Da solo sul ring della vita” e altre poesie

“La poesia è resistere e tregua assieme, è aprire un varco nel futuro, è fantascienza.”
(Silvia Tebaldi & Gian Paolo Benini)

 

DA SOLO SUL RING DELLA VITA

Le corde del ring della vita
mi accolgono dolcemente
con la loro elasticità.
Mi ci appoggio
confidando nella loro resistenza.
L’avversario non c’è
l’avversario è l’altra parte di me.
Spero che l’arbitro
decreti la fine del match
prima che le corde si rompano
prima che noi due si finisca al tappeto.

 

EREDITÀ

Eredità non è fatta solo di cose.
La vera eredità è fatta
di sorrisi
di lacrime
di carezze
di sguardi
e di ricordi.
Ricordi che tu, mamma,
non hai più.
Ti sono stati rubati dalla malattia.
Non preoccuparti
ci sono qua io
a mettere ordine
nelle polaroid della tua vita.

 

PAROLE DI PIOMBO

Quando, da ragazzo,
ho cominciato a lavorare
nella tipografia di mio papà,
le parole erano di piombo.
Ma anche le parole di mio papà
erano di piombo.
C’era un rapporto ponderale
tra quello che componeva
e quello che diceva.
Oggi le parole
viaggiano leggere, anche troppo,
ma gli occhi e le orecchie
che le leggono e le ascoltano
non sono cambiati.
Attenti a scrivere parole leggere
che cadono anche loro,
come parole di piombo,
sulla e nella testa della gente.

 

Drugo, un’infanzia e una giovinezza vissute su una lingua di terra tra il Po e il mare. Una maturità che scopre la poesia e il gusto attraverso di essa di raccontarsi. Il Drugo lo puoi trovare la mattina presto appollaiato sui gradini della darsena che legge e scrive. L’acqua scorre e lui la ascolta, l’acqua lo riporta alla sua giovinezza, si conoscono bene, si parlano. La sera, poi, lo puoi incontrare al bar, mentre discorre di letteratura e filosofia , mentre racconta di sé e dei suoi, con lui ti puoi perdere, tra scanni vicini e continenti lontani. La sua poesia nasce così, dal contatto con la realtà della vita, dalla sabbia e dall’asfalto, dal piombo dei caratteri tipografici che allinea e inchiostra da sempre. Il Drugo non pubblica, diffonde la sua arte, solo tra chi gli è vicino, tra chi ritiene che possa apprezzare i suoi versi, i suoi racconti. Prima però deve averti guardato negli occhi, e aver riconosciuto in te una parte di sé.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
Lo jettatore

Vite di carta. Lo jettatore

Sto leggendo Il colibrì di Sandro Veronesi, come era nei miei programmi, soprattutto dopo avere ascoltato l’autore al Festivaletteratura a Mantova sabato scorso. Per le prime cento pagine mi sono lasciata andare a leggere semplicemente, cercando di assorbire il libro e basta. Però. Da stamattina non ce l’ho più fatta, mi sono dovuta fermare. E’ stato un personaggio, quello di Duccio Chilleri a darmi l’alt: in lui c’è un richiamo troppo forte a una novella straordinaria poi diventata atto unico di Luigi Pirandello, La patente.

Superati senza scosse i primi capitoli con i loro salti temporali, rinunciando a collegarli ad altri libri con gli stessi salti; superata la tentazione di verificare l’ipotesi che il libro sia organizzato non in ordine cronologico ma per temi come La coscienza di Zeno; mi sono dovuta soffermare su Duccio, il quale imperversa nel quinto capitolo e poi ritorna in Fatalities (1979), che è il numero 17.

Mi urgeva fare un bilancio, provvisorio si sa, sulle reazioni di lettura; ci ho riflettuto un momento e ho realizzato che questo libro è fatto di storie di persone che si intrecciano e non di oggetti, come era emerso sabato scorso a Mantova nel discorsetto di Veronesi sugli architetti che fanno gli scrittori.

E allora seguo la mia pista di lettura collaterale, va bene anche così; interrompo Il colibrì e scendo in studio ad acchiappare la copia dell’atto unico La patente, dove il protagonista Rosario Chiarchiaro fa la parte dello jettatore, che chiede di essere riconosciuto ufficialmente come tale e va dal giudice per ottenere la relativa patente.
Rosario e Duccio portano jella, ecco cosa li rende molto simili.

Di Duccio si dice al capitolo 4: “Era un ragazzo alto e sgraziato ma ugualmente dotato negli sport…Nero di capelli, sorriso cavallino, talmente magro da sembrare sempre di profilo, era accompagnato dalla reputazione di portare sfortuna” e da ciò era derivato il soprannome di “Innominabile”.

Tutto era nato negli anni dell’infanzia da un brutto incidente sugli sci capitato in gara a un bambino suo  avversario; a lui Duccio aveva predetto che si sarebbe fatto male cadendo. Poi si erano accumulati altri episodi negli anni della adolescenza e il risultato era stata la perdita delle amicizie, gli altri ragazzi “credevano davvero che Duccio Chilleri portasse iella”, “qualunque suo pronunciamento aveva la forza mistica di un anatema”. E’ “sbalorditivo”, ma alla fine degli anni settanta del XX secolo questo accadeva a Firenze.

Rosario Chiarchiaro ci trasporta invece nella Sicilia degli inizi del Novecento, quando ‘jella’ aveva una grafia diversa. Leggiamo la descrizione che ne fa Pirandello in una lunga didascalia che precede l’ingresso del personaggio sulla scena, nello studio del giudice D’Andrea che dovrebbe rilasciargli la patente di jettatore: “S’è lasciato crescere sulle cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s’è insellato sul naso un paio di grossi occhiali cerchiati d’osso che gli danno l’aspetto di un barbagianni; ha poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene una canna d’India in mano col manico di corno”.

Chiarchiaro è un uomo maturo, è padre di famiglia; se si è conciato così è per disperazione. Da un anno vive in miseria con la moglie e le due figlie nubili, poiché ha perso il lavoro, è “fustigato da tutti, sfuggito da tutto il paese come un appestato”. Non gli resta che ricorrere alla giustizia e perciò sporge denuncia contro il figlio del sindaco e contro l’assessore Fazio, che hanno fatto gli scongiuri vedendolo passare.

Lo scopo, però, è di perdere la causa. Al giudice D’Andrea, che fatica a capire Chiarchiaro, spiattella le sue intenzioni: “Io mi sono querelato perché voglio il riconoscimento ufficiale della mia potenza. Non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza terribile, che è ormai l’unico mio capitale, signor giudice!”

Alla parola “capitale” mi fermo e faccio il punto sul rapporto che lega questo personaggio al Duccio di sopra. Dunque entrambi patiscono la fama di portare sfortuna; in termini pirandelliani si direbbe che la società ha imposto loro una ‘maschera’, che li determina senza scampo. Ne risente il loro aspetto: anche Duccio subisce dal suo autore una descrizione espressionistica che sfiora la caricatura.

Vediamolo sempre al capitolo quattro: finita l’adolescenza sono bastati pochi anni per fargli cambiare aspetto. “Fisicamente era diventato alquanto impresentabile: quando parlava, una bavetta bianca aveva preso a raggrumarglisi negli angoli della bocca; i capelli corvini erano sempre più unti e forforosi; si lavava poco e il più delle volte puzzava”.

Ne risente il rapporto con gli altri, la cattiva nomea lo avvolge come una crosta. Solo Marco Carrera è rimasto amico di Duccio; egli ha anche elaborato una teoria sulla propria incolumità e l’ha chiamata “l’occhio del ciclone”. Secondo questa teoria, a mantenersi a stretto contatto con l’Innominabile non si rischia nulla, come accade se ci si posiziona al centro dei vortici ciclonici. Poi, con gli anni anche Marco si allontana da Duccio.

Il punto di svolta è l’incidente aereo che i due hanno evitato perché Duccio, preso dal terrore per il volo, ha preteso di scendere dal velivolo poco prima del decollo, non senza lanciare uno dei suoi anatemi ai passeggeri. In seguito alla caduta dell’aereo le vittime, le “fatalities” del titolo, sono 94. Marco resta travolto dal peso di questa tragedia, si tiene dentro le angosce che ne conseguono e il dubbio “circa un universo veramente attraversato da forze occulte, delle quali il suo amico d’infanzia fosse veramente in possesso”.

Non so se il seguito del romanzo mi farà conoscere altre svolte nell’amicizia tra i due. Nel punto in cui mi trovo Duccio risulta isolato dagli altri.

Invece so bene come va a finire nell’opera di Pirandello: Rosario Chiarchiaro, dopo aver subito la stessa emarginazione, ha reagito con forza; la sua richiesta di essere riconosciuto ufficialmente come jettatore costituisce un paradosso, uno dei tanti a cui ci ha abituato Pirandello, ma gli permette di incamerare la maschera che gli altri gli hanno imposto. Se avrà la patente di jettatore, infatti, potrà usarla a proprio vantaggio.

Al giudice D’Andrea sempre più sbigottito spiega: “Ci sono tante case da giuoco nel nostro paese! Basterà che io mi presenti. Non ci sarà bisogno di dir niente. Il tenutario della casa, i giocatori, mi pagheranno sottomano, per non avermi accanto e per farmene andar via!” Lo stesso accadrà quando si apposterà presso una gioielleria e verrà pagato per spostarsi vicino al negozio della concorrenza. Sarà come una tassa che gli verrà versata e lo renderà ricco.

La ‘maschera’ di Chiarchiaro e la ‘crosta che circonda Duccio, ecco il punto di incontro tra i due, il loro essere vittime dell’ignoranza e della superstizione. Anche se il testo di Pirandello nel finale ci lascia sbalorditi, il suo genio ci introduce nei piaceri del relativismo e della frantumazione di ogni certezza, quando nello studio del giudice arriva una folata di vento che fa cadere la gabbia dell’amato cardellino e la bestiola muore. Chiarchiaro trionfa: anche il giudice D’Andrea, così razionale, deve capirlo, che di fronte a sé ha un vero jettatore; ora potrebbe dare risposta anche ai dubbi di Marco Carrera circa le “forze occulte” che si aggirano nell’universo.

Da domani mi attende la lettura del resto del romanzo. Rientro dalla stradina collaterale alla strada maestra, tuttavia la mia sosta è stata utile, perché mi ha fatto rileggere il mio amato Pirandello. Poi c’è un’altra ragione. Domenica scorsa non ho potuto seguire l’intervista che, sempre a Mantova, Marco Malvaldi ha rivolto a un grande narratore della scena mondiale, Javier Cercas.

Dal resoconto che ho recuperato nel sito del Festival ho tratto, però, alcune affermazioni di Cercas che mi sono piaciute, quando parla del lettore. Una in particolare: “E’ l’aspettativa il male più grande che possa affliggere il lettore…, l’aspettativa che debba sempre succedere qualcosa in più. Abbiamo spesso l’impressione che nei libri non succeda niente perché non cerchiamo abbastanza. Nei libri, se cerchiamo bene, succede tutto”.

Eccola qui la ragione che mi ha costretta a fermare la lettura del Colibrì. Mi sono lasciata trasportare dalle aspettative sul libro, quelle che mi sono fatta ascoltando l’autore e quando ho realizzato che per me nel libro c’è altro, per meglio dire c’è ‘anche’ altro, ho voluto fare il punto sulla situazione. Secondo Cercas mi resta ancora molta ricerca da fare sul libro che sto leggendo e questa regola l’ho fatta mia da tanto, da quando ho capito che lettura e scrittura sono due realtà in perenne comunicazione.
Quello che farò quando mi metterò a leggere anche i suoi romanzi sarà sbagliare di nuovo, perché su di lui mi sono già creata grandi aspettative.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

BUFALE E BUGIE
Ci si riammala, serve il vaccino! Ma…

Da quando la vita ha lasciato il posto alla sopravvivenza, facendo dimenticare che i rischi del vivere sono connaturati nell’esistenza stessa, il timore di smarrire la salute è divenuto il nuovo comun denominatore a tutti i componenti della nostra società. Una paura irrazionale, tuttavia, che non sa concretarsi in una cosciente acquisizione di modus vivendi sani e profilattici.

Business Insider Italia, che già avevo segnalato per disinformazione scientifica, è tornato lo scorso 28 agosto ad alimentare gli allarmismi ingiustificati degli ultimi tempi: “Ora c’è la conferma: di Covid ci si può ammalare di nuovo. Ma il vaccino servirà comunque”. E invece la realtà è diversa: non c’è alcuna conferma. Lo studio citato [vedi qui], il cui testo originale è stato accettato ma non ancora pubblicato in via definitiva, per cui è suscettibile di interventi correttivi, presenta l’ipotesi di un caso di reinfezione da SarsCov-2, che nulla ha a che vedere con il ritorno di una malattia, in questo caso la Covid-19. L’uomo incriminato, che a seguito di alcuni sintomi primaverili riconducibili a tale patologia era risultato positivo al test del tampone, ed è stato perciò ritenuto da essa colpito, al ritorno da un viaggio è stato sottoposto a un ulteriore tampone nel mese di agosto, rivelandosi nuovamente positivo, ma in totale assenza di sintomi. Le analisi condotte hanno evidenziato sia la probabile presenza di una immunità nel paziente conseguente alla prima infezione, sia l’appartenenza a due ceppi diversi del virus individuato nelle due occasioni. Addirittura, “il ceppo virale rilevato nel secondo episodio è completamente diverso da quello trovato nel primo”, nonostante l’articolo italiano parli di “una varietà leggermente differente”. Ma anche un’altra sbrigativa affermazione si discosta dai contenuti del manoscritto: “la sua carica virale era comunque alta. Il che significa che avrebbe potuto infettare altre persone”, mentre piuttosto la contagiosità è fortemente condizionata dalla presenza di sintomi, e infatti di ciò non si parla nel testo del paper. L’accento, infine, viene spostato sulla questione vaccini, ma pure in questo caso lo studio originale sembra mostrare uno scenario differente. I risultati ottenuti farebbero pensare, infatti, che i vaccini contro il nuovo coronavirus potrebbero, testualmente, non essere in grado di fornire una protezione permanente contro il malanno. A ogni modo, comunque, non è affatto dimostrato al momento che un eventuale vaccino “proteggerebbe in ogni caso dall’eventualità di ammalarsi gravemente”. Ciò non è ancora certo, né può essere esteso all’intera popolazione.

Il nuovo studio non menziona casi di una ricaduta da Covid-19, mai dimostrata scientificamente. Semplicemente, testimonia la possibilità, considerata rara, di avere esito positivo al tampone anche dopo aver avuto sintomi in passato. E i dubbi sul vaccino si mantengono tuttora.

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FERRARA: ESTERNO VERDE
In bici e in barca tra ville e delizie

Da: Ufficio Stampa Ass. Ilturco

Eleganti delizie rinascimentali, ville circondate da parchi e giardini, accoglienti aie di campagna, impianti di bonifica e piccoli santuari: Esterno Verde sabato 3 e domenica 4 ottobre invita ferraresi e turisti a esplorare la campagna che si stende oltre alle mura di Ferrara, punteggiata di luoghi straordinari, attraverso i quali è possibile leggere il passato e il presente del territorio. Per un weekend saranno eccezionalmente aperti al pubblico parchi e giardini privati di suggestive dimore storiche e casali, idrovore e case coloniche, distribuiti lungo un percorso che dal capoluogo estense si svolgerà attraversando le frazioni di Pontegradella, Baura, Contrapo, Codrea e Quartesana, per giungere fino a Sabbioncello San Vittore, Ducentola e Aguscello, e infine tornare verso il centro città.

L’associazione Ilturco – che dal 2016 cura Interno Verde, che da poco ha festeggiato la quinta partecipatissima edizione – ha voluto riservare alla scoperta del patrimonio storico, architettonico e paesaggistico della provincia un momento speciale e dedicato.

«Nel 2019 abbiamo sperimentato per la prima volta questo tipo di proposta, coinvolgendo i proprietari delle ville e degli agriturismi, invitando le persone che apprezzano l’atmosfera raccolta dei giardini segreti del centro storico a vivere un’esperienza diversa, a guardare con occhi nuovi la provincia e le tante sorprese che custodisce», raccontano gli organizzatori. «Consigliavamo un percorso in bicicletta, da incrociare con le gite in battello lungo il Po di Volano e le corse dei treni che, diretti verso Codigoro, fermano a Quartesana. La collaborazione avviata quest’anno con l’associazione Metropoli di Paesaggio, impegnata nella costruzione del nuovo pontile di Baura, che verrà inaugurato proprio sabato 3 ottobre, ci aiuterà a migliorare i collegamenti tra i vari paesi e trasformerà Esterno Verde in una vera e propria festa. Abbiamo studiato un programma comune che comprenderà l’inaugurazione dell’attracco, momenti conviviali e approfondimenti, oltre naturalmente alla straordinaria apertura al pubblico di tanti luoghi solitamente non accessibili».

La navigazione tra Ferrara, Baura e Sabbioncello sarà gratuita a bordo del battello Nena, sul quale sarà possibile trasportare anche le biciclette. Un servizio di noleggio bici, sempre gratuito, sarà a disposizione presso il nuovo pontile di Baura. Nella creazione dell’itinerario su due ruote sarà di supporto anche il collegamento ferroviario che collega Quartesana al centro città, con treni e autobus che possono caricare i mezzi.

Le iscrizioni a Esterno Verde sono già aperte online al sito www.internoverde.it. Giovedì 1 e venerdì 2 ottobre sarà inoltre possibile iscriversi di persona presso la sede dell’associazione, in via del Turco 39, dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19. Durante l’evento, sabato 3 e domenica 4 ottobre, ci si potrà iscrivere presso i seguenti infopoint, aperti dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18: nello splendido giardino di via Pomposa 70, presso il nuovo pontile di Baura, davanti al bar Acli di Quartesana.

L’iscrizione – valida per entrambe le giornate – prevede un contributo di 10 euro, gratis per i bambini fino ai 13 anni, e comprende il braccialetto che funziona da pass di accesso, la mappa dei luoghi aperti e il libretto con le loro descrizioni e fotografie. Per saperne di più: info@internoverde.it.

I numeri che governano il mondo ma non la felicità

I dati della Banca Mondiale ci dicono che il Pil (Prodotto Interno Lordo) mondiale è cresciuto tra il 2018 e il 2019 di circa 2 trilioni di dollari (in percentuale del 2,3%) raggiungendo quasi 88 trilioni di dollari (87,8 trilioni).

Nella classifica dei Paesi che producono maggiore Pil non vi sono grossi sconvolgimenti. L’India continua ad avanzare e si piazza tra i primi 5, l’Italia è 8^ in quanto produce 2 trilioni di dollari di Pil che rappresentano il 2,3% del totale mondiale.

Come si nota, i primi 10 Paesi producono oltre la metà del PIL mondiale il che è un colpo d’occhio sulle capacità produttive e di scambio degli stessi (la tabella completa qui https://databank.worldbank.org/data/download/GDP.pdf) rispetto al resto del mondo che consta di 196 stati “sovrani”.

I dati di Eurostat e Oecd mostrano invece la perdita di Pil nel 2° trimestre 2020 rapportato allo stesso trimestre del 2019 su una serie di 39 paesi singoli a cui si aggiungano gli stessi dati in aggregato per Nafta, Eu, Euro area, Oecd totale.

Qui vediamo che a fare peggio è il Perù mentre Taiwan e Corea del Sud sono i paesi che meglio hanno resistito alla tempesta coronavirus. La Cina flette ma rimane con il segno positivo.

Diamo uno sguardo anche al debito pubblico mondiale. Nel 2019 è arrivato a 69,3 trilioni, ed è interessante notare che la maggior parte di questo debito è detenuto dai paesi ricchi, ad esempio l’Europa ne detiene il 23,4% (meno del Nord America che ne ha per il 34,2%) mentre l’Africa con la sua quota di 1,313 trilioni arriva appena all’1,9 della percentuale globale. Insomma si vive meglio dove si è fatto debito pubblico, peggio dove si è stati costretti a restituirlo.

La quota maggiore appartiene agli Stati Uniti, il Paese che spende di più, anche per sostenere l’economia degli altri stati, secondo il principio che se c’è un venditore deve esserci un compratore e che a un creditore corrisponde un debitore. Per assurdo, senza debito – credito non ci sarebbero transazioni e non ci sarebbe bisogno di conteggiare Pil e debito, forse non si produrrebbe niente oppure ognuno farebbe per sé.

In sostanza il debito globale è inferiore al Pil globale, quindi gestibile nell’eventualità di un confronto con economie aliene, e il debito pubblico non corrisponde a povertà e indigenza ma ‘probabilmente’ a sviluppo e investimento per il futuro. Una nota a questo è necessaria: il debito pubblico deve essere gestito bene per poter dare frutti, quindi dovrebbe essere compreso nelle sua funzione di spesa di quel settore che corrisponde al bilancio statale, mentre il Pil … “non misura ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.

“Pittori fantastici nella Valle del Po”
in mostra tra tigri al pascolo e liturgie gastronomiche

Ultima settimana per andare a vedere come 42 artisti contemporanei hanno rappresentato in questi ultimi anni le terre attraversate dal Po, la sua gente e le caratteristiche tutte padane di volti e paesaggi. Una visione racchiusa nella carrellata di quadri esposti alla mostra “Pittori fantastici nella Valle del Po”, al Pac-Padiglione d’arte contemporanea, accanto all’ingresso di Parco Massari in corso porta Mare a Ferrara, visitabile fino a domenica 27 settembre 2020.

“Affettazione liturgica” di Enrico Robusti

Un’opportunità per spaziare dai paesaggi pianeggianti degli argini fino ai volti grotteschi di chi ci abita e può essere votato alla liturgia dell’affettatrice di culatello e prosciutto o alla meticolosa documentazione di quel mostro reale e vivente delle acque fiumane che è il pesce siluro.

“Siluro” di Marcello Carrà

Ed è anche occasione per andare a osservare da vicino lo spettacolare “Notturno padano” che campeggia su manifesti e striscioni promozionali della mostra, un olio su tavola con quella luna-faro a illuminare i campi di una piccola comunità rurale dove, al primo colpo d’occhio, si intravedono sagome di animali tra frutteti, borgo e campi distribuiti sulla riva del Po attraversato dal ponte di ferro ferroviario.

“Notturno padano” di Adelchi Riccardo Mantovani sulla copertina del catalogo della mostra con sopra la linea del fiume Po

Bisogna guardare bene per arrivare a distinguere – in mezzo a pecore e maiali d’ordinanza – una tigre, una famigliola di elefanti, una giraffa che bruca un albero. L’opera, scelta come immagine dei manifesti e della copertina del catalogo della mostra, è firmata da Adelchi Riccardo Mantovani, artista nato nel 1942 a Ro, in provincia di Ferrara, che in qualche modo aggiorna in termini di arte contemporanea quella capacità di evocazione fantastica di cui è stato eccezionale cantore letterario Ludovico Ariosto e che a Ferrara aveva trovato nella pittura tardo-rinascimentale di Dosso Dossi un grande interprete, contagiato dal gusto dell’opera fiamminga e fantasmagorica di Hieronymus Bosch. Questa è anche una delle opere rappresentative del contributo di artisti ferraresi alla mostra, che spazia poi su tutto l’ampio territorio geografico nazionale attraversato dal fiume Po, a partire dalla fonte montana sul Monviso fino, appunto, al Delta.

Sala con l’esposizione anche degli artisti ferraresi della mostra “Pittori fantastici nella Valle del Po”, Palazzina Marfisa di Ferrara (foto GioM)

La mostra è curata da Camillo Langone e contiene una micro-sezione curata dal critico Lucio Scardino per dare spazio a sette pittori rappresentativi dell’area ferrarese. Ecco dunque Aurelio Bulzatti con la sua “Trilogia estense” fatta di tre quadretti dedicati in successione a “strada, sogno e fiume”; la carta-lenzuolo dove Marcello Carrà dà prova della sua talentuosa vocazione naturalistica a tratteggiare a colpi di penna biro un siluro lungo oltre tre metri; Gianfranco Goberti con una raffinata versione quasi concettuale del “Paesaggio padano” reso con grafite e acrilico su carta; l’acrilico usato da Sergio Zanni come un acquerello per descrivere pianura e argini nostrani. Notevole anche la capacità veristica di fotografare un pezzetto di urbanizzazione rurale senza risparmiarne i dettagli privi di idealizzazione, con tanto di tettoie in amianto e finestre in acciaio anodizzato, di cui dà conto il grande olio su tela non intelaiata di Nicola Nannini, intitolato “Sotto un cielo d’autunno”.

“Sotto un cielo d autunno” di Nicola Nannini

Armoniosa disarmonia quella del collage di Luca Zarattini che con la sua tecnica mista dell’opera intitolata “In foce” regala scorci resi astratti dove si possono immaginare spunti visivi delle barche tipiche del Delta del Po (le batane), anatre e canneti, trasfigurati nel suo stile che riconcilia la vista e rende ariosa e personalissima la sua visione tutta contemporanea del paesaggio lagunare.

“In foce” di Luca Zarattini

“Pittori fantastici nella Valle del Po”, al Pac-Padiglione d’arte contemporanea (corso Porta Mare 5, Ferrara) fino a domenica 27 settembre 2020, aperto da martedì a domenica ore 10-13 e 16-19.30

Red Carpet rosso sangue

La ‘Settima Arte’, come viene definito il Cinema, contiene in sé qualcosa di magico e irripetibile perché cattura, fa immedesimare, affascina e coinvolge come fosse un mirabolante affabulatore instancabile. Il grande schermo rimane un appuntamento in cui ci immergiamo totalmente, gioiamo, soffriamo, ci commuoviamo, ci spaventiamo, sperimentiamo l’intera gamma di sensazioni, sentimenti ed emozioni nello scorrere delle sequenze, troviamo  conferme o smentite, rassicurazioni o dubbi nei personaggi della narrazione.
Si è conclusa da poco la 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia in una cornice straniante fatta di mascherine, distanziamenti, termoscanner, percorsi obbligati, barriere separatorie, prenotazioni di posti rigorose, visioni in apnea. Un film dentro il film che descrive un day-after, ma diventa anche uno dei simboli di forte volontà di ripartenza culturale post-Covid.
Vince il Leone d’Oro il film Nomadland  di Chloé Zhao, con riconoscimento quasi unanime: la storia di Fern, una donna rimasta senza lavoro – e senza il marito, che muore – dopo la chiusura della fabbrica in cui ha lavorato per molti anni e il crollo economico della città del Nevada in cui vive. Lascia tutto e intraprende una vita sulle strade dell’Ovest americano, lontana dalla società convenzionale, nomade moderna e anima errante in perpetuo movimento. Il suo vagabondaggio diventa quello speculare dell’America anni ’80 e attraverso il peregrinare della donna si dipana anche  il percorso degli States di quegli anni.
La rassegna cinematografica veneziana del 2020 ha registrato la partecipazione di visioni importanti, dedicate a una moltitudine di generi e prospettive: una coraggiosa decisione dell’organizzazione di non abbandonare, nonostante le insicurezze del periodo che viviamo. Nella storia del cinema, nel backstage di ogni film esiste il lavoro dettagliato e scrupoloso di una miriade di figure professionali che rendono possibile la sua realizzazione; si raccontano anche aneddoti, talvolta dai contorni leggendari, che lo caratterizzano e lo rendono più curioso e particolare di altri.

Il set di alcuni film è diventato anche teatro di fatti strani e inspiegabili, dai contorni tragici in alcuni casi, misteriosi e inquietanti in altri. Prendiamo, ad esempio, il “Caso della donna delle dune”, legato al set del famoso film “Lo squalo”, grande successo degli anni ’70. Il 26 luglio 1976, tra le dune di Cape Code in Massachusetts, fu rinvenuto da una tredicenne il cadavere di una donna: mani amputate, testa semidecapitata, lunghi capelli raccolti a coda di cavallo, bandana blu, jeans, capsule dentarie d’oro di qualche migliaio di dollari. Un’identità mai scoperta e l’impossibilità di indizi da impronte digitali. Un caso irrisolto da 45 anni.
Il seguito di questo fatto ricompare nel 2015, quando Joe Hill, figlio del celebre scrittore Stephen King, guardando “Lo squalo” si accorge di un clamoroso dettaglio al minuto 54 della rappresentazione: una folla  accalcata sul pontile si sta imbarcando sul traghetto e tra le persone si nota la donna delle dune, proprio la stessa donna, ignota ma visualizzata da milioni di persone senza che qualcuno arrivasse a qualche collegamento col film. Le coincidenze erano tante per nutrire dei dubbi, stesso abbigliamento, il set del film era nei paraggi della spiaggia del ritrovamento e la scena era stata girata a giugno, un mese prima della scoperta. Hill ne parlò con la polizia e FBI, fece girare la notizia in Internet con un post che ad oggi risulta uno dei più cliccati. Dal registro delle comparse del film non risulta alcun nome o indizio e attualmente non esistono ancora risposte.

Ci sono film girati in circostanze strane, in cui registi, attori e membri della troupe rimangono coinvolti in misteriosi avvenimenti durante le riprese. A volte sembra che la realtà del set superi la finzione cinematografica. E’ il caso di “L’esorcista” (1973), film terrificante da vedere e set terrificante su cui lavorare. Numerosi eventi raccapriccianti durante la lavorazione hanno tinteggiato di toni funesti quest’opera: l’attore irlandese Jack Macgowran morì subito dopo aver completato le sue scene e la stessa sorte toccò disgraziatamente a un membro della troupe e a una guardia di sicurezza. Il set andò a fuoco senza spiegazione alcuna. Strane circostanze che portarono il regista William Friedkin a chiedere a un prete di benedire i luoghi della lavorazione.

Nel 1954 la troupe del RKO girò nell’Area St. George, Utah, il film “The conqueror” sulla vita di Gengis Khan. Le autorità rassicurarono il produttore Howard Hughes sull’assenza di qualsiasi rischio in quella zona, sede di esperimenti  e test nucleari. Fu un film tra i più visti di quella stagione ma considerato successivamente dai critici uno dei 100 film peggiori della storia del cinema. Protagonisti erano John Wayne e Susan Haywa, due giganti del grande schermo. 91 persone delle 220 impegnate sul set si ammalarono nel giro di pochissimi anni e morirono, a cominciare dal regista Dick Powell e un attore. Che rapporto ci fosse tra l’insorgere delle malattie tumorali e l’esposizione in quell’ ambientate non è dato certo; un medico parlò di epidemia, la fantasia popolare creò una delle leggende metropolitane ancora raccontate, attribuendo ai fatti un alone di mistero. Il produttore acquistò tutte le copie del film per 12 milioni di dollari e lo ritirò dalla circolazione.

Si racconta di fatti inspiegabili durante le riprese della serie di film “The Amityville Horror”, un cult anni ’70, con avvenimenti spettrali, manifestazioni strane e un ritrovamento di un corpo umano sul luogo delle riprese. Si ispira alla vera storia del 23enne Ronald DeFeo Jr., autore dell’efferato sterminio della sua famiglia, condannato a 6 ergastoli – 6 erano le vittime – che sta ancora espiando in carcere.

Aggiungiamo due nomi diventati un mito, Bruce Lee padre e Brandon Lee figlio, morto sul set del film che stava girando, in circostanze che lasciano ancora molti interrogativi. Citiamo anche “The omen Il presagio”, in cui Gregory Peck rischiò di morire in un disastro aereo scampato e un altro velivolo decollato dal luogo del set precipitò causando 11 vittime. Una sciagura che venne interpretata come segno negativo inspiegabile.

Il cinema non è sempre un paradiso in Technicolor: dietro le quinte esiste un mondo meno dorato, dove la realtà è dura e talvolta spietata. In qualunque dei casi e qualunque connotato gli si voglia riconoscere, il cinema può essere mille mondi: uno specchio dipinto, come lo definiva Ettore Scola, un business, come diceva Audrey Hepburn, una competizione con Dio, come lo pensava ironicamente Federico Fellini.  Anche un sassolino nella scarpa, veicolo di pensiero, mezzo di contestazione, fastidioso e scomodo pretesto per riflettere, a detta di Lars von Trier.
Il cinema è e rimane una meravigliosa reimpostazione del mondo, un grande inganno, una rappresentazione di quella vita che scegliamo di rappresentare, un sogno, una cruda denuncia, un invito a fermarci e guardare.

LA CARTA DELLE CITTA’ EDUCATIVE
Formazione continua, luoghi e reti di apprendimento

Sono tornato a leggere in questi giorni la Carta delle Città Educative. Compirà trent’anni quest’anno, perché è nata dal primo congresso celebrato a Barcellona nel novembre del 1990. In quel documento sono raccolti i principi basilari per la spinta educativa delle città. La Carta è stata poi revisionata in occasione del III° Congresso Internazionale tenuto a Bologna nel 1994 e in quello di Genova del 2004 per adattare la sua impostazione alle nuove sfide e necessità sociali.
L’ho ripresa in mano perché continuava a stonarmi nelle orecchie il fatto che la ministra dell’istruzione Azzolina, nelle linee guida per la ripresa scolastica autunnale, avesse scelto di utilizzare l’espressione “comunità educante” per invocare la collaborazione dei territori e dei portatori di interesse.

Per uno come me, che da anni continua ostinatamente a occuparsi di Città della Conoscenza, Learning Cities e Ciudades Educadoras, tutte individuate dall’Unione Europea come soggetti formativi per eccellenza del nuovo millennio, quella ‘comunità educante’ tanto novecentesca continuava a stridere. Ora non posso dire se l’espressione scelta dalla ministra sia dovuta ad una precisa intenzionalità o, invece, sia solo il frutto di una scarsa competenza. Un dato è però certo che, se la Carta delle Città Educative fosse stata fatta propria da tutte le città del paese e dai governi che si sono succeduti fin qui, con ogni probabilità sia la chiusura forzata delle scuole, sia la ripresa scolastica avrebbero permesso alle famiglie, ai bambini e agli adolescenti di pagare un prezzo meno caro.

L’impreparazione ad affrontare gli effetti della pandemia sul piano educativo non è stata solo della scuola, ma anche dei territori e delle nostre città. Sento già chi osserva che negli altri paesi non è andata meglio. Certo, ma questo non può esimere da aprire una riflessione su che cosa sarebbe potuto accadere, se nelle nostre città da tempo fosse diffusa, organizzata e funzionante un’ampia rete di istruzione permanente, tanto da dare per scontato che formazione formale e formazione non formale collaborino e dialoghino costantemente, fino a intersecarsi. Questo avrebbe prodotto una maggiore differenziazione e distribuzione dei compiti formativi tra scuole e istituzioni del territorio. Molto probabilmente avremmo avuto a disposizione una pluralità di luoghi oltre alle aule degli istituti scolastici, sarebbe stato possibile frazionare le classi in gruppi più ristretti, come è avvenuto in Germania e in Inghilterra, avremmo potuto fare affidamento su più risorse umane per far fronte al moltiplicarsi delle necessità di insegnamento e per non lasciare i più piccoli tanto a lungo confinati in casa, coinvolgendo oltre al personale scolastico e agli educatori comunali, insegnanti messi a disposizione dall’associazionismo e dal volontariato, figure di esperti disposte a farsi carico di sostenere lo studio delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Le nostre città sarebbero state più smart, così da poter contare su pratiche di didattica a distanza e sull’utilizzo di reti digitali da tempo già collaudate.
Le linee guida per la ripresa autunnale avrebbero avuto come destinatari le reti educative territoriali, anziché auspicare il coinvolgimento di fantomatiche comunità educanti. Insomma l’emergenza non sarebbe stata affrontata con un occhio tutto ed esclusivamente ripiegato sulla scuola, dai banchi alle distanze.

L’AICE è l’Associazione Internazionale delle Città Educative che si è costituita a Bologna nel 1994, si tratta di una struttura collaborativa permanente tra diversi comuni europei sul tema dell’Istruzione e della Formazione Continua, di cui fanno parte quasi 500 città da 37 Paesi del mondo. In Italia vi aderiscono altre 17 città (Siracusa, Foggia, Roma, Castelfiorentino, Ravenna, Genova, Collegno, Torino, Settimo Torinese, Brandizzo, Busto Garolfo, Orzinuovi, Brescia, Vicenza, Venezia, Sacile e Portogruaro), ciascuna con una propria rete interna di associazioni, scuole, accademie. Il Comune di Bologna fa parte di altre 8 reti internazionali. Diciotto in tutto su 7.915 comuni italiani a cui spetta il titolo di città, esattamente lo 0,22%.

Rimane senza risposta, dunque, la domanda relativa a come si sarebbe potuta affrontare l’emergenza scolastica se negli anni, a partire dai vari governi e dai ministri che si sono succeduti alla guida dell’istruzione, si fosse provveduto a incentivare in tutto il paese la diffusione delle ‘città educative’, anziché perdersi dietro la vuota retorica della ‘comunità educante’.
Se questa non è colpevole inerzia diseducativa, non saprei come definirla, inerzia diseducativa che coinvolge non solo chi amministra le nostre città, ma anche il governo e il ministro che avrebbe il compito di occuparsi di istruzione, con un occhio che guardi oltre viale Trastevere e non solo alla punta dei propri piedi.

La grande sfida del XXI secolo è  ‘investire sull’istruzione’, su ogni persona giovane o adulta, di modo che ognuno sia sempre capace di esprimere, affermare e sviluppare il proprio potenziale umano, con le proprie singolarità, creatività e responsabilità. Amministrazioni cittadine che progettano sviluppo urbano, architetture, spazi e politiche, senza mai perdere di vista che devono essere funzionali anche alla formazione continua dei loro abitanti, formazione che costituisce la vocazione, il compito prioritario di ogni città educativa, moltiplicando i luoghi e le reti dell’apprendimento.
Ciò che preoccupa è che a livello locale come a livello nazionale in materia di formazione il pensiero si sia da troppo tempo arrestato e si continui a ragionare con le logiche del secolo scorso, quelle del novecento, da lungo inadeguate, alimentando l’impressione che per le nuove generazioni il futuro non sorgerà mai.

POLESELLA MICROFESTIVAL
26 settembre: Murales ispirati a Keith Haring e presentazione del noir di Astrid Scaffo

Un altro fine settimana di cultura a Polesella con gli eventi del Microfestival delle storie. Verso i più piccoli e le famiglie, sabato 26 settembre alle 9.30, si rivolge STREETratti di famiglia, un laboratorio gratuito nel corso del quale un muro bianco diventa un enorme foglio pronto a raccontare, attraverso forme e colori, le famiglie che fanno parte di una comunità. Guidati dalla storia dell’artista Keith Haring, come sorgente d’ispirazione di tinte accese, e armati di pennelli e acrilici, grandi e piccoli avranno a disposizione un’intera mattinata per mettersi nei panni di uno street artist, dipingersi e raccontarsi usando i colori e le fantasie che li contraddistinguono. Il muro del parco della scuola primaria di Polesella diventerà, quindi, una pagina di un libro da sfogliare con gli occhi e da leggere in ogni sua pennellata, racconterà una, dieci, venti storie, tutte diverse. Il laboratorio, curato da Laura Demetri, durerà fino a mezzogiorno.

Nel pomeriggio di sabato 26 settembre, lo spazio esterno del Non solo caffè (via XXV aprile, 75) ospiterà la presentazione del libro noir Io so chi sei (0111 Edizioni) di Astrid Scaffo, intervistata da Sofia Teresa Bisi. Astrid Scaffo, avvocato, finalista al concorso letterario L’incontro di ieri e di oggi, 2019 è al suo primo romanzo, ma coltiva da sempre la passione per la scrittura.

Sinossi del libro: Anna scompare, all’improvviso, di notte. Tutti la cercano, soprattutto sua madre che non riesce a credere e ad accettare che possa esserle successo qualcosa di terribile. Così, mentre il mondo intorno a lei perde giorno dopo giorno le speranze di rivedere la ragazza, lei continua a credere che sua figlia sia ancora viva. A uccidere la famiglia di Anna, è scoprire dalle indagini i retroscena di ciò che sembra essere stata la sua vita: alcol, droghe, stili di vita che non le appartengono e ai quali la madre non può credere. Così, inizia a domandarsi quanto sua figlia possa essersi spinta in là. Ma la verità di quella notte è molto più vicina di quanto la donna immagini.

Prenotazioni laboratorio STREETratti di famiglia: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-streetratti-di-famiglia-laboratorio-per-grandi-e-121500149217

Prenotazioni presentazione libro di Astrid Scaffo:

https://www.eventbrite.it/e/biglietti-astrid-scaffo-microfestival-delle-storie-2020-120832223433?fbclid=IwAR2wTGhFhI18B_mhuOGYMkOfOe8juD4xPMngfw2lQ3cDGBcXe2XfFhFB8xg

Il programma completo degli eventi del Microfestival di settembre e ottobre su www.microfestivaldellestorie.it

Per informazioni: microfestivaldellestorie@gmail.com, messenger: microfestival delle storie.

I BAMBINI SENZA CORONA

C’erano una volta, in un piccolo paese vicino ad una piccola città, dei bambini ed una scuola.
I bambini erano come tutti gli altri bambini: diversi gli uni dagli altri perciò unici.
Anche la scuola era come tutte le altre scuole ma anche lei era unica.
Certi bambini avevano un po’ paura della scuola ma ciò succedeva perché lei era grande, loro erano piccoli e ancora non si conoscevano.
Del resto succede così anche agli adulti, pure loro hanno un po’ paura delle cose che non conoscono, anche se non lo dicono. Tutti abbiamo paura di qualcosa e perfino il buio, che di solito spaventa, ha un po’ paura della luce e addirittura il rumore ha paura del silenzio.
Una volta che i bambini avevano imparato a conoscere la scuola, la paura scappava via e lasciava il posto alla voglia di andarci tutti i giorni.
Dentro la scuola i bambini facevano e pensavano tante cose, ne imparavano e ne insegnavano molte e si divertivano insieme ai loro compagni e ai loro maestri.
Dentro la scuola si facevano lezioni, collezioni e, ogni tanto, anche elezioni.
Vicino alla scuola, i bambini imparavano a saltare i fòssi perché questo li aiutava ad affrontare i rischi, a sconfiggere le paure e a conoscersi meglio.
Dentro la scuola i bambini imparavano a non saltare i fóssi perché le maestre e i maestri gli insegnavano a vedere le cose anche da altri punti di vista e, ad esempio dopo un litigio, chiedevano: “Cosa avresti fatto tu se fóssi stato nei panni del tuo compagno?”
Un giorno come gli altri, in quella scuola e in quel paese successe una cosa brutta.
Le notizie scritte sui giornali e dette alla televisione dicevano che stava arrivando una piccola creatura invisibile con una corona stregata in testa che aveva il vizio di volerla mettere addosso a tutti quelli che incontrava per farli diventare più deboli.
Anche se nessuno l’aveva mai vista, tutti si chiedevano perché facesse questa cosa brutta.
Qualcuno diceva che voleva dominare il mondo perché tutti quelli che hanno la corona in testa vogliono comandare.
Qualcuno diceva che era il suo modo di fare amicizia perché quelli che hanno la corona in testa non hanno amici veri.
Qualcuno diceva che quella creatura non contava niente perché oramai quelli con la corona in testa contano meno di quelli che hanno il pelo sullo stomaco, il cuore di pietra e i soldi in tasca.
C’era addirittura anche qualcuno che diceva che quella creatura non esisteva perché nessuno l’aveva mai vista coi suoi occhi.
Per sicurezza, il ministro della scuola di quel paese decise di chiudere le scuole per proteggere tutti e non far ammalare nessuno.
I bambini, come pure i loro maestri e le loro maestre, furono costretti a rimanere chiusi in casa ed erano tristi perché si sentivano soli senza i loro amici e le loro amiche.
La scuola fu costretta a rimanere chiusa ed era triste perché, senza bambini, si sentiva un vuoto dentro.
Tutte le sere, la televisione diceva quante persone erano già state “incoronate” da quella creatura e tutti quei numeri facevano venire ancora più paura a tutti.
Con il passare del tempo però degli studiosi coraggiosi, a forza di fare delle prove dentro laboratori super protetti, scoprirono che quella creatura non era invincibile: ci si poteva difendere e, forse, la si poteva anche sconfiggere.
Infatti loro pensavano che anche lei avesse paura di qualcosa.
Quando quegli studiosi spiegarono in televisione e sui giornali come ci si poteva proteggere da quella magia, dissero:
Regola numero 1. Questo incantesimo è come la puzza di calzini che ti entra dentro nella testa: bisogna coprirsi bene il naso e la bocca con una mascherina.
Regola numero 2. Questo sortilegio è come il fango sporcaccioso che rimane fra le dita e sotto le unghie: bisogna lavarsi le mani molto bene col sapone.

Regola numero 3. Questa stregoneria è come le puzzette che si fanno col sedere quando si è troppo vicini agli altri e poi tutti dicono: “Bleah! Che schifo! Ma chi ha fatto una scoreggia?”: bisogna stare ad una certa distanza dagli altri”.

Quegli studiosi coraggiosi dissero anche che presto si poteva scacciare quella creatura perché stavano preparando una medicina che toglieva la corona dalla testa di tutti quelli che volevano comandare sugli altri.
In questo modo la gente di quel paese e anche i bambini cominciarono ad indossare la mascherina, a lavarsi spesso le mani e a stare un pochino più lontani gli uni dagli altri. Così tutti quanti iniziarono ad avere meno paura perché avevano cominciato a conoscere questa creatura invisibile ma soprattutto perché vedevano che quelle regole funzionavano e gli “incoronati”, per fortuna, erano sempre di meno.
Non era facile rispettare quelle tre regole ma quei bambini capirono, anche grazie ai loro genitori, che solo così si sarebbero potuti ritrovare ancora insieme ai loro amici.
Quei bambini capirono che certe cose, anche se non si vedono, ci sono lo stesso: è il caso della creatura misteriosa con la corona in testa ma anche del desiderio e della paura di andare a scuola che c’è anche se non si vede, come pure della tristezza, della felicità, della rabbia, dell’allegria, della voglia di abbracciarsi e di tante altre cose.
Scoprirono anche che le cose che non si vedono ma ci sono si devono raccontare facendo sentire che sono dentro di noi, se si vuole che gli altri capiscano che ci sono davvero.
Anche la scuola capì che senza bambini non serviva più a niente.
In quei giorni in cui era sola, era talmente triste che aveva pensato addirittura di diventare una discoteca.
Non lo fece perché tutte le volte che guardava i cartelloni con i disegni dei bambini ed i loro autoritratti, appesi sulle pareti delle aule, si emozionava così tanto che le sue finestre piangevano lacrime di nostalgia.
Non lo fece anche perché cominciò a vedere un viavai di insegnanti che misuravano, che spostavano, che appiccicavano, che sistemavano e questo le fece pensare che qualcosa stesse per succedere.
La scuola aveva ragione: qualcosa stava per succedere. Lo sentiva la scuola, lo sentivano i bambini, lo sentivano i genitori e lo sentivano anche i maestri.
Stava per succedere qualcosa di importante, di meraviglioso, di incredibile: i bambini sarebbero tornati a scuola!!!
Finalmente, quel giorno arrivò ed assomigliava proprio ad una bella giornata come quella di oggi…

Come finisce questa storia io non lo so… anche perché questa storia non ha un vero e proprio finale; potrebbe averlo, se lo volesse, ma non ce l’ha.
Potrebbe finire con un “…e vissero tutti felici e contenti senza la corona in testa” ma non ci crederebbero nessuno, neanche i bambini.
Potrebbe finire con la creatura invisibile con la corona in testa che scivola su una buccia di banana, cade su una cacca di cane, si sporca, diventa riconoscibile così le mosche la vedono, la catturano e la portano nella loro prigione di cacca puzzolente.
Potrebbe finire con una bella creatura con le ali che si innamora della creatura con la corona e insieme volano via lontano e la scuola diventa un supermercato dove i bambini ci vanno a fare la spesa con i loro genitori per comprare il formaggio col sapere, il minestrone scientifico, la macedonia di congiuntivi e congiunzioni e le frottole fritte.
Potrebbe finire con la scuola che si riempie di bambini di legno che stanno sempre fermi, zitti, non si ammalano mai e i maestri non sanno più cosa e a chi insegnare.
Potrebbe finire con un super eroe che arriva su un astronave a forma di bombolone, sconfigge l’essere invisibile sparandogli con il suo cannoncino alla crema e tutto torna come prima.
Oppure questa storia potrebbe finire con quei bambini che ritornano finalmente a scuola… ma allora non sarebbe una fine ma l’inizio di un’altra storia che è tutta da inventare e da costruire insieme.
È proprio così: questa storia, in verità, sta solo cominciando e come continuerà dipenderà da tutti quelli che vogliono farla proseguire bene: dai bambini ai genitori, dai maestri al ministro della scuola, dalla creatura invisibile agli studiosi coraggiosi.
A tutti quelli che vogliono continuare questo viaggio, deve essere chiara una cosa: non si incontreranno super eroi, streghe, maghi o fattucchiere ma soltanto bambini e adulti che insieme vorranno imparare, vorranno conoscere, vorranno divertirsi e, soprattutto, vorranno imparare a conoscere divertendosi.

In questa scuola che va a cominciare
non ci sono supereroi a cui telefonare.
Ci sono insegnanti, genitori e bambini
che desiderano un futuro senza confini.
Ci sono lezioni che si possono imparare
altre invece che si sceglie di insegnare.
Ci sono desideri e speranze a volontà
che vogliono migliorare questa realtà.
In questa scuola che va a cominciare
c’è un mondo nuovo: è tutto da fare.
Se anche tu, con noi, lo vuoi costruire
non devi far altro che unirti e partire.
Non serve il biglietto, vieni anche tu,
partiamo insieme, coraggio, salta su!

PER CERTI VERSI
I ghiacciai se ne vanno

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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* Dedicato allo scioglimento del ghiacciaio del mandrone sull’Adamello

I GHIACCIAI SE NE VANNO *

I ghiacciai se ne vanno
Non salutano
Urlano
Il loro rauco
Spaventoso addio
Collassano
Gli enormi
Liquefatti compagni di vita
Sbarcano nel caldo che li ha uccisi
Annegano
Nella loro acqua
Sono sempre meno
Sempre più piccoli
Quanto più grande
La nostra inerzia
La nostra cecità

Gli struzzi
Gli struzzi

PRESTO DI MATTINA
Il segreto del tempo

Il segreto del tempo l’ho imparato in montagna, soprattutto al Passo della Passo della Mendola dove ci recavamo quand’ero in seminario. Ogni giovedì c’era l’appuntamento con la gita lunga; si dormiva anche in rifugio. Civetta, Catinaccio, Brenta, il Sentiero Orsi e la Ferrata Tridentina e le sue sorelle sul Sella, la Grande Fermeda nel gruppo delle Odle. Ma un’analoga esperienza l’ho sperimentata anche con i campi estivi della parrocchia; percorsi meno impegnativi, ma pur sempre su sentieri impervi, ripidissimi, a Dobbiaco e nella zona del Ortles.

Salire per incontri, mi dicevo ogni volta alla partenza. Si va a scuola dalle montagne a imparare il segreto del tempo. Un momento ti libera, e poco dopo ti imprigiona, ti rallegra e ti impaura, t’avvicina e t’allontana; sei legato e sciolto, sotto sopra, come in una lotta. Come Giacobbe ferito, rimani nello scontro e impari così la pazienza, il segreto del tempo: una ferita d’anca, ma più ancora il dono di una presenza, uno scambio: nel volto dell’altro il tuo, dalla sua libertà la tua.

Salire per incontri che non si dànno mai che per un istante lunghissimo. Che fanno la coscienza profonda di una profondità finissima, sigillo messo sul cuore, sigillo di un abbraccio (Ct 8, 6).

Salire per incontri, e subito non sai che entrando in ogni passo crei la distanza, misura del tempo con l’altro. Come attraversando il Polo, l’ago nella bussola si volge indietro e tu invece di seguirlo ti allontani. Eppure, salendo più in alto, il vento tra le rocce ti sussurra piano: è il tempo del disgelo degli affetti, del dono di un incontro che trasforma. E una volta giunto, è il tempo di sottomettergli il cuore, perché il tempo, non diversamente dall’amore, dischiude in modo promettente le potenzialità della libertà. «Dammi il tuo cuore e i tuoi occhi prendano piacere nelle mie vie» (Pr 23,26); si dice ancora nel Cantico: «Un ricordo è l’inverno e, caduti i piovaschi, torna la terra coi fiori a sorridere. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni. O mia colomba, che stai nelle fenditure delle rocce, nei nascondigli dei dirupi, fammi vedere il tuo viso, fammi udire la tua voce, perché la tua voce è piacevole, e il tuo viso è leggiadro» (2, 11; 14).

Ecco: il segreto del tempo va riconosciuto come il ‘poter essere dello scambio’, come poter essere ‘della relazione e della stessa libertà’. Lo coglie con icastica efficacia il monaco Ghislain Lafont secondo cui «Il tempo fa emergere la simbolica dello scambio e quella dell’altro». In ogni tempo infatti ci è data la possibilità di far nascere e avviare relazioni in cui la libertà si rischia nell’incontro, come dono di sé, come amore appunto. È il darsi del tempo ‘qualificato’, ‘di qualità’, che riscatta il ‘tempo qualunque’. Kronos è salvato dalle acque dell’oblio, dell’inutile e dell’evanescente, da Kairos, il tempo opportuno, propizio per un evento: «sorpresa dopo tanto di un amore»; incontro che trasforma; passaggio di soglia, dimora provvisoria, ma necessaria per realizzare passi di comunione.

Questa economia del tempo, dell’avanzare e del ritrarsi, segnata dalla discontinuità e dalla ripresa, ci rassicura che anche nei momenti di rottura, nelle fasi di perdita, che rendono la vita stanca, insignificante e vuota si nasconde novità, l’apparire di qualcosa simile ad un nuovo inizio, una «rottura instauratrice» ‒ direbbe Michel de Certeau ‒ che mette di nuovo tutto in movimento.

E come non pensare, parlando di “rotture instauratrici”, al Concilio Vaticano II: una “discontinuità nella continuità” per l’officina bolognese della Storia del concilio in cinque volumi; per Benedetto XVI una continuità nella riforma. Che Papa Francesco ha voluto riprendere con l’Evangelii gaudium, esortando le comunità cristiane ad essere chiese in uscita, con stile sinodale per una riforma missionaria. Egli ci invita a «prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare….Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia» (n. 27).

Per realizzare questa conversione Francesco indica quattro principi generativi di prassi pastorali, in contesti di tensioni bipolari proprie di ogni realtà ecclesiale e sociale (EG 221). Tra di essi, vi è l’affermazione, sulle prime oscura ma in realtà pregna di implicazioni, secondo cui il tempo è superiore allo spazio. «Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il ‘tempo’, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. … Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo».

Se anche nella Chiesa si privilegiano gli spazi di potere, invece che la pazienza dei tempi necessari al divenire dei processi, si cade nella corsa all’autoaffermazione, si dimentica il bene comune in favore di quello individuale. Quando è lo spazio a prevalere sul tempo, si finisce per arraffare il più possibile, rincorrendo l’attimo fuggente per escludere ogni concorrenza. In questo modo, tutto si congela, dalle riforme ai processi di trasformazione, scadendo nel tradizionalismo del ‘si è sempre fatto così’, che mortifica sul nascere ogni spinta innovatrice. Così ci si ripiega sull’assistenzialismo che genera dipendenza spirituale, liturgica, sacramentale, invece di attivare processi di lungo periodo, di favorire una conversione dello sguardo: dalle strutture alle relazioni e ai volti delle persone e alle loro storie. «Dare priorità al tempo – dice Francesco ‒ significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci».

C’è un passaggio nel documento della Congregazione del Clero uscito un mese fa sulla “conversione pastorale della comunità parrocchiale”, che si riferisce a un territorio esistenziale in cui devono ripensarsi e ricollocarsi le parrocchie, anche quelle riunite in “unità pastorale”. Ciò mi ha richiamato alla mente il pensiero di Padre Yves Congar, uno dei padri dell’ecclesiologia conciliare, il quale parlava, oltre che del vangelo della gioia, di una “Chiesa della soglia“, dai confini più fluidi, abitata anche da persone con una fede in ricerca di speranza.

Un’immagine, quella di una Chiesa in uscita e in ascolto, che ben ritrovo in due haiku giapponesi, che suscitarono il benevolo sorriso dei miei confratelli quando glieli riportai durante un incontro: «La campana del tempio tace,/ ma il suono continua/ad uscire dai fiori». Matsuo Basho (1644 – 1694); «Spuntano i germogli/ al tronco di un grande albero/ Poggio l’orecchio». Ozaki Hosai (1885-1926). Con queste immagini, allora come adesso, vorrei sottolineare l’importanza di ripartire dalle relazioni, sia a breve come ad ampio raggio, e la necessità dello stare insieme, di perdere tempo con le persone, creando narrazioni vitali e reti di comunicazione sensibili ad un territorio divenuto prevalentemente esistenziale.

«Nelle trasformazioni in atto ‒ così l’istruzione della Congregazione ‒ nonostante il generoso impegno, la parrocchia talora non riesce a corrispondere adeguatamente alle tante aspettative dei fedeli, specialmente considerando le molteplici tipologie di comunità. È vero che una caratteristica della parrocchia è il suo radicarsi là dove ognuno vive quotidianamente. Però, specialmente oggi, il territorio non è più solo uno spazio geografico delimitato, ma il contesto dove ognuno esprime la propria vita fatta di relazioni, di servizio reciproco e di tradizioni antiche. È in questo “territorio esistenziale” che si gioca tutta la sfida della Chiesa in mezzo alla comunità. Sembra superata quindi una pastorale che mantiene il campo d’azione esclusivamente all’interno dei limiti territoriali della parrocchia, [pastorale] che appare segnata dalla nostalgia del passato, più che ispirata dall’audacia per il futuro».

CONTRO VERSO
Filastrocca delle occasioni perdute

I bambini hanno pazienza con i loro genitori. Tanta, tantissima. Ma non infinita. E le chance che gli adulti lasciano cadere finché i figli sono bambini, non è detto restino aperte per sempre.

Occasioni perdute

Papà, papà, dove è andato il mio papà?
Gli voglio bene anche se non è qua.
Lui fa barchette con gli stuzzicadenti,
fende i marosi, affronta i delinquenti,
esploratore per mare o nel deserto.
Chiamo il suo nome, lo cerco a cuore aperto.

Il mio papà, l’aspetto tutto il giorno.
È super forte, attendo il suo ritorno.
Quando verrà ve la farà vedere,
voi siete scemi e non potete capire.
Lui mi ha promesso un pc, la bicicletta
e io gli credo, il mio cuore l’aspetta.

Mio padre, mah… Qualcuno l’ha veduto?
L’ho visto un giorno e non l’ho riconosciuto.
È ancora lì, in cima ai desideri
e l’ho aspettato, giudice, anche ieri.
C’era la recita, quella di Natale.
Io l’ho invitato ma… Forse stava male.

Quel signore, quello a cui assomiglio?
Sì e no che sappia d’avermi come figlio.
Lui non mi cerca, dice che ha paura,
“sono i servizi”, “è tutta una congiura…”.
Passano gli anni i mesi e anche i minuti,
passano i giorni e noi figli siam cresciuti.
Passano gli anni e il conflitto si è risolto:
per me mio padre è come fosse morto.

Ci sono tante unità di misura del tempo. Quella della crescita di un bambino è particolare, ha il passo svelto, più di quanto occorre ai genitori per assestarsi, vincere una dipendenza, riscoprire le proprie priorità.
Ho incontrato in anni diversi bambini che alla prima udienza venivano pieni di desiderio, speranza, mancanza per i genitori lontani ad affrontare i loro problemi, e in seguito imparavano a convivere con quel vuoto, o lo riempivano altrimenti, e si disinteressavano di quel padre o di quella madre che erano tali solo per un legame di sangue.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

PANDEMIA: CHI CI GUADAGNA
Riparte l’economia, salgono i profitti e cresce la diseguaglianza

E’ stato detto praticamente da tutti. “Niente sarà più come prima”, da questa crisi sanitaria, economica e sociale usciremo diversi da come ne siamo entrati, in meglio o in peggio.
Penso allora sia sensato vedere ora, a qualche mese di distanza dall’emersione della pandemia Covid, qual è la direzione che si sta intraprendendo, quali sono le intenzioni in campo, sapendo che, peraltro, nessuna tendenza è già consolidata e che, da qui al prossimo anno-anno e mezzo molto può succedere. Però, per l’intanto, diverse cose si possono già dire. Ci si è molto soffermati sia sul tema del crollo della produzione, del deficit/debito pubblico in forte crescita e sulle sostanziose risorse che ci arriveranno dall’Europa, alimentando, da ultimo, anche un certo ottimismo, di un “rimbalzo” maggiormente positivo del previsto degli indicatori economici.
A me interessa, però, provare a prendere le questioni da un altro punto di vista, e cioè quello della crescita delle disuguaglianze e della perdita di reddito e lavoro.
Già il Governatore della Banca d’Italia Visco, nella sua relazione annuale di fine maggio, avvertiva che “per le famiglie che prima dell’emergenza sanitaria erano nel quinto più basso della distribuzione (del reddito), la riduzione del reddito sarebbe stata due volte più ampia di quella subita dalle famiglie appartenente al quinto più elevato”.
Se poi allarghiamo lo sguardo, sono di particolare interesse gli studi dell’Ong Oxfam sulle conseguenze della pandemia: quello uscito ad aprile stimava in circa 500 milioni le persone nel mondo che, a causa di essa, avevano incrementato il numero di quelle collocate sotto la soglia di povertà, mentre quello, uscito qualche giorno fa, segnala l’impennata dei profitti previsti nel 2020 di 32 aziende multinazionali più grandi nel mondo, in particolare i colossi tecnologici, farmaceutici e del commercio online. Si parla di circa 109 miliardi di $ in più rispetto alla media degli ultimi 4 anni, destinati per l’88% alla distribuzione tra gli azionisti. Sempre Oxfam stima una perdita di 400 milioni di posti di lavoro nel mondo nell’ultimo semestre. Per tornare all’Italia, l’Istat ha da poco diffuso i dati sull’occupazione del secondo trimestre del 2020. Rispetto allo stesso periodo del 2019, il numero di occupati scende di 841 mila unità (-3,6% in un anno): calano soprattutto i dipendenti con contratti a termine (-677 mila, -21,6%) e continuano a diminuire gli indipendenti (-219 mila, -4,1%) e quasi la metà di questa diminuzione riguarda la fascia d’età sotto i 35 anni.

Insomma, tutto lascia pensare che ci si stia avviando in un mondo ancora più diseguale di quanto lo era già prima del Coronavirus e dove il lavoro ( e il reddito) si riduce, diventa sempre più precario e povero.
Il punto, però, è che queste non sono tendenze naturali o spontanee. C’è chi lavora per questi obiettivi, chi, come peraltro è avvenuto anche per altre grandi crisi del passato, pensa che questa sia una ricetta, se non proprio giusta, perlomeno necessaria.
Poteri economici e finanziari potenti
, multinazionali e anche nostrani, che, per riprendere un celebre aforisma del noto magnate della finanza Warren Buffett, pensano che  “la lotta di classe esiste eccome, e la stiamo vincendo noi”. Di fronte ad una crisi reale del meccanismo di accumulazione capitalistico e anche della sua versione finanziarizzata, si ragiona, da una parte, sul fatto di creare nuovi prodotti/mercati ( da un salto potente verso la digitalizzazione e infomatizzazione del mondo all’estensione del mercato nei beni ambientali) e, dall’altra, ad una conseguente e ridefinita sottomissione del lavoro e della cittadinanza a quest’imperativo.
Prendiamo, per ragionare in piccolo, la Confindustria di Carlo Bonomi. Dopo aver sparso contumelie a destra e manca su un presunto spirito antindustriale che aleggerebbe nel Paese, ora scopre le proprie carte: “rivoluzionare” i contratti di lavoro e “riformare” il sistema degli ammortizzatori sociali. Dove il primo proposito significa riconoscere aumenti salariali irrisori ai 10 milioni di lavoratori dell’industria con contratti nazionali scaduti ( e 3 milioni del settore pubblico), però ricompensati da tanti buoni pasto e risorse per la sanità e previdenza integrativa detassata e privatizzata. Ancor più, per questa via, di fatto ridurre il contratto nazionale ad un simulacro e lasciar spazio alla contrattazione aziendale come leva principale per il riconoscimento salariale e professionale. Il secondo obiettivo, la “ riforma” della cassa integrazione, poi, consisterebbe fondamentalmente nel lasciare ancor più mano libera alle aziende di espellere i lavoratori “esuberanti”, a cui corrispondere una qualche indennità e incentivo per la loro futura ricollocazione (?).
Non  si fa fatica a vedere in quest’impostazioni un’idea per cui il lavoro deve essere sempre più subordinato alle logiche aziendali, di volta in volta fidelizzato o ricattato, in una situazione di sempre più estesa precarietà, che, questa sì, diventa progressivamente la condizione normale del lavoro. Facendo della “solitudine competitiva” delle persone rispetto agli imperscrutabili andamenti di mercato la cifra della dimensione sociale e del lavoro in questi e negli anni a venire. Peraltro, a fronte di ciò, stupisce leggere nelle “Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza ( quello per accedere al Recovery fund, per intenderci) predisposto dal governo che occorre “incentivare la produttività del lavoro con il rafforzamento degli incentivi fiscali al welfare contrattuale e la promozione della contrattazione decentrata”.

Per fortuna, la prospettiva delineata sopra non è né ineluttabile, né così forte. Anche durante la vicenda della pandemia, è potenzialmente emerso un altro punto di vista, quello che parla di una “società della cura” anziché di una “società del profitto”. C’è una percezione diffusa del fatto che l’obiettivo del massimo profitto e la crescita del PIL non possono essere assunti come regolatori di fondo degli assetti sociali e produttivi, soprattutto quando parliamo di beni comuni.
E un’altrettanta domanda diffusa di sanità pubblica, Welfare universalistico, sviluppo orientato da finalità sociali, creazione e redistribuzione di buona occupazione. Per tramutare tutto questo in un processo che possa concretamente realizzarsi serve, però, uno scatto in avanti: del movimento sindacale, che dovrebbe rinnovare la propria rappresentanza e essere capace di unificare le varie figure del lavoro, a partire da quelle più deboli e precarie, dei movimenti sociali, che sono chiamati a superare frammentazione e settorialismi, più in generale, della sinistra politica che dovrebbe avvertire la necessità di delineare anch’essa un progetto alternativo di società. Penso che bisogna almeno provarci.

GLI SPARI SOPRA
La dittatura dell’ignoranza

Hanno ragione loro.

Smettiamola di nasconderci dietro a un dito, i falsi buonisti, i radical chic, i prototauristi, i polifosfati, gli etnocentristi. Diciamolo chiaro e forte, viviamo in una dittatura, che ci chiude in gabbia, che ci incatena, che limita la nostra libertà. E’ ora di dire basta! (clicca se sei indignato)

Viviamo nella dittatura, sì, ma dell’ignoranza.

La forza fisica e la sopraffazione come valori fondanti di un branco di vacui palestrati, che con quella merda di testosterone che si ritrovano al posto del cervello uccidono un ragazzo, indifeso, magro, mille volte più uomo di loro. Non una rissa tra pari, ma una esecuzione, una fascista spedizione punitiva.

Dice ma perché ci metti sempre di mezzo la politica?

A parte che il fascismo non è un opinione ma un crimine, e poi le esecuzioni di tanti contro i pochi hanno lo stile e il marchio delle camice nere del ventennio. Tutto qui.

I muscoli dei mariti che picchiano le mogli, i muscoli cerebrali dei finti intellettuali che offendono e denigrano la dignità umana con frasi di una violenza pari alle botte, ma pure i timorati di Dio che sputano sentenze e giudizi estetici e fetidi nella fogna dei social network.

Sì, viviamo in una dittatura, dove la forza fisica fa la differenza, dove masse di pecore senza testa si agglomerano in piazze, nella convinzione di essere antisistema, quando loro stessi sono il sistema, l’appecoramento di una vuota umanità senza rispetto per gli altri.

Portare o meno una mascherina non è una scelta personale, perché chi non la porta sceglie anche per gli altri.

Il muscolo più atrofizzato, in questa fetente dittatura, è quello del cuore. Masse informi di vendicatori, pronti a difendere l’orgoglio italiano bruciando immagini e uccidendo l’umanità.

Come rispondere a tutta questa violenza, fisica e psicologica? Come può reagire quella parte di umanità schiacciata dai soprusi di un’ oligarchia dell’atrofia celebrale?

Io di mio non ho una gran capacità di porgere l’altra guancia, ma veramente mi sento a disagio nel commentare questo mondo, sempre più lontano e sempre più cattivo.

E badate bene: l’ignoranza che ci schiaccia, nulla c’entra con la cultura. Esiste gente ignorante con fior di lauree.

Certo lo studio, la lettura aiutano a combattere la dittatura, ma non sono sufficienti. Occorre debellare l’arroganza, la prepotenza, il sopruso, la convinzione di onnipotenza, data dai muscoli, dai titoli o da una tastiera nascosta nell’ombra.

Non è possibile un confronto con esseri di siffatta risma. L’ignorante non ha dubbi, naviga in un mare di certezze. Le regole che valgono per gli altri non valgono per il forzuto dall’intelletto monocellulare.

Dove ha sbagliato Darwin? Dove si è fermata l’evoluzione della specie ed è cominciata l’involuzione, perchè la democrazia non riesce a tutelare le persone più deboli? A quando una rivoluzione che spazzi via i miasmi della violenza e dell’odio? Forse mai. Siamo troppo occupati a vivere le nostre vite difficili, cercando di stare a galla, come dice Vasco, sopra a questa merda.

La famiglia, la scuola, l’esempio, forse non sono più sufficienti. Spero un giorno di poter vedere questi mezzi uomini e mezze donne incriminati per reati contro l’umanità. Quell’umanità ammazzata su una strada di periferia. Il suo nome era Willy ed era un uomo.

I suoi carnefici, degli infami topi di fogna.

PAROLE A CAPO
Lucia Trimarchi: “Il buio dentro non sparirà” e altre poesie

“La poesia non è stata scritta per essere analizzata. Deve ispirarci al di là della ragione, deve commuoverci al di là della comprensione.”
(Nicholas Sparks)

 

L’amore inventa favole 

L’amore segue le ombre
e non può ripetersi.

Mutando forma
e soffiando bolle,
crede alla magia
e inventa favole.

Accarezza la notte
più della luna.

L’amore non può essere,
perché è divenire.

Si crede fiume
e diventa mare
e ti lascia naufragare.

L’amore accoglie e abbandona.

E il domani può
vacillare,
tra un “ti penso”
e un “ti avrò”.

Cosa sento proprio ora?
Vorrei giocare
ma non so amare.

 

Il buio dentro non sparirà

Amare.
Possedere.
Imprigionare.
Disperare.
Non voglio più pensare.

Sei lava.
Il mio cuore piange fuoco.

Sei spada.
Squarcia
ogni stabilità.

Un cielo di stelle,
precipiti.

Senza recupero,
alcuna rete per me
che attutisca le cadute.

Non ti cerco più.
Non cercarmi tu.

Crederti.
Amarti.

Hai un gioco fra
tutti questi astri e
rubi la mia luce.

Anche la tua.
Il buio dentro non sparirà.

 

Non ho che me stessa

Non ho il cielo in una mano.
Né il mare o i suoi gabbiani.
E neppure te.
Con la tua creatività.
Non ho vento fra le mie nuvole.
Né la neve bianca.
E neppure noi.
Non ho gemme da indossare.
Né un sorriso per nutrirmi.
E neppure
questo unico motivo per sollevare
Il mondo.

Non ho che me stessa.

 

 

Lucia Trimarchi, Venezia (1972), studia Lettere e Filosofia e restauro dei Beni Culturali nella città di Udine.Si dedica alla poesia dal 2010, pubblicando alcuni versi con Aletti Editore. L’autrice scrive favole fantasy, stampando una raccolta di racconti nel 2017 con il titolo L’Alfabeto di Bu. Si dedica al mondo dell’infanzia, ideando nuove storie e attualizzando favole medioevali in un contesto scolastico attraverso il teatrino dei burattini. Di prossima uscita il nuovo libro L’Oceano dei silenzi.
Lavora ad un progetto per la realizzazione di audio storie, per raggiungere con i propri racconti anche coloro che non possono leggere.
www.alfabetodibu.it

 

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

BUFALE & BUGIE
Chi è il nuovo untore?

L’ansiogena rincorsa all’ultima novità sull’argomento dell’anno non dà segni di allentamento, e chi non si è mosso sin da gennaio a studiarlo e approfondirlo non può sperare proprio ora di recuperare con semplicità il bandolo della matassa.

La caccia all’untore prosegue, tocca adesso alle giovani generazioni. Ce ne dava notizia l’Ansa, il 20 agosto, con un titolo e un articolo certi del contenuto: “Coronavirus, i bambini sono diffusori silenziosi”. L’agenzia di stampa ha tuttavia ignorato il contesto in cui si inserisce lo studio scientifico, dimenticando di segnalare diversi elementi imprescindibili per la sua corretta comprensione. Per cominciare, si tratta di un articolo in attesa di pubblicazione e ancora suscettibile di modifiche prima della versione finale. Venendo alla ricerca condotta, essenziale risulta il campione stabilito e testato: 192 individui fino ai 22 anni di età, con sospetta infezione [vedi qui] da SarsCov-2, che si sono presentati al pronto soccorso, o che sono stati ricoverati per sospetta o confermata infezione da SarsCov-2, oppure per la presenza della MisC, la sindrome infiammatoria multisistemica pediatrica, al momento ritenuta associata e non causata dal germe menzionato. La metodologia principale usata per indagare la positività al virus è stata quella del tampone oro-nasofaringeo, analizzato tramite la tecnica della Real Time Polymerase Chain ReactionReal Time Pcr – , utilizzata per quantificare le espressioni geniche, esaminare le variazioni riscontrate e misurare la quantità di sequenze degli acidi nucleici in determinati campioni. L’inventore della Pcr, il Nobel Kary Mullis, sottolineava tuttavia come la propria creazione permettesse di scovare sequenze genetiche di virus, ma non i virus stessi. I limiti dei tamponi nelle analisi diagnostiche, tra falsi positivi e falsi negativi, sono ampiamente conosciuti, così come la possibilità che presentino contaminazioni e che non vengano effettuati correttamente [vedi qui], divenendo un rischio per la salute pubblica e individuale. I risultati dello studio, circoscritti dai paletti che abbiamo dovuto evidenziare, fanno emergere pertanto una ipotetica carica virale più alta, nelle vie respiratorie dei soggetti attenzionati, rispetto ai pazienti adulti ricoverati nelle terapie intensive. Il che non equivale a una maggiore contagiosità, nonostante la notizia italiana sia quasi interamente concentrata su questo aspetto. Per di più, dalla lettura si rischia di cadere nel tranello che assimila il microbo a una malattia: dire che le bambine e i bambini non sono immuni dal virus, nel senso che possono ospitarlo, non significa dire automaticamente che possano esserne attaccati tanto da veder insorgere una patologia.

Scoperta una nuova fonte di contagio? No. Il paper prossimo alla pubblicazione non aggiunge nulla alle conoscenze attuali sulla diffusione del SarsCov-2, tantomeno sulla vulnerabilità degli individui più giovani alla Covid-19.

BUFALE & BUGIE, la rubrica di controinformazione di Ivan Fiorillo esce ogni mercoledì su Ferraraitalia. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
I libri sono oggetti perfetti, scatole di storie

Vite di carta. I libri sono oggetti perfetti, scatole di storie

Di mercoledì una settimana fa a Mantova è cominciato il Festivaletteratura, giunto alla ventiquattresima edizione. Ho perlustrato il programma con avidità, prima di scegliere sabato 12 settembre come mio giorno mantovano. Ne scrivo quando questo giorno è appena passato, e che giorno. Marina è venuta con me e ha fatto la scoperta del Festival; che bella atmosfera abbiamo condiviso tra uno scrittore in presenza, anzi due (Fabio Geda e Sandro Veronesi) e un collegamento web con l’immenso Noam Chomsky.

L’aria che si respira a Mantova tra il mercoledì e la domenica del Festival è sempre stata questa: un concentrato di idee, di parole, di riflessioni che riempiono la città. I tanti luoghi deputati agli eventi sono come dei catalizzatori, attorno si può sentire passando il loro effetto alone, si sentono spezzoni di idee col loro richiamo.

Poi negli spazi tra un evento e l’altro vive la città con la sua leggerezza di fine estate, tutto è animato: bar, negozi, stand di gadget e pubblicità. Dimenticavo, ristorantini e gelaterie. Convivono che è un piacere la leggerezza di chi passeggia per godersi il centro, così bello, e il magnetismo che si sprigiona dagli incontri tra intellettuali e pubblico. Magari lì a due passi, sotto un tendone o nel cortile del Castello.

Marina sentiva con me la forza, dicevamo insieme ‘la catena delle idee’ che ci passava accanto e si poteva afferrare con presa sicura. Quasi un fatto fisico. Un bel passo avanti, dopo i lunghi mesi passati, in cui abbiamo caparbiamente insegnato da casa, lei Inglese e io Italiano, ai nostri studenti diventati dei pixel su uno schermo. Senza il contatto diretto, senza vedere cosa c’è sotto il piano della scrivania, mentre parli, o mentre ascolti, o scrivi appunti. E invece.

Nell’incontro di sabato si è vista bene la giovialità di Geda dai suoi gesti rassicuranti verso Enaiatollah, che gli sedeva accanto e pareva piuttosto emozionato prima di prendere la parola. Si è vista bene la nonchalance di Veronesi, giunto al suo secondo premio Strega, che simpaticamente ha manifestato la sua soddisfazione e ha evitato di apparire tronfio, trasformandola nella metafora del gioco del tennis. Pare che ora potrà chiedere ad Adriano Panatta di giocare con lui, non mi sembra poco….

Non ho un libro particolare a cui fare riferimento, stavolta si parla di ‘libri’. Non dico ‘parlo in prima persona’, perché ne hanno discusso i relatori sopra nominati a Mantova e io mi inserisco nello spazio delle loro sollecitazioni. Si parla dunque del libro come prodotto di una intenzione e del libro come oggetto.

Geda ed Ena hanno spiegato ampiamente come mai hanno deciso di scrivere Storia di un figlio, che continua la narrazione incominciata undici anni fa con Nel mare ci sono i coccodrilli, uscito nel 2010. Un bel libro, toccante e spontaneo, che mi ha conquistata e che è piaciuto anche agli studenti che ci hanno lavorato con me; nella loro spontaneità avrebbero voluto conoscere Ena di persona. Intanto Ena voleva smettere di incontrare il pubblico, smettere di ricostruire a ogni presentazione del libro la sua odissea durata quattro anni dall’Afghanistan all’Italia; sentiva il bisogno di concentrare le forze sul proprio presente, di costruirlo con nuove energie.

Poi il passato si è ripresentato a chiedergli il conto, lo ha spinto a guardare indietro, a saldare tra loro gli anni del viaggio e quelli di oggi, a ricostruire la vita difficile che la madre e la famiglia rimasti in Afghanistan hanno condotto nello stesso lasso di tempo.

A Mantova è stato lui a chiarire al pubblico la ragione che lo ha convinto a esporsi scrivendo, ancora una volta insieme a Fabio, un secondo racconto di sé, e la ragione è che si sente responsabile verso gli altri migranti meno fortunati di lui. Ena vive in Italia con lo status di prigioniero politico da ormai dieci anni, ha finito gli studi arrivando a laurearsi, lavora e ha una compagna. E’ ancora in attesa di risposta alla sua domanda per ottenere la cittadinanza italiana. Si interessa del suo paese, vorrebbe fare attività politica utile all’Afghanistan e alla etnia hazara di cui fa parte, ha contatti regolari con la famiglia.

Nel dibattito con Domenico Quirico, che faceva da sagace moderatore dell’evento ha evidenziato una conoscenza e un coinvolgimento totali nelle cose afghane. Dunque la responsabilità e l’impegno: su questo si regge il progetto del suo racconto numero due.

Quattro ore dopo nella stessa piazza Castello l’architetto e scrittore Sandro Veronesi, incalzato da Chiara Valerio, ha parlato, sia del suo ultimo libro, Il colibrì, vincitore del Premio Strega 2020, sia dei libri in generale come oggetti. Ha toccato anche altri temi per me avvincenti, come il rapporto tra narrazione e poesia, ma ora mi pare intrigante continuare a prendere in considerazione il libro. Ne ha scritti molti Veronesi, quando è uscito ho letto Caos calmo, vincitore dello Strega nel 2006, ora ho sul comodino Il colibrì e presto comincerò a leggerlo, col viatico privilegiato delle suggestioni che ha dato l’autore a Mantova.

“Che oggetti sono i libri? Sono oggetti perfetti” ho scritto nei miei appunti. Perfetti come il mattone, che per un architetto è un elemento fondamentale: i mattoni sono rimasti uguali a se stessi nei secoli, sono solo diminuite le dimensioni. Come del resto è accaduto ai libri che dopo Gutenberg e la diffusione dei volumi a stampa si sono fatti più piccoli e ora, nell’epoca della alfabetizzazione di massa, sono diventati tascabili. I libri sono uguali a se stessi e al tempo stesso estremamente versatili: hai tra le mani un parallelepipedo, lo stesso da almeno seicento anni, ma dentro puoi trovarci una infinità di contenuti diversi, di storie diverse.

I libri funzionano sempre, basta un po’ di luce che ne permetta la lettura. Per tutti questi motivi secondo Veronesi l’avranno sempre vinta sull’eBook. In più sono belli, si toccano con piacere e, aggiungo io, profumano, vanno annusati appena usciti dal cellophane. Da ultimo, in onore di Marina dirò last but not least, arredano. E giù con l’aneddoto di quando Veronesi lavorava presso una casa editrice (mi pare) ed elargiva copie di libri molto belli, ma rimasti invenduti a una platea di giovani ingegneri che stavano mettendo su casa e dovevamo allestire gli scaffali del soggiorno.

Sul libro come arredo ho le mie esperienze. Nel mio studio i libri sono identitari e occupano un posto molto pensato, ognuno per il contenuto che ha, ma anche per le dimensioni e il colore. Sono altrettanto convinta, però, di come arredino in modi diversi le case degli altri. Veronesi mi ha fatto proprio ridere con la storiella dei giovani ingegneri, ma avrei potuto aggiungere i libri che ho visto invecchiare sugli scaffali di certe sale da pranzo, tutti ancora nel loro cellophane e di altri volumi finti, fatti di legno e vuoti dentro che ho visto a casa di qualche compaesano. Facciamoci coraggio: una cosa in comune ce l’anno tutti quanti, ed è che vanno spolverati ogni tanto.

Ma torniamo alla lettura, per dire che raccolgo volentieri la sfida: vado al Festivaletteratura di Mantova dal 1999 e faccio incetta di stimoli a conoscere un mondo di libri. Questa volta i primi da leggere saranno i due di cui ho appena parlato. Anche il lettore, che è parte attiva nel circuito comunicativo instaurato dal testo, ha un suo progetto quando apre un libro e lo mette in relazione con quello dell’autore.

Leggerò Storia di un figlio, cercando di conoscere più a fondo la famiglia di Ena, la sua etnia e il suo paese; prenderò in mano Il colibrì e dentro il parallelepipedo scoprirò le esperienze di vita di Marco Carrera, uno capace di sbattere le ali per mantenersi uguale a se stesso, e conservare la propria energia vitale ed essere resiliente. In fondo, si dice che ogni scrittore è autore di un solo libro. Anche il lettore: in fondo, ognuno di noi legge per sentire parlare dell’ universo mondo e per riferire ogni cosa a se stesso.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

RITORNO A SCUOLA
È il tempo dell’accoglienza, della narrazione, della rimodulazione

Si torna a scuola. Ma che scuola è quella che sta riaprendo in queste settimane di settembre?
È la scuola che improvvisamente per mesi è venuta a mancare non si sa bene se più alle famiglie che ai ragazzi, è la scuola del compagno che ieri era di banco e che ora è da tenere a distanza sociale. La scuola della ricreazione monoposto, la scuola asettica delle mascherine, dei guanti e degli igienizzanti. La scuola delle prescrizioni, che si moltiplicano come non mai prima.
E perché dovremmo chiamare tutto questo ‘scuola’? Solo perché la scenografia è quella di sempre: l’aula, la cattedra, il banco, i compiti, le lezioni e le interrogazioni, gli orari, gli ingressi e le uscite.

Pareva cresciuta negli anni la domanda sociale di una scuola che, oltre ad istruire, recuperasse il suo ruolo di fucina dell’educazione. Nei suoi curricoli si sono andate moltiplicando le educazioni di ogni genere, addirittura spesso le è stato chiesto di svolgere una funzione di supplenza nei confronti delle famiglie e dei genitori in crisi di ruolo e di capacità educativa.

Ora che dell’educazione ce ne sarebbe bisogno come non mai, pare che l’emergenza sanitaria l’abbia cancellata dall’orizzonte. Ce lo ricorda Umberto Galimberti che ‘educare’ significa prendersi cura della dimensione emotivo-sentimentale dei nostri ragazzi, aiutarli a passare dalla pulsione all’emozione. La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore, scrive il filosofo.
Non c’è solo, pertanto, l’attenzione sanitaria da allertare, c’è quella verso l’interiorità di ogni bambina e di ogni bambino, di ciascuna ragazza e di ciascun ragazzo. Come tanti mesi lontani dalla scuola li hanno cambiati. Quali segni ha lasciato la lunga convivenza in famiglia, quanto hanno appagato il loro bisogno di affetto le cure e le attenzioni ricevute, che significato ha assunto il condividere in modo più partecipato da genitori, fratelli e famigliari il frequentare la scuola sia pure a distanza. Tutti sappiamo che c’è anche il rovescio della medaglia e che per quanti la scuola era l’unico spazio di liberazione, il lockdown può aver costituito la condanna a vivere una dimensione famigliare frustrante, di privazione, quando non conflittuale, se non pericolosa. Ci sono, dunque, anche cicatrici da rimarginare, che hanno bisogno del balsamo della comunità ritrovata.

Ecco, la scuola come luogo in cui c’è sempre qualcuno che si prende cura di te, che ti accoglie in modo disinteressato e si pone a tua disposizione. La scuola del respiro ampio, la scuola dei tempi lunghi, la scuola dell’ascolto e della confidenza, la scuola della solidarietà degli insegnanti e dei compagni, il luogo dove condividere emozioni che sono uniche.
Ciò che andrebbe evitata è la fretta di sedersi alla cattedra e al banco, di riprendere a insegnare per recuperare il tempo perduto, lasciando le vite di prima, le vite del vuoto scolastico, fuori dalle aule.

Il progetto educativo della ripresa avrebbe bisogno di tre passaggi: accoglienza, narrazione, rimodulazione.

Accoglienza per tornare a riconoscersi, per scoprirsi mutati e quanto, per comunicarsi cosa si pensa di aver perduto e che aspettative si nutrono, per pronunciare promesse e rilanciare prospettive. Quali sono i bisogni a cui ciascuno vorrebbe che la ripresa scolastica rispondesse. Riprendere il filo interrotto, da dove ci eravamo lasciati e progettare i prossimi cammini. Parlare di noi e dell’effetto che fa ritrovarsi. Quanto ci sono mancati il gioco e l’aula. Quanto è mancato il calore della stare insieme, del condividere idee, saperi e anche conflitti.

Narrazione di come è stato vissuto il tempo forzato dell’extrascuola, le ansie, i timori, le relazioni, i pensieri maturati. La vita vissuta in famiglia, mesi lontani dai propri compagni, il desiderio di fuga e di ribellione. Esperienze di maggiore armonia o, al contrario, di maggiore attrito con i genitori e gli adulti in generale. La perdita di spazi di autonomia, le rinunce, i social come l’unica finestra aperta sugli altri, la compagnia dei propri device, divenuti gli amici preziosi con cui vincere la gravità del tempo sospeso. La scoperta del guscio con cui ci si è difesi dall’esterno, dalla presenza invadente degli altri in famiglia, il richiudersi in se stessi, la fuga nella lettura, nei film scaricati, negli auricolari che sparano la musica. Scoprire d’essere un’isola e di aver vissuto come in un’isola. La rivelazione a se stessi di se stessi, della compagnia che ci si può fare quando ci si ritrova soli a tu per tu con il proprio io. Maggiore o minore stima di sé, maggiore o minore fiducia nelle proprie risorse e potenzialità. Depressione o resilienza. La narrazione per trovare uno specchio negli altri, riflettersi nelle compagne e nei compagni, in testimoni a cui credere ed affidarsi come gli insegnanti che ti aiutano a parlare delle tue esperienze, a ripercorrerle, non per rimuoverle ma per comprenderle, comprenderle nella mappa della propria storia.

Infine la rimodulazione. Il rapporto con la scuola che non può essere più quello di prima. A scuola i bisogni non sono mai stati uguali e se la scuola di prima li uniformava ora non è più possibile, perché l’emergenza ha portato alla luce una scuola traumatizzata, una scuola ferita, di una ferita che per essere rimarginata ha bisogno della cura di studenti e insegnanti. Rimodulazione significa che la ripresa del cammino deve essere personalizzata, perché non si esce da mesi senza scuola tutti uguali, i pesi portati sono stati differenti, come diverse erano le forze per reggerli. C’è un lavoro di ricomposizione di ciò che per ciascuno si è indebolito o è andato in frantumi, con attenzioni e modalità che inevitabilmente variano per ognuno. Rimodulare il fare didattica tra presenza e distanza, cercando di annullare la lontananza prodotta dall’on-line. Rimodulare la classe in gruppi differenti, non per età ma per necessità educative, per bisogni e tempi di apprendimento sempre più personalizzati. Utilizzare gli incontri in presenza per organizzare il lavoro che si farà a distanza, per evitare la divaricazione tra il dentro e il fuori, per impedire che la distanza si traduca per qualcuno in un accumulo di svantaggi.
Rimodulazione significa flessibilità dei curricoli, degli spazi e degli orari, dell’uso delle figure professionali, docenti, educatori, insegnanti di sostegno, esperti, attori del territorio.
Rimodulazione suggerisce di ripensare il rapporto tra apprendimenti formali e apprendimenti non formali, come riconoscere competenze acquisite non direttamente a scuola, semmai nell’impegno e nello studio individuale. Riconoscere con un sistema di crediti i saperi acquisiti al di fuori della programmazione scolastica. Ibridare il sistema non solo con la didattica a distanza, ma con il riconoscimento delle competenze da ciascuno acquisite per altre vie, non necessariamente formali.

L’eccezionalità della situazione dovrebbe suggerire di predisporre per ogni bambina e bambino, per ogni ragazza e ragazzo un patto formativo, un contratto formativo tra scuola, studente e famiglia in cui definire l’impegno di ciascun soggetto, il percorso di studio, le sue modalità, le tappe e gli obiettivi da raggiungere, in funzione delle necessità individuali. Cosa si impegna a fare la scuola, cosa si impegna a fare la famiglia, cosa mi impegno a fare io. Predisporre il profilo di tutor a cui affidare gruppi di studenti, grandi e piccoli, incaricati di prendersi cura di loro, di seguirne i processi di apprendimento, sostenerli e indirizzarli, da incontrare a scuola nei pomeriggi o da visitare a casa.
Non resta che augurare ai nostri ragazzi e a noi stessi che i mesi di assenza forzata dalle aule non abbiano messo in quarantena anche i cervelli e che il ritorno a scuola offra loro la gradita sorpresa di beneficiare di qualche idea nuova in più, non solo per l’oggi ma anche per il futuro.

LA SFIGA DI ESSERE GIOVANI

E’ durissima essere giovani. Oggi sicuramente: disoccupazione, incertezza, il Pianeta in pericolo, e chi più ne ha più ne metta.
Oggi, ma anche ieri e l’altro ieri. Nel secolo presente, come nel precedente.
Quando sei giovane ti senti ripetere due cose, continuamente, sempre quelle due cose.
Una carezza: “I giovani sono il nostro futuro….dobbiamo puntare sulle giovani generazioni… dobbiamo consegnare ai giovani un mondo più decente di quello attuale…. “
E un cazzotto: “ I giovani se ne fregano, sono disinteressati e irresponsabili, sono edonisti ed egoisti, sono solo capaci di far casino, bevono, si drogano…”.
Della difficile, complessa, problematica, drammatica condizione giovanile, gli adulti sono anche disposti a prendersi la responsabilità. A parole, naturalmente. Segno che si tratta di un semplice esercizio retorico, una captatio benevolentiae, un ritornello lavacoscienza.
Il risultato è che, alternativamente “i giovani sono belli” oppure “I giovani sono brutti”. Secondo l’occasione, il fatto di cronaca, l’ennesima indagine Censis .
In realtà i giovani non sono né belli né brutti. E’ però in atto una strategia, conscia o inconscia, per tagliarli sempre più fuori dalla società. “Voi state fuori, che prima o poi risolveremo tutto”.
Ad esempio. C’era una volta – ma è passato solo un anno – un movimento nazionale impetuoso, tutto giovanile, che aveva mobilitato coscienze e riempito le piazze. Il movimento delle sardine, che aveva eccome mosso le acque, sembra oggi disperso. Si è scontrato con “il mondo della politica”, con i corteggiamenti di questo o quel partito, con la necessità di schierarsi, con l’urgenza di “prendere una posizione pubblica”.
L’eclissi (non sappiamo se permanente) del movimento delle sardine mette in piena luce la grande forza e la impermeabilità della politica italiana, l’ incapacità dei partiti – anche di quelli progressisti – di aprirsi a modalità, contenuti e linguaggi nuovi: quelli appunto portati avanti dai giovani. Se le Sardine rappresentavano un abbozzo di “Nuova Politica”, La Vecchia Politica è riuscita a disinnescare la minaccia e si è riproposta tale e quale.
Ecco quindi che agli italiani – anche ai giovani italiani – viene proposto un Referendum populista e mal congegnato, dove tutti i partiti (compreso il Partito Democratico che si era detto contrario) invitano a votare sì. Per un’unica “vergognosa” ragione: perché i Sì stravinceranno (secondo i sondaggi) e quindi occorre essere tra i vincitori. E salvare un governo eternamente traballante. Il resto non conta.
Parlo con i miei figli. Parlo con i giovani. Molti non andranno a votare. E faccio fatica a dargli torto. La politica, questa politica. Non c’entra nulla con loro. Loro sono fuori. Ai margini. Come sempre.
Anche Ferrara, mentre dura la nuova amministrazione leghista, i ragazzi, e anche i bambini, sono spinti sempre più ai margini. Mentre, seguendo il metodo Naomo, piazze e giardini devono essere messi in sicurezza contro i vandali della movida, il Comune di Ferrara avrebbe deciso di abolire uno storico e seguitissimo appuntamento per i bambini e per le famiglie. ‘Estate Bambini’ quest’anno non si farà.
Dare la colpa al Covid è l’ultima scusa per mettere i giovani ai margini. Del futuro. E del presente.

Si torna a scuola

Enrico ha ricominciato a frequentare la scuola materna.  Contento e curioso. Dice che finalmente può stare con i suoi amici. Mi chiedo per quanto tempo (ma non glielo dico).
La scuola materna di Pontalba è molto spaziosa, ha aule grandi e un bel cortile. Ha anche  la mensa interna e un grande refettorio dove si può pranzare e fare merenda. I bambini possono stare a scuola tutto il giorno rispettando tutte le norme igienico-sanitarie per la prevenzione da contagio Covid-19. Questo fino a quando qualcuno non si ammalerà. A quel punto dovranno stare a casa tutti due settimane. Ma noi facciamo gli scongiuri (‘vai via brutto Covid, vai via brutto Covid, vai viaaaaa, bum, bum, bum !!!) e speriamo che possano continuare le loro attività.

Il difficile momento della scuola è chiarissimo: dove non ci sono spazi sufficienti, banchi sufficienti, personale ATA sufficiente e insegnanti sufficienti si concretizza un problema. Dove le corse degli autobus non sono state come minimo raddoppiate, si verifica una criticità non da poco: alcuni ragazzi arrivano nei pressi della scuola ore prima e poi staranno in giro facendo “non si sa cosa”, altri arriveranno in ritardo.
Inoltre alcune scuole hanno un bacino d’utenza così ampio che non riescono a gestire tutte le ore “in presenza” per cui ci saranno classi che andranno a scuola una settimana sì e una no. A fasi alterne, seguendo un po’ di didattica on-line e un po’ in presenza, cercheranno di accumulare il sapere sufficiente per accedere all’anno successivo senza danni e corsi di recupero da fare a settembre.

Gli insegnanti sono preoccupati, i dirigenti scolastici hanno passato l’estate senza fare le ferie, organizzando i turni di frequenza e litigando con le aziende di trasporto per raddoppiare le corse degli autobus.
Il dirigente scolastico di mia sorella Cecilia dice che sta rischiando il divorzio. Fa il preside da poco più di un anno, si è sposato da poco più di un anno, aspetta un bambino che si augura di poter vedere nascere.
I genitori sono in preda a dei tormenti organizzativi: portare i figli a scuola in macchina, iscriverli a scuole periferiche meno affollate, acquistare tutte le attrezzature informatiche che saranno comunque necessarie e, per i bambini più piccoli, trovare il modo di garantire sempre la presenza di una persona adulta che possa portare il bambino a scuola e andare a riprenderlo, essere di supporto durante le lezioni on-line, accudirlo intanto che i genitori lavorano, fargli la doccia e metterlo a letto se si fa tardi e i genitori non sono ancora rincasati.
Chi ha un bambino in casa sa quanto fermento ci sia in questi giorni, senza contare il dramma di tante donne che facendo lavori poco qualificati ricevono stipendi bassi.  Molto tristemente, conviene loro lasciare il lavoro, perché tutto quello che guadagnerebbero finirebbe nelle tasche della baby-sitter prescelta. E’ vero che ora esiste il bonus baby-sitter. Vedremo come funzionerà.

Enrico è sicuramente consapevole che alcune cose sono cambiate, anche se oggi è tornato dall’asilo dicendo che era felice perché aveva mangiato la torta di Roberto, un bambino suo coetaneo che oggi ha compiuto gli anni. Me l’ha raccontato soddisfatto.
Certe volte non lo vediamo con sufficiente lucidità, ma i bambini sanno interiorizzare le regole più di quanto noi pensiamo: Enrico non si dimentica mai la mascherina, si mette in fila senza prendere per mano nessuno, entra all’asilo da solo perché così non è necessario misurare la febbre  anche all’accompagnatore, mette i guanti di lattice tutte le volte che sono necessari senza che nessuno glielo ricordi, si disinfetta le mani da solo. Ha imparato le regole anti-contagio e le applica con una sistematicità da certosino. Eppure è un bambino vivace di quattro anni e mezzo che non ama per nulla le convenzioni. In questo momento lui è un esempio da seguire, un comportamento da imitare, una riflessione da condividere.

Noi adulti pensiamo che i bambini siano quelli più difficili da assoggettare a questo nostro nuovo modo di relazionarci, di stare insieme senza pericolo, ma l’evidenza dei fatti dimostra che non è così.
Invece chi davvero sta creando problemi ed è completamente “fuori banda” è l’esercito dei “non credenti” (chiamiamoli pure “negazionisti” con un termine mutuato dalla seconda guerra mondiale), quelli che dicono che il Covid-19 non esiste, che le vaccinazioni non servono, che la terra è piatta, che Einstein in realtà non è mai nato, che la Shoah non è mai esistita, etc. Sono davvero interessanti i meccanismi psicologici che portano il  cervello umano a negare cose del genere. E’ sicuramente un fenomeno intrapsichico e sociale che meriterebbe di essere studiato a lungo e analizzato in tutte le sue sfaccettature e conseguenze. Sta di fatto che nella storia i negazionisti ci sono sempre stati.

Ad esempio c’è stato chi nel seicento ha negato l’esistenza della peste per poi ammalarsi e morire proprio di questa malattia. C’è stato chi ha negato l’esistenza della Spagnola agli inizi del ‘900 per poi ammalarsi e morire di Spagnola. C’è stato chi ha negato la mortalità dei carcinomi per poi finire sottoterra grazie proprio a uno di loro. Senza arrivare al negazionismo della deportazione Ebraica e della Shoah. Una negazione tanto drammatica quanto inaccettabile.  Il fenomeno è talmente grave e si è talmente diffuso che anche la Commissione Europea ha preso posizione sul dramma. La reviviscenza delle teorie negazionistiche  ha spinto nel 2006  i ministri della Giustizia dell’Unione Europea a introdurre in tutti gli Stati membri sanzioni fra uno e tre anni di carcere per “incitamento pubblico alla violenza o all’odio razziale” e per “apologia in pubblico o negazione, banalizzazione volgare del genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”. Nel gennaio 2007 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il testo presentato dagli Stati Uniti e sostenuto da 103 nazioni che invita tutti gli Stati membri a rifiutare senza riserve ogni negazione, totale o parziale, della Shoah come evento storico.

Ritornando alla scuola di Pontalba, qui non esiste nessun “negazionismo”, sappiamo tutti che questo maledetto virus per ora è ancora con noi e che dovremo conviverci fino all’arrivo del vaccino che non sembra per nulla prossimo.
Enrico con la sua mascherina azzurra sembra un bambino leucemico (solo i bambini immuno- depressi portavano la mascherina in Italia fino a pochi mesi fa), ma i suoi occhi sono vivaci e lucidissimi, non si è perso nulla di questo Covid-19 e ha imparato a comportarsi di conseguenza.
“Tu zia ha paura del Covid?”
“Solo un po’ Enrico, qui a Pontalba si sono ammalate pochissime persone”.
“Ma zia devi avere paura! Questa malattia uccide i nonni! E io voglio molto bene alla nonna Anna. La nonna gioca con me a tombola, a oca e a dama cinese, fa con me i disegni e anche le torte e la frittata il venerdì”.
In quello che Enrico ha appena detto c’è davvero una grande saggezza. E’ la saggezza semplice ma diretta e lucida dei bambini, è la loro capacità di cogliere nel profondo,  senza mediazioni.
Negli occhi dei bambini brilla la verità.  Per questo sono belli.

Fra poco tutti torneranno a scuola, ognuno cercherà di proteggersi come può e speriamo che ci riesca. Ma negare l’evidenza e pensare che sia tutto frutto di una mente malata che vuole farci credere in una specie di immunità già acquisita (non si capisce né come né quando) è davvero impressionante e pericoloso. I bambini ne sanno più di noi e soprattutto sanno guardare le cose con maggiore trasparenza.

Chiara Gamberale ospite al Microfestival delle storie

Un quaderno delle settimane in cui ciascuno ha dovuto iniziare a stare a casa e comprendere che gli altri erano troppo lontani o troppo vicini tra le mura domestiche. Come il mare in un bicchiere (Feltrinelli, 2020) è l’ultimo libro di Chiara Gamberale che la scrittrice presenterà in diretta streaming al Microfestival delle storie di Polesella venerdì 18 settembre alle 21 dalla sala Agostiniani. A dialogare con l’autrice, la giornalista Riccarda Dalbuoni.

Come il mare in un bicchiere racchiude le riflessioni nate quando nuove regole e la distanza dal mondo là fuori, dalle persone, dagli amici, dagli impegni hanno iniziato a modificare la percezione di quel mondo così fagocitante, pieno di urgenze e veloce. Ma l’allontanamento dagli altri, annota la scrittrice, può diventare una misura di “autodifesa psicologica ed emotiva”, un nuovo modo per difendersi e difendere gli altri. Da dove cominciare allora quando il mondo guarirà? “Da chi abbiamo vicino e da quello che sappiamo fare”.

La diretta con Chiara Gamberale potrà essere seguita dalla pagina facebook del Microfestival delle storie e del quotidiano Ferraraitalia, media partner. Non solo, è possibile prenotarsi per assistere alla presentazione in sala Agostiniani dove sarà allestito un maxischermo.

Prenotazioni:https://www.eventbrite.it/e/chiara-gamberale-microfestival-delle-storie-tickets-120623196227

Il programma completo degli eventi del Microfestival di settembre e ottobre su microfestival delle storie

Per informazioni: microfestivaldellestorie@gmail.com, messenger: microfestival delle storie.

SCHEI
Fratelli bianchi

Non nutro nessuna simpatia per i processi di piazza. I media scelgono i bersagli del ludibrio pubblico ben prima che il processo venga celebrato, e si guardano bene dal fare mea culpa quando (spesso) il processo vero sentenzia che quei mostri non sono mostri, o addirittura non sono colpevoli, per la legge. Magari per insufficienza di prove, ma in un paese democratico se non ci sono prove sufficienti devi essere assolto (per fortuna, aggiungo).

Per questo non ho nessuna intenzione di almanaccare su quanto abbiano effettivamente combinato quella notte i bulli di Colleferro, tra cui i famigerati fratelli Bianchi – scherzo dell’araldica, come volete che si chiamino tre fratelli uniti dal sangue proprio e degli altri, due dei quali (si dice) ammazzano di botte un ragazzo di colore? Fratelli Bianchi. E’ tuttavia molto interessante notare cosa si muove attorno a loro, comprese alcune reazioni indirettamente collegabili al fatto di Colleferro, ma definibili come onde concentriche generate dal sasso gettato nell’acqua. La prima onda, che esemplifica la classica reazione razzista “da copione”, è quel post, poi rimosso, proveniente da un profilo forse fasullo contenente riferimenti a Fratelli d’Italia e inneggiante all’eliminazione fisica di “quello scimpanzé”. Ma è la seconda onda ad essere decisamente più interessante: un utente Twitter, pensando forse di fare dell’ironia (o forse no, visto il commento di scuse postato in seguito), pubblica una foto che ritrae la cantante Emma Marrone ed il musicista americano di colore Kanye West, con la seguente didascalia: “Emma offre la cena a un ragazzo nero dopo che quest’ultimo non ha abbastanza soldi per permettersi da mangiare”. Come molti (ma non tutti) sanno, Kanye West è uno degli artisti più ricchi al mondo. Alcuni dei commenti al post sono i seguenti: “Di offrire il pranzo a un nonno italiano, in difficoltà economiche così come ce ne sono sempre di più, no eh. Solidarietà sempre e solo ai neri perché neri e ai clandestini? Vai a farti un giro ai cassonetti, vedrai cose da non smettere di piangere. Sinistronza di m…”. Oppure: “il bene si fa, ma non si ostenta. Impara capra!”, incluso citazionismo sgarbiano ad minchiam che aggiunge un tocco di grottesco. Interviene la Marrone, definisce “feccia” chi commenta, chiarisce che il nero è il signor West (o Kardashian, se preferite), appunto uno dei produttori più famosi e ricchi sfondati del pianeta, al punto che il profilo Twitter che ha postato la foto reagisce scusandosi: “non sapevamo fosse lui”, come se questo fosse ciò di cui occorreva scusarsi. Ecco, questa è la reazione più interessante. Ciò che provoca le scuse non è il fraintendimento sulla pigmentazione del musicista, che non è in discussione. Ciò che provoca le scuse è l’avere scambiato un ricco per un povero. Kanye West è ricco, il che lo pone immediatamente fuori dal mirino degli odiatori.

Credo che molti meridionali nutrano un particolare fastidio per la trasformazione truffaldina della Lega Nord in partito del riscatto meridionale. Il fastidio, immagino, è ugualmente ripartito tra il segretario attuale di questo partito e quei meridionali che hanno abboccato. Basta avere un minimo (ma davvero un minimo) di memoria, per ricordare e andare a ripescare Salvini che canta “senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”, il suo ostentato tifo per la Francia alla finale degli Europei di calcio del 2000, le magliette con la scritta “Padania is not Italy”, e confrontarle con il suo meridionalismo e nazionalismo di adesso. Eppure l’operazione intellettuale è meno rozza di quel che appare, e infatti su molti ha fatto presa. Si tratta di una sostituzione dell’oggetto dell’odio: dal terrone al negro, al clandestino. In questo modo è stato individuato un simbolo (l’immigrato clandestino) che unifica nel disprezzo tutti, da Palermo ad Aosta. Finalmente un nemico comune contro il quale sventolare il tricolore, col quale qualche anno fa Salvini si puliva il sedere.

Perchè questa digressione, e soprattutto: cosa c’entra tutto questo con gli schei, che sarebbe l’argomento della rubrica? La digressione non è una digressione, ed è direttamente funzionale a mostrare come stia prendendo piede un razzismo meno tradizionale e istintivo, che non si fonda sul colore della pelle o sulla etnia, ma sullo status di disperato, di povero, di reietto. Kanye West ha smesso di essere insultato da “negro”, con tante scuse, nel momento stesso in cui è stato chiarito ai pochi che non lo sapevano che si tratta di un cantante ricco e famoso. Salvini ha smesso di essere uno stronzo antimeridionalista nel momento in cui ha eletto e propagandato un nemico comune a nordisti e sudisti d’Italia, ovvero il clandestino. Questi fenomeni denotano un pericolosissimo tratto comune: il razzismo viene esercitato nei confronti di chi è povero, di chi è escluso, di chi scappa dalla miseria, dalla guerra, dalla fame. Di chi, semplicemente, cerca una possibilità in più per la sua vita. Questo tipo di razzismo della condizione sociale diventa ben presto, o è già diventato, il denominatore comune di questi nuovi fascistelli, che in effetti hanno apparentemente molto più in comune con un tronista che con Mussolini. Ma ciò dipende dal fatto che il loro razzismo non si nutre del disprezzo del negro o dell’ebreo, ma del povero, la loro esistenza è vissuta nella costante tensione verso una ricchezza da perseguire ad ogni costo e con ogni mezzo, per allontanarsi dalle proprie origini, anzi per cancellarle, per eliminare ogni traccia di ciò che si teme di essere, o della condizione nella quale si ha il terrore di precipitare. Questo razzismo si eserciterà nei confronti dei reietti sociali, e la maggior parte dei perseguitati nei prossimi anni potrebbero essere italiani.

PER CERTI VERSI
Il sonno è fatto

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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CARO CLAUDIO

Caro Claudio
Medico di famiglia
Amico e terapeuta
Non me lo cavo dalla testa
Che la cosa più dura
Se ne esci
Sia fare i conti
Con ciò che resta
La paura

IL SONNO È FATTO

Il sonno è fatto
Per chi sta bene
Quando ti crivellano la mente
I colpi del dolore
Non vorresti altro che sparire
Volere insieme
Vivere e morire

PERCHÉ

Perché
Me lo sono chiesto
Tante volte perché
Proprio a me

E mi rilasso

Seduta in spiaggia, ore undici e trenta, sto guardando il mare. E mi rilasso.
Davanti a me passa un ragazzo di colore sciancato, un ondeggiamento costante e immagino dolente. Lo ricordo, è lo stesso ambulante dello scorso anno. Raggiunge i suoi amici riuniti sotto l’ombrellone. Presso la riva è esposta la loro mercanzia, che ben pochi considerano.
Una signora indugia un’occhiata più lunga sulle borsette e subito un venditore le si fionda appresso. Lei fa per andarsene, ma lui la richiama “Signora! Signora!”. Lei nicchia, poi è costretta a fermarsi e inizia un dialogo a parole mozze e gesti. Lui è insistente, lei impiega almeno tre minuti per convincerlo che non ha bisogno di una borsetta, stava solo guardando, giusto perché ha gli occhi. È cortese, paziente, lui meno, si irrita e, quando lei riprende il cammino, le borbotta dietro nella propria lingua.
Il distanziamento tra le persone e gli ombrelloni è rispettato, anche qui in spiaggia libera, e c’è maggiore pulizia in generale. È piacevole. Peccato ci sia voluto il covid per ripristinare certe attenzioni.
È un venerdì poco affollato di luglio, come in un qualsiasi giorno della settimana che non sia sabato o domenica. Non so come sarà durante il week end.
Ci sono anziani, adulti, ragazzi, piccoli, tutti sparsi in un tempo dilatato e lento, scandito mollemente dalle onde del mare, in una giornata perfetta, né troppo calda né troppo ventilata.
Entro in acqua e vi cammino. Intorno, bambini alzano grida, si tuffano, sguazzano, a loro agio nell’elemento liquido. Tutti si divertono, pur mantenendo le distanze, si rasserenano, dialogando con altri, con se stessi. Un ragazzo e una ragazza amoreggiano, discreti: lui fa la voce grossa fingendosi geloso, lei sta al gioco. Sono bellissimi. Distolgo lo sguardo e mi allontano, accompagnata dalle loro voci, dai loro giochi. I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno… loro sono altrove… nell’abbagliante splendore del loro primo amore. Quando l’acqua mi arriva ai fianchi, il fondale diventa un susseguirsi di rialzi e buche infide. Piuttosto che rischiare una storta, mi immergo, nuoto, faccio “il morto”: il mare mi culla, mi accarezza, mi sostiene, slava i pensieri. Il cielo — mentre l’acqua ottunde le orecchie e intona suoni alieni — è un’immensità invitante. Poi risalgo a riva, mi siedo sulla seggiolina e mi rilasso.
Il vento scompiglia appena le frange degli ombrelloni, disperde i silenzi, le parole — anche quelle di due coniugi che si rimbrottano dandosi la schiena, uno perso tra le righe del quotidiano, l’altra con la faccia immusonita al sole. Mi lascio avvolgere da un torpore distensivo, sonnolento.
A breve distanza, un ambulante avanza lentamente, quindi alza la mascherina sul viso e si avvicina a una coppia di villeggianti. — Ciao, — saluta. A quella voce, l’uomo strabuzza gli occhi, balza dal lettino e si precipita in acqua, mentre la moglie corre invasata dalla parte opposta urlando: — Vai via! Altrimenti chiamo la polizia! Vai via! — Il ragazzo è sorpreso, interdetto, risentito, dice che sta rispettando il distanziamento fisico, che indossa la mascherina… Deve andarsene. Si allontana mugugnando, poi mi vede, si approssima, appoggia la mercanzia sulla sabbia e si siede a due metri da me. — Ciao, bella, hai visto? Non si può fare così. Non sono un appestato, — si sfoga in perfetto italiano. — Non ho fatto niente di male. Ho paura anch’io del covid. Se non vuoi comprare, mi dici di no e io vado via —. E continua a brontolare “che razza di gente! Non sono un cane! Un po’ di rispetto” mentre scrolla la testa. Mi stupisce l’ottima padronanza della lingua italiana, chissà da quanto tempo è nel nostro Paese. Gli rispondo che ci sono persone strane, certo spaventate. Lui replica che conosce le regole, che sta lavorando… — Non ho soldi, — puntualizzo, mettendo le mani avanti. — Non importa, — mi dice, con gli occhi arrossati sul viso d’ebano, — basta anche solo scambiare due parole. Ciao, bella! — E se ne va.
Insomma, al mare ci si rilassa, ripeto. Qualcuno già serra gli ombrelloni, lasciandoli sul posto, i lettini addossati, per il dopo pranzo. Altri sgomberano la loro postazione. La spiaggia è sempre più deserta, il frangersi delle onde passa e ripassa sulla battigia, si protende e si ritira, sottraendo, riportando, avvoltolando granelli lucenti, ipnotico.
Nulla di eclatante, tutto tranquillo, lontano dai soliti pensieri. E io mi riservo momenti di serenità che la vita nasconde nelle piccole cose di tutti i giorni, senza attendere che me li porga, perché non lo farà mai, destinati a chi se li conquista con l’urgenza di goderli, perché non si sa quanto possano durare. Allora me li vado a cercare, me li ritaglio, me li trattengo, me li spalmo addosso come un unguento miracoloso, una coperta di Linus, una carezza amorevole. Come un tesoro da cui attingere. Come per farmi un regalo, una miriade di piccoli regali.
E mi rilasso.

(Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati)