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I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Non so che tu sai quel che so…

Riprende dopo la pausa estiva la rubrica I dialoghi della vagina di Riccarda Dalbuoni. In A due piazze Riccarda e Nickname si pongono un dilemma: spiegare sempre o non spiegare mai?
Quando Nickname intraprende esposizioni verbali appassionate, la donna quasi sempre già sa.

N: Una donna che conosco bene, quando le spiego una cosa con quello che io giudico un appassionato trasporto divulgativo, mi guarda con una faccia che dovreste vedere e mi dice: “Guarda che lo so”. In effetti spesso lo sa, mentre io l’ho appena saputo da Wikipedia. Scopro oggi che questo mio appassionato trasporto potrebbe essere annoverabile come “mansplaining”, traducibile come un uomo che ti spiega le cose che già sai meglio di lui, come se lui le sapesse meglio di te. Da quando so questa cosa, tendo a non spiegare più nemmeno le cose che penso di conoscere davvero.

R: Ma c’è di peggio di una donna che ti dice Guarda che lo so (e se te lo dice, lo fa solo quando ha molta confidenza e questo significa che per i primi tempi, ti ha pure voluto dare la soddisfazione di pensare che lo sapessi solo tu). Di peggio c’è una donna che di fronte a un concetto, a un approfondimento, a qualcosa che non sia una nozione da enciclopedia del web, pensa: E te lo devo pure spiegare? Lo pensa e non lo dice. E se nella sua mente scorre questo titolo di coda non espresso, non l’acchiappi più. La didascalia è terribile soprattutto a doverla fare perché vuol dire che le parole hanno preso il posto della simultaneità di due persone che sentono e si capiscono. Se io te lo devo pure spiegare, saranno solo parole.

N: Torniamo sempre lì: la donna dice una cosa e l’uomo ne deve capire un’altra. Ma c’è di peggio: la donna non dice niente e l’uomo deve capire che è già troppo tardi. Non abbiamo la capacità di leggere le vostre parole, figuratevi se abbiamo la capacità di leggervi nel pensiero.

R: Ecco l’uomo che si arrende all’accettazione che tanto non capirà mai né quando lei parla né quando lei sta zitta. E te l’ho anche dovuto spiegare, caro Nick.

E voi da che parte siete? Provate a spiegarle le cose o ci rinunciate? Cosa credete sia meglio?

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

“FRATELLI TUTTI” …. E LE SORELLE?
il lungo cammino delle donne; le parole della giovane femminista boliviana Adriana Guzman

Nel 2017 la parola Femminismo è stata eletta parola dell’anno.  Oggi nel 2020 quando una donna vince un premio importante o viene eletta in una posizione pubblica di grande rilievo se ne esalta l’importanza, eppure pretendere di essere nominate con il nostro nome, donne, quando si tratta di essere descritte nella quotidianità, con la conseguente declinazione al femminile dei sostantivi e degli aggettivi che ne accompagnano la narrazione viene considerata una richiesta esagerata, inutile e pedante.

Il titolo dell’ultima enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” ne è un esempio lampante. Le donne rientrano nel neutro maschile fratelli e, con buona pace di tutte, guai a chiedere che venga integrato con Sorelle. Il neutro maschile fratelli ci deve accontentare dando per scontato che il sesso delle donne, e per sesso intendo proprio tutti gli organi genitali femminili, un corpo incarnato di donna, non abbia bisogno di essere nominato. Ma il sesso delle donne, che tutti ostentatamente dicono di conoscere a fondo, e certo tutti sono passati da lì per venire alla luce, è reale,  e se quello delle donne  non viene considerato tale,  allora ,“la realtà vissuta dalle donne a livello globale viene cancellata”(Rowiling) .

Oggi sappiamo che le parole influenzano la chimica dei nostri corpi, i neuroni del nostro cervello. Newberg e Waldman hanno raccontato la relazione tra le nostre parole e i nostri corpi e quanto queste abbiano implicazioni profonde sulla percezione che abbiamo della realtà. D’altronde gli antichi lo sapevano bene, i codici sono pieni della saggezza racchiusa in semplici, ma precise parole accostate, basti pensare ai mantra, ai salmi, agli inni etc. Per i cristiani  poi  “ il verbo si è fatto carne”, dunque, Il sapere, quello che muove la realtà, è un sapere che passa attraverso l’esperienza della carne, attraverso l’incarnazione, e non può prescindere da essa. Il sapere non è solamente una speculazione intellettuale e mentale, il sapere è anche viscerale.

Dunque, alla luce di tutto questo perché, poi, ai fatti, si continua a considerare superfluo nominare il sesso di cui  più della metà dell’umanità è costituita, perché lo fa anche il Papa? E’ evidente, l’intenzione del Papa era quella di abbracciare tutte e tutti con il suo fratelli, in particolare gli ultimi, i diseredati, gli immigrati etc (  badate bene tutti neutri maschili, categorie in cui l’umanità viene suddivisa  e di cui le donne diventano una ulteriore  sottocategoria)  ma il suo diniego, alla richiesta delle donne della chiesa di essere nominate nel titolo con l’aggiunta di Sorelle, il che avrebbe aperto anche alla aggiunta all’interno della riflessione di una declinazione al femminile quando occorreva,  mostra  quanto, il Papa, e certo non solo lui, non abbia compreso che gli ultimi degli ultimi molto spesso, anzi forse sempre, siano le donne e le bambine e che non nominandole non si vede. Adriana Guzman, giovane femminista Boliviana, lo spiega molto bene “Qual è l’uomo più sfruttato, più oppresso, più discriminato? Un uomo che è contadino, che non sa leggere, che non sa scrivere in castigliano, che non è andato a scuola, un omosessuale potrei dire, un orfano, un disabile. Ci sono tanti strati di oppressioni sopra un uomo, una sopra l’altra, però al di sotto di queste una donna, che è disabile, che è contadina, che non è andata a scuola, ha in più l’oppressione di essere una donna…”

Dunque, continuando la riflessione, questo Papa che con la sua “Laudato Sì” ha accolto molte delle sollecitazioni e riflessioni che venivano dai movimenti di base, che ha saputo coraggiosamente parlare di natura affiancandola a Dio, che parla di casa comune a prescindere dalle differenze, che è riuscito a spostare lo sguardo  dai mondi “primi” alle popolazioni indigene aprendo al grande sapere ancestrale, che si è posto alla guida di chi da decenni critica  il cinismo dei principi fondanti del capitalismo,  l’arroganza del colonialismo,  e  che si pone contro ogni forma di razzismo e di violenza,  anche nei confronti della natura stessa, non sembra riuscire a capire quanto la cultura patriarcale, di cui tutti e tutte siamo intrisi, ed è umanamente comprensibile,  succede ai più, e in particolare nella gerarchia ecclesiastica che ne è una espressione granitica, sia la radice di tutte le oppressioni e che senza un radicale e nuovo sguardo sul mondo, che passa strutturalmente  attraverso le parole che lo descrivono, non potranno essere estirpate.

Magnificamente la Guzman, in soli 10 minuti, con una acuta analisi che vi invito ad ascoltare (https://youtu.be/bJ7WnZXi_Lk ), dimostra che “Il patriarcato non è un sistema in più, non è il prodotto del capitalismo, non è una conseguenza della colonizzazione, non è una forma di razzismo. No, no, il patriarcato è IL SISTEMA che produce tutte le oppressioni, tutte le discriminazioni e tutte le violenze che vive l’umanità e la natura, ed è costruito storicamente sopra il corpo delle donne!”.

Se non si parte da li, dal riconoscere che la cancellazione del sesso delle donne nella narrazione quotidiana, è la radice dei mali che affliggono la contemporaneità a mio modo di vedere non sarà possibile nessun cambiamento radicale e tanto meno quello invocato dal Papa, e aggiungo: la cancellazione del sesso delle donne è un obiettivo preciso di chi si proclama per il progresso,  del potere tecnocratico da cui oggi sembra siamo governati ed è l’obiettivo dell’ideologia transumanista che dell’incarnazione e dei corpi ne  fa mercato, l’unico mercato ad  oggi in crescita capace dunque di tenere in vita il sistema capitalista. Dunque anche il Papa cade nel paradosso; se da un lato tutta la sua riflessione si costruisce sulla ricchezza delle differenze, sull’importanza  del dialogo umano, legato proprio agli sguardi, alle realtà dei corpi, alla connessione con altri organismi viventi, con il pianeta terra anch’esso vivente, e dunque in netto contrasto con il transumanesimo, nell’uso che ne fa della parola, cancella la differenza del dimorfismo sessuale , la primigenia differenza fondante l’identità dei singoli e facendo questo tradisce involontariamente l’obiettivo che si pone.

SE I LIBRI NON SONO PIU’ LIBERI:
Dopo la richiesta di controllo sui libri delle biblioteche

Un piccolo episodio, una scivolata di stile, un semplice tentativo di saggiare il terreno? Il fatto in realtà, e comunque vada a finire, è invece gravissimo. Quando i libri vengono posti sotto il controllo della politica, di un partito (di qualsiasi partito), siamo già a un passo dalla censura. Con buona pace della democrazia e della libertà di espressione.
Nel recente passato, in altre città, la Lega di governo ha già battuto questa strada. A Foligno nel 2018 sono stati perseguiti i volumi per bambini della biblioteca considerati “gender” e quindi allontanata la bibliotecaria disubbidiente ai nuovi ordini. E’ stata una pagina nera che non vorremmo si ripetesse a Ferrara. Se i libri non fossero più liberi, se le nostre letture fossero influenzate da un qualche potere politico, anche tutti noi saremmo più poveri e meno liberi.
(Effe Emme)
POSSIAMO PENSARE?
Visto che:
a) certi consiglieri leghisti di Ferrara vorrebbero “valutare” se i libri di alcune biblioteche cittadine per bambini “sono adeguati ai nostri cittadini, alle aspettative dei nostri elettori”;
b) certi consiglieri leghisti di Ferrara intendevano chiedere al Direttore dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Ferrara di “voler fornire l’elenco dei testi in uso nelle scuole dell’Infanzia, nelle scuole primarie e nelle scuole secondarie cittadine, comprendendo titolo e casa editrice
c) certi consiglieri leghisti di Ferrara sono interessati a “conoscere metodi, qualità e tipologia dell’educazione fornita in particolare alle giovani generazioni”;
Considerato che:
a) i libri delle biblioteche pubbliche non dovrebbero essere adeguati alle aspettative degli elettori altrimenti sarebbero biblioteche private (in tutti i sensi);
b) il Collegio di tutti i docenti di ogni Istituto delibera la scelta dei libri di testo da adottare in base alle richieste dei singoli insegnanti approvate dai consigli di classe e di interclasse con la partecipazione dei genitori;
c) gli elenchi dei libri adottati sono pubblici poiché pubblicati sui siti dei singoli Istituti a fine maggio;
d) l’interesse a “conoscere metodi, qualità e tipologia dell’educazione fornita in particolare alle giovani generazioni” è cosa interessante di per sé sulla quale sarebbe opportuno confrontarsi pubblicamente ma quando l’interesse è legato a richieste simili appare come una volontà anticostituzionale di controllo…
Viene da chiedersi quale sarebbe stata la prossima iniziativa di questi consiglieri leghisti di Ferrara.
Possiamo forse pensare che questo interesse sia finalizzato a “valutazioni” che corrispondono ad una censura?
Possiamo forse pensare che siano impensieriti dal fatto che i libri adottati possano contenere informazioni storiche a loro non gradite?
Possiamo forse pensare che siano preoccupati dai libri presenti nelle biblioteche scolastiche?
Possiamo forse pensare che temano i libri scelti da chi sperimenta l’uso di fonti alternative ai libri di testo?
Possiamo forse pensare che siano terrorizzati dai libri in generale?
Possiamo forse pensare che questi consiglieri della Lega, oltre a proporsi per inchiodare dei crocifissi ai muri delle aule, vogliano “inchiodare” qualche insegnante a loro poco gradito?
Possiamo forse pensare che le stiano provando tutte per isolare (e magari allontanare) qualche docente non allineato?
Possiamo forse pensare che abbiano poca fiducia nella scuola, nei suoi dirigenti, nei suoi insegnanti e nei genitori?
Possiamo forse pensare?
Possiamo pensare?

P.S. Vedi anche articolo di Estense.com Libri e censura. La Lega stava per chiedere l’elenco dei libri scolastici

 

PER CERTI VERSI
Istantanea

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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ISTANTANEA

I cofani brillano
In linea retta il sole
Dei fiori volanti
In rapidi attimi
Il cielo si stropiccia
Come un maglione
Ciocche di capelli annuvolati
Tuoi restano
Sul tessuto
Stropicciami anche tu
Come velluto

PRESTO DI MATTINA
Si sta come coppi sui tetti

«Due strade divergevano in un bosco, e io, io presi la meno percorsa, e questo ha fatto tutta la differenza».

La strofa finale di questa poesia di Robert Lee Frost si adatta perfettamente al cammino percorso dal concilio Vaticano II. Di fronte al bivio che gli si poneva di fronte, una delle prime e fondamentali decisioni prese fu proprio quella di percorrere la via da tempo disattesa: quella, allora meno battuta, del ritorno alle fonti (ressourcement). E l’enorme ‘differenza’ che produsse questa scelta fu la scoperta che quella strada portava a un riavvicinamento (rapprochement) con gli altri cristiani separati, e persino con le altre religioni se non con il mondo moderno. Fu una direzione necessaria intrapresa dal Concilio per avviare un processo di ricongiungimento dentro e fuori la comunità cristiana. Grazie infatti all’immagine di chiesa che usciva dalla riforma liturgica ‒ una chiesa centrata sul mistero pasquale, evangelizzatrice a partire dalla Parola di Dio e dall’eucaristia, culmine e fonte della vita della comunità e una chiesa dei poveri ‒ balzava subito agli occhi la principale missione affidata alla Chiesa: il dono e il compito che le compete di far convergere, di mettere insieme, di riunire attraverso un nuovo stile, celebrante, dialogante, ospitante e attuativo la vocazione battesimale di ogni cristiano, precorritore di nuove relazioni e incontri volti ad avvicinare i rapporti con i fratelli separati, provando a sanare le rotture all’interno della comunità cristiana e tra questa e la modernità.

Rapprochement, ci ha ricordato l’amico Massimo Faggioli «è un termine usato molte volte dal pioniere dell’ecumenismo, il liturgista Lambert Beauduin. Non fa parte del corpus del Vaticano II in modo materiale, ma appartiene pienamente ai propositi del Vaticano II. La riforma liturgica del concilio gioca un ruolo significativo nello sviluppare (durante il Vaticano II) e nel realizzare (dopo il Vaticano II) questo aspetto chiave del concilio, in una direzione che non è meno importante di altre, meglio conosciute come il decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, la dichiarazione Nostra Aetate, e la costituzione pastorale Gaudium et Spes. Il più importante rapprochement portato a termine dal Sacrosanctum concilium consiste in una visione riconciliata della Chiesa, della vita cristiana, della condizione esistenziale della fede nel mondo. Lontana dall’essere un’opzione puramente estetica, il punto di partenza teologico della riforma liturgica puntava a ricreare il rapporto tra liturgia cristiana, necessità spirituali dei fedeli e lettura teologicamente cattolica del mondo moderno nelle sue dimensioni storica e sociale» (Sacrosantum Concilium and the Meaning of Vatican II, in Theological Study, 71, 2, 2010, 767).

Dalla teologia alla poesia il passo può essere breve. Ciò che fa la differenza, scegliendo la via meno battuta, è il dono di uno sguardo poetico, capace di stupore che renda al vivo la figura di questo ricomporre, del mettere insieme, riunire e avvicinarsi. Incontri, sguardi e vissuti come paesaggi, scenari cangianti che connettono insieme prossimità e lontananza, altezza e profondità, risalgono dalla valle alla sommità e da questa ai dirupi scoscesi dei pendii, ricompongono frammenti, immagini, visioni, congiungono desideri, significati, colori, suoni, armonie e dissonanze, le proprie e quelle altrui. Un tale sguardo visto da una prospettiva liturgica diventa pure un vissuto e uno sguardo eucaristici, unitivi della pluralità dispersa.

È la medesima visuale percepita e messa in atto dall’architetto Carlo Bassi nel suo libro Perché Ferrara è bella: dove l’autore, immaginando lo svelamento della nostra città per chi la guarda da sopra l’orizzonte, allude a una prospettiva dalle stelle, zenitale, dal colmo dei tetti. Uno sguardo inedito e nuovo, assunto anche dal poeta Carlo Betocchi: il quale scrive: «tra poco un’altra estate. Me la godo già all’alba di uno di questi ultimi giorni d’Aprile, che si diffonde sui tetti delle case, stando alla finestra».

Betocchi ‒ scrive al riguardo Andrea Zanzotto, «ci chiama a convivere, a collaborare insieme ad esso entro la città umana, sempre messa spalla a spalla con il limite. E si pensi a quei tetti onnipresenti e sempre nuovi, a quei coppi che conservano un’intimità di freschezza e di argilla ancora intrise d’alba, anche quando appaiono più dilavati e forse intaccati dalle stagioni. Coppi, tetti, piani che quasi partono verso ogni lontananza, affratellati, e complementari ad un cielo che pur esso si ricrea di stagione in stagione. Esso sfuma nell’infinito e proprio così richiama il dato, il fatto, ciò che tutto giustifica, unisce, coordina, allena appunto ad una fratellanza» (Carlo Betocchi, Tutte le poesie, Milano 1996, 627-628).

Ho pensato allora, rileggendo queste pagine, che in questo tempo di ripresa conciliare ‒ dovuta all’opera di papa Francesco ‒ nella chiesa ‘si sta come coppi sui tetti presto di mattina’. Insieme oranti. Non si prega infatti nella liturgia delle ore con l’antifona mattutina: «Al sorgere del giorno mi ricordo di te, Signore, al sorgere della luce ascolta o Padre buono la preghiera degli umili»? E il vangelo non va forse predicato sui tetti come ci invitò Gesù stesso: «Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10, 27).

Può sembrarci una modalità stravagante. Eppure il vangelo è proprio questo: una guida alla città che proviene dal cielo; un modello di città discesa sulla terra, che vive ‒ per dirla con Calvino ‒ tra le nostre città invisibili, tra le nostre case e piazze e vie; soprattutto tra quelle meno conosciute, poco frequentate le cui prospettive nascondono incontri che sorprendono e ti fanno trovare pensieri e prospettive nuovi.

Rileggendo una pagina di Carlo Bassi sul perché la nostra città è bella sono stato sorpreso di trovarvi sintonie e simboliche a me familiari: ricomporre aggiungendo tessera a tessera, passando da una prospettiva all’altra, di piazza in piazza, di via in via e «da molto in alto fino al limite della visione zenitale» il puzzle della nostra città; e, per me, pagina dopo pagina, incontro dopo incontro ricomporre il vangelo tra la gente. Per trovare il “deposito della storia” ricercato da Carlo Bassi, come pure il tesoro della traditio evangelii, si deve percorrere la strada meno battuta, finanche un tragitto celato e poi restare sorpresi da luoghi sconosciuti, dal dischiudersi di spazi insospettati e ignoti ai più. Ma lo sguardo va allenato alle variazioni. Come le differenti prospettive da cui si guarda un albero ‒ se lo vedi di fronte, dal terzo piano o dai tetti ‒ così le immagini della città si «traslano», scrive ancora Carlo Bassi, mano a mano che essa si scopre al viandante, il quale diventa spettatore e artefice di una trasformazione dello sguardo che muta, mutando le prospettive. Si incontrano così in un primo momento dei luoghi: «riferimenti spaziali distinti e indimenticabili, quando sono esperiti dalla gente e visti all’altezza dell’occhio». Poi, cambiando prospettiva, quegli stessi luoghi diventano «spazi» quando lo sguardo li coglie da un ambito più elevato. E infine ti trovi di fronte a una trasformazione ancora maggiore là dove il campo prospettico della visuale si amplifica «in tracciati geometrici, cioè in elementi misurabili e confrontabili con altri, quando la vista di esse, la piazza e la strada, sia da molto in alto fino al limite della visione zenitale».

«Sembra quasi di poter dire ‒ prosegue Carlo Bassi ‒ che la città come manufatto architettonico, la città nella sua rappresentazione più significativa, come documento estetico da analizzare nelle sue parti rilevanti, la città come opera d’arte da sottoporre ad analisi usando la categoria dello spazio come sua unica chiave di lettura, sia quella, insospettata ai più, che l’occhio vede quando abbia la ventura di raggiungere luoghi inaccessibili come i tetti delle case, o spaziare da terrazze, da oculi di granai, da piattaforme di ascensori, da celle campanarie, da aerei in volo radente. La città offre, da queste quote visive, prospettive del tutto inedite, direi completamente nuove e incontrollabili, di difficile resa anche fotografica, le quali, proprio per questa difficoltà di traduzione in immagini su due dimensioni, ci avvertono che siamo davanti ad un fatto estremamente complesso, che muta ad ogni nostro svariare degli occhi. Esso, infatti, vive in funzione di una infìnità di elementi in perpetuo cambiamento (si pensi solo alla presenza della gente che si muove sulla scena naturalmente creata da quegli ambiti, al variare della luce, al mutare dell’atmosfera, delle stagioni) per cui un fotogramma, colto dall’occhio e fìssato dalla macchina, non sarà mai uguale al successivo. Dai ‘territori superiori’ nei quali ci poniamo, dunque, vediamo una città che pochi vedono, vediamo la fìsicità spaziale di eccezionali riferimenti urbani o di piccoli episodi della minuta trama del suo tessuto vitale».

In questo inizio di scrittura abbiamo solo un colpo d’occhio. Avvicinandosi ai particolari di quest’affresco testuale, lo sguardo è afferrato in un percorso celato, in cui Carlo Bassi a poco a poco svela le ragioni dell’irripetibile bellezza di Ferrara: «che va rivelata perché, per quanto ci è noto, è prerogativa unica di Ferrara, la quale può aggiungere ai suoi percorsi urbani più importanti e significativi questo: segreto e intenso». A me basta questo colpo d’occhio per dire il perché il vangelo è bello.

Nel vangelo si sta come coppi le sere d’estate: insieme pazienti; o nei «solstizi in cui l’anima viaggia per i cieli asciutti chiari per tutti». Nel vangelo si sta come «in un giorno terso come tanti d’estate» dove non c’è burrasca: «non avremo quel fremito che i cupi nuvoloni e le saette ci mettono in cuore». E tuttavia il vangelo è solo primizia del Regno, sua buona novella nella forma di un seme seminato di cui prendersi cura. Non mancheranno giorni e notti difficili in cui gettarci a capofitto, a fare argine ancora all’inquietudine di vincere il male con il bene: «Saremo soli, semmai, nell’azzurro,/ a sentire che dentro il suo profondo/ c’è un cupo, c’è un lontano brontolio:/ che la serenità non è che un lembo/ d’una stagione più incerta;/ in cui, nel fondo, vibra d’inquietudine/ la sorda lotta del bene e del male,/ e spetta a noi gettarci a capofitto/ in mezzo allo spettacolo inondante/ travolti nella sua serenità» (ivi, 190).

Il vangelo è il riconoscersi di Cristo in ogni uomo (P. Mazzolari), celato tra le sue pagine come da uno spartito si ode il canto nuovo poiché, pagina dopo pagina va formandosi la libertà dell’uomo nuovo; questi dice Agostino, sa qual è il canto nuovo, è quello di colui che sa amare la nuova vita. E, così, a me sembra che Il Canto d’estate di Carlo Betocchi sia accordato sulle note del canto nuovo, come risonanze del “suo” vangelo:

“Così, come boccheggiano nel sole
appena nato, sdraiato sui tetti,
ad una ad una, queste bocche d’embrici
rossastre, antiche, dalla schiena calda;
la scorsa primavera andar virenti
le vidi di muschiose fioriture,
nate all’alido; e il sole le riarse,
bevvero guazze, poi le rase il gelo
d’inverno: anch’io, quasi lo stesso,
come un’arida schiena che sopporta
pesi scottanti, geli inveterati,
nell’esistere mio nudo e costrutto
forse a null’altro, spero nel fiorire:
la dolce esclamazione che mi tocca
l’anima, dalle bocche degli embrici
oscure, ripetute lungo la linea
della gronda del tetto, mi sussurra
d’aver pazienza; e l’ombre, la ridicono,
dei coppi sopra i tegoli, scalate
di colore, fantastiche, mutevoli,
la pazienza implorando, poi che il cielo
oggi che è azzurro vive le disegna
a parlare, e dà voce a quelle cose
che non l’hanno, quando il sole declina”.
(Ivi, 178-179).

CONTRO VERSO
Filastrocca di un assassino

Ci sarebbe stato da ridere, se non fosse stato un dramma. Lui, omicida, nell’udienza in carcere per parlare dei figli che aveva reso orfani poche settimane prima, ha esaltato il valore della buona educazione. Che supponga consista nel sedersi composti, masticare a bocca chiusa, non dire parolacce e ammazzare la moglie il minimo indispensabile.

Filastrocca di un assassino

Io l’importante l’ho individuato,
è che mio figlio sia un bimbo educato.
La mamma è morta, sì, nell’incidente.
Io l’ho ammazzata, vabbè; è rilevante?
Poi fatta a pezzi e nascosta sotto al letto
per non volerla lasciare, dopotutto.
Perciò il divorzio non l’ho mai contemplato:
nel mio paese sarei disonorato.

Il signor giudice allora mi ha risposto:
“E un assassino ha l’onore tutto intero?”
L’ho accoltellata, sì, lo riconosco.
Ma poi è morta? È morta per davvero?

Si può immaginare la rabbia, lo sconcerto che provoca parlare con un uomo che ha ucciso la moglie e sembra non esserne minimamente consapevole. Eppure, ripensandoci, è plausibile che anche la sua memoria fosse inceppata come pure il suo rapporto con la realtà. Una morte violenta è un trauma grave, si vede, per chi la piange e anche per chi l’ha provocata.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Dino Tebaldi: “Madòna piculìna”

Per conto del settimanale diocesano La Voce di Ferrara, Dino Tebaldi attraverso la corrispondenza con i lettori cura, nel 1983, una originale ricerca sulle preghiere dialettali locali. Il colloquio col pubblico produce sorprendenti testimonianze sulla religiosità popolare: scadenze liturgiche, cantilene infantili, invocazioni sacre e profane. Dei testi raccolti poi in volume, si offrono alla lettura quattro esempi con le traduzioni in italiano del curatore.

Madòna piculìna

Madòna piculìna
ch’la s’aliéva la matìna
par andàr ala piléta
a tór l’acqua banadéta:
par lavar’s man e viś,
par andàr iη paradìś.

Madonna piccolina
Madonna piccolina / che si leva alla mattina / per andare alla piletta / alla fonte benedetta: / per lavarsi mani e viso, / per andare in paradiso.

 

La campana ad fra’ Simón

Din, dan, dón,
la campana ad fra’ Simón
tut’i dì la sunàva,
tut’i dì la guadagnava:
guadagnava uη par ‘d capùn
da purtàr ai sò padrùn.
I sò padrùη non gh’jéra,
agh jéra l’Adriana
ch’la sunàva la campana.
La campana la jéra róta;
tri putìn j gh’jéra sóta.
Tri putìn j gh’jéra sóta,
ch’j ciamàva cagnulìη
(cagnulìη: bao, bao),
al gatìη (miao, miao),
al galét (chichirichì):
salta sù, putìη,
ch’l’è dì.

La campana di fra’ Simone
Din, dan, dón, / la campana di fra’ Simone / tutti i giorni suonava, / tutti i giorni guadagnava: / guadagnava due capponi / da portare ai suoi padroni. / I suoi padroni non ci stavan, / ma ci stava l’Adriana / che suonava la campana. / La campana era rotta; / tre bambini eran sotto. / Tre bambini eran sotto, / che chiamavan cagnolino / (cagnolino : bao, bao), / il gattino (miao, miao), / il galletto (chicchirichì). / Bimbo, ora alzati, / che s’è fatto dì.

 

Sant’Antòni dal buśghìη

Sant’Antòni dal buśghìη,
chì aη gh’è paη,
chì aη gh’è viη,
chì aη gh’è legna da bruśàr:
Sant’Antòni, cum égna da far?

Sant’Antonio del porcellino
Sant’Antonio del porcellino, / qui non c’è pane, / qui non c’è vino, / qui non c’è legna da bruciare: / Sant’Antonio, come dobbiamo fare?

 

San Cristòfar grand e gròs

San Cristòfar grand e gròs
ch’al purtàva al mónd adòs,
l’acqua santa ala zintùra:
banadì ‘sta creatura.
Creatura bèla e bòna:
l’acqua santa a chi la dóna.
A la dón a vu, san Piér,
(ch’al gh’ha il ciàv
da vèrźar al ziél).
Va veràndo, va seràndo,
la Madonna va chiamando:
va chiamando Gerusalèm
ch’l’aη gh’ha né fasa, né mantèl
da infasàr cal Gesù bel.
Gesù bel, Gesù Maria:
am arcmànd l’anima mia.

San Cristoforo grande e grosso
San Cristoforo grande e grosso / che portava il mondo addosso, / l’acqua santa alla cintura: / benedite questa creatura. / Creatura bella e buona: / l’acqua santa a chi la dona. / Io la dono a voi, san Pietro, / ( che ha le chiavi / per aprire il cielo). / Va aprendo, va chiudendo, / la Madonna va chiamando: / va gridando Gerusalemme / che non ha fasce, né mantello / per fasciare il Gesù bello. / Gesù bello, Gesù Maria: / raccomando l’anima mia.

Tratte da: Dino Tebaldi, Madòna piculìna : preghiere dialettali ferraresi della tradizione popolare, Ferrara, “Voce di Ferrara”, 1984.

Dino Tebaldi (Jolanda di Savoia 1935 – Ferrara 2004)
Maestro elementare, tipografo, studioso di storia e tradizioni locali, cultore del vernacolo ferrarese. Come giornalista ha collaborato, fra gli altri, al Resto del Carlino e alla Voce di Ferrara. Ha insegnato italiano nel carcere e fra gli zingari. I suoi molteplici interessi lo hanno portato a scrivere degli argomenti più diversi: dal Palio di Ferrara al fiume Po, dai poeti dialettali all’istruzione primaria, dalle bellezze della città all’editoria ferrarese. Molti i suoi testi, stampati fuori commercio solo per amici e biblioteche, erano autografati con il riconoscibile inchiostro verde.
Delle innumerevoli pubblicazioni si citano: Il dialetto ferrarese nella scuola elementare (1982), Proverbi dialettali per tutte le stagioni (1983), Par Frara còl dialèt : antologia degli autori de “Al tréb dal tridèl” (1998).

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

Cover: S. Antonio abate, via del Gambone, Ferrara. Foto di M. Chiarini

 

SCHEI
Il Diavolo veste Prada (e paga coi soldi del Vaticano)

All’uscita della cresima, suggello di anni di catechismo, coi parenti in ghingheri e nell’atmosfera ecumenica, cerimoniosa e festante del sagrato, alla domanda su cosa questa esperienza gli aveva lasciato, mio figlio rispose: “Mi sento agnostico”. Mutuo la (involontaria?) genialità di questa sua affermazione preadolescenziale: anch’io voglio essere agnostico sul caso del cardinale Becciu, numero due della Segreteria di Stato vaticana, dimissionato da Papa Bergoglio per un utilizzo disinvolto delle finanze vaticane, tra cui cento milioni di sterline per operazioni immobiliari a Knightsbridge, il quartiere più caro di Londra (fonte Financial Times); nonchè per il mezzo milione di euro non contabilizzato finito nella disponibilità della sedicente filantropa Cecilia Marogna, titolare di una società slovena (Logsic) che finanzia operazioni umanitarie e, pare, anche l’acquisto di poltrone Frau, borse Prada e scarpe Tod’s. Intervistata dal Corriere della Sera, Cecilia Marogna si difende dapprima con orgoglio nazionalista (“ho acquistato solo prodotti italiani”), poi dice che le operazioni del Vaticano non sono contabilizzate per definizione, che lei non poteva certo emettere delle fatture, che doveva “pagare delle persone in Africa, gestire delle crisi, fare dei bonifici”. Viene in mente quella scena di “Ecce Bombo” in cui la ragazza risponde a Nanni Moretti che le chiede cosa fa nella vita: “Mah, te l’ho detto: giro, vedo gente, conosco, faccio cose”.

Questo “scandalo” sta riempiendo le pagine dei giornali anche per la pozza pruriginosa nella quale sempre si tuffa la stampa quando di mezzo c’è una donna, immancabilmente soprannominata “Dama Bianca”. In realtà, la guerra di papa Bergoglio contro la corruzione e il riciclaggio di denaro nella Chiesa ha conosciuto atti ben più pesanti: fra tutti, ricordiamo l’azzeramento dei vertici dello IOR, che nonostante l’acronimo (Istituto Opere Religiose) è passata alla storia come la banca lavatrice delle più luride masse di denaro mai transitate dal sistema finanziario ufficiale, altro che opere religiose. Quando la parte conservatrice della Chiesa ed i suoi Socci di corte tuonano contro la sua presunta eresia, l’ignoranza dottrinale, uno schiaffetto dato in diretta tv ad una fedele troppo invadente (scandaloso atto di violenza in una Chiesa squassata dagli abusi sessuali ai danni di minori); quando addirittura lo accusano di essere “comunista” e di voler aprire le frontiere agli infedeli straccioni o fanatici, quando lo accusano di considerare un valore il “meticciato”, cosa che in effetti afferma nella sua recentissima enciclica “Fratelli tutti”, più che un novello manifesto comunista una declinazione ramificata dei concetti ritrovabili in sintesi nel testo di “Imagine” di John Lennon (con la significativa eccezione della “imagine no religion too” che sarebbe stato eccessivo aspettarsi dal Papa); quando lo accusano di tutte queste nefandezze, dovete tradurre. Quando i nemici ti attaccano sui princìpi, sull’ortodossia, sulla morale, sui dogmi, devi tradurre simultaneamente: ti stanno attaccando sui soldi, sui vizi, sul potere. I loro soldi, i loro vizi, il loro potere, che vedono messi in pericolo.

Papa Bergoglio ci sta provando, con inevitabili errori (soprattutto di politica interna) ma con una premura ed una fretta inversamente proporzionali al tempo che gli resta da vivere: più si avvicina la sua fine (spero naturale), più fretta ci mette nel cercare di restituire un minimo di dignità ad una istituzione che perde progressivamente presa proprio perchè ha fatto strame della sua etica, della coerenza tra i princìpi e le azioni, della propria autorità morale. Pochissimi sono i leader che, una volta assurti ai vertici di uno Stato o di una organizzazione, manifestano quell’indipendenza rispetto alle cambiali da onorare, ai debiti da pagare, alle mani da baciare (quelle mani che li hanno sostenuti e appoggiati nella rincorsa alla vetta) necessaria per tagliare le corruttele, interrompere i ladrocinii, punire i violentatori. Tra quelli che hanno intrapreso questa gigantesca iniziativa dal secondo dopoguerra, a me veniva in mente Gorbaciov.  Adesso mi viene in mente anche Papa Francesco, e quindi, come lui spesso chiede, prego – agnosticamente – per lui.

in copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PAROLE A CAPO
Sergio Gnudi: “Ora è il tempo” e altre poesie

“Ogni poesia è misteriosa: nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere.”
(Jorge Luis Borges)

 

Ora è il tempo

Ora è il tempo infinito del basta
ora è il tempo di alzare la testa
ora è il tempo di chiedere il conto
ora è il tempo che il tempo è finito.

Lasciamo che vadano i giovanetti
lasciamo che gli eroi siano eroi
e innoviamo i sacri miti del dunque
e abbracciamo le steli pulsanti.

D’italica porpora ammantato
il nume grida il sacro percorso
sul niente della strada indicata
e noi seguiamo ossequiosi il vessillo.

Ora è il tempo di scordare l’augurio
quello che fece felice Cirene dell’Ade
e se nessuno piange d’Eurialo la morte
è chiaro che la tragedia sia pretesto.

Nel passo tacito dei giovanetti solerti
non resta che offrire fiducia al domani
nella vita che forse sarà il credere è pegno
di un mondo futuro uguale al sacro passato.

Ascoltiamo le forti grida di inni al futuro
offriamo agli dei l’altare abbondante di beni
e come Agamennone aspettiamo Ifigenia
e il destino ci colga con il sangue vermiglio.

 

Ti ho vista raccogliere

Ti ho vista raccogliere paurosa le carte,
ti ho osservata nascondere il viso fugace,
ho seguito il tuo sguardo fuggire la vista,
ho preso la misera moneta e te l’ho offerta.

Mi hai guardato con sospetto e timore,
ho sorriso con vergogna appena celata,
il tuo viso si è sciolto in un timido sole,
hai preso il soldino allungando la mano.

Le colpe di uomini e donne in quel gesto,
le tristi storie di noi tutti in quell’atto,
di chi si erge a credersi il vero e il giusto,
di chi pensa all’altro come al nemico.

Veloce il colosso superbo potrebbe crollare
e perdersi nella brina dell’inverno gelato
o nell’afa assolata del deserto giallastro
o peggio nella siccità di anima e cuore.

Hai messo nella logora tasca il dio blasfemo,
avresti dovuto dirmi che ti è dovuta la vita,
che nessuno di noi, saccenti, può negarla,
che la fortuna ci arrise per un semplice caso.

Invece hai ringraziato coprendoti il viso,
te ne sei andata veloce a cercar altre carte,
a cercare altri oboli da aggiungere al pranzo
e io sono rimasto a guardare triste e sconfitto.

 

Lascia infine

Lascia infine i vecchi libri
lascia quell’odore stantio
che non offre che ricordi
che non mostra che passato.

Spalanca le finestre al futuro
ascolta i pensieri ridondanti
di chi urla sberleffi all’antico
di chi mostra le vesti luminose.

Vieni e usciamo a ballare nel sole
ad annusarne il morbido odore
a salutare la gente sicura di vita
a offrire il sorriso al semplice passo.

Nessuno deve più capire l’umano
nulla sarà da studiare dell’animo
di bambini e musica sarà il cielo
e di innocue carezze sopra il capo.

Rinuncia a studiose e ombrose giornate
a ricordare poeti e scrittori già morti
lascia quel pernicioso desiderio di vero
e accogli nel cuore l’oblio della storia.

Questo è il grido ammagliante che giunge
questa è l’agonizzante speranza che spegne
troppo debole è l’ anelito di umana virtù
e forse questo è il destino finale che ci attende.

 

Quel poeta

Eccolo lì all’angolo dei pensieri
eccolo lì un poco macilento
e un poco orgoglioso di penare
e anche impettito nel dolore.

Quel suo canto che tra gioie e pene
si libra dal petto mai invecchiato
si dissolve in piccole lacrimevoli scintille
che suonano di vita, di cuori e d’amore.

Ti racconta che tutto gli hanno rubato
anche la morte che vorrebbe compagna
e che i teneri amici gli cadono attorno
con quella testa nelle spalle incassata.

Tu lo guardi e sorridi con compiacenza
ma sai quanto il suo mondo sia lontano
quanto sia strascicato il suo narcisismo
lui il Poeta che al martirio è votato.

Poi mi accorgo di cose che ho fatto
ho colto i fiori e ora tocca alle erbe
poi mi accorgo dei magri bottini
e dei grigi capelli sulle tempie.

Lui mi è fratello nelle tetre nebbie
di questo lento tramonto senza sole
e rimango a contare fredde le sillabe
di un poema che non vuole finire.

Quel poeta a cui freddi giorni fanno eco
quell’illuso dell’ingannevole salvezza
quel facitore di versi che porgono la mano
quel triste lamento mi guarda allo specchio.

 

Sergio Gnudi, ha pubblicato nove opere poetiche. L’ultima nel 2019 è stata Ballate del tempo che fu. In poesia ha scritto d’amore, con la trilogia A Cinzia, Raccontami o Dea e Il filo d’Afrodite e poesia civile con Incitamento alla politica del 2015. Due sono il libri per ragazzi pubblicati: La mamma racconta gli eroi e Le storie di Antonio. Con il musicista astigiano Beppe Giampà ha creato reading musicali: Era febbraio, Le stagioni in città e la Storia delle Storie, sull’epica del Torino calcio. Tra poesia e narrativa è il volume Sensazioni del 2017, dal quale è stato realizzato un film presentato alla fiera del cinema di Venezia del 2018. E’ del 2018 il romanzo La statua del potere, che si rivolge a un pubblico giovane. Del 2019 la raccolta di racconti Il gioco di Diana, storie di streghe e povere donne. Attualmente sta collaborando con Sergio Altafini a Eridanea: un progetto multimediale sui miti greci nel Basso Po. Ha infine realizzato la scrittura filmica del nuovo lungometraggio La vita che verrà, che è stato presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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Dal 19 ottobre in Emilia-Romagna, prima in Italia, test sierologici rapidi in farmacia per gli alunni di tutte le scuole di ogni ordine e grado, genitori, familiari conviventi e studenti universitari assistiti sul territorio. Gratuiti e volontari.

Da: Regione Emilia Romagna

Coronavirus. Dal 19 ottobre in Emilia-Romagna, prima in Italia, test sierologici rapidi in farmacia per gli alunni di tutte le scuole di ogni ordine e grado, genitori, familiari conviventi e studenti universitari assistiti sul territorio. Gratuiti e volontari, obiettivo 400mila persone già nei mesi d’avvio. In arrivo anche 2 milioni di tamponi rapidi per le scuole e gli ambienti di lavoro a rischio e campagna di vaccinazioni antinfluenzale potenziata. Bonaccini-Donini: “Nessuna tregua al Covid”

Siglato oggi l’accordo con le associazioni di categoria delle farmacie convenzionate, pubbliche e private: sierologici rapidi – esito in 15 minuti – in quelle aderenti all’accordo, per una platea potenziale di 2 milioni di persone. Conclusa anche la prima gara interregionale per l’approvvigionamento di tamponi veloci (risposta in massimo 20 minuti), utili a verifiche immediate, per esempio sull’intera classe, in caso di pos itività: disponibili dal 26 ottobre. Infine, già pronte 1.200.000 dosi di vaccino antinfluenzale: +30% rispetto al 2019

Bologna – La Regione Emilia-Romagna estende la propria azione di prevenzione e controllo contro il virus. A partire da test sierologici rapidi in farmacia – con esito in soli 15 minuti – per la ricerca degli anticorpi anti SARS-CoV-2, destinati a una nuova, ampia, fascia di popolazione, che potrà arrivare fino a due milioni di cittadini, quasi un residente su due in Emilia-Romagna. Chi risulterà positivo, farà il tampone nasofaringeo per la conferma o meno dell’eventuale contagio da Covid.

Operazione possibile grazie all’accordo siglato oggi stesso con le associazioni di categoria territoriali delle farmacie convenzionate, pubbliche e private.

Una campagna senza precedenti rivolta al mondo della scuola, dopo quella iniziale su docenti e operatori. L’invito a partecipare è per alunni e studenti degli istituti di ogni ordine e grado, genitori, fratelli e sorelle e altri familiari conviventi, ma anche gli universitari che hanno il medico di medicina generale in Emilia-Romagna. Una platea potenziale di circa 2 milioni di persone che a partire dal 19 ottobre, e fino al 30 giugno 2021, potranno gratuitamentee su base volontaria, prenotare ed effettuare il test nelle farmacie convenzionate aderenti all’accordo. L’auspicio è che già nei mesi di avvio, almeno il 20% di loro aderisca a questa misura di contrasto alla diffusione del Coronavirus: 400mila persone.

Nella fase iniziale il nuovo provvedimento voluto dalla Giunta regionale riguarderà dunque un target ben preciso, e cioè tutta quella parte del mondo scolastico non ancora sottoposta a screening; in un secondo tempo, anche in base all’andamento dell’epidemia e all’esito dei test, lo screening potrà rivolgersi ad altre fasce di popolazione, sempre in modo gratuito.

Ai nuovi test sierologici rapidi, si aggiunge una seconda leva: i tamponi rapidi – 2 milioni acquistati dalla Regione e anche qui esito in 15-20 minuti – da utilizzare dal 26 ottobre nella scuola e negli ambiti lavorativi pubblici e privati a maggior rischio. Sia per aumentare ancora la capacità di screening sia per poter svolgere velocemente verifiche estese (per esempio a un’intera classe) in presenza di positività e quindi ridurre al minimo possibili quarantene o i tempi di avvio di qualsiasi misura di tutela.

Infine, lunedì 12 ottobre parte la campagna di vaccinazione antinfluenzale, con molte più dosi rispetto all’anno scorso e in anticipo rispetto sempre al 2019, vista l’utilità che potrà avere nella gestione delle diagnosi Covid, essendo simili i sintomi a quelli dell’influenza.

Novità importanti per l’intera regione, da Piacenza a Rimini, illustrate oggi in videoconferenza stampa dal presidente Stefano Bonaccini, dall’assessore alle Politiche per la salute, Raffale Donini, e dai rappresentanti delle associazioni di categoria delle farmacie convenzionate.

“Un altro strumento di grande utilità, veloce e ancora una volta gratuito per i nostri cittadini, con cui rafforziamo ulteriormente quella ‘caccia’ al virus che ormai da mesi ci vede impegnati senza sosta- ha sottolineato il presidente Bonaccini-. Le farmacie convenzionate sono parte integrante del nostro servizio sanitario e costituiscono veri e propri presidi sul territorio; in un’ottica di prossimità e di vigilanza sulle esigenze di salute della popolazione, possono proporre al cittadino di aderire a servizi di assistenza che puntano anche alla prevenzione. Di qui, l’idea di stringere questo accordo con le associazioni di categoria, che ringrazio davvero per la collaborazione, per allargare ulteriormente la platea delle persone su cui effettuare la ricerca anticorpale. Nuovi test sierologici, più vaccini antinfluenzali e due milioni di tamponi rapidi: vogliamo essere pronti a contrastare il virus, al quale non dobbiamo dare tregua, anche in questa fase che vede numeri in risalita, per non disperdere i risultati del grande lavoro fatto dal Paese nella fase più dura dell’emergenza e continuare a garantire una ripresa in sicurezza. Ma la cosa più importante- chiude il presidente- è continuare a rispettare rigorosamente le regole già esistenti: distanziamento, uso delle mascherine e cura dell’igiene, lavandosi spesso le mani”.

“Rafforziamo la nostra capacità di intercettare il virus di fronte all’attuale curva epidemica, che impone una nuova, ulteriore attenzione, sia nella capacità di testare la popolazione che nell’azione di tracciamento, scovando quindi quanti più asintomatici possibile- ribadisce l’assessore Donini-. Vogliamo dare la possibilità di sottoporsi gratuitamente allo screening a un’ampia fascia di popolazione, ripeto, asintomatica: quella che viene quotidianamente a contatto, direttamente o indirettamente, con il mondo della scuola. Il nostro augurio è che in tanti decidano di aderire, sfruttando quest’opportunità. Con i tamponi rapidi, inoltre, avremo la possibilità di andare a uno screening esteso della popolazione, consolidando in maniera determinante la nostra capacità di individuare, circoscrive e spegnere sul nascere eventuali nuovi focolai”.

Test sierologico rapido in farmacia: per chi, come, in quanto tempo

Il target preciso per questo screening sono dunque i genitori dei bambini e degli alunni/studenti (fascia d’età 0-18 anni e maggiorenni se frequentano la scuola secondaria superiore), gli alunni/studenti stessi, i loro fratelli e sorelle, e altri familiari conviventi. L’offerta dell’accertamento della risposta anticorpale attraverso il test diagnostico sierologico rapido può riguardare dunque anche i minori, a condizione naturalmente che ci sia il consenso dei genitori/tutori/affidatari (uno dei quali deve presenziare all’accertamento). Rientrano nel target anche gli studenti che frequentano corsi universitari e che hanno il medico di base in Emilia-Romagna.

Da Piacenza a Rimini, sono 1.366 le farmacie convenzionate, pubbliche e private, operative in Emilia-Romagna. Quelle che, in base all’accordo, hanno deciso di aderire alla richiesta della Regione di effettuare i test dovranno attuare idonee misure idonee di sicurezza (uso obbligatorio e corretto della mascherina, igienizzazione delle mani all’ingresso, controllo della temperatura corporea, distanziamento). L’elenco delle farmacie aderenti sarà pubblicato a breve sul sito della Regione; chi vorrà sottoporsi al test dovrà prendere appuntamento con il farmacista. Per il Servizio sanitario, il test in farmacia avrà un costo unitario pari a 16.76 euro (IVA inclusa).

Il farmacista registrerà sulla piattaforma SOLE i dati della persona che si sottopone al test, il cui esito sarà disponibile già dopo 15 minuti dall’esecuzione. In caso di positività, il cittadino eseguirà presso i Dipartimenti di Sanità Pubblica aziendali il tampone nasofaringeo che potrà rilevare l’eventuale presenza del virus SARS-CoV-2.

Altri 2 milioni di tamponi rapidi in arrivo per l’Emilia-Romagna

La gara per mettere a disposizione, in Emilia-Romagna, 2 milioni di tamponi antigenici rapidi per la diagnosi di positività a SARS-CoV-2 è stata bandita dalla Regione Veneto, che stavolta ha agito da committente unico a nome anche di altre Regioni, così come era avvenuto con altre gare in passato gestite da altre Regioni, con l’aggiudicazione che avverrà nel corso della settimana. Dopo i passaggi formali necessari, l’Emilia-Romagna disporrà dei test rapidi già entro la fine del mese. Questi test, che prevedono l’esecuzione di un tampone, possono essere eseguiti in diversi contesti e forniscono il risultato nel giro di massimo 20 minuti.

La Regione Emilia-Romagna intende utilizzarli per le attività di screening destinate al mondo della scuola; questo per indirizzare nel migliore dei modi, in tempi brevi, gli interventi in quell’ambito. Ma non solo la scuola: verranno interessati anche gli ambiti lavorativi pubblici e privati a maggior rischio e, più in generale, quelle situazioni che risulteranno critiche dall’osservazione degli andamenti epidemiologici. Sull’utilizzo dei test si è avviata un’interlocuzione positiva con la principale rappresentanza dei medici di medicina generale: ciò consentirà di rendere più fruibile questa tipologia di test da parte dei cittadini.

Campagna di vaccinazione antinfluenzale 2020-2021

E proprio in un’ottica di prevenzione, e per favorire la diagnosi differenziale, quest’anno la Regione ha deciso di anticipare a lunedì 12 ottobre l’avvio della campagna di vaccinazione antinfluenzale; non solo, perché viene spostato in avantioltre il 31 dicembre, il termine per vaccinarsi. Acquistate anche più dosi di vaccino: 1.200.000, circa il 30% in più rispetto alle vaccinazioni somministrate nella passata stagione; inoltre, nei contratti di fornitura viene prevista l’opzione di acquisto da parte della Regione di ulteriori 230.000 dosi, circa il 20% in più. Proprio in questi giorni le Aziende sanitarie stanno ricevendo i vaccini da distribuire ai medici di medicina generale.

Nel frattempo, ha già preso il via la campagna di comunicazione del servizio sanitario regionale (organizzata tra social, spot radio, video, locandine), all’insegna dello slogan “È tempo di influenza, è ora del vaccino. Vaccinati, proteggi subito te stesso e gli altri”.

Il vaccino, infatti, è utile nel ridurre le complicanze gravi e gli accessi ospedalieri soprattutto per le persone con patologie croniche e può semplificare la diagnosi differenziale, nonché migliorare la gestione nei casi sospetti di Covid-19. Nella passata stagione si stima che ci siano stati circa 580.000 casi di influenza in Emilia-Romagna.

Hanno diritto alla vaccinazione gratuita persone di età uguale o superiore a 60 anni con o senza patologie; donne in gravidanza o nel post partum; adulti e bambini (a partire dai 6 mesi di età) con patologie croniche; medici e personale sanitario e sociosanitari; addetti ai servizi pubblici essenziali (per esempio, forze dell’ordine, vigili del fuoco, volontari che operano nel settore sanitario); donatori di sangue; personale degli allevamenti e dei macelli. Tutte queste persone possono richiede la vaccinazione al proprio medico di medicina generale o ai servizi vaccinali regionali (Pediatria di Comunità e Servizi di Igiene e Sanità Pubblica), essendo appunto competenza del sistema sanitario pubblico, quindi di quello regionale, garantire la copertura vaccinale alle categorie a rischio.

Cessione al libero mercato delle farmacie territoriali

Per trovare una soluzione alla carenza di vaccino che si è creata a livello nazionale, anche in Emilia-Romagna, dopo la decisione assunta dalla Conferenza delle Regioni, vengono cedute al libero mercato, a disposizione delle farmacie territoriali per le persone non appartenenti alle categorie a rischio, 36.000 dosi (pari al 3% dell’acquistato). Le farmacie del territorio riceveranno i vaccini dopo le consegne al Servizio sanitario regionale.

Le persone sane possono infatti comprare in farmacia il vaccino e farselo somministrare dal medico di fiducia (costi variabili a proprio carico); oppure richiedere la vaccinazione antinfluenzale ai servizi vaccinali regionali (costo 22 euro) che la somministreranno però solo dopo aver garantito le vaccinazioni alle categorie che ne hanno diritto. /CV

Via degli Sgarbi :
per una nuova guida di Ferrara

Ferrara, 6 ottobre 2023

“Ferara, stazione di Ferara”, dice l’altoparlante. Fuori, un signore appena arrivato col treno, chiede un’informazione ad un passante.
Signore: “Mi scusi, potrebbe indicarmi la strada per andare in Municipio?”
Passante: “Certamente. Lei prosegua dritto fino all’incrocio con via Adolfo Itleri, poi al semaforo prenda a destra per Contrada del Manganello.
A quel punto vedrà il parco-giochi Erode il Grande, quello recintato e senza panchine; lei prosegua sulla sua destra fino a piazzale Benito da Predappio.
Una volta lì, noterà una vecchia biblioteca dedicata a Gianni Rodari che ora è diventata un’armeria; la superi e poi vada a destra per vicolo del Crocifisso Ostentato.
In fondo, svolti ancora a destra per via Italo Balbo fino a che si troverà in Largo dei Fasci Littori.
Da quel punto dovrebbe vedere il Castello Estivo, dove vivevano gli Este d’Estate.
Continui, attraversi il Ponte dell’Impero, cammini su via della Croce Celtica e, una volta in fondo, giri a destra in via Feldmaresciallo Rommel.
Dopo pochi metri, sarà arrivato in Municipio.
Una volta lì, le consiglio di visitare la mostra BIMBA, BAMBA, BUMBA & BOMBA. Sottotitolo: Se sei ubriaca sei in parte responsabile dello stupro; è  dedicata all’esaltazione della donna elegante, sempre in camicia nera, vista come angelo del focolare ed una condanna alla femmina (bimba) drogata (bamba) e ubriaca (bumba) che cerca di farsi stuprare per poi far scoppiare il caso mediatico (bomba) e rubare i soldi agli uomini per bene.”
Signore: “Grazie mille, è stato gentilissimo. Non conosco nessuna di queste vie ma ricordo che in centro c’erano Corso Martiri della Libertà e via delle Volte. Ci sono ancora?”
Passante: “Purtroppo no, gli hanno cambiato nome. Sa, delle Volte  penso che se fossi nei panni dei Martiri anche io avrei Corso lontano da qui per cercare un po’ di Libertà”
Nel frattempo, vicino alla vecchia altalena rotta del parco del grattacielo, un bambino saltella da solo, cantando una filastrocca:
Ferrara, Ferrara, che bella città
si mangia, si beve, l’amore si fa.
Ferrara, Ferrara, la nebbia dov’è?
Guardaci bene: è lì dentro di te.
Ferrara, Ferrara, tu dimmi però
meritiamo davvero questa popò?

LETTERA APERTA AL SINDACO DI FERRARA: ORA BASTA!

di Mario Zamorani

Signor sindaco,
lei ha scritto: “Clandestini, violenti, spacciatori e bivaccatori seriali, che altro non fanno che rendere meno sicura la nostra città, non possono pretendere alcun diritto, devono solo tornare da dove sono venuti. Per noi non sono né risorse né persone da integrare a nostre spese. Sono solo un tumore da sradicare” (vedi link).

Le sue sono parole di odio e di disprezzo senza precedenti per la loro gravità nei confronti di persone che in gran parte sono “gli ultimi e i disperati” della Terra. Pensiamo in particolare a clandestini e bivaccatori (chiunque siano questi ultimi). E anche chi delinque ha diritto a un giusto processo, non alla gogna. Lei e il Diritto siete alternativi.

Per la legge il sindaco rappresenta il Comune e lei in quanto sindaco rappresenta tutti i ferraresi.

Non siamo più disposti a tollerare in silenzio parole di odio e di disprezzo da lei o, come avviene con allarmante frequenza, dal suo vicesindaco.

Ha superato il limite. Non ci rappresenta più.

Mai un sindaco di Ferrara era caduto così in basso con parole tanto violente. Un clandestino non è un tumore da sradicare. La cultura del diritto dello Stato liberale e lo Stato di diritto e democratico garantiscono che tutti i cittadini abbiano diritti come indicato dalle leggi e dalla nostra Costituzione, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea; non sono tumori da sradicare. Mai, chiunque essi siano e qualunque sia il loro comportamento. Semmai è lei che dovrebbe essere allontanato dall’alto incarico che ricopre per le sue parole.
Dalla criminalizzazione del clandestino a quella della persona con diverso colore il passo è breve, forse inesistente; poi verrà criminalizzato ogni “diverso” e giù siamo su quella strada: forse non lo sa ma lei è già fuori dalla storia dell’Occidente e dalle sue conquiste di civiltà.

Anche Papa Francesco, rivolgendosi a cattolici e non, sostiene che dobbiamo tutti creare un radicale cambiamento nelle nostre società e che è necessario rifiutare “tutte le ingiustizie che oggi cercano la loro giustificazione nella ‘cultura della scarto’- una malattia ‘pandemica’ del mondo contemporaneo”. E aggiunge che bisogna dare voce ai “senza voce”. E tra questi ultimi indica
“migranti, rifugiati e sfollati, che vengono ignorati, sfruttati, violentati e maltrattati nel silenzio colpevole di molti”. E il suo non è silenzio, la sua è istigazione attiva.

Con le sue parole lei ha posto se stesso fuori dalla cultura giuridica dello Stato di diritto e ha fatto precipitare Ferrara, che lei dovrebbe rappresentare, nella barbarie.

Crediamo fermamente che la grandissima maggioranza dei ferraresi abbia queste sensibilità e che quindi lei non parli a nome dei ferraresi, ma a nome di alcuni odiatori. Lei è venuto meno all’onore che deve contraddistinguere le persone che ricoprono incarichi istituzionali.

Ora basta! Non siamo più disposti a tollerare parole di odio e di disprezzo! Quindi le chiediamo di smentire le sue stesse parole e di chiedere scusa a tutti i ferraresi. Se non lo farà da qui potrà partire la riscossa della città democratica.

Per firmare la petizione vai a; https://www.change.org/p/alan-fabbri-sindaco-di-ferrara-lettera-aperta-al-sindaco-di-ferrara-ora-basta

Nulla accade per caso

“Nulla accade per caso”.
Ce lo ripetiamo come mantra consolatorio davanti agli insuccessi, con un fondo di speranza compensatoria in ciò che seguirà, oppure lo diciamo con convinzione intrisa di felicità, nel caso di un successo. Caso? Energia? Destino? Tentiamo di dare risposte razionali a quegli eventi non pianificati o attesi che irrompono, tentando di scoprire e rendere manifesti i fili invisibili che uniscono luoghi e persone, circostanze e fatti ma tutto resta inspiegabile: accade e basta.
Nel 1950 Gustav Jung formulava la ‘Teoria della sincronicità’, asserendo che il vincolo tra più avvenimenti che sembra casuale, nasconde un profondo significato per la persona che lo vive, costituendo una forte esperienza con valore simbolico. Sono fatti che accadono spesso, compaiono all’improvviso, inaspettati, e molto spesso cambiano il corso della nostra vita. Non esistono le coincidenze con collegamento causa-effetto: esiste un’intima connessione che unisce l’ambiente, l’inconscio collettivo che accomuna tutti gli esseri umani, la singola persona, e bisogna fidarsi e affidarsi all’istinto per aprire le porte della sincronicità, sgomberando pensieri e atteggiamenti rigidi, cinici e rinunciatari. Tutto è collegato, le cose fluiscono, una dopo l’altra, in un ambiente in cui tutti sono connessi: possiamo prendere decisioni, operare scelte, porci obiettivi ma poi gli eventi interferiscono, l’inaspettato si manifesta scompigliando, orientando altrove.
In letteratura troviamo frequentemente situazioni sincroniche senza le quali la narrazione non avrebbe senso o si appiattirebbe su una realtà poco credibile, perché la vita reale stessa è fatta di eventi voluti e pianificati intercalati con fatti e accadimenti indipendenti da una nostra consapevole scelta razionale.
Nei ‘Promessi Sposi’ (1827), di Alessandro Manzoni, Renzo e Lucia vengono sballottati tra numerosi scherzi del destino, e quello che doveva essere un matrimonio senza complicazioni, diventa un’epopea intensa. Fra’ Cristoforo indirizza Lucia verso l’Innominato, il quale tradisce le aspettative di don Rodrigo; ogni personaggio deve fare i conti con il ‘caso’, il ‘destino’, la sincronicità, l’interdipendenza dei fatti. “Se non fosse successo quello, non si sarebbe arrivati a questo…” .
In ‘Il nome della rosa’ (1980), il celebre romanzo di Umberto Eco, il giovane Adso da Melk, discepolo di Guglielmo da Baskerville, trova i brandelli di libri e pergamene dopo l’incendio alla biblioteca dell’abbazia e li considera come tesori sepolti nella terra da salvaguardare e studiare con amore. “[…] Come il fato mi avesse lasciato questo legato. Più rileggo questo elenco e più mi convinco che esso è effetto del caso. Ma queste pagine incomplete mi hanno accompagnato per tutta la vita che da allora mi è restata da vivere, le ho spesso consultate come oracolo […]”.
Nel ‘Decameron’ (1350-1353), di Giovanni Boccaccio, apparente disordine e casualità sembrano prevalere nelle storie dei personaggi delle novelle, che compaiono slegate e distanti l’una dall’altra. Ma Boccaccio riesce a dar loro un ordine, una gerarchia, un senso, rifacendosi a volte al volere divino, altre alla capacità umana.
Italo Calvino, nel romanzo ‘Il castello dei destini incrociati’ (1969), usa una tecnica combinatoria per eliminare il disordine di tutte le trame possibili da percorrere e sviluppare. Parte da un mazzo di tarocchi le cui carte vengono distribuite su un tavolo e tutto diventa un gioco di combinazioni in cui il significato di ogni carta dipende dal posto che essa occupa nella successione di carte che la precedono e la seguono.
Dagli incroci che si formano, prendono vita le storie. In ‘Insonnia d’amore’ (1993), di Nora Ephron, Sam, vedovo inconsolabile, decide di trasferirsi con il figlioletto Jonah da Chicago, che gli ricorda ogni momento la giovane moglie, a Seattle. Il bambino, che vive la solitudine e sofferenza del padre, si rivolge a una radio facendo conoscere la loro storia e cominciano ad arrivare numerosissime lettere da pretendenti di ogni dove. Tra esse, quella della romantica giornalista Annie Reed di Baltimora, che il bambino ha estratto tra decine e decine. A molti altri inaspettati eventi, seguirà un appuntamento a New York tra Sam e Annie. “Non è incredibile? Prendi milioni di decisioni e un sandwich ti cambia la vita” esclamerà la protagonista, convenendo che nell’universo, minuscole variazioni portano ad evoluzioni inattese.
Laura Barnett in ‘Tre volte noi’ (2016), ci consegna due personaggi e due storie parallele che improvvisamente si incrociano. E’ il 1958, Eva e Jim, due studenti di Letteratura e Giurisprudenza a Cambridge, si incontrano inaspettatamente a causa di un cane sfuggito al padrone e un chiodo che fora la gomma della bicicletta della ragazza, intenta a schivare l’animale. Jim accorre in aiuto, e da quel momento tutto cambia. Eva lascia che il giovane entri nella sua vita, lascia un fidanzato in grado di permetterle un futuro nel mondo degli scrittori,  e tutto prenderà una traiettoria nuova che durerà tutta la vita, malgrado altre trame possibili.

Caso e necessità si intrecciano nelle nostre vite e non si tratta di destino ineluttabile né accidentalità, se vogliamo leggerne il messaggio. Ci piacerebbe, a volte, tornare indietro dopo un fatto, rimettere le lancette dell’orologio all’inizio per vedere altri scenari, altri effetti, altre opportunità ma i ‘se’ e i ‘ma’ sono sterili se non cogliamo l’importanza di ciò che è già accaduto. Possiamo solo vivere nel presente, con le nostre certezze e le nostre sliding doors, con uno sguardo attento attraverso le porte aperte e un atteggiamento plastico nel coglierne  messaggi e opportunità.

 

GLI ALLEVATORI DI SPERANZE
Per la giornata mondiale degli insegnanti

Oggi è la giornata mondiale degli insegnanti,
so che ci sono cose molto più interessanti
ma visto che c’è in giro più di un ignorante
anche questa dovrebbe essere importante.
L’insegnante è un operaio di conoscenza
e di quella sete non riesce a stare senza.
L’insegnante è un coltivatore di progetti:
prova a creare l’intero con dei pezzetti.
L’insegnante è elettricista della relazione:
collega i fili alle radici della Costituzione.
L’insegnante è un allevatore di speranze:
con cura prova ad accorciare le distanze.
L’insegnante è un ricercatore di bisogni:
insegna a tutti a pescare i propri sogni.
L’insegnante preferisce il ponte al muro:
lavora per unire ed è muratore di futuro.
L’insegnante vede il passato, l’oggi, il domani;
non vede studenti. Solo persone: esseri umani!

N.d.r. 5 Ottobre: Giornata Mondiale degli Insegnanti

Il ritorno di Mary Poppins e di Costanza

Oggi torno, vedrò da lontano la mia casa, entrerò dalla porta e ritroverò mia madre, mia sorella, i suoi due figli più piccoli che giocano in cortile. Oggi torno sulle ali del vento come ha sempre fatto Mary Poppins (la protagonista di un libro e un film famosissimi che parlano di una tata sui generis e dei bambini che accudisce). Così canta Bert lo spazzacamino amico di Mary: “ Vento dell’est/la nebbia è là…/Qualcosa di strano/fra poco accadrà./Tempo difficile/capire cos’è…/Ma penso che un’ospite arrivi per me …” Oggi la persona che torna sono io.
Bello assomigliare anche solo vagamente a Mary Poppins quando  arriva con l’ombrello nero aperto, usato come uno striminzito paracadute in grado di muoversi nel vento e di atterrare in maniera perfetta. Un arrivo gradito a Bert, ai bambini Banks, agli abitanti di Viale dei Ciliegi. Davvero bello abitare in un viale che ha il nome di un albero che  fiorisce in maniera spettacolare, dà frutti succosi, dolci e coloratissimi, fornisce ombra, ripara.

Anche io ritroverò un Bert che assomiglia un po’ a quello del film.
Nel film lo spazzacamino Bert è l’amico preferito di Mary Poppins. Quando il tempo è bello, disegna con il gesso ritratti e paesaggi, quando piove vende fiammiferi ed è conosciuto come “L’uomo dei Fiammiferi”. Ogni tanto fa anche lo spazzacamino,  professione per cui è molto amato (dagli altri protagonisti del film/dalle persone reali che lo guadano). Mary Poppins va in giro con Bert nel suo secondo giovedì di riposo. Bert è anche un amico dei bambini Banks e degli altri residenti di Viale dei Ciliegi. Inoltre si prende cura di Albert, lo zio di Mary Poppins, e dà consigli al signor Banks.

Una saga familiare per bambini, divertente, a lieto fine. Una storia che racconta una magia: Mary che arriva col vento dell’Est, sulle ali del vento.
Io non torno in viale dei Ciliegi, torno in via Santoni Rosa. La signora Santoni era una partigiana che aveva un nome di battaglia: Nuvola. Qualcosa di atmosferico c’è comunque, le nuvole stanno in cielo e vengono spostate dal vento.
Il mio Bert si chiama Vittorio, Vito per gli amici. E’ un personaggio qui a Pontalba. I suoi genitori erano di Vicenza. Si è trasferito qui quando aveva dieci anni, solo lui e suo padre, sua madre è rimasta a Vicenza alcolizzata e tristissima. Dopo qualche anno è morta. Credo che per il piccolo Vito sia stata una liberazione. Un conto è pensare una mamma ammalata e trasandata che arranca in qualche città del nord Italia, un altro è pensarla in cielo che cena con gli angeli. Un orfano sereno, il piccolo Vito. Siamo diventati subito amici e lo siamo tutt’ora. Quando mi sono ammalata lui è sempre venuto a trovarmi, anche se ero pallida come un cadavere. Facevo impressione e, proprio per questo, non veniva quasi nessuno a farmi visita. Ma lui non ha avuto paura, ha affrontato quella malattia come se fosse anche un po’ sua e questo è stato per me molto salutare. Veniva al pomeriggio e faceva un po’ di chiacchiere, poi se ne andava. Quando incontrava mia madre le chiedeva sempre come stavo e appena era possibile tornava a trovarmi. Poi sono guarita e abbiamo ricominciato a ridere. E’ una delle specialità di Vito, sa far ridere. Fa imitazione di personaggi locali che sono degne della prima serata di Rai1: la sua vicina di casa, la preside della scuola media, suor Lucrezia,  Mirella. Ridono tutti. Inoltre gesticola, parla a voce alta e continuamente, va a zonzo in bicicletta cantando, a volte parla da solo. Vive da solo. Pulisce tutta la casa da cima a fondo appena può. E’ un patito dell’ordine.
Vito è gay. Non ha un fidanzato, dice che sta bene da solo, che ne ha passate abbastanza, che non riuscirebbe più a condividere le sue giornate con qualcuno. Ormai è abituato così e gli piace così. Ha un orto, una casa grande, un gatto bianco, una bicicletta elettrica e tantissimi cd. E’ un appassionato di musica, Edit Piaf è uno dei suoi miti.

Oggi tornerò a casa sulle ali del vento come sa fare Mary Poppins e porterò una valigia di regali. Dalla mia borsa uscirà quel che piace a loro, alle persone che amo. Per mia madre ci sarà un grande libro pieno di storie fantastiche e misteriose. Per i bambini due biciclette nuove, per Rebecca i roller, per mia sorella un vestito, per mio cognato una tromba, per Vito non so, forse un libro di ricette. Gli piacciono le torte. Tutti ciò uscirà dalla mia borsa esattamente come quando, da quella di Mary, esce un lampadario, un armadio, una bambola, il succo di mirtilli e il suo fantomatico ombrello nero con il manico fatto ad uccello. Chissà se alla mia famiglia piaceranno i miei regali. Secondo me sì, sono i loro desideri annunciati, sono aspettative che diventano realtà.

Il mio di oggi è un ritorno a tutto ciò che è normale, prevedibile, sicuro, accogliente. Un ritorno che sa di favola, eppure è reale.
Oggi aprirò la porta di casa, abbraccerò tutti e rideremo insieme della vicina di casa che mangia caramelle di nascosto, si colora le unghie di rosso, si veste sempre nello stesso modo, parla in maniera velocissima e aspira alcune lettere. Molto facile da imitare, Vito lo sa fare benissimo. Le imitazioni sono una delle sue grandi abilità e ha insegnato anche a me. Hanno accompagnato tutta la nostra infanzia, le facciamo ancora. Vito è magico quasi quanto Bert. Nonostante un’infanzia difficile si può diventare degli adulti responsabili, gentili e coraggiosi, altruisti e pasticcioni. Ha un lavoro, sempre quello da molto tempo, dice che i cambiamenti non gli piacciono, che ama la sua “normale normalità”.
Oggi ritroverò chi mi ha aspettato, dimenticherò per un po’ l’ansia, mi fermerò con loro e ricorderò che le uniche cose importanti della vita sono le persone che ti aspettano sempre, che ti hanno aiutato sempre, che sanno farti ridere perché sono anche un po’ bizzarre e originali, anticonformiste e determinate. Un ritorno speciale. Una giornata limpida e un ombrello nero che fa da paracadute. Un ritorno sulle ali del vento. Sembra una storia, una Mary-Costanza atterra in via Santoni Rosa. Apre la borsa e la magia è già là.
Supercalifragilistichesperiralidoso,supercalifragilistichespiralidoso, supercalifragilistichespiralidoso”.

 

PER CERTI VERSI
A Juliette Greco

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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A JULIETTE GRECO

Non riposare in pace
Non mi interessa
Voglio ancora la tua voce
Rosa nera dei cortili
Musa
Di questa nostra esistenza
Dolce tormentata
Le foglie sono morte
E rinascono
Come la libertà
Che hai strenuamente cantata
Non riposare in pace
Canta
Disturba la nostra indifferenza
Scuotici
Continua
Non finire
Fammi vibrare il tempo
Per l’eterno
Ci sarà tempo

PRESTO DI MATTINA
Quale Riforma per la Chiesa di oggi: ri-dare forma alle relazioni ecclesiali

«La parola non farà che tirarsi dietro altre parole, le frasi altre frasi. Così il mondo intende definitivamente imporsi» (Ingeborg Bachmann, A voi, parole (1961), in Poesie Parma 1978, 155). Un effetto trascinamento, quello descritto da Bachmann, che mi ricorda l’esperienza vissuta dalle donne nella chiesa: salite in cattedra e chiamate a insegnare alle comunità cristiane, esse si sono tirate dietro l’una con l’altra, coinvolgendo le donne altre donne.

Se ne trova conferma aprendo il sito del Coordinamento delle Teologhe Italiane (www.teologhe.org), dove ho trovato l’indicazione di un libro che racconta la storia e l’iconografia del monastero di sant’Anna a Foligno. Vi si narra di un gruppo di donne terziarie francescane che, invece della clausura, scelsero la via della testimonianza del vangelo per le strade della città, accanto alle persone bisognose. Non lasciarono scritti, ma il loro ‘magistero’ fu impresso negli affreschi che commissionarono. Tra questi, emblematico quello che raffigura una inconsueta immagine di Maria bambina che insegna ai dottori nel Tempio e quella del piccolo Gesù che viene circonciso da una donna; come a dire lo stile del loro porsi come discepole di Cristo.

Il CTI valorizza e promuove in prospettiva ecumenica gli ‘studi di genere’ in ambito teologico, biblico, patristico, storico, favorendo la visibilità delle teologhe nel panorama ecclesiale e culturale italiano e sostenendo le donne che desiderano dedicarsi allo studio della teologia. Così ho seguito in streaming le relazioni del recente seminario di coordinamento delle teologhe: Riformare si può, che ha tematizzato la possibilità di un cambiamento di rotta a condizione di “ri-dare forma” alle relazioni ecclesiali. Nessuna riforma dei procedimenti istituzionali potrà mai essere raggiunta infatti se non è preceduta e accompagnata dal rinnovamento della coscienza delle relazioni reciproche tra i cristiani, e se la Chiesa non inizierà a cogliersi anzitutto come luogo di relazioni fraterne e sororali. Ma la conversione della coscienza non basta. Così questa deve avviare pratiche e istituzioni che facilitino tali relazioni: quelle fra chiese locali, tra ministri e laici, uomini e donne, poiché nella simbolica del Corpo di Cristo la chiesa non potrà essere tale a prescindere dalla concretezza dei rapporti e dal coinvolgimento di genere. I cristiani, infatti, sono soggetti organici, collettivi, reali di questo corpo e vivono le loro relazioni in forza di uno spirito comune che anima il corpo e lo rende agente secondo le particolarità di ogni parte. Non già dunque come tante vite semplicemente accostate l’una all’altra, ma generando un’unica indifferenziata esistenza che si distingue – come ci ricorda l’apostolo Paolo alludendo alle membra del Corpo – solo per i diversi doni che lo spirito dona a ciascuno.

La via da percorrere ci viene indicata nel capitolo 18, 1-4 di Matteo, là dove si ricorda un assillo dei Dodici che continua a echeggiare anche oggi nella chiesa: «Chi è il più grande nel Regno dei cieli?». Un interrogativo raggelato dalla risposta di Gesù che, nello spirito del Vangelo, replica: «se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete… chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli». Il vero è infatti che ‘farsi grandi’ costituisce per il cristiano una contraddizione che lo rende incoerente di fronte al vangelo che vuole testimoniare e nell’ambito della Chiesa una malattia mortale, che scardina la comunione ecclesiale e fa ammalare il corpo terreno di Cristo. Così la ricerca della grandezza diventa lo scandalo, l’inciampo di ogni serio tentativo di riforma della realtà ecclesiale. Al contrario il farsi piccoli libera e attiva dinamiche spirituali di crescita, creando la premessa paritetica di una reale osmosi (Cfr. Nicoletta Gatti, Perché il «piccolo» diventi «fratello»: la pedagogia del dialogo nel cap. 18 di Matteo, Tesi Gregoriana PUG, Roma 2007).

Come quella volta che dalla ferita del costato trafitto del crocifisso, il suo essere diventato il più piccolo di tutti, scaturirono sangue ed acqua, simbolo del battesimo e dell’eucaristia che determinarono la nascita della chiesa, così anche oggi la rinascita della chiesa chiede un’altra ferita: una ferità d’umiltà. Ce lo ricorda un testo poetico di Agostino Venanzio Reali, che fa luce sui differenti atteggiamenti e pratiche invalsi tra i cristiani: taluni generativi di un disamore disgregante proteso verso il nulla; altri, scaturiti da una “ferità d’umiltà”, e quindi capaci di rompere il cerchio del clericalismo e del maschilismo ecclesiale, che mortificano e frenano la costituzione del popolo di Dio attraverso l’unica e autentica dignità di cui vantarsi, quella derivante dal battesimo, generativa di sororità e fraternità: «C’è chi bruca il fior di loto,/ chi la morte chi il nulla./ C’è chi tenta imporre limiti,/ i propri, all’infinito./ C’è chi approda al buio silenzio,/ alla fine assoluta./ Pochi ormeggiano se stessi/ alla roccia di Cristo,/ perché pochi amano/ la ferita d’umiltà./ E tu avresti per tutti/ luce e calore. Aiutaci/ a rompere il cerchio/ del nostro disamore» (Primaneve, Castel Maggiore BO 2002, 87).

Ri-formarsi deve essere dunque una prassi costante se si vuole continuare a vivere anche per la Chiesa; essa non ha mai stata un’identità statica, monolitica, e la fede non si è mai identificata con un modello di società, di cultura; incarnandosi in esse ha poi saputo andare oltre, facendo tesoro di quanto recepito e vissuto, così come accade nelle età della vita di una persona e nello sviluppo di una società che si evolvono. La forza che ha permesso alla chiesa di non identificarsi o sottostare a imperativi ideologici, a classificazioni culturali, a modelli sociali del passato sono stati lo spirito e l’evento conciliari (Ad gentes 22); oggi l’invito ci viene dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium che costituisce l’avvio di un processo di riforma della mentalità e delle prassi ecclesiali nelle relazioni ad intra e ad extra della chiesa.

In particolare il concilio Vaticano II – non diversamente da quanto sta provando a fare anche papa Francesco – ha messo un freno al clericalismo, che riduce l’azione della chiesa a ciò che possono fare solo i “chierici”, generando così una frattura nel popolo di Dio con i laici. Provoca grande danno la convinzione di molti “clerici” che tutto ciò che è essenziale per la vita della chiesa sia posto nelle loro mani. Il risultato è una chiesa suddivisa in docenti e ‘discenti’, con i primi resi miopi e autoreferenziali dal compito del ‘dare’, e inconsapevoli delle preziosità che potrebbero ‘ricevere’ e generarsi da ogni vita di fede. È proprio per scongiurare questo rischio che il Concilio ha voluto recuperare la categoria di popolo di Dio, e con ciò la massima dignità di tutti i battezzati, indicando chiaramente nella reciprocità di tutti i ministeri – al modo della diversità delle membra di un corpo – la struttura portante della Chiesa: nella quale anche il ministero ordinato deve essere al servizio, e non in posizione di potere, rispetto al ‘sacerdozio comune’, cui sono chiamati tutti indistintamente i fedeli in ragione del loro battesimo.

Non meno dannoso, per la chiesa, e poi il maschilismo che la pervade, tanto più quando ne vengono sacralizzate le dinamiche. Eppure, Gesù seppe vivere la sua mascolinità senza generare maschilismo, come esperienza umana parziale, non ponendosi in una posizione dominante, ideologica, ‘onnipotente’ rispetto all’altro che incontrava – donne, bambini, emarginati, ammalati, stranieri; accogliendoli come un dono, compagni di viaggio, compagnia del Regno che non si impone ma viene fiducioso come il granello di senape e il lievito nella pasta. Rifuggendo da ogni logica di dominio lo stile di Gesù fu quello farsi da parte, farsi piccolo, riaprendo spazi all’altro, ri-dandogli la parola, la vista, il cammino, la liberazione dal male; così facendo, non andarono perdute la dignità e la grazia racchiuse nei piccoli presi da lui a immagine del Regno dei cieli e a modello per i discepoli. Basta leggere il vangelo per cogliere quanto dirompente sia stata, per l’epoca, l’azione di contrasto ed educativa esercitata da Gesù verso la mentalità discriminante dell’epoca, presente nei suoi stessi discepoli e quanto esplicita fosse stata la volontà di conferire pari dignità alle donne che incontrava: fermandosi, parlando con loro e ricevendo dalla loro stessa fede e cura, una comprensione più ampia di se stesso, della sua umanità e missione e della prossimità di Dio, tanto da esultare di gioia nello Spirito santo. (Lc 10,21)

Serena Noceti docente di ecclesiologia in un incontro a Ferrara ci aveva ricordato che «il processo di riforma si svolge a tre livelli: quello dell’autocoscienza collettiva (una conversione condivisa nel modo di guardare la realtà); quello del cambiamento dello stile interno, delle modalità delle relazioni e della figura esterna (cosa viene percepito); quello delle modifiche strutturali, organizzative. Non si tratta di dedurre da un’idea forme e strutture. Ciò che fa sorgere la riforma è la discrepanza tra le strutture esistenti e i desideri dei soggetti; tra ciò che viene detto e ciò che viene fatto; tra le strutture formali e quelle informali. Quando la discrepanza diventa evidente, la riforma diviene possibile».

E questo può avvenire non a partire da un’idea e men che meno da una teoria, ma attraverso l’elaborazione e la proposta di narrazioni di storie vissute che evochino esperienze significative, già praticate o almeno desiderate. Storie narrate in una molteplicità di forme, capaci di intercettare le diversità che si incrociano sulla soglia o sul confine ecclesiale, rese visibili da ‘testimoni narranti’, i cui racconti siano capaci di innescare non tanto un pensare comune quanto una vita comune, vissuta insieme a partire da quelle storie esistenziali: «Storie – direbbe Serena Noceti – non assertive ma performative, che fanno quello che dicono, ovvero in grado di attivare delle dinamiche e dei processi». Così ho pensato ad una storia di sinodalità: Polenta conviviale. Un racconto africano narrato da don Alberto Dioli quando era missionario in Congo. È il racconto di una vecchia tartaruga che riuscì a superare, là dove i grandi animali della foresta avevano fallito, con stile sinodale, le prove che Dio aveva richiesto per darle in sposa la figlia.

«Tanto tempo fa Dio viveva con gli uomini sue creature. Egli aveva una figlia molto bella e volle darla in moglie a qualcuno che fosse degno di lei. Egli disse: colui che riuscirà a cucire questo vestito lungo 300 metri sposerà mia figlia. L’elefante si presentò per primo e ricevette da Dio una lunga pezza di stoffa. Si mise al lavoro immediatamente. Ma non aveva ancora terminato i primi tre metri che si scoraggiò, abbandonò il lavoro e partì senza neppure prendere congedo. Il leone pretese di riuscire, ma non fece meglio dell’elefante. Arrivarono gli altri animali della foresta, ma non ebbero migliore fortuna. Una vecchia tartaruga, informata della disavventura toccata ai suoi fratelli animali, disse: “Che posso fare per sposare questa bella ragazza?”. Dopo aver riflettuto a lungo prese un grosso recipiente, vi nascose dentro 299 tartarughe, lo richiuse con diligenza e si mise in viaggio. Strada facendo incontrò il vecchio elefante. “Dove vai figliolo?” chiese l’elefante. “Caro padre, rispose la tartaruga, ho saputo che Dio ha una bella figlia da maritare e io vorrei essere il fortunato che la sposa”. L’elefante rise di gusto: “Abbiamo fallito noi grandi e forti, riuscirai tu piccolo come sei?”. Rispose la tartaruga: “Non rinuncerò prima di aver tentato!” … E continuò il suo viaggio verso il villaggio dove Dio abitava. Anche gli uomini, avendo saputo lo scopo del suo andare, fecero i loro commenti definendo la tartaruga: animale stolto e presuntuoso. Quella sera ebbe da mangiare e da dormire. La mattina dopo Dio le diede la pezza di stoffa di 300 metri. Allora essa distribuì le tartarughe lungo i 300 metri e a ciascuna assegnò ago, filo e … un metro di lavoro da fare. Cucirono, cucirono talmente bene e senza rumore che prima del tempo stabilito il lavoro era finito e la gente credeva che la tartaruga avesse fatto tutto da sola. L’animale trionfante portò allora il lungo vestito a Dio, tra la meraviglia generale. Dio allora diede ordine di uccidere 300 galline e di preparare 300 piatti di bugali (il bugali è una specie di polenta fatta con farina di manioca e tiene il posto del nostro pane alla mensa dell’africano). Quando tutto fu pronto disse che la tartaruga doveva mangiare tutto quel cibo nello spazio di un’ora, altrimenti non avrebbe visto la sposa. La tartaruga distribuì ancora il cibo tra le sue 299 compagne e dopo mezz’ora il bugali era finito. Dio allora diede alla tartaruga la bella figlia come sposa e per tre giorni e tre notti la foresta risuonò di canti e di suoni di festa. Insegnamento: anche i piccoli e gli ultimi possono riuscire … se stanno uniti».

PAROLE A CAPO
Roberto Paltrinieri: “Ulisse” e altre poesie

“La poesia, il sublime mezzo per il quale la parola conquista lo spazio a lei necessario.”
(Stéphane Mallarmé)

 

LA DANZA DEI MESI PERDUTI

Ballano visi luminosi
la danza dei mesi perduti
tornati a riprendersi
il tempo passato
Li vedo dai vetri di scuola
ascoltare voci appena gridate
mentre arrivano
insieme ad acri profumi
sorrisi d’incanto
quasi accennati
gettarsi giù dalle scale
in una corsa sfrenata
per scappare più in fretta
inseguiti
dalla Vita

 

I FIGLI

Nuovi soli
nuove lune
sono i figli
Mai andati via
mai stati qua
Portati dentro
come fragili sogni velati
perduti fuori
nell’ illusione faticosa
del nostro desiderio
Quasi scomparsi
appesi al seno della Vita
riconosciamo
commossi
tracce del nostro profilo
nella loro andatura

  

SUL FILO

Non ci sono
nel mio domani
giorni sempre uguali
ma improvvisi
salti mortali
Cammino ancora
sul filo tirato
nel vuoto profondo
dondolandomi
come un bimbo
a cavalcioni del mondo

 

ULISSE 

Sono in viaggio
oramai da tanto tempo.
Dentro di me
ho visitato città
attraversato mari lontani
conosciuto gente la più diversa.
Adesso sono stanco
Vorrei un porto dove fermare
la mia anima.
Vorrei scendere a terra
Non so se ritroverò la via di casa
La casa non è un posto
è un destino
E il destino
nessuno lo conosce
neppure gli dei
Ma è tutto ciò che ho

Roberto Paltrinieri (1958), docente di scuola superiore a Ferrara, collabora con Ferraraitalia scrivendo articoli di ordine filosofico-sociale e da oggi… con le sue poesie.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

C’era una volta: XX Settembre 1870

Sarà il 150° ma mi sembra ci sia una maggiore attenzione della stampa alla ricorrenza del 20 Settembre 1870: fine del potere temporale dei Papi e del regno più antico d’Europa. Festa nazionale fino al 1930, è sostituita dalla festa per i Patti lateranensi l’11 febbraio, ora solo una celebrazione civile. Il 20 settembre non è nulla. Forse meglio così.

Mi è piaciuta la scelta di Radio 3. Ha affidato allo storico Vittorio Vidotto il racconto della cronaca della giornata a partire dalle 6 del mattino fino alla tarda serata, con aggiornamenti nei diversi orari.

Tra i tanti articoli, speciali e supplementi segnalo due interventi di padre Sale su la Civiltà cattolica. In essi tratta la fine del potere temporale dei papi e la festa, poi abolita, della presa di Roma. Fino all’ultimo il Papa appare convinto che l’occupazione di Roma non ci sarà. La caduta del regno pontificio, l’umiliazione del Papa ha un impatto durevole nella coscienza dei cattolici osservanti. La situazione è sanata solo con il Concordato del 1929. La festa, nella data non casuale dell’11 febbraio, sostituisce quella del 20 Settembre proclamata da Francesco Crispi nel 1895.

Vi sono osservazioni interessanti sull’uso politico delle festività civili/religiose nel tempo. L’abolizione delle due “opposte” feste del 20 settembre e dell’11 febbraio riaffermerebbe il carattere laico dello Stato. Aggiungo solo che mantengo un’idea della laicità un po’ più ampia.

Proprio la permanenza del Concordato, pur con i correttivi apportati, resta un ostacolo alla miglior convivenza di aderenti a religioni diverse o a nessuna. Del resto l’omaggio della Chiesa al Duce, nell’occasione proclamato “Uomo della Provvidenza”, ci dice molto del legame tra regimi autoritari. Un legame ancor oggi letale in Europa e fuori. La data voluta per la firma l’11 febbraio è la stessa dell’apparizione a Lourdes. Nel 1858 la Madonna in persona conferma “Io sono l’Immacolata Concezione”, il dogma da Pio IX proclamato l’8 dicembre 1854.

Il 25 marzo del 1861 Cavour ricorda che senza Roma capitale l’Italia non si può costituire e la Camera impegna il Governo a riunire Roma al resto del Paese. Cavour muore il 6 giugno e tempestivamente la Civiltà Cattolica si rallegra della scomparsa dell’artefice massimo della sventura d’Italia: “egli stava per istendere la mano a quella Città fatale… Ed ecco che quella mano già da un mese è inaridita!”. Il Papa dal canto suo si prepara ai tempi nuovi con l’enciclica Quanta cura e il Sillabo contro tutto il progresso umano e la libertà di coscienza (1864), e facendosi proclamare infallibile dal Concilio Vaticano il 18 luglio 1870. Deve avere anche fatto almeno un miracolo visto che è stato beatificato da Giovanni Paolo II.

In una cosa certamente si sbagliavano, reazionari e democratici: a proposito del potere della scuola per l’emancipazione della popolazione, dai primi temuta e dai secondi auspicata. Pio IX scrive a Vittorio Emanuele II, 3 gennaio 1870, “per pregarla a fare tutto quello che può affine di allontanare un altro flagello, e cioè una legge progettata, per quanto si dice, relativa alla istruzione obbligatoria. Questa legge parmi ordinata ad abbattere totalmente le scuole cattoliche e soprattutto i Seminari. Oh quanto è fiera la guerra che si fa alla Religione di Gesù Cristo! Spero dunque che la V. M. farà sì che in questa parte almeno, la Chiesa sia risparmiata. Faccia quello che può, Maestà, e vedrà che Iddio avrà pietà di Lei. Vi abbraccio nel Signore”.

Allora l’analfabetismo in Italia sfiorava l’80%. Ora è debellato. A tutti la scuola insegna a leggere, scrivere, fare di conto. Tuttavia, secondo ricerche internazionali, solo il 20% della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti indispensabili per orientarsi con efficacia e in modo autonomo nella vita di tutti i giorni. Il restante 80% se sa leggere e scrivere lo fa con difficoltà e solo per brevi elaborati, ha difficoltà nell’analisi di un grafico o addirittura non sa fare niente di tutto ciò. Lo constatiamo quotidianamente. Masse adoranti, composte non solo di analfabeti funzionali, seguono le peregrinazioni elettorali della coppia Giorgia e Matteo, come, nella mia giovinezza, quelle della Madonna pellegrina. Il confronto me le fa quasi rimpiangere.

La scuola pubblica non ha imparato la lezione di una pluriclasse condotta dal prete Lorenzo Milani.

So che il tema della laicità è proposto da ristrette minoranze e che la struttura dei rapporti con la Chiesa resta quello fissato dal fascismo. Quindi occorre insistere. Ma se c’è un elemento che caratterizza questo tempo è l’incremento della diseguaglianza, mentre ci sarebbero i mezzi per assicurare esistenza libera e dignitosa, sempre più largamente. Invece non si fa la guerra alla povertà, ma ai poveri. A denunciarlo con forza, a indicarne le cause, a prospettare vie d’uscita non vedo esponenti politici particolarmente impegnati. Il fallimento dell’esperienza “comunista” ne ha visto la maggior parte ripetere come un mantra TINA (There is no alternative). L’ordoliberismo è accolto con entusiasmo o rassegnazione. Dopo Abolire la miseria di Ernesto Rossi non ho visto avanzare alcuna proposta seria al riguardo. Contro la società dello scarto si alza invece la voce di Papa Francesco, che non rimanda al giudizio universale l’esigenza di giustizia e libertà.

Con questi pensieri, anche quest’anno, sono andato alla collocazione della corona d’alloro alla lapide che a Ferrara ricorda la data. Da anni la promuove Mario Zamorani. È un’occasione per incontrare persone care. C’è pure mia figlia. Sento, non solo io, l’immenso vuoto lasciato dal carissimo Davide Mantovani, storico del Risorgimento e compagno dai banchi del Liceo. Sento pure la sua sottile presenza. L’amico Luigi Pepe conclude, con parole che condivido, un breve e incisivo scritto per la ricorrenza Porta Pia 150 anni dopo. “Oggi, dopo il Concilio Vaticano II – con questa Civiltà cattolica e con questo Papa, aggiungo io – sembra essere venuto il momento della condivisione di obiettivi comuni di pace e di amicizia, tra persone di diverse fedi e posizioni politiche. Non lasciamoci sopraffare dalle nuove istanze autoritarie che vogliono dividerci per dominarci. Non prevalebunt”. We are the 99%, siamo il 99%, siamone consapevoli.

Questo articolo è apparso con altro titolo anche sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento Nonviolento [www.azionenonviolenta.it]

Cover: Breccia di Porta Pia, 20 settembre 1870 (Wikipedia Commomns)

MICROFESTIVAL DELLE STORIE
A Polesella incontro con Giulia Cuter e Giulia Perona autrici di ‘Le ragazze stanno bene’

Microfestival delle storie: incontro con Giulia Cuter e Giulia Perona autrici di Le ragazze stanno bene. Tra gli eventi in calendario, anche laboratori per bambini e C’era una volta la fossa Polesella

Voci di donne giovani, libri, street art e visite al territorio per un altro fine settimana con il Microfestival delle storie. Sabato 3 e domenica 4 ottobre, a Polesella il programma degli eventi abbraccia tutte le fasce d’età: i più piccoli potranno creare un parco di sciarpe con la tecnica del ‘yarn bombing’ (sabato 3 ottobre alle 15, giardini della Fossa in via Gramsci), mentre gli adulti potranno assistere alla presentazione del libro Le ragazze stanno bene (edizioni HerperCollins) di Giulia Perona e Giulia Cuter che, alle 17.30, in sala Agostiniani dialogheranno con Giorgia Brandolese. Domenica 4 ottobre alle 10, da via Gramsci, partirà in bicicletta la visita, guidata dall’associazione Polesella cultura e territorio, alla scoperta del centro storico e della sua conformazione urbanistica mutata nel tempo.

Scheda degli eventi

Un parco di sciarpe sabato 3 ottobre dalle 15, giardini della Fossa via Gramsci. Attraverso la scoperta dello yarn bombing come particolare tecnica di street art, capace di mettere insieme tradizione, genio e colore, bambini e genitori avranno a disposizione un parco nel quale scegliere il proprio albero di riferimento e decorarlo utilizzando semplicemente forbici, vecchi gomitoli di lana, le mani e la fantasia. Adulti e bambini andranno a caccia dei giusti colori e abbinamenti per rendere ancora più speciale l’albero del quale si prenderanno cura; impareranno a riconoscerne la specie e, a fine giornata, sapranno darle un nome.

Prenotazione per il laboratorio Un parco di sciarpe:
https://www.eventbrite.it/e/biglietti-un-parco-di-sciarpe-121500985719?fbclid=IwAR2fhz4eeaM0gL8w2e0xQMXWDkLNJJms01Tb3hxjc4fyJT_LDlgSq4Grme8

Le ragazze stanno bene con Giulia Cuter e Giulia Perona, sabato alle 17.30 in sala agostiniani, evento in presenza con le autrici e Giorgia Brandolese. Sinossi del libro: Le ragazze contemporanee non vogliono più essere le spose sottomesse degli anni Cinquanta, tutte casa, cucina e marito, ma nemmeno le femministe arrabbiate degli anni Settanta, con i loro falò di reggiseni e l’odio per i maschi. Ci sono invece molte altre cose che le ragazze contemporanee sono già: donne in carriera, politiche impegnate, esseri umani indipendenti nella gestione del proprio corpo e della propria vita sentimentale e sessuale. Come non rimanere prigioniere dell’uno o dell’altro modello? È possibile, oggi, non rinunciare al femminismo ma nemmeno alla femminilità? Ripercorrendo alcune fra le prime volte più significative nella vita di ogni bambina, ragazza e infine donna, le autrici, creatrici del podcast Senza rossetto, dipingono un mondo e un momento storico, il nostro, in cui le questioni ‘femministe’ sono diventate ormai quotidiane, e non si deve più temere di non esserne all’altezza.

Prenotazione per la presentazione de Le ragazze stanno bene:
https://www.eventbrite.it/e/biglietti-giulia-cuter-giulia-perona-microfestival-delle-storie-121501657729?fbclid=IwAR2COKMmPBSyzvVJ7p-gEsa-v6irPijDH-HlnGUWInYL7ZDyZhg0D-u2Bt4

C’era una volta la fossa Polesella, domenica 4 ottobre alle 10 da via Gramsci, ritrovo gelateria Polo nord. Aggirandosi nel centro storico di Polesella, è impossibile non cogliere una insolita conformazione urbanistica disposta su più livelli altimetrici. Quale sarà il motivo? Forse non molti sanno che Polesella era attraversata sino al 1951 da un’importante via di comunicazione fluviale, la Fossa di Polesella, che metteva in comunicazione il Po con il Canalbianco. Oggi che fine ha fatto? Perché non esiste più e cosa c’è al suo posto? Queste e molte altre domande potranno trovare una risposta durante la visita guidata nel centro storico del paese.

Prenotazioni per la visita C’era una volta Polesella:
https://www.eventbrite.it/e/biglietti-cera-una-volta-la-fossa-polesella-121504961611
Il programma completo degli eventi del Microfestival di ottobre su www.microfestivaldellestorie.it
Per informazioni: microfestivaldellestorie@gmail.com, messenger: microfestival delle storie.

Vite di carta /
Ancora maschere (e mascherine)

Vite di carta. Ancora maschere (e mascherine)

Ci ho proprio azzeccato. Come lettrice, intendo. Sono arrivata a pagina 290 del romanzo di Sandro Veronesi Il colibrì ed è rispuntato fuori il personaggio carsico di Duccio Chilleri: vestito di un abito nero piuttosto malandato, col volto pieno di grinze e i denti gialli, con la schiena curva e l’aspetto complessivo di un vecchio.

Nel numero scorso dicevo di questo personaggio che mi ricorda Rosario Chiarchiaro, il protagonista de La patente, novella e atto unico di Pirandello. Entrambi portatori di iella. Questo Duccio rispunta fuori, dicevo, e ammette di essere  diventato uno iettatore di mestiere, proprio come Rosario. Di averlo fatto per poter sopravvivere al disdoro generale e poter guadagnare, portando iella a pagamento. Come Rosario.

Poi nelle pagine  finali del romanzo ho trovato l’elenco delle citazioni e dei rimandi ad altri testi; di solito si chiamano Ringraziamenti ma Veronesi, che li svela con piacere (il piacere di mostrarsi in qualità di lettore), li definisce Debiti.

E’ stato come consultare le soluzioni che sulla Settimana enigmistica sono stampate in fondo al giornaletto e bisogna rovesciare le ultime pagine per leggerle. Mi sono sentita confortata per averci visto giusto a mettere in coppia Duccio e Rosario. Sì, ma quanti altri rimandi non ho colto.

Capisco ogni volta di più che il ruolo del lettore dà molto da fare, soprattutto quando l’autore, come in questo caso, spazia tra i libri di un universo letterario di grande spessore. Viene fuori alla fine che ha consapevolmente intrecciato alle sue alcune figure e situazioni di altre galassie narrative. Come piacerebbe a Calvino, ha incrociato i destini di personaggi provenienti da libri diversi. Non a caso il suo protagonista, ‘il colibrì’ Marco Carrera, è un abile giocatore di carte!

Quello che mi preme qui richiamare è il peso della ‘maschera’ che portano addosso i due iettatori, una ‘maschera-destino’, che essi incamerano per sopravvivere.

Mercoledì scorso al mercato del mio paese ho visto moltissimi di noi indossarne una, una ‘mascherina’ devo dire; io stessa esibivo quella chirurgica che dal lato esterno è azzurra. Inoltre sui banchi di molti venditori erano in bella mostra altri modelli di mascherine anti Covid leggere e colorate.

Ho cominciato a percepire quanto rendessero diverso il paesaggio della piazza. Mascherine ovunque, in movimento sui volti delle persone, oppure ferme in esposizione, in attesa di essere acquistate. In un banco accanto al settore per adulti ho notato tutto un repertorio di mascherine per bambini, una buona prova di astuzia commerciale e fantasia. C’erano infiniti colori e disegni sui piccoli rettangoli di stoffa, ‘lavabile’ diceva una cartello; c’erano i personaggi dei cartoni animati che i bambini seguono sui cellulari, sui tablet o alla tv.

La mascherina come parte del nostro look. Mi viene in mente la foto che agli inizi dell’estate circolava sui social e mostrava ‘il trikini’: un coordinato per la spiaggia formato dal classico due  pezzi più un terzo pezzo, la mascherina. Dobbiamo riconoscere che, associata così all’idea di bellezza e di glamour, essa porta con sé un significato più leggero, allude a qualcosa che ci viene dato in termini di immagine e non a ciò che il Covid ci ha fin qui tolto: sicurezza, libertà e altri paroloni.

L’immagine che diamo di noi stessi, però, va incontro ai suoi rischi.
Diciamo che incontrando la gente del paese mercoledì ho visto tre diverse reazioni.

C’è chi ti riconosce al primo sguardo e ti apostrofa con sicurezza, come se la mascherina non costituisse un paravento, ma un biglietto da visita. Come fosse un fattore che aumenta la leggibilità della tua persona. Come farà? Saprà riconoscere i gesti o i vestiti, la corporatura, i capelli. Io credo che il portamento sia ciò che ci svela.

Il secondo modo di incontrarsi è invece indeciso. Ci si guarda e si accenna a proseguire, poi quando la distanza interpersonale (che veniva chiamata “sociale” durante il lokdown) diventa quella giusta, le battute da una parte e dall’altra sono più o meno queste: “Ah, scusa, sei tu. Mi pareva, ma poi non ero sicura”. “Anch’io ti guardavo, ma con queste mascherine non si conosce più nessuno”.

Il terzo è presto detto: vedi la persona che ti conosce evitare il tuo sguardo e, complice una leggera distanza da te, accelerare il passo. Non ti ha proprio vista. Oppure sa che per colpa della mascherina sei meno in evidenza nel suo raggio visivo e questo costituisce una scusante, è un piccolo alibi che le permette di tirare diritto.

Letteratura vieni avanti. Porta i tuoi personaggi di carta, i Chiàrchiaro e i Chilleri, con le maschere che sono state stampate sul loro volto. Ci è utile osservarli e chiederci se un analogo destino riguarda anche noi. Ma certo, mi sento di rispondere. Chiàrchiaro è uscito dalla penna del suo autore nel 1911, Chilleri dopo oltre un secolo nel 2019 e ci ha trovati ancora affezionati ai pregiudizi, alle opinioni comode, che è faticoso mettere in discussione.

Nel numero 12 del 26 settembre il quotidiano Domani  apre la prima pagina con l’articolo La legge del più forte: omofobia in presa diretta, firmato da Jonathan Bazzi, uno degli autori finalisti all’ultimo Premio Strega col romanzo Febbre.

Dopo aver riportato l’ennesimo episodio di omofobia ai danni del suo compagno, Bazzi afferma di avere provato anche sulla propria pelle che “la cultura omotransfobica è rigogliosa e trasversale, gode di ottima salute”,  per cui “i corpi dei non allineati sono esposti ai sinistri di un sistema che si ritrova ovunque”, anche nelle strade di Milano nel 2020, dove il suo compagno è stato pesantemente insultato da un gruppo di adulti. L’auspicio, con cui chiude l’articolo, è che in Italia si arrivi presto a una legge contro misoginia e omotransfobia che ponga le basi per “una ristrutturazione culturale ed emotiva del paese”.

Se ora torniamo alle mascherine al mercato del mio paese, senza dimenticare gli effetti drammatici di cui parla Bazzi, è per cercare di stare al gioco e chiederci dove ci conduce l’indossarle quando siamo nel mondo. Caso numero uno: dicevo che siamo subito riconosciuti e apostrofati. La mascherina sembra non influire nel “gioco delle parti”; rimaniamo quelli di prima (con la maschera legata all’idea che gli altri si sono fatti di noi, alla ‘forma’ che ci assegnano, naturalmente!) e l’esserci coperti il volto col nero oppure con altri colori resta un fatto di look.

Caso numero due: c’è indecisione nel reciproco riconoscimento. In questo caso la combinazione di maschere e mascherine si complica, perché sotto la mascherina che ognuno di noi vede nell’altro ci possono essere due individui diversi, con la forma che è stata loro assegnata da prima. Viene almeno raddoppiato l’ ‘effetto spiedo’ (io lo chiamo così) con cui infilzo l’individuo che a prima vista non riconosco, dotato di una forma che ancora non gli ho assegnato se non in un primo veloce abbozzo, e l’individuo che dopo un attimo metto a fuoco, la cui forma viene subito fuori e si aggiunge alla sua immagine di ora.

Ultimo caso: siamo riconosciuti ma bypassati. Il gioco delle parti trionfa: se ti va puoi contare tutte le possibili combinazioni. L’altro non ti ha riconosciuto e ha tirato diritto, segno che la tua forma ti ha nascosto (merito della mascherina?), azzerandoti per lui. E tu che idea ti fai di lui sulla base di questo comportamento? L’altro ti ha riconosciuto e tuttavia ha tirato diritto, segno che in questo momento non vuole saperne di te, oppure per problemi suoi non riesce a fermarsi per un saluto. Se non vuole saperne di te, domandati in che cosa la tua forma lo ha respinto. Se invece ha problemi suoi, devi riconsiderare la forma che tu gli hai assegnato, e arricchirla o confermarla alla luce del comportamento di oggi.

Possiamo fermarci qui. Il gioco si è fatto cerebrale, come Pirandello insegna. Tuttavia è un gioco e non può che stuzzicare i nostri pensieri, affascinarli con la possibilità così ampia delle combinazioni.
Un ultimo pensiero mi attraversa: se mercoledì prossimo indossassi ‘una mascherina non allineata’, per esempio con colori sgargianti e piume svolazzanti ai lati, quale terremoto si produrrebbe nello scacchiere delle mie relazioni con le altre persone presenti al mercato?
Rispondere cercando la/e soluzione/i nelle righe precedenti o aggiungerne di proprie.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

VOTI A PERDERE, COME TE LI RICICLO

“«Come fate a parlare con tanta calma, dopo essere andato con la testa in un fosso?» domandò Alice mentre lo trascinava per i piedi e lo stendeva su un monticello di terra accanto alla riva. Il Cavaliere sembrò sorpreso per questa domanda. «Che importa dove si trova il mio corpo? – egli disse. – L’importante è che la mia mente lavori lo stesso. Anzi, più volte vado a testa in giù e più invento nuove cose»”. È Lewis Carroll, Nel mondo dello specchio.

Evidentemente noi stiamo sempre ben ritti sulle nostre zampe di bipedi, perché siamo speciali nel rincorrere il già visto, l’usato sicuro.

L’ultima performance del gattopardesco genio italico riguarda i voti a scuola. In tempi in cui l’ibrido è tornato di moda anche nella didattica, ecco che ti scopro l’ibrido docimologico: voti numerici a metà anno, giudizi alla sua conclusione.
Per cui, se qualcuno s’era mai illuso di una svolta storica compiuta da grilli parlanti e pdiessini in sonno, ha dovuto immediatamente scuotersi dalla meraviglia, perché la promessa abolizione dei voti nella scuola primaria dei bambini dai sei ai dieci anni, era solo una ‘sola’. Uno zelante consigliere della ministra ha fatto presente che il decreto con cui  si sarebbe dovuto celebrare il funerale della valutazione numerica, almeno per i più piccoli, altro non era che una farsa affidata al sofistico burocratese dei nostri azzeccagarbugli. Sì, perché la legge con la quale sono stati introdotti, al posto dei numeri, giudizi disciplina per disciplina recita: “valutazione finale”. Capirai, stabilire quando la valutazione inizia e quando finisce è oggetto di speculazione filosofica per il ministero dell’istruzione, così poiché, come ci hanno insegnato i nostri padri latini, in aurea mediocritas, il gioco è fatto: voti e giudizi convivono, per non smentire la prassi della scuola italiana, esperta nel tenere insieme antico e moderno  in modo da non cambiare nulla.

In un’epoca ormai lontana nel tempo, correva l’anno 1977 del secolo scorso, per mano di una ministra dell’allora aborrita Democrazia Cristiana i voti erano stati aboliti. Anni di fermenti pedagogici quelli, che con i decenni a venire andranno esaurendosi, sempre più ostacolati  e aggrediti da striscianti controriforme. Quel provvedimento di legge nasceva sulla spinta di maestre e maestri aderenti al Movimento di Cooperazione Educativa che si rifiutavano di dare i voti e di compilare le pagelle.

Leggere Freinet, prendere in mano i libri di Mario Lodi e di Bruno Ciari non avrebbe guastato alla cultura dei ministri che si sono succeduti alla guida del dicastero della Pubblica Istruzione, recentemente divenuto dell’Istruzione Nazionale, con un infelice retrogusto da regime.
Se fossimo in grado di stare ogni tanto a testa in giù come il cavaliere di Alice, forse ci renderemmo conto che non c’è niente di più stupido dei voti. Il compito di quei numeri dallo zero al dieci dovrebbe consistere nel misurare il sapere, alunno per alunno, come il metro di un sarto.

Voglio proporvi la conversazione che Gregory Bateson intrattiene con sua figlia, una bambina delle scuole elementari.

Prende l’avvio dalla domanda che la figlia rivolge al papà: – Papà, quante cose sai? –
La prima risposta va a peso: – ..so circa un chilo di cose… –
La ragazza ribadisce che gli ha chiesto per davvero quante cose sa, vuole, dunque, un calcolo numerico.
Il papà replica: -..il mio cervello pesa circa un chilo e penso di usarne circa un quarto…Quindi diciamo due etti e mezzo.
La ragazza incalza: – Ma tu sai più cose del papà di Johnny? Sai più cose di me? –

Bateson racconta: ” […] una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: “I padri sanno sempre più cose dei figli?” e il padre rispose: “Sì”. Poi il ragazzino chiese : “Papà chi ha inventato la macchina a vapore?” e il padre: “James Watt”. E allora il figlio gli ribatté: “Ma perché non l’ha inventata il padre di James Watt?”.
Il papà fa osservare alla figlia: -…che il sapere è tutto intrecciato insieme, o intessuto, come una stoffa, e ciascun pezzo di sapere è significativo o utile solo in virtù degli altri pezzi,…-

Questa osservazione che è già stata di Goethe, il famoso telaio, porta la bambina a osservare che allora se il sapere è una stoffa non si potrà contare ma si può però misurare in metri! Bateson osserva che ci sono diversi generi di sapere e che questo sistema di misurare il sapere non consente certo di misurare ‘il sapere sul sapere’. Perché non si possono mescolare i pensieri. Il sapere non si può contare, perché contare è aggiungere semplicemente una cosa all’altra. E per i pensieri come per il sapere questo non lo si può fare assolutamente.

Misurare il sapere è dunque come voler riempire d’acqua un secchio bucato. Pretendere poi di misurarlo nelle bambine e nei bambini è una delle tante violenze perpetrate dalla divisione in graduatorie e dalla smania di gara della società degli adulti, quella stessa che porta i genitori a litigare alle partite di calcio dei loro figlioli.

Ci dovremmo preoccupare che a cinquant’anni di distanza stiamo ancora a discutere delle cose di ieri, dell’involuzione che ci separa da allora. Nel 1974 Mario Lodi pubblica Insieme. Giornale di una quinta elementare. Scrive nell’introduzione: “ In questi ultimi anni molti educatori sono passati dalla critica al libro di testo al rifiuto della sua adozione e del suo uso. Con questo atto responsabile hanno quindi rifiutato anche il metodo della scuola autoritaria selettiva fondata sulla lezione da studiare e da ripetere, sul voto e sulla bocciatura. Si sono perciò impegnati a realizzare , all’interno della scuola ufficiale, una scuola diversa che valorizzi il patrimonio ora sprecato delle capacità individuali da utilizzare per sé e per gli altri, contrapponendo all’individualismo egoistico e quindi alla competitività  della scuola e della società attuale, i valori che dovrebbero essere alla base di una società nuova, umana.”

Non è poi necessario mettersi a testa in giù come il cavaliere di Alice, c’è qualcuno che l’ha già fatto per noi, cercando di guardare alla scuola da un’altra prospettiva. Invece dovremmo vergognarci, questo sì,  non solo di aver rubato il futuro alle nostre ragazze e ragazzi, ma anche di avergli trafugato il passato.

Mick Hucknall: il cantante con il rubino in bocca

Mick  Hucknall è il frontman dei Simply Red, gruppo soul-pop fondato dallo stesso Hucknall nel 1984 e tutt’ora in attività. In venticinque anni il gruppo ha venduto cinquantacinque milioni di dischi e raggiunto dei successi clamorosi. Alcuni loro singoli come “Holding Back the years” e “If you don’t know me by now”  hanno scalato le hit mondiali e raggiunto i primi posti nella classifica Statuunitense Billboard Hot 100. Il loro quarto album “Stars” (1991) è uno degli album più venduti di sempre In Inghilterra.
Mick Hucknall è stato uno degli amori platonici della zia Costanza quando era una ragazzina e ora, che ha cinquant’anni, continua a considerarlo molto bravo. Ha una predilezione sfacciata per la voce di Hucknall che lei definisce calda, duttile, armonica, emozionante.

Una volta mia ha detto: “Rebecca mia, l’unica cosa che ti manca sono i capelli rossi come quelli di Hucknall”. A dir la verità a me i miei capelli piacciono così come sono, ricci e scuri. Io non li vorrei ricci e rossi. E’ lei che li vorrebbe così per me, perché continua a trovarli bellissimi.
La nonna Anna dice che quando la zia era un’adolescente aveva appiccicato un grande primo-piano di Hucknall  sul suo armadio. Una foto che è rimasta là per dieci anni e che lei guardava tutte le mattine.
Poi un bel giorno, l’ha staccata dall’armadio, ma non l’ha buttata nella spazzatura, l’ha bruciata con molta sacralità. La nonna Anna dice anche che quando la zia faceva l’università teneva sempre una foto di Hucknall in tasca, era convinta che le portasse fortuna. Raggiunta la Laurea anche quella foto è stata bruciata nelle fiamme del camino del nostro cortile.

Hucknall ha un rubino incastonato in un dente e, quando sorride, manda bagliori rossastri dalla bocca. E’ il rubino che intercettando piccoli fasci di luce, brilla intensamente.  Questo bagliore rosso che si vede quando canta fa molto scena e completa la “rossità” appariscente di questo conosciutissimo frontman. Ovviamente l’incastonatura del rubino non è stata una scelta casuale ma una precisa strategia studiata da esperti di immagine e realizzata con molta abilità.

Una volta ho chiesto alla zia: “ Perché Hucknall è il tuo cantante preferito?”
“Perché ha una voce morbida che scalda il cuore”.  Mi ha risposto.
In poche parole ha riassunto molto bene il senso di questa  predilezione  che  dura da una vita.

Credo che a volte si creino delle strane relazioni tra noi e alcuni personaggi pubblici che nemmeno conosciamo. Proiettiamo su queste persone dei nostri desideri che trovano una strana realizzazione nella loro lontananza e assoluta indifferenza. Nell’assenza di relazione ci può stare qualsiasi fantasia, anche la più irrealizzabile. Del resto i “principi azzurri” sono tali solo fino a quando non li si conosce bene, non li si vede da vicino.
Penso che questo valga per molti personaggi dello spettacolo e in modo particolare per i cantanti. Intercettando dei sogni e permettendo loro di riprodursi senza infrangersi contro una realtà che li annienterebbe, diventano dei principi. Nella lontananza c’è l’impossibilità della trasformazione del desiderio in realtà, del bisogno in appagamento. Chi è “lontano” si concretizza nei nostri pensieri e desideri come qualcosa di inavvicinabile, irrealizzabile, come il ricettacolo che accoglie tutto ciò che vorremmo e non abbiamo, tutto ciò che ci piacerebbe e non vediamo, tutto ciò che non troviamo nella nostra quotidianità, nel procedere un po’ affannato che caratterizza i “giorni normali” della nostra vita.

Poi una bella voce è una bella voce e questo non è fantasia o sogno, è pura e semplice realtà. Una voce intonata, calda e sicura è una grande dote, la musica sa portare lontano, verso l’eternità, la sublimazione, la passione, l’amore.
Hucknall ha davvero una gran voce, lo dicono tutti, compreso mio padre  che è un professore di musica.
Adesso il super-Mick ha  anche  una  moglie  e  una  bambina  con  i  capelli  rossi come il fuoco.
L’’incredibile “rossità” di famiglia è riemersa. Chissà se la bambina canta e come lo fa. E’ una cosa che vorrebbero sapere migliaia di persone.

Una volta la zia ha insistito per farmi sentire “Live at the Royal Albert Hall 2011”, un album di BB King uscito nel marzo del 2012. L’album contiene la riproduzione del concerto tenuto al  Royal  Albert  Hall  il 28 Giugno 2011.
In questo concerto BB King propone alcuni dei suoi più grandi successi come: “The Thrill Is Gone” e “Guess Who”. Quella sera, oltre a BB, si sono esibiti su quel prestigioso palco alcuni grandi ospiti tra cui: Slash, ex membro dei Guns N’Roses, il chitarrista  Ron Wood membro dei Rolling Stones, Derek Trucks e sua moglie Susan Tedeschi e … senti senti: Mick Hucknall!
Ecco scoperto chi, secondo la zia,  ha trasformato questo concerto in una meraviglia, in una esperienza sensoriale unica, in un ascolto da suggerire a nipoti, parenti, amici, colleghi e vicini di casa. L’album  è bellissimo davvero. La zia con la musica non scherza. Ma ciò che fa la differenza è sempre lui: il cantante col rubino in bocca.

Nel luglio di alcuni anni fa eravamo tutti ad Alassio,  io e la zia stavamo camminando dopo cena sul lungomare, quando da un pianobar abbiamo sentito qualcuno intonare  “If you don’t know me by now” . La zia mi ha preso per mano e, cambiando direzione rispetto alla passeggiata che stavamo facendo, ha cominciato a spostarsi verso l’edificio dal quale proveniva la musica. Quando siamo state nei pressi del pianobar lei, con gli occhi lucidi e le guance rosse, ha individuato un muretto di fronte al locale dal quale uscivano le conosciutissime note. Ci siamo sedute sul muretto, non c’è stato nessun bisogno che mi spiegasse per quale motivo eravamo lì. Sono anch’io cresciuta con questa storia del rubino rosso incastonato nel dente.  Vicino a noi c’erano sedute altre persone che ascoltavano incuriosite lo spettacolo. Eravamo posizionati tutti in fila sul muretto, come tanti parassiti perché si sentiva benissimo e non si pagava nulla.
Ci siamo messe a guardare chi stava cantando. Era un ragazzo moro, piccolo, sorridente. Suonava la tastiera e contemporaneamente cantava.
La zia lo ha ascoltato un po’ e poi ha scosso la testa. “Sta rovinando la canzone” ha detto.
Subito dopo si è sfilata i sandali. Da uno dei due è uscito un piccolo sasso e la zia ha detto:
“Ecco perché sentivo male a un piede”.
Eppure per arrivare vicino al posto dove era situato il pianobar avevamo fatto una bella camminata, ma quando le era entrato quel sassolino nella scarpa?
“Zia ma quando ti è entrato il sasso nella scarpa?”
“Prima” mi ha risposto … ma prima quando? Non si sa.
Poi si è alzata dal muretto, mi ha preso per mano e ha cominciato ad allontanarsi dal posto dove eravamo sedute.
Allora le ho chiesto  a bruciapelo: “ Ti piacerebbe sposare  Hucknall?”
“No” mi ha risposto “Mi piacerebbe sposare la sua voce”.
Ma in realtà questo lei lo ha già fatto da molti anni e non se ne è proprio mai pentita. Evviva la “rossità”  indiscussa di questo cantante, le piace da matti.

SCHEI
Yes we can? No, we can’t: il mito della meritocrazia

Yes, we can è stato un cavallo di battaglia della retorica progressista che ha poderosamente accompagnato l’ascesa di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Intendiamoci, non ho la minima intenzione di accostare la sua figura, le sue idee e il suo tipo di comunicazione al profilo di Donald Duck Trump. Parto però da quel messaggio  pieno di fiducia nelle proprie possibilità che ha rappresentato la parola d’ordine della campagna di raccolta del consenso dell’avvocato di colore, partito da una vecchia Fiat Ritmo ed arrivato ad occupare per due mandati la poltrona della Casa Bianca, e che conosce ora il curioso contrappasso privato della depressione di Michelle Obama. Poi leggo un paio di articoli di Vittorio Pelligra, professore sardo di politica economica, che su Ilsole24ore affronta il tema della meritocrazia da una prospettiva anticonformista, e non posso fare a meno di guardarmi intorno. Intorno è pieno di persone e di vicende che smentiscono il racconto ottimista sulla possibilità di farcela con le proprie forze.

Mi guardo intorno e trovo, nell’analisi dal meritorio taglio divulgativo del professor Pelligra, la desolata conferma della ragione di tante storie di difficoltà sociale ed esistenziale che non trovano riscatto. Un ingegnere civile senegalese che fa l’ambulante tutta la vita, vendendo collanine ed elefantini portafortuna; un professore di inglese nigeriano che vende, da decenni, fazzoletti da naso agli avventori dei bar del centro; un professore di fisica siriano che svuota cestini della spazzatura per una ditta di pulizie. Sono esempi didascalici dell’irragionevole euforia contenuta nel messaggio “volere è potere”, pur nell’accezione politicamente corretta e screziata di lotta collettiva dello storytelling obamiano (e prima blairiano e poi renziano). Tuttavia, conosco l’obiezione. Questi sono esempi orizzontali, troppo schematici, sporcati dalla nazionalità di provenienza del venditore di accendini di turno. Potevano stare a casa loro, dove credevano di venire a stare, cosa pensavano di trovare?

Passiamo allora agli italiani. Prima gli italiani. Gli esempi verticali, in effetti, sono molto più interessanti. Un sociologo padano purosangue che deposita buste nelle buchette della posta di un paesello sull’Appennino; un laureato in filosofia che consegna pasti a domicilio in bicicletta; un dottore in archeologia che vende polizze assicurative ed è pagato a provvigione. Verticali perché? Perchè riguardano la popolazione indigena, e in questi casi per il blocco dell’ascensore sociale, che può durare tutta la vita lavorativa, non si può accampare la scusante della nazionalità, dell’ essere nati nella parte sfigata del mondo, dell’andare a cercare fortuna altrove che può incorporare il rischio di non trovarla mai. No. Qui parliamo di italiani scolarizzati. Ormai anche una laurea in discipline economiche o giuridiche non garantisce più uno sbocco coerente, nonostante la nostra sia la società del “pensiero calcolante” per dirla con Galimberti (e ancora prima Heidegger) e preferisca quindi chi si è specializzato nello studio del saper calcolare qualcosa.

Il mito della meritocrazia ha prosperato soprattutto a sinistra. L’art.3 della Costituzione italiana, al secondo comma, recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E’ il principio di uguaglianza sostanziale, estensione del principio di uguaglianza formale: se non hai pari condizioni di partenza, non hai pari opportunità. Però – dice la Costituzione – la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali per diminuire il divario di condizioni di partenza e quindi trasformare le dispari opportunità in occasioni pari per tutti. Dice anche un’altra cosa bellissima, all’art.34: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Eccola lì la parolina magica: il merito. Anche se sei privo di mezzi puoi arrivare in vetta, se te lo meriti.

Come fai a meritartelo? Una buona definizione del “merito” potrebbe essere: una combinazione di capacità e impegno. Se sono capace ed intelligente ma non mi faccio “il mazzo”, andrà più avanti di me qualcuno che se lo è fatto. Se mi impegno molto ma le mie capacità non sono eccezionali, farà più strada di me qualcuno che fatica come me, ma è più bravo. Sembra un discorso semplice, e anche giusto. In realtà il negativo di questa fotografia ha un contenuto socialmente e psicologicamente crudele: se, nonostante io pensi di essermi fatto il mazzo e di avere talento, il mondo non si accorge di me e mi lascia al palo, la colpa è mia. Sono un fallito. Ecco che il teorema meritocratico, che sembra in superficie equanime e “di sinistra”, diventa spietato quando una persona, nonostante ce la metta tutta, non “arriva”.

In Inghilterra Michael Young, scrittore, economista, progressista, lo aveva capito già nel 1958, anno di pubblicazione del suo romanzo “The rise of the meritocracy” (L’avvento della meritocrazia): la nuova società basata sul merito, frutto di una rivolta contro il sistema di istruzione classista britannico, nel suo libro finiva per accentuare le differenze anzichè annullarle. Il messaggio del romanzo non fu compreso, anzi fu equivocato, tanto che nel 2001 Young approfittò dell’ospitalità del Guardian per chiarire che chi aveva letto il suo romanzo in chiave ottimistica non aveva capito niente, perchè la società basata sul merito condannava all’emarginazione economica e sociale, anzi esistenziale, i “non meritevoli”.

Cosa c’è di sbagliato quindi nella meritocrazia? Le assunzioni di base. Cito testualmente il pezzo di Pelligra perchè lo dice benissimo: “Al fondo (la meritocrazia) si basa su due assunzioni, verosimili, ma false entrambe: la prima, che i meriti individuali siano evidenti, facili da identificare, classificare – tu più, tu meno – e da ricompensare. La seconda, falsa anch’essa, che il mercato, e, più in generale, la logica della competizione, sia il meccanismo più efficace nel riconoscere e premiare tali meriti”. La prima assunzione è falsa perchè la classificazione del merito si fonda su un criterio meramente “quantitativo”: quanti prodotti vendo, quanti risultati oggettivi porto. Sotto questo profilo è paradigmatico il caso dei carabinieri della caserma di Piacenza, premiati per il numero di arresti compiuti, salvo poi scoprire che questi arresti si basavano su un giro di minacce e confessioni estorte di cui la caserma costituiva la cupola. La seconda assunzione è ugualmente falsa: la logica della competizione infatti non è neutrale, perchè dipende sempre quale deve essere il traguardo di questa competizione. Se il traguardo è un valore deteriore, torniamo al punto di partenza.

Tra l’altro, in una società che non si è impegnata per inverare l’art.3 della Costituzione, e che di ostacoli economici e sociali ne ha rimossi pochi, mitizzare il merito finisce per far apparire chi lo celebra come classista, e per consegnare alla destra le moltitudini di persone che proprio questo miscuglio di mercato quantitativo e diseguaglianze di partenza ha reso scarti sociali, esclusi da posizioni di potere o privilegio o semplice dignità, pieni di rancore e risentimento proprio verso coloro che storicamente li dovrebbero rappresentare, e che invece ne certificano la (giusta, secondo un criterio meritocratico) emarginazione.

Forse qualcuno ha pensato che la meritocrazia fosse l’alternativa all’aristocrazia. Ma ancora oggi, chi ha accesso alle università migliori? Ancora oggi, chi riesce ad occupare i posti migliori? Ancora oggi, quale è il peso delle relazioni familiari, che ognuno di noi eredita come un patrimonio genetico? Sono tali e tante le variabili che sporcano il percorso, che drogano la corsa, che mitizzare la meritocrazia diventa un travestimento della riproduzione familistica della classe dirigente. Mi è impossibile non tornare a citare il prof. Pelligra: “Il problema, allora, non nasce quando desideriamo che la persona più capace diventi il neurochirurgo che vorremmo ci operasse nel caso ne avessimo bisogno, ma quando l’ideologia meritocratica rende più probabile, per il figlio di quel chirurgo, diventare quello stesso neurochirurgo per qualcun altro e quando questo, di conseguenza, rende più difficile ai figli di altri, indipendentemente dalle loro capacità, provare a diventare quello stesso chirurgo e, che, infine, questi privilegi ereditari vengano giustificati sulla base dei concetti di merito e demerito.”

Portando alle estreme conseguenze questo mito e rivestendolo di una “moralità” paracalvinista, che cosa ce ne facciamo dello Stato Sociale?  I capaci e meritevoli sono quelli che le cure e l’istruzione se li possono permettere, perchè gli schei che guadagnano sono il giusto premio per i loro sforzi e talenti. Gli altri, che si arrangino. In fondo, non se lo sono meritato. Bella idea di sinistra, non c’è che dire.

A questo punto si aprirebbe un fronte formidabile, per chi avesse la voglia di combattere. Cambiare il paradigma del merito. Rendere meritevole il lavoro di chi accresce il benessere collettivo, di una comunità che non sia la propria famiglia, il proprio azionista, il proprio amministratore delegato. Premiare coloro il cui lavoro porta un miglioramento sociale, collettivo, quando oggi il premio va a chi porta un plusvalore privato, individuale, riservato a pochi. Essere capace di far guadagnare, col proprio lavoro, dieci milioni di euro ad un CEO, non dovrebbe essere premiato quanto essere capace, col proprio lavoro, di alleviare le sofferenze degli anziani e dei malati di tutta una comunità. Invece attualmente è proprio il contrario: chi alimenta un profitto smisurato destinato a pochi viene “premiato”, chi contribuisce al benessere collettivo viene ignorato o addirittura bastonato (pensiamo ai lavoratori della sanità e della cura dei fragili). La sostituzione del premio al valore di mercato con il premio al valore sociale del proprio lavoro è una sfida che dovrebbe essere in cima all’agenda di chiunque affermi di lavorare per il progresso sociale.

The Autumn Stoned

Un’altra bella settimana se n’è andata, un’altra bella settimana che ci ha dato tante cose stupefacenti e più o meno imprevedibili.
Perché in fondo, chi avrebbe mai pensato che l’autunno sarebbe tornato a farci visita?
Chi avrebbe mai previsto che la Juve ne avrebbe fatta un’altra delle sue?
Chi avrebbe mai ipotizzato che il sì al referendum avrebbe acchiappato il 70%?
Ma soprattutto: chi avrebbe mai immaginato che Mauro Corona avrebbe sbroccato in diretta alla tv di stato dando della gallina a Bianca Berlinguer?
Io certamente no, e sfido chiunque altro a rivendicare le proprie scommesse su questa quaterna fenomenale.
Adesso di settimana ne inizia un’altra e io so già che ci possiamo aspettare anche di meglio, soprattutto in un anno come questo 2020.
Tutto proseguirà regolare, tranquillo proprio come quest’anno.
Buona settimana e cordiali saluti.

The Autumn Stone (The Small Faces, 1969)

DIARIO IN PUBBLICO
Ce l’hai la tessera?

Lentamente risorgo dai guai fisici per testimoniare questi momenti di funzione pubblica che, come già era accaduto in passato, ancora adesso, nonostante i cambi di amministrazione e altro, ripropongono l’immagine di “Ferara, stazione di Ferara” secondo l’antica abitudine.

Mi accorgo all’ultimo momento che la tessera elettorale è esaurita; quindi disciplinatamente il lunedì mattina prendo il taxi e mi dirigo all’Ufficio elettorale, dove da una parte stazionavano i richiedenti del documento e dall’altro si allungava una lunghissima fila dell’ufficio immigrazione. Esce il vecchietto disciplinatore degli uffici a cui bisogna rivolgersi e con aria seccata fa entrare due di noi e li indirizza a sinistra su per la scala. Ubbidiente mi accingo a salire i gradini e contandoli mi accorgo che sono 50! Sono appena reduce da una colica renale, ho un’età di diversamente giovane, perciò non era forse dovere indicare l’ascensore per scalare il piano? Inutile. Bocche cucite! A questo punto esplode la mia rabbia e all’annoiatissima impiegata, che mi guarda con disprezzo, urlo la mia indignazione. Silenzio. E, dopo avermi sbattuto il certificato nuovo, mi affida ad un altro burbero in camicia bianca, che si degna di accompagnarmi all’ascensore e farmi scendere. Inutile protestare dicendo che, al di là di ciò che mi serviva, la tessera era il documento necessario per esprimere la mia volontà democratica: ciò per cui mi sono battuto tutta la mia vita civile. Mentre uscivo ironicamente esprimo il mio ‘grazie’ per avermi aiutato a recuperare il documento. Il vecchietto soddisfatto mi risponde “ non c’è di che!”. Finalmente tronfio di avere i documenti prendo il secondo taxi e mi reco al seggio, naturalmente vuoto, con i giovani scrutatori ansiosamente pronti a esprimere al meglio il proprio dovere e compito, tra mascherine, lavaggi delle mani e distanziamento.

E nella mattina piena di sole m’avvio a piedi a casa, scrutando se dalla casa del nipote medico si avvertano segni di presenze animali, o se nel breve percorso ancora riconosco i pelosi della zona.

I risultati elettorali mi procurano una certa curiosità, non tanto per l’evidente tenuta del governo di alcune regioni-chiave che sembravano definitivamente perdute, quanto per l’oculatezza con cui i cittadini hanno votato. Un brivido mi coglie, quando penso come la Toscana potesse disconoscere la sua identità di sinistra. E non certo per Giani, che ben ho conosciuto e che trovavo eccessivo nelle sue spacconate anche in tempi lontani. Puoi dare fiducia a chi si è gettato per anni la notte di Capodanno dal ponte Vecchio in Arno per cosa? Ma al di là del mediocre Giani, quel che ha retto è stata la fondamentale supremazia del rosso in quella regione. L’avessimo persa sarebbe stato non grave, ma gravissimo. Almeno per me. Poi mi accingo a passare le lunghe ore a sentire i soliti noti a sproloquiare, a commentare, a giudicare. E le nottate con Mentana, Vespa, la Berlinguer, la Gruber, per citarne alcuni che ripetono all’infinito ciò che avevano enunciato domenica e ora mercoledì continuano a ripetere .

Nel frattempo arrivano decine e decine di libri su e di Pavese, che mi aiuteranno a pensare come attuabile la trasferta a Parigi in ottobre alla Maison d’Italie, l’ambasciata italiana, per degnamente commemorare i 70 anni della morte di Cesarito. In questo duro lavoro sono aiutato dall’altro pavesiano di ferro: Fiorenzo Baratelli che mi ha promesso di sollevarmi a prendere l’impresa. E non sarà facile rimuovere e collocare in scaffali atti all’uopo le centinaia di volumi. Ma già l’ho premessa che quella mèsse sarà un giorno tutta sua.

Infine una notizia importante mi comunica gioia e fiducia. La storica dell’arte Barbara Guidi, operativa a Ferrara, ha vinto la direzione del Museo Civico di Bassano. Una scelta tutta meritatissima, che stringerà sempre di più i rapporti tra Ferrara e Bassano, nell’imminenza delle celebrazioni del Centenario di Canova, che rappresenterà per me – se lo raggiungerò – il punto di arrivo del mio impegno sull’artista, in atto da più di 30 anni. Chissà.

E mentre riguardo il bellissimo numero di Studi Neoclassici che è ora in composizione quattro nomi mi ritornano in mente: Antonio, Cesare, Elsa, Giorgio.

I miei eroi di una vita.

PER CERTI VERSI
Amazzonia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
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AMAZZONIA

E’ difficile
Portare il cuore
Dove manca
Ci vuole tanto fiato
Lungo respiro
Un fazzoletto
Per le lacrime
Il ghiaccio in tasca
Per sopportare
Per reggere
Lo scempio
Vedere bruciare
Il nostro polmone
Quella foresta
Divorata dalle fiamme
Dalla arsura
Del crimine di stato
Dalla smania degli affari
E la strenua difesa
Dei suoi abitanti
Amazzonia

ITALO BALBO TRASVOLATORE IN MOSTRA:
la storia ridotta ad agiografia

Spiace, ma ahimè non sorprende, riscontrare una continuità di scelte e di temi fra la passata amministrazione di centro sinistra, guidata dal sindaco Tagliani, e quella attuale di centro destra retta da Alan Fabbri. Molti potrebbero essere gli esempi; mi limito a riproporre un argomento che non dovrebbe essere motivo di discussione, ma che invece continua ad essere tristemente attuale.

Nel 2013 l’Amministrazione Comunale bandì un premio, intitolato Riconoscimento Quilici, con l’intento di valorizzare e proporre come modello ai giovani ricercatori la figura di un antisemita esaltatore e propugnatore delle leggi razziali. Lo strumento fu l’Istituto di Storia Contemporanea, che avvallò con la sua autorevolezza scientifica una scelta che si poteva solo condannare.

Lo stesso Istituto si presta, ancora una volta, a giustificare e a promuovere la annunciata esposizione dedicata ad Italo Balbo trasvolatore.

L’operazione è sofisticata: si astrae un singolo episodio dalla carriera di un violento organizzatore dei fasci, responsabile, nelle nostre campagne, di distruzioni, incendi, assassinii, gerarca fascista e uomo del regime: se ne esalta la positività e si lascia che questa faccia opinione e contribuisca a quella opera di revisione del giudizio morale che non può essere accettata.

Nessuno vuole chiudere o impedire la ricerca storica, ma questa si fa non con esposizioni agiografiche, a partire dal tema, costruite con il materiale fornito dalla famiglia, ma con la ricerca, con convegni, con pubblicazioni che collocano i singoli episodi all’interno di un contesto. Lo attesta l’ampia bibliografia esistente.

Italo Balbo non ebbe il coraggio di dissociarsi pubblicamente dalla promulgazione delle leggi razziali e ne fu oggettivamente complice; tanto più grave la sua adesione in quanto, personalmente, non era antisemita come testimonia la amicizia con il Podestà Ravenna. Riproporne la figura in  termini positivi senza che le istituzioni vogliano rendersi conto del significato eversivo della proposta, senza che vi sia pubblico e diffuso dissenso, è triste segno di tempi che non fanno bene sperare, che si prospettano poco civili.

Cover: Tratto da Wikipedia commons: Monumento aos Heróis da Travessia do Atlântico , de Ottone Zorlini (1891-1967), em São Paulo, Brasile – fundo editado (sfondo modificato)