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Arriva oggi in tutte le librerie (reali e virtuali) il primo romanzo del nostro Stefano Muroni, fresco di stampa per i tipi di Pendragon. E’ un grande piacere anticipare per i lettori di Ferraraitalia alcune pagine del volume. Un  grazie a Stefano per aver pensato a noi.
(La redazione)

II

Pensare che di lui non ci sia rimasto più niente, questo fa male.

Né una camicia, un paio di pantaloni, o il barattolo della brillantina che adoperava ogni mattina per prepararsi. Né una lettera scritta prima della fine di tutto. Anche una foto in più – a parte quelle in posa, di rito, prima di ogni battaglia – per vederlo in altre situazioni: che so, quando era in campagna da bambino, o la prima comunione, oppure quando divenne operaio alla Ceretti, o una foto con gli amici, quando già guadagnava bene. Non una cintura, una pacchetto di sigarette. Neanche la casacca del Tresigallo Calcio che usava durante gli ultimi allenamenti in bonifica, nei freddi mesi del 1944, quando era ritornato al Cimabue per scampare dai bombardamenti su Milano.

Un suo pensiero di vita, un suo concetto, un suo modo di dire.

Nemmeno una registrazione della sua voce è rimasta.

È scomparso tutto – di lui non resta niente – e nemmeno ce ne siamo accorti. Forse un parente da qualche parte nel Nord Italia ancora c’è rimasto.

D’altronde aveva una sorella e molti fratelli. Questi certamente avranno vissuto più a lungo, avranno portato più avanti il loro filò su questa terra, magari innamorandosi di qualche brava ragazza o giovane signorino, dando vita a qualche figlio, tirando su famiglia e lavorando sodo in qualche fabbrichetta di Milano – perché alla fine i Fadini hanno sempre bazzicato Milano e dintorni, mai Torino. E chissà se a quei figli – i nipoti di quel sognatore – avranno raccontato tutta la storia, da cima a fondo.

Dal paese di origine al tesoro scoperto dal nonno. Da quella ricchezza improvvisa fino alla miseria più nera, che costrinse il vecchio Angelo, suo padre, a trasferirsi in bonifica, per cercare un posto qua e là, fra una corte e l’altra, a qualsiasi prezzo e a qualsiasi condizione, pur di racimolare qualcosa a fine giornata, e garantire un pasto caldo alla moglie, alla sorella, e a quei sei figli che, fra il 1918 e il 1927, avevano fatto la loro comparsa in questo mondo marcio. Senza contare Nelly.

Certamente in bonifica non c’è rimasto più nessuno. Non solo di loro, dei Fadini, ma anche di tutti gli oltre mille e cinquecento indigeni che lì avevano fatto la ricchezza della Società bonifiche terreni ferraresi, la sBTF, che da fine Ottocento, in queste zone dimenticate dell’universo, aveva prodotto sviluppo e prosperità, sulle spalle dei contadini e su quelle delle donne, che qui restavano per quasi tutto l’anno disoccupate.

Eravamo agli inizi del secolo, eppure da quelle parti c’era la schiavitù più nera, quella seria, quella dei faraoni, nemmeno quella del caporalato. E dai primi giorni in cui la famiglia dal Veneto si trasferì nel Basso Ferrarese, zona di bonifica, non è passata notte in cui zia Jole non avesse versato qualche lacrima nella stanzetta che stava sopra, al primo piano dalla parte che si affacciava sulla campagna, dove i tecnici avrebbero poi speri- mentato le prime risaie. E anche la moglie di Angelo, che aveva smesso di parlare – rimase in silenzio per quaranta giorni – non riusciva a crederci, a darsi pace.

«Questo è l’inferno» mugugnava la notte, a bassissima voce, ripensando a quanto stavano bene lassù, oltre Po, a Casa Leone, tra la loro gente.

Ma le cose non sono fatte per restare. Di questi sentimenti, di questi spostamenti tra un villaggio e un altro, a oggi non resta altro che qualche carta ingiallita in qualche Comune o anagrafe della Bassa Padana. E quando vai a fare ricerca verso Arcore – perché lì il ragazzo è sepolto – trovi degli omonimi, gente che ha il suo cognome, ma che non c’entra nulla con la sua razza. Sono tutti milanesi da generazioni, mentre lui era ferrarese, di padre veneto e di nonno mantovano. Pure

sua mamma, l’Annetta, era veneta, di Melara, provincia di Rovigo.

Se è vero che di lui nessuna cosa è restata – nemmeno i suoi calzoncini, o uno straccio di cravatta che aveva iniziato a mettersi per le foto dei giornali – è pur vero che, anche se è morto da settant’anni, di lui ancora si parla.

Anteprima da: Stefano Muroni, Rubens giocava a pallone, Pendragon, 2021, Capitolo II, pp. 19/21

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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