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Victor Stoichita

Da sempre leggo Victor Stoichita, ben prima che venissero pubblicati dal Saggiatore i suoi Breve storia dell’ombra, L’invenzione del quadro, Effetto Sherlock… Lo sanno bene alla libreria Tschann del Boulevard du Montparnasse che mi ha procurato i suoi libri di storia dell’arte in francese nelle edizioni del ginevrino Droz, del parigino Hazan
Non poteva quindi sfuggirmi nel 2014 un libro, Oublier Bucarest, che parlava di lui, della storia di una straordinaria giovinezza trascorsa in un paese oltre cortina, né era possibile evitare oggi la tentazione di rileggere quel libro nell’edizione italiana appena uscita per i tipi del romano Bordeaux.

A colpirmi, di primo acchito – né poteva essere diversamente – è il mutamento del titolo, che mentre continua a sottolineare il genere autobiografico (un récituna storia), accentuato dall’aggiunta di un elenco dei personaggi di cui si precisa il rapporto strettissimo con l’autore, ristabilisce un legame (Ritorno a Bucarest) con un paese che l’edizione francese di Actes Sud pareva in qualche modo mostrare interrotto (oublierdimenticare). O meglio, segnato da una necessità di distacco, difficile ma necessaria per riuscire a crescere e a scegliere una vita diversa altrove.

Giacché poi solo di Bucarest e della Romania queste pagine parlano, raccontando la storia di un’infanzia, di un’adolescenza, di una prima giovinezza passate nella capitale dell’antico Regno o sulle rive del Mar Nero in una famiglia dalla straordinaria cultura letteraria e musicale nella quale i più ‘normali’ sono ex-professori di liceo, mentre gli altri insegnano (o insegnavano) nelle università, sono medici e ricercatori di fama, avvocati, scrittori, deputati, principi, pour cause incorsi nelle persecuzioni del regime o incarcerati con motivazioni incomprensibili.
Una famiglia nella quale si conosce il latino e si parlano tutte le lingue (il rumeno, ovviamente, ma anche il francese, il tedesco, l’inglese, alle quali il nostro protagonista aggiungerà precocemente lo spagnolo e l’italiano), si suonano pianoforte e violino, si conosce la storia, muovendosi poi nel mondo esterno con la spensieratezza del carattere o dell’età e la prudenza necessaria per sopravvivere. C’è pure, da parte di una zia Margot, amica di Marthe Bibesco, una visita all’atelier di Brancusi e un incontro mancato di poco con Proust, a causa del ben noto timore del grande Marcel per i profumi delle signore.

È un ambiente, quello di cui Stoichita ci parla, nel quale si respira l’aria delle grandi capitali europee (soprattutto Parigi), con la raffinatezza e l’intelligenza conseguenti (persino nella convinzione che solo una linea sottile separa il puro e l’impuro), nonostante che gli interni nei quali si svolge l’azione siano prevalentemente quelli di un appartamento di stato dove in spazi ridotti (e perfino, in casi estremi, materassi condivisi) sono costretti a vivere più nuclei parentali dell’aristocrazia decaduta e della medio-alta borghesia a cui sono stati confiscati e nazionalizzati i beni con l’accusa di essere “nemici del popolo”.
A cui soprattutto, come a quanti non obbediscono alla logica del potere e della delazione, continua a essere preclusa la possibilità di libere scelte e il diritto di coltivare abilità e vocazioni. Eppure tutti, a diversi livelli, vivono nelle difficoltà con dignità ed equilibrio e con la convinzione che nulla si ottiene senza disciplina.
Colpisce la capacità in particolare dei giovani (Victor, Adrian, il fratello con l’orecchio assoluto costretto a rinunciare alla musica) di ritagliare momenti di vivacità e spensieratezza nella grigia vita di un paese dell’Est (popolato verso la metà degli anni Sessanta anche dai ‘fantasmi’ dei sopravvissuti dei Gulag) dove perfino gli atlanti sono stati normalizzati dal comunismo imperante. Un mondo nel quale la lettura dei classici e dei romanzi di cappa e spada, combinata a una buona dose di fantasia, può alimentare miti di eroismo e riscossa, di ribellione e di fuga, ma anche di colpa e rimorso: si pensi a Victor ragazzino (pungash, birbante, monello) che scappa di casa per seguire gli zingari, che scambia con un compagno un topolino con delle lamelle di chewing gum o grida all’aria “Viva Lagardère”.

Anzi, gli impedimenti (basti ricordare la “nota sociale” che sottraeva punti nelle votazioni ai giovani provenienti da famiglie borghesi rendendo loro difficile la prosecuzione degli studi) fungono da propellente, motivano l’accresciuto impegno, la ricerca di libri introvabili sulle bancarelle, il reperimento di trattati vietati fotocopiati di straforo; abituano (per salvare quanto non rientra nell’etica del realismo socialista) a sfumare i fatti della storia e della cultura, ovvero a predisporsi a esibire una seconda verità in caso di necessità, per salvare il possibile della sapienza del passato. Spingono insomma a imparare per sapere sempre di più, del pubblico e del privato. Anche della musica canticchiata nelle carceri da un nonno visto per troppo poco tempo, o dei testi del grande rinascimento inglese e della filosofia insegnati in prigione ai compagni di cella da un grande studioso.

Il libro comincia come un film, o una fotografia in bianco e nero (per altro a contrasti netti, in bianco e nero, sono i rapporti possibili marcati sulla scacchiera del Potere) che ricorda quella di Una famiglia di Ettore Scola. Ma d’altronde dall’autobiografia di Stoichita un regista talentuoso riuscirebbe sicuramente a trarre un bel film.
Tutto inizia nel 1956, con una ‘festa’ che accompagna l’anno della destalinizzazione sancita dal XX Congresso del partito comunista sovietico e la rivoluzione ungherese (con relativa illusione di mutamenti), e si chiude nel 1968, quando i carri armati sovietici, entrando a Praga, uccidono ogni residua speranza di libertà e indipendenza nei paesi che il patto di Varsavia collocava a forza nell’orbita d’influenza sovietica.
Prima e dopo questi avvenimenti che hanno segnato la storia, si ripetono per i nostri personaggi i riti dei paesi a libertà limitata: l’attenzione a non suscitare invidie e gelosie, l’abitudine a nascondere i sentimenti, l’ansia per la difficoltà di ottenere un passaporto (sempre a rischio, e per cervellotiche ragioni, di revoca) e il dover risolvere il dilemma, che si fa imperativo alla fine del liceo, tra fuggire (ovvero passare in un altro paese) e restare (ovvero fermarsi in un paese per cui si è avuto un qualche visto a termine). Che poi, come ben si capisce, è dilemma solo nominale se in ogni caso, una volta presa la decisione, il risultato è sempre quello del non ritorno.

Insomma fuggire-partire-restare strappandosi dalla famiglia, dagli amici, da una terra amata, imponendosi di dimenticare tutto quello che si potrà davvero frequentare di nuovo (in primis il proprio passato) solo a distanza di decenni, e in qualche modo da lontano, attraverso la scrittura. Ritornando così a una Bucarest perduta, abbandonata, per non dover passare le estati a lavorare nei campi o a fare il muratore (secondo l’imposizione del regime), e per poter dare un futuro al sogno di decostruire le immagini e le segrete geometrie alla maniera di Barthes e Foucault, per tentare di diventare archeologo sottomarino, o meglio (stando a quello che poi è successo) di studiare l’iconologia e il significato delle arti visive alla maniera di Panovsky, di vedere e guardare anche grazie all’ausilio della filosofia e delle poetiche quel che è nascosto, divenendo uno dei più grandi storici e critici d’arte che abbiamo oggi in Europa.

“Esiliato all’estremità del mondo languivo”, così Ovidio, letto in solitudine mentre il desiderio della lontananza si mescola all’angoscia della lontananza, la speranza della partenza alla paura della partenza, la forza della conoscenza al timore per la debolezza della conoscenza, e si fa sempre più acuta la consapevolezza che solo la volontà e la cultura possono aiutare a tentare quanto sembra impossibile. Irraggiungibile come un salto in lunghezza di più di cinque metri dopo mesi fuori allenamento che permette di superare un concorso; o il resistere al potere carismatico della folla grazie a quanto si è imparato dai libri di Max Weber e Norbert Elias.

Se il tremore nello scoprirsi tra i dieci ammessi alla facoltà sperata, i 100 lei deposti ai piedi della statua di Sant’Antonio, un colloquio con la madre protetto dallo scorrere dell’acqua in una stanza chiusa per evitare la possibilità delle microspie, il rischio di finire sotto un tram pensando a una borsa di studio e a un passaporto forse finalmente ottenuti, un oggetto misterioso che appare e scompare sul fondo del Mar Nero ripescato in apnea durante una plongé, la soluzione di un quesito difficile che arriva dalla memoria fotografica delle pagine di un libro dimenticato, il misterioso vaticinio di una zingara…, appartengono a una storia personale che affascina e colpisce per l’indubbia eccezionalità, le pagine conclusive del libro che raccontano come un regime in crisi (quello di Ceausescu nel ’68) possa cercare la propria legittimazione dalla folla proponendosi come capace di risolvere la crisi e di difendere un popolo dinanzi a un pericolo estremo ci insegnano come sia stato e sia sempre importante saper riflettere sugli avvenimenti politici evitando facili isterismi, guardando con sospetto soluzioni che orientano la ‘massa ondeggiante’ alla legittimazione di un capo.

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Anna Dolfi

Anna Dolfi, professore emerito dell’Università di Firenze (dove ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana moderna e contemporanea), è Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei. Tra i maggiori studiosi di Leopardi, di leopardismo, di ermetismo, di narrativa e poesia del Novecento, ha progettato e curato volumi di taglio comparatistico dedicati alle “Forme della soggettività” sulle tematiche del journal intime, della scrittura epistolare, di malinconia e malattia malinconica, di nevrosi e follia, di alterità e doppio nelle letterature moderne, e raccolte sul tema dello stabat mater, sulla saggistica degli scrittori, la riflessione filosofica nella narrativa, il non finito, il mito proustiano, le biblioteche reali e immaginarie, il rapporto tra notturni e musica, letteratura e fotografia, ebraismo e testimonianza. Dopo due libri su Tabucchi (“Antonio Tabucchi, la specularità, il rimorso”, 2006; “Gli oggetti e il tempo della saudade. Le storie inafferrabili di Antonio Tabucchi”, 2010), ha curato per la Feltrinelli l’ultimo, postumo libro di saggi dello scrittore (“Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema”, 2013). Su Bassani imprescindibili i suoi libri che ne leggono l’intera opera alla luce della malinconia e delle strutture e proiezioni dello sguardo (“Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia”, 2003; “Dopo la morte dell’io. percorsi bassaniani ‘di là dal cuore'”, 2017). A sua cura l’edizione critica e commentata delle “Poesie complete” di Bassani (Feltrinelli, 2021).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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