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IL FATTO
L’incesto e il reato

È stata diffusa in questi giorni, non senza alcune imprecisioni giuridiche e terminologiche, che il Consiglio Etico tedesco (Deutscher Ethikrat) avrebbe “depenalizzato” l’incesto: più precisamente, “le relazioni consensuali tra fratelli adulti.”

A ben vedere, il Consiglio Etico si rivolge ad un caso ben preciso (come l’unione matrimoniale e sessuale tra fratelli che hanno vissuto separati dalla nascita o dalla prima infanzia, per poi incontrarsi in età adulta, inconsapevole l’uno della familiarità dell’altro) e propone di conseguenza una “revisione” in modo tale che quest’unione, invero rarissima, non sia punibile di principio.

Se vogliamo entrare ancor più nel particolare, il Consiglio Etico intende rivedere il paragrafo 173 del codice penale tedesco, che proibisce e punisce i rapporti sessuali tra consanguinei adulti anche quando il rapporto di parentela è “estinto” (erloschen). Al contrario, resta intonso e valido il paragrafo immediatamente successivo paragrafo 174, che proibisce e punisce i rapporti sessuali così come anche solo il tentativo di compiere simili atti con minori vincolati da rapporto di parentela (naturale o acquisita).

In altri termini, il Consiglio Etico non “depenalizza” l’incesto bensì si interroga sulla validità del paragrafo 173 e solleva il legittimo dubbio se questo, in linea di principio, non contraddica gli Art 7-9 della Carta dei diritti dell’uomo europea che stabiliscono, in particolare, che “Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle
sue comunicazioni” (Art 7) e che “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio” (Art 9).

La preoccupazione del Consiglio Etico è soprattutto di carattere teorico e può venire riformulata in questo modo: poiché il paragrafo 174 del codice penale proibisce e punisce già ciò comunemente si intende per “incesto,” ovvero il rapporto sessuale con minori, sia in condizioni di apparente consenso e tanto più in condizioni di costrizione, c’è da chiedersi quale sia la rilevanza del paragrafo 173 che estende questa proibizione anche ad adulti consenzienti persino in caso di estinzione del legame giuridico di familiarità e se questo invece non contraddica le leggi fondamentali dell’uomo.

Dal punto di vista prettamente giuridico, mi trovo d’accordo con questa delibera del Consiglio Etico, forse trascinato da argomentazioni e cavilli talmudici in cui mi sento particolarmente a mio agio e che ben affrontano tematiche incestuose (per i più coraggiosi, rimando a questo testo).

Più problematiche sono piuttosto le motivazioni collaterali che il Consiglio Etico espone nel corso delle sue varie comunicazioni con il pubblico e con le quali intende motivare ulteriormente la non punibilità di una relazione incestuosa nei termini sopra indicati (tra adulti consenzienti anche qualora il vincolo familiare sia estinto):

1. lascia perplessi l’affermazione che l’“orrore dell’incesto” (Inzestscheu, un termine freudiano) sia di per sé così forte da essere un tabù sociale, per cui l’“incesto” non rappresenterebbe davvero “un problema sociale,” bensì un “sintomo di una condizione familiare già turbata” (ein Symptom bereits gestörter Familien), come sostiene il prof. Hans-Jörg Albrecht, membro del Consiglio Etico e docente presso lo Max-Planck-Institut. Tutto qui… come se cent’anni di psicoanalisi fossero passati invano.

2. non meno problematico sarebbe il cosiddetto “ruolo simbolico” del divieto dell’incesto, non originalmente sollevato da Claudia Jarzebowski, ricercatrice di Storia Contemporanea alla Freie Universität, per cui tale “valore” non sarebbe “universale” bensì suscettibile di oscillazioni e trasformazioni nel corso del tempo e nel passaggio tra culture. Tutto, qui… con buona pace, per dire, della universalità dell’incesto affermata da Rousseau e della sua raffinitissima decostruzione da parte di Derrida ne Della Grammatologia, ormai quasi cinquant’anni fa.

3. più plausibili sarebbero piuttosto le argomentazioni di Markus M. Nöthen, direttore dell’Istituto di Genetica umana a Bonn, che stabilisce come questioni di salute pubblica correlate ad eventuali relazioni incestuose non possono legittimamente venire motivate per proibire di principio l’incesto (dal momento che un simile principio contrasta con la Carta dei diritti dell’uomo e stabilirebbe anche un precedente per ogni tipo di relazione sessuale). Si tratta tuttavia di un argomento debole, sicuramente secondario rispetto alla preoccupazione teorica di cui sopra (il contrasto tra il paragrafo 173 e la Carte dei diritti dell’uomo). Tra l’altro, il riferimento al principio di sanità sembra poco convincente proprio perché è quello che porta a tassare prodotti dannosi per la salute come il tabacco, proprio perché i danni che provoca sono poi oggetto di cure da parte del Servizio sanitario nazionale.

Concludo questa breve incursione in terra giuridica tedesca non nascondendo la mia perplessità sull’attualità effettiva di simili proposte giuridiche che assomigliano piuttosto ad un pilpul talmudico piuttosto che ad un intervento socialmente e giuridicamente rilevante: insomma, una “pietanza” giuridica molto forte, “pepata” (pilpul, appunto) che poco serve se non a lasciare con la bocca in fiamme per qualche tempo a chiedersi “perché ho mangiato una cosa così piccante?”

Scuole vincenti

Allenarsi a giocare la partita della propria vita o quella che gli altri ti impongono?
Sempre più studiare, andare a scuola è diventata una sfida, non più con se stessi ma contro gli altri.
Non bisogna riuscire solo nelle interrogazioni e nei compiti in classe, si è caricati anche della responsabilità di tenere alti i risultati ai test nazionali e internazionali del proprio istituto, della regione e del Paese che si abitano.
Finisce che per la comunità non sei più tu a contare, ma il tuo profitto, le tue performance, perché se non sei all’altezza fai arretrare tutti, arrechi un danno all’immagine del tua nazione nella competizione scolastica divenuta ormai globale.
Così il “Centro risorse per la buona scuola” – sì, proprio come da noi ora, per dire della scarsa fantasia – di Detroit ha creato il network “Champion schools”, Scuole vincenti.
Questa rete è una comunità di apprendimento professionale che collega tra loro le Scuole vincenti, fornendo ai dirigenti elementi di confronto, scambi, sfide comuni per nuovi sviluppi e nuovi successi tra pari.
Le scuole vincenti usufruiscono di veri e propri allenatori, addestrati dall’Università del Michigan. Questi ‘coach’, come si dice oggi, sono selezionati e assunti dalle scuole stesse per sostenere ed accrescere il rendimento scolastico degli studenti.
Insomma le distanze tra la scuola e un campo di calcio, tra il successo scolastico e la palla in rete si assottigliano sempre più. Del resto quante volte la metafora della partita è stata usata a proposito dello studio. Ma qui, ciò che preoccupa, è che le Champion schools ci suggeriscono come i test Oces Pisa e la World Bank siano riusciti a ridurre l’istruzione e la vita scolastica ad una forsennata corsa per occupare i posti migliori nelle classifiche scolastiche internazionali.
È questa ormai la ‘ratio studiorum’ della nostra epoca.
Per questo occorrono buoni allenatori che aiutino a massimizzare le proprie capacità naturali per vincere la partita, per essere meglio degli altri, per essere i campioni. Non si va a scuola per imparare a vincere se stessi, ma per vincere il campionato mondiale del capitale umano.
E così vale per le scuole del Michigan. Ogni scuola è responsabile del piano di miglioramento e dei risultati ottenuti, mentre l’allenatore, che come nel gioco sta ai bordi del campo, fornisce alla scuola assistenza tempestiva, consulenza competente e sostegno efficace lungo tutto il percorso.
Il Centro risorse per la buona scuola di Detroit forma il personale delle scuole affinché queste possano conseguire la certificazione di Champion schools, prepara a divenire allenatori professionali che possano aiutare le scuole a migliorare notevolmente i propri risultati.
Quando le scuole incontrano difficoltà, questi allenatori intervengono per facilitare la soluzione dei problemi, aiutano a pensare, a studiare la situazione per individuare strategie più efficaci di miglioramento.
Un allenamento riuscito deve produrre una mentalità, un insieme di abilità, di conoscenze generali per rendere la scuola competitiva.
C’è qualcosa di stonato nel piano del Centro di risorse per la buona scuola di Detroit, perché alla finalità prima di promuovere il successo scolastico di ogni alunno, si è sostituita quella di far ottenere alla scuola buoni risultati.
Così l’obiettivo di intervenire innanzitutto sulle competenze socio-emotive dei ragazzi, finisce per piegare i bisogni d’ogni singolo alunno alle necessità imposte dagli obiettivi e dai traguardi che la scuola si propone di raggiungere. Allora si ha l’impressione che l’educazione non sia più formazione, ma manipolazione per essere vincenti, una sorta di ‘doping’ psicologico in una scuola che vince perché drogata.
La preoccupazione è che anche il nostro Paese possa cedere a questa deriva della competizione mondiale.
La recente circolare del Miur sulla valutazione delle scuole non sgombra certo il campo da questa ombra. L’uso del corpo ispettivo per verificare gli esiti conseguiti dalle singole istituzioni scolastiche nei test nazionali e internazionali, e per la conseguente messa appunto dei piani di miglioramento, potrebbe preludere, di fronte all’urgenza di scalare le classifiche nazionali e mondiali, all’imboccare la scorciatoia dell’ispettore-coach, dell’ispettore-allenatore, anziché all’affermarsi di professionisti riflessivi all’interno della scuola e di una sana prassi di ricerca-azione, da noi mai praticata.
Allora dovremmo tornare a ragionare sulle altisonanti affermazioni delle nostre premesse educative, sulla centralità della persona, sulle finalità della scuola che devono essere definite a partire dall’alunno che apprende, sullo studente al centro dell’azione educativa come riportato da tutte le Indicazioni nazionali. Già la ‘Buona scuola’ del governo Renzi di studenti non ne parla, gli studenti al momento restano gli innominati utilizzatori finali, i convitati di pietra. Non vorrei che su questo il Paese finisse colpevolmente per distrarsi.

I sogni preziosi della candida Lili

L’attrazione per questa copertina è immediata, non fosse altro che per il disegno e i colori tenui che mi ricordano le favole e un ambiente delicato da bambini sereni. L’autore poi, è uno dei miei preferiti, con il suo “Neve”, parte della bellissima trilogia dei colori, che mi ha fatto a lungo riposare e sognare durante i freddi pomeriggi invernali.
Da sempre Maxence Femine rappresenta per me l’essenza della Francia delicata, della sua poesia, del suo romanticismo, della sua voglia e capacità di sognare ad occhi aperti e di realizzare anche tanti di quei sogni lontani. Questo libricino è un’autentica fiaba, ricorda delle belle e croccanti crêpes spolverate di zucchero alla vaniglia, profuma di ‘marshmallows’, di torte alla fragola, di pasticcini e cioccolatini del meraviglioso Ladurée, quelli esposti nelle scintillanti e grigio-rosa-azzurre vetrine dell’elegante e chic Saint Germain des Près, di colorati, morbidi e tondi ‘macarons’ golosamente farciti da attenti e abili pasticcieri dall’alto cappello bianco. Di zucchero filato.

Dalla copertina che ci introduce Lili con i suoi capelli neri elettrizzati e il suo vestito bianco candido (ancora il colore della neve…), ci troviamo subito immersi in una bella fiaba per bambini e adulti, accompagnati da illustrazioni di giovani talenti realizzate per un concorso organizzato dall’editore Lafon, che ha stampato il volume in Francia. Partiamo da Lili, dicevamo, la piccola mercante di sogni dal curioso tavolino colmo di scatoline che racchiudono i sogni che vende per strada, per conoscere (e adorare) subito Malo che, il 2 Novembre, giorno del suo undicesimo compleanno, sparisce nella Senna, coinvolto in un incidente del taxi che lo accompagnava alla festa per lui organizzata dai genitori in un grande e probabilmente lussuoso albergo parigino. Attraverso un misterioso e curioso oblò il bambino si ritrova, improvvisamente, in un ambiente grigio, incolore, un po’ nebbioso, il Regno delle Ombre, solo, senza rumori, senza altri esseri umani intorno a lui, attorniato da personaggi che si riveleranno strani, ombre e spettri spesso poco gentili. In questo mondo che ricorda quello di “Alice nel Paese delle Meraviglie”, Malo incontra un albero e un gatto parlanti, Arthur e Mercator, e, soprattutto, Lili, occhi color dell’oro, vestito bianchissimo, collant viola e scarpe verdi, che assomiglia molto alla sua cara amica Clarisse. Lili è l’unico personaggio colorato che Malo incontra, gli altri hanno tutti le tonalità del bianco e del nero. Lili ha con sé un tavolino ripiegabile e tantissime scatoline dai vari colori che contengono ciascuna un sogno. L’antagonista è lo spettro Dom Perlet, brutto e cattivo, come in ogni tradizione di fiaba che si rispetti, metà stregone e metà alchimista, proprietario di un grosso gatto nero e che tiene mano il destino della piccola Lili. La obbliga, infatti, a vendere i sogni (alla centesima vendita la bambina sarà libera) e maledice Malo, colpevole di aver pagato un soldo in meno per una di quelle magiche scatoline. Il bambino potrebbe anch’esso essere trasformato in uno spettro se entro l’alba non ripagasse il debito con gli interessi. Debito che diventa subito di dodici bruzoni (specie di dobloni). L’avventura consisterà nel cercare di vendere le scatole dei sogni, catturati da Lili con una retina per farfalle, prima al Clown Bianco, poi al Mago Septimius, al pittore Otto, al Barbone celeste.
Ci sentiamo un po’ su una giostra variopinta e giochiamo insieme con Lili e Malo vero il finale. Leggeri e felici ci arriveremo insieme a loro, sorridendo, quasi volando.
Maxence Fermine, “La piccola mercante di sogni”, Bompiani, 2013, 206 p.

L’OPINIONE
Italia col freno tirato.
Pensieri macroeconomici

Tentare di parlare di macroeconomia con parole semplici non è facile. Si tratta di un tema complesso, che comunque spesso viene affrontato da addetti ai lavori in cui ai cittadini rimane la sensazione continua di impotenza rispetto alle criticità che si aggravano sempre e non si risolvono mai. Bisognerebbe trovare il modo di rendere comprensibile la situazione e non solo di chiedere sacrifici. I cittadini lo chiedono. Pur avendo anche qualche titolo per parlarne, non credo di essere all’altezza, proverò dunque solo a interpretare alcuni concetti in libertà.
Non si può non partire da una certezza: l’andamento dell’attività economica ha deluso le attese di ripresa. L’economia per molti è riuscita a interrompere la fase di caduta, ma non è ancora riuscita ad avviare una fase di recupero dei livelli produttivi. Molti contavano su una ripresa della fiducia a cui però non ha corrisposto una fase di rafforzamento del ciclo economico. Questo è un punto critico, tuttora difficile da spiegare, e che rende più complessa la valutazione delle condizioni dell’economia italiana.
La stima preliminare del Pil relativa al 2014 si sta rivelando peggiore delle attese e i segnali poco incoraggianti, provenienti dagli indicatori congiunturali europei, definiscono un quadro per l’anno in corso particolarmente deludente. In realtà, il processo di continua revisione al ribasso delle previsioni è una caratteristica che ha accomunato l’intero periodo della crisi; l’economia italiana ha cioè costantemente deluso anche le attese più prudenti per diversi anni.
Il confronto Usa-Ue non aiuta. Le tendenze recenti hanno fatto emergere un ampliamento nelle divergenze fra la situazione congiunturale americana ed europea. E le distanze in termini di crescita fra Usa ed eurozona paiono allargarsi ancora. Gli indicatori della congiuntura Usa vanno infatti molto meglio di quelli europei. In America il recupero della domanda di lavoro è riuscito in tempi relativamente brevi a contrastare la disoccupazione, mentre in Europa la criticità sul mercato del lavoro è aumentata nel corso degli ultimi mesi, ma il problema c’è da anni. I dati degli ultimi periodi non sono confortanti, e non a caso la Bce si è detta preoccupata delle tendenze in corso. Forti sono i rischi che la congiuntura dell’area euro e l’aumento della disoccupazione possano trascinare l’eurozona verso una fase di deflazione. La classica relazione disoccupazione-inflazione sembra cioè rappresentare in maniera abbastanza efficace quanto sta accadendo nell’area euro. Se il sistema dovesse entrare in una fase di deflazione, la probabilità di una nuova recessione il prossimo anno si farebbe concreta. Uno dei problemi più gravi poi è dato dalla disoccupazione.
In Italia, in particolare, il numero di disoccupati continua ad aumentare e il tasso di disoccupazione è salito. L’indicatore ha toccato il suo picco nel Mezzogiorno dove ha raggiunto un quinto della popolazione, risultando particolarmente drammatico per le donne e i giovani. Purtroppo il numero di occupati è diminuito in tutti i settori economici, in particolare nell’agricoltura e nelle costruzioni, ma anche nell’industria la riduzione è rallentata, così come nel terziario. La gravità che accomuna l’andamento dell’occupazione nei vari settori è che si tratta dell’andamento peggiore che ha caratterizzato le regioni meridionali, concorrendo ad ampliare sempre di più il divario tra Nord e Sud del Paese.
Un tema sicuramente da approfondire però è che la debolezza della congiuntura italiana è in contraddizione con la relativa vivacità degli indicatori del clima di fiducia, in miglioramento per alcuni mesi, ma già in ripiegamento di recente. Se i dati sulla fiducia delle famiglie non hanno dunque chiarito l’analisi sulla divergenza fra valutazioni qualitative e comportamenti reali, invece, purtroppo, quelli sulla fiducia delle imprese hanno addirittura contribuito ad ampliare il divario.
Per questo fine anno si prospettano confermati i rischi di tensioni geopolitiche, a partire dal persistente grave rallentamento del commercio con i paesi dell’Europa dell’est. Il persistere di un freno all’export ci priverebbe dell’unica componente in grado di fornire un sostegno allo sviluppo, condizionando quindi anche le prospettive per il 2015. L’evoluzione della crisi ha già provocato una caduta delle esportazioni verso la Russia da parte delle economie dell’area euro, e nei prossimi mesi l’interscambio con l’area dell’Europa orientale dovrebbe rallentare ulteriormente per effetto dell’embargo sugli scambi commerciali. Alla crisi politica si è aggiunta ad una fase di contrazione delle esportazioni verso i paesi emergenti. A questo si aggiunge che gli indicatori congiunturali per l’Italia hanno iniziato a peggiorare, più di quelli del resto dell’area euro.
L’incertezza continua a condizionare i comportamenti delle famiglie, e questo potrebbe influenzare l’andamento del tasso di risparmio nel corso dei prossimi mesi. La previsione al ribasso delle stime di crescita per il 2014, potrebbe acutizzare anche un ridimensionamento delle prospettive per il prossimo anno.
Saranno lunghi i tempi per una riattivazione del ciclo degli investimenti degli imprenditori. Il loro obiettivo principale resterà quello di minimizzare il fabbisogno di liquidità e ridimensionare il grado di esposizione verso le banche. Ridurre i costi, ridurre i rischi, limitare le variabili.
Le difficoltà che hanno caratterizzato la nostra economia sembrano infatti riconducibili ad una particolare cautela delle imprese al momento nella definizione dei propri programmi di spesa, ma anche da parte delle famiglie. Questa prudenza è coerente con un cambiamento nei comportamenti di consumo, come si diceva, legato alla percezione di prospettive di medio termine molto incerte.
In sintesi, in Italia la crescita non riparte nonostante diversi indicatori avessero anticipato una ripresa. La probabilità di una variazione positiva del Pil quest’anno si è molto ridotta e, a meno di un’inversione di tendenza a breve, anche le stime sul 2015 la sembrano confermare. La finanza pubblica dunque risente di questo quadro macro e si dimostra distante dal rispetto degli obiettivi istituzionali, nonostante gli impegni presi. E’ allora difficile, anche con un programma di riforme ambizioso, ribaltare le aspettative di crescita. Le modeste attese di crescita condizionano le prospettive di stabilizzazione del rapporto fra debito pubblico e Pil. L’inversione del ciclo negativo sarà dunque più faticosa del previsto.
La ripresa sarà lenta e fragile, ma non si deve pensare che non sia possibile. Ci vorrà solo più tempo.

Se il politico è personale

Anni fa si diceva che il personale è politico. Oggi pare di capire che valga l’inverso. Più che i partiti, ci sono i leader.
Ci riflette sopra Antonio Polito sul supplemento del Corriere “La lettura”. “Partito personale”, “il secolo monocratico”, “governo personale”, sono espressioni usate da chi se ne intende per descrivere il presente. Così accade che anche il consenso si manifesta per un capo, più che per un partito.

Ma c’è un rovescio della medaglia. Il fallimento della persona può diventare automaticamente quello politico. E qui, davvero curioso, il personale torna ad essere tremendamente politico, paradossalmente proprio perché il politico si è fatto così tanto personale. D’accordo, la storia è piena di capi, re e imperatori, dalla vita privata-sentimentale burrascosa, ma la differenza è che ora c’è l’opinione pubblica che vede e, soprattutto, giudica molto più di prima.

Certamente il pericolo della gogna mediatica è sempre dietro l’angolo, ma il problema non sembra più stare nella tentazione incontenibile di guardare dentro il buco della serratura, quanto nel fatto che gli stessi leader hanno posto il loro ambizioso protagonismo alla guida dei destini del Paese, per vincere resistenze, lacci e lacciuoli, che impediscono le necessarie e urgenti trasformazioni (le riforme strutturali).

Prendiamo il caso del presidente francese François Hollande. Se mente privatamente alla propria compagna: «ti giuro non c’è un’altra», il sospetto corrente è che possa farlo anche al Paese. Un po’ la stessa cosa accaduta oltreoceano ai tempi di Bill Clinton. Il punto di quel sexgate non era tanto cosa succedesse dentro la stanza ovale della Casa Bianca, quanto il timore dilagante che il presidente potesse avere mentito agli americani.
Trappola simile quella in cui è cascato anche Berlusconi: «Un leader – scrive Polito – che si fa manipolare dai procacciatori di sesso per animarsi le serate, può essere manipolabile quando maneggia l’interesse nazionale».
La storia si ripete, in sostanza, con Dominique Strauss-Kahn, potenziale astro della Francia socialista, tramontato prima ancora di sorgere per avere stancato i transalpini con le sue avventure notturne. Aggiungiamo che l’opinione pubblico-mediatica è diventata nel frattempo interdipendente e globale e la frittata è fatta.

Succede così, per esempio, che i cittadini-contribuenti tedeschi abbiano comprensibilmente ritenuto non indifferente per la sorte dei propri stessi risparmi scoprire come passava le serate il premier italiano, mentre la Banca centrale europea iniettava miliardi di euro per finanziare il nostro debito pubblico.
Se i rapporti tra paesi che condividono frontiere, commerci e moneta, si devono necessariamente basare sulla fiducia, si comprende come la credibilità diventi la valuta più pregiata. E quando la credibilità di una nazione dipende così tanto da quella personale del suo leader, non si può più puntare il dito contro un’opinione pubblica guardona, nel nome della separazione delle sfere pubblica e privata.

C’è addirittura chi ha provato a stabilire una regola matematica fra le scappatelle dei leader e le conseguenze macroeconomiche sulle rispettive comunità nazionali. Proviamo a farci caso. Una volta colto sul fatto, Hollande per recuperare credibilità ha decisamente sterzato le proprie politiche economiche verso quell’austerità dei conti pubblici tanto cara alla scuola del rigore che spadroneggia in Ue. Il che significa torchiare cittadini e servizi.
Esattamente, si direbbe, come le serate galanti di Arcore hanno accelerato di fatto la svolta rigorista del governo Monti «e dunque – conclude Polito – tutto sommato gli italiani hanno pagato con l’Imu anche la casa delle olgettine».

Ora l’Italia si è affidata ad un boy scout, ma non può bastare perché se il politico è diventato personale, la Politica rimane un’altra cosa.

L’OPINIONE
Articolo 18,
il vero obiettivo
è l’elettorato di destra

Cerchiamo di capire. Perché Renzi vuole abolire l’art.18? Perché ha sfidato ogni logica di merito? Ripetiamo l’elenco. Se vuoi allargare i diritti a chi non ne ha, perché toglierli a chi li ha? Se l’art. 18 è solo un totem, perché lo si vuole abbattere? Se l’obbiettivo è riformare e semplificare il funzionamento del mercato del lavoro, perché non ci si concentra su questo? E, soprattutto, perché ricorrere a bugie e silenzi? Le bugie: non sono quarant’anni che non si tocca l’art.18, ma solo due. E cos’è quest’araba fenice delle tutele crescenti? I silenzi: da dove arrivano i quindici miliardi di euro che servono per estendere gli ammortizzatori sociali? Ritorniamo alla domanda: perché questo accanimento? A me pare una sfida con un obiettivo politico. Renzi punta decisamente a fare il pieno dell’elettorato di destra. Ecco perché gli serve una vittoria simbolica. Lo snaturamento del Pd avanza a marce forzate. Tutte le questioni che dovrebbero connotare l’identità di una forza di sinistra democratica e libertaria sono state archiviate: corruzione, evasione fiscale, giustizia, diritti civili. Che fare? Per il popolo di sinistra la via è stretta e piena di macigni. Pesa una memoria tragica di scissioni e rotture. C’è una ‘vecchia guardia’ che viene dal Pci che ha fallito. Non si intravede all’orizzonte un nucleo di nuova classe dirigente alternativa a quella renziana. I tentativi fatti a sinistra del Pd in questi anni sono tutti abortiti. Nel frattempo, però, il contenitore Pd è interamente occupato dai renziani della prima, seconda, terza ora. La minoranza è ridotta a comparsa lamentosa e patetica. Il fallimento delle primarie in Emilia-Romagna fotografa bene lo stallo drammatico in cui ci troviamo: il candidato dell’apparato vince senza convincere; il candidato trattato come ostile al partito sfiora il quaranta per cento dei pochi che hanno votato. Cosa dire? In democrazia niente è irreversibile, e tutto è possibile. Anche che accada un imprevisto positivo. Vedremo…

LA STORIA
Vita da campanari

di Alessandro Porcari

Un’antichissima tradizione animata da un allegro esercito di appassionati. Torna a crescere il numero dei campanari in Emilia Romagna. Forza fisica, ritmo e un piccolo segreto: un bicchiere di vino.

«Lasciatevi dondolare». Il campanile della cattedrale di San Pietro oscilla, come fosse in atto un piccolo terremoto. A scatenare il movimento, quintali di bronzo spinti da mani robuste. Così uno dei campanari della cattedrale di San Pietro a Bologna aveva rassicurato gli ospiti del concerto, prima che il suono abbracciasse il cielo attorno alle Due Torri. Seduti attorno alle campane, oppure in piedi lungo i muri di mattoni, o sulle travi di legno che reggono questi antichi strumenti musicali, c’è spazio solo per pochi fortunati in cima ad uno dei monumenti meno conosciuti di Bologna.
Il campanile si muove come una culla, ma è inutile negarlo, ci si sente un po’ precari, lassù dove Bologna sembra così piccola. Ma è tutto normale, i campanili devono essere così flessibili. «Queste torri hanno resistito anche al terremoto del 2012. Solo alcuni di loro sono stati danneggiati, magari nelle guglie, ma non nella struttura architettonica. Crolla la chiesa non il campanile, come a Mirabello: il campanile è intatto, accanto alle macerie dell’edificio religioso», ci dice Mirko Rossi, professore di chimica in un istituto professionale modenese, presidente dell’Unione campanari bolognesi. Come lui, nel cuore dell’Emilia-Romagna, ci sono trecento detentori di questa antichissima tradizione, ma non bastano.

Professore, siete in via di estinzione?
No, abbiamo superato la fase critica. Ora siamo in controtendenza, c’è una riscoperta di questa antichissima arte, soprattutto tra i giovani. Grazie a loro, la nostra età media sta scendendo verso i 40 anni, dieci anni in meno rispetto a qualche anno fa. Ci sono persino squadre di campanari formate da ventenni. Dobbiamo fare ancora molto però. Il nostro territorio si estende tra la diocesi di Bologna, Imola, Faenza e parte della diocesi di Ferrara. Ci sono circa 300 campanili. Se volessimo suonare tutte le campane il giorno di Pasqua, servirebbero 1200 campanari, quattro volte il nostro numero attuale.

Come ci si avvicina a questa tradizione?
Non ci sono scuole per campanari. Per noi la vetrina principale sono le feste religiose. Quando suoniamo nelle parrocchie, coinvolgiamo sempre i ragazzi e lanciamo la proposta di unirsi a noi. In alcuni casi, come per le Quarantore di Cento, le scolaresche vengono a trovarci. Così i campanari diventano un evento. Altre volte ci contattano grazie al nostro sito internet.
Chi vuole, si mette d’accordo con una squadra del posto, e nelle sere in cui ci sono le prove, inizia a frequentare. A macchie di leopardo nel territorio ci sono campane a disposizione per imparare, ospitate spesso da palestre. C’è una certa cura delle relazioni. Ci si ritrova per fare le prove, ma è un pretesto per stare insieme, si mangia, si allenano braccia e gambe. Questo consente di coinvolgere più gente in modo genuino, soprattutto se i campanari della zona fanno gare e c’è una bella competizione.

Quanti mesi di formazione servono?
Un apprendista campanaro può impiegare un anno perché possa avere un esperienza spendibile in un concerto. È necessario imparare ad affiatarsi con il resto del gruppo. Le squadre sono composte da quattro persone. All’inizio si fa con le campane legate per non disturbare i residenti della zona. Ci sono quattro categorie: giovani, la terza, la seconda e la prima. L’apprendimento certamente continua, non si ferma mai e prosegue con la propria squadra con cui ci si esercita.
Il campanile della cattedrale di Bologna è un punto di arrivo, perché ci sono le campane più pesanti della diocesi, e poi ci sono oscillazioni rilevanti della struttura che vanno gestite. Ci sono campanari con grande esperienza che non saprebbero gestire campane come quelle di San Pietro.
Le mani dei ragazzi non sono abituate al lavoro, rispetto agli anni ’70 quando le capacità manuali erano più accentuate. Devono imparare a tenere le campane in piedi con corde che bruciano le mani, creano vesciche e i risultati tardano ad arrivare soprattutto rispetto ai dolori che invece sono immediati. I più motivati resistono, altri lasciano.

Quanto pesa una campana?
Anche nei concerti più piccoli la campana grossa arriva a diversi quintali. A San Pietro la campana principale pesa oltre tre tonnellate. Serve forza fisica, colpo d’occhio e il ritmo per evitare aritmie. Non si tratta di un problema semplicemente sonoro. Se sbagliamo nel ritmo, la torre si muove in modo non dovuto e questo aumenta lo sforzo fisico del campanaro, rendendo persino impossibile il suono della campana stessa. In casi estremi si arriva alla rotazione totale, un errore che nelle gare comporta la squalifica. A quel punto bisogna fermarsi e aspettare che il campanile si fermi per poter riprendere.

Tanto sacrificio, quanto guadagna un campanaro?
Questo è volontariato. Se va bene ci danno un piccolo rimborso spese. Spesso nel centro di Bologna, i campanari suonano un’intera mattina e ricevono dieci-quindici euro a testa. La nostra vera ricompensa è la cena parrocchiale e soprattutto un bicchiere di vino. È una tradizione antichissima: si saliva con l’olio nelle bronzine e un bicchiere di vino per il campanaro. Anche oggi durante i concerti, recuperiamo le forze bevendo.

La tradizione riguarda anche il dialetto…
Tutto il lessico, la terminologia è rigorosamente dialettale. Bologna è la prima città del Nord cristiano in cui il suono delle campane venne codificato, in modo che i suoni possano creare un’armonia, senza sovrapporsi. Fu un’idea della cappella musicale di san Petronio, probabilmente affascinata dalle campane del piccolo carillon portato da Carlo V per l’incoronazione nella basilica cittadina, nel 1530. A volte parliamo in italiano per rispetto verso gli ospiti, per farci comprendere. Ma la partenza, il lancio della prima campana viene chiamato con una formula dialettale bolognese, fissa, in modo che nessuno di noi possa sbagliarsi.

Come giudica la salute dei nostri campanili?
Buona, perché i campanari si prendono cura anche della struttura. Se una finestra presenta dei problemi, la ripariamo, se ci sono dei buchi, vengono tappati. Le viti vengono strette, le campane oliate. Diversa è invece la condizione dei campanili elettrificati. Dove i campanari non salgono, succede esattamente quanto avviene per qualsiasi edificio non abitato: va in rovina. In passato sono stati fatti interventi devastanti che hanno reso impossibile il nostro mestiere. Un documento dell’arcidiocesi tutela il suono manuale delle campane; occorre conciliare il suono a mano e suono elettrico. Così possiamo conciliare tradizione e modernità.

Si dice che a suonare le campane si diventi sordi, le sue orecchie in che condizioni sono?
(ride, ndr) Quando me lo chiedono rispondo: «Come… come? Cosa dice?». E’ una diceria. Basta un po’ di ovatta o i tappini espandibili che si usano anche nelle industrie. Io ho cominciato a 13 anni, ne ho 47 e non ho problemi di udito. Per i giovani le assicuro che è molto peggio la discoteca. A 25 anni, durante una visita medica dissi della mia passione per le campane, mi misero in cabina, con un pulsante da schiacciare ad ogni rumore, per verificare le condizioni del mio udito. Quando uscii, mi dissero: «Lei è un caso strano: non ha problemi di udito». Vi garantisco che ho conosciuto campanari di 90 anni che non hanno problemi.
Il vero rischio è per le mani. Una presa sbagliata può portare a un dito un po’ schiacciato tra il battaglio e la campana. Il corpo a corpo non è lontano, è chiaro che la campana sfiora sempre il campanaro. Noi abbiamo travi oblique di legno, su cui il campanaro appoggia le spalle; così sa di essere a distanza di sicurezza per non farsi male.

Da Bologna al resto di Italia, c’è un legame tra i campanari italiani?
Sì, c’è una specie di consulta nazionale. Ma tra noi ci sono tradizioni, metodi di montaggio differenti. Penso alla tradizione ambrosiana, a quella vicentina. Basta superare il Po, per trovare grandi ruote di ferro sui campanili. Sono campane che prevedono tecniche di suono diverse da quella bolognese. Se volessi suonarle, dovrebbero formarmi partendo da zero.

[www.lastefani.it]

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Tiziano Tagliani è il nuovo presidente della Provincia.
Eletti i dodici consiglieri

da: ufficio stampa Provincia di Ferrara

Al termine delle prime elezioni della Provincia trasformata dalla riforma Delrio in ente di secondo livello, cioè non più eletta dai cittadini ma da sindaci e consiglieri comunali del territorio, il nuovo presidente è Tiziano Tagliani, sindaco di Ferrara.
I dodici consiglieri che entrano nel nuovo Consiglio provinciale, tutti della lista “Provincia insieme”, sono:
Fabrizio Toselli (sindaco di Sant’Agostino) con 7.633 voti, Marco Fabbri (sindaco di Comacchio) con 7.437 voti, Bianca Maria Vitelletti (consigliera comunale di Ferrara) con 7.420 voti, Nicola Rossi (sindaco di Copparo) con 6.705 voti, Piero Lodi (sindaco di Cento) con 6.600 voti, Elisabetta Soriani (consigliera comunale di Ferrara) con 6.529 voti, Nicola Minarelli (sindaco di Portomaggiore) con 6.410 voti, Antonio Fiorentini (sindaco di Argenta) con 6.243 voti, Diego Viviani (sindaco di Goro) con 6.139 voti, Gianni Michele Padovani (sindaco di Mesola) con 5.450 voti, Cristiano Di Martino (consigliere provinciale uscente) con 4.780 voti e Alan Fabbri (sindaco di Bondeno) con 4.759 voti.
Hanno votato in cifra assoluta per Tagliani presidente della Provincia in 242.
In tutto si sono recati alle urne in 293 (pari all’82,54 per cento) su un corpo elettorale di 355 unità, di cui 195 uomini e 98 donne. In 62, dunque, non hanno partecipato al voto.
I voti validi espressi invece per il Consiglio provinciale sono stati 287.
Il risultato del voto finale del Consiglio provinciale è frutto del calcolo dei voti di preferenza unitamente a quello ponderale del peso demografico attribuito alle sei fasce nelle quali sono stati raggruppati i Comuni, a seconda delle rispettive popolazioni:
fino a 3mila abitanti i Comuni di Formignana e Masi Torello; da 3001 a 5mila i Comuni di Goro, Jolanda di Savoia, Lagosanto, Mirabello, Ro, Tresigallo, Voghiera; da 5001 a 10mila i Comuni di Berra, Fiscaglia, Mesola, Ostellato, Poggio Renatico, Sant’Agostino, Vigarano Mainarda; da 10.001 a 30mila Argenta, Bondeno, Codigoro, Comacchio, Copparo e Portomaggiore; da 30.001 a 100mila il Comune di Cento e oltre i 100mila abitanti il solo Comune di Ferrara.

L’INTERVISTA
Caritas, termometro della crisi:
in 5 anni 15mila pasti in più.
Don Valenti: “Drammi sempre più frequenti”

di Giuseppe Fornaro

Settantaduemila pasti, 83 tonnellate di pacchi viveri, 54mila euro di assistenza economica attraverso il pagamento delle utenze, 150 volontari solo per la mensa. Sono i numeri della povertà. O meglio i numeri dell’assistenza fornita dalla Caritas diocesana di Ferrara-Comacchio agli indigenti e alle persone in stato di difficoltà anche temporanea.
Abbiamo provato ad aprire una finestra su questo mondo che appare così distante e invece ci sta intorno, ci è contiguo se questi, come sembra, sono i numeri. Numeri ai quali corrispondono persone con i loro drammi sempre più frequenti in un momento di crisi economica che non accenna a finire. Tutto è reso precario al punto che ciascuno è su una linea di confine e varcare quella soglia oggi, purtroppo, è sempre più facile e frequente. Basti pensare ai pasti forniti: nel 2009 erano 57mila, 15mila meno di adesso.
Abbiamo incontrato don Paolo Valenti nella parrocchia dell’Addolorata, direttore della Caritas per ventuno anni fino a gennaio scorso quando ha passato la mano ad un laico, Paolo Falaguarda. La Caritas è nata con lui proprio ventuno anni fa con la mensa e l’ambulatorio medico in via Brasavola dov’è tutt’ora.

Secondo la sua esperienza, in questi anni è cambiata la povertà e come?
È sempre molto difficile definire la povertà. C’è chi non ha niente da mangiare, chi non ha una casa, chi si trova in una situazione di mancanza di lavoro oppure di mancanza di diritti. La povertà è estremamente variegata. Oggi ci sono delle nuove povertà dettate dalla crisi che si aggiungono alla povertà precedente. In questo periodo di crisi nei centri d’ascolto abbiamo visto che la presenza di persone italiane rispetto a quelle straniere è aumentata, non perché siano diminuite quelle straniere, anche se per via della crisi molti stranieri sono tornati a casa e altre sono arrivate e ora sono in una situazione di estremo disagio. Però sono aumentate molto le povertà italiane. Questo è un dato di fatto. Quando si parla di lavoro giovanile, si pensa a quelli tra i 18 e i 30 anni, ma c’è una fascia tra i 30 e 45 anni che non ha mai avuto nemmeno una occasione di lavoro. Questa è la triste e cruda realtà. Sappiamo tutti che dopo i 30 anni trovare lavoro è un’impresa come scalare l’Everest in una situazione dove il lavoro non c’è soprattutto qui da noi e questo è un ulteriore impoverimento della città. Se uno mi chiedesse in che settore cercare lavoro direi di fare la badante, per via dell’invecchiamento della popolazione, perché è il settore dove forse si riesce di più a trovare lavoro. Non vedo altre prospettive.
Come centro ascolto della Caritas abbiamo anche situazioni relative al sovra indebitamento che seguiamo come Fondazione antiusura a livello regionale. Si lavora sulla prevenzione dell’usura, famiglie che sono sull’orlo dell’indebitamento che può portare a chiedere soldi facili. Questo è un problema di cui bisogna capire le cause. A volte sono cause relative alla perdita del lavoro, altre un imprevisto in famiglia che non ci voleva, come una malattia. Qui stiamo parlando di una fascia di persone che non è mai stata nell’ambito della povertà, non sono quelli che vengono a mangiare alla mensa della Caritas. Poi ci sono persone che proprio a causa della crisi si affidano alla fortuna. Il problema del sovra indebitamento da gioco è un problema fortissimo. Nei periodi di crisi le persone scommettono di più. Può essere il bingo, la slot machine, il gratta e vinci. C’è un aumento spropositato di questi fenomeni. Quando un anziano comincia a giocare sistematicamente e a spendere anche 50 euro alla settimana in un mese diventano 200 euro e sulla pensione quei soldi pesano forte e parliamo di 50 euro quando va bene. Anche questo ricorso al credito facile delle finanziarie o alle revolving card creano grossi problemi perché non ci si rende conto degli interessi che si vanno a pagare. Allora qui si cerca di aiutare anche attraverso dei professionisti. Se poi interviene anche la perdita del lavoro è terribile con tutte le spese da pagare: l’affitto, o il mutuo, le utenze, ecc. Nel 2013 come Caritas abbiamo pagato utenze per 54mila euro.

Quindi a differenza dell’immagine che si ha all’esterno la Caritas non fornisce solo i pasti. Che tipo di attività svolgete?
La parte più impegnativa è l’ascolto. Il centro d’ascolto è fondamentale. Devi sempre metterti in ascolto della persona che viene da noi. Non è che una persona viene e ci dice che non riesce a pagare una bolletta e noi gli diamo i soldi. Non funziona così. L’ascolto, invece, è fondamentale per capire perché la persona si trova in questa difficoltà. Spesso e volentieri su cento casi 99 sono tamponamenti di situazioni di emergenza. Se si riesce a portare una persona su cento da uno stato di difficoltà ad uno di indipendenza è un gran successo. Altrimenti si tamponano situazioni che non si sa come risolvere.
Poi ci sono servizi essenziali che vengono forniti come la mensa che l’anno scorso ha fatto 72mila pasti, pranzo e cena. Dal centro d’ascolto sono passate più di mille persone. Abbiamo distribuito pacchi viveri per 83 tonnellate. Seimila accessi per il servizio docce e distribuzione vestiti. Da quest’anno poi offriamo anche la colazione. Abbiamo aperto casa Betania. Abbiamo aperto un dormitorio femminile con dodici posti. Siamo entrati nel progetto accoglienza profughi, soprattutto donne e bambini. Abbiamo due ambulatori da dove passano tutti i profughi che arrivano prima di essere destinati alle varie associazioni che hanno dato la disponibilità all’accoglienza. Poi c’è tutto il mondo del volontariato che gira intorno.
L’ambulatorio lo abbiamo aperto nel ’95 con medici di base volontari perché allora per i clandestini non era prevista alcuna assistenza medica. I medici si costituirono in associazione, sistemammo l’ambulatorio e poi attraverso convenzioni col Comune, l’Ausl e l’Arcispedale S. Anna, l’azienda farmaceutica municipale, le farmacie private ci fu la possibilità di dare assistenza agli stranieri. Persino il dispensario si rivolgeva a noi per la prevenzione della tubercolosi perché altrimenti loro non sarebbero riusciti ad intercettarli tutti. Era un servizio di carattere sociale importante. Poi ci fu la legge voluta da Rosy Bindi che garantisce l’assistenza sanitaria a tutti. A quel punto l’ambulatorio non era più necessario. Ultimamente l’esigenza si è riproposta a seguito di quella norma che prevede l’obbligo da parte dei medici di denunciare i clandestini.

Per fornire tutti questi aiuti, da dove vengono le risorse?
Innanzitutto, dal tanto vituperato otto per mille, ma che per noi è essenziale dal punto di vista economico. Poi ci sono le offerte, i lasciti. Per noi l’offerta non è solo il denaro, ma anche il cibo. Innanzitutto c’è il banco alimentare, pur con tutte le difficoltà, e poi c’è, in collaborazione con la grande distribuzione degli ipermercati coop, il “Brutti ma buoni” cioè confezioni di cibo assolutamente commestibile, ma il cui involucro non si presenta bene e che resterebbe invenduto; c’è il last minute market; la raccolta di cibo nelle parrocchie. Questo è oro. Anche il cotto non venduto dell’Ipercoop andiamo a prenderlo tutti i giorni. Questo è un lavoro importante. Tutta questa roba andrebbe distrutta con uno spreco di risorse. L’idea del professor Andrea Segrè, inventore del Last minute market, è stata un’idea geniale grandissima. Insomma, bisogna fare in modo che lo spreco non vada a danno delle persone. Il Centro servizi al volontariato ci dà una grossa mano in questo senso nel cercare il modo di inserirsi nel circuito dei “brutti ma buoni”, del last minute market parlando con le amministrazioni dei supermercati.
A volte non pensiamo a quanto sprechiamo. Ad esempio, gli indumenti. Ci sono cassonetti della Caritas, di Humana e della Croce Rossa. Ogni settimana solo noi Caritas viaggiamo intorno ad otto-nove tonnellate di indumenti recuperati. La parte utilizzabile si riusa, tutto ciò che non si può utilizzare, che è la stragrande maggioranza, viene rivenduta a ditte di Prato per il recupero dei filati e i soldi che ricaviamo li utilizziamo per le nostre attività. Se pensiamo a quanto ciascuno di noi scarta per noi volontari ogni cambio di stagione è una manna.

Dal quadro che ha descritto mi sembra che venga fuori in questa città una rete anche istituzionale di solidarietà abbastanza solida.
La cosa bella è la grande collaborazione, non ci si fa la guerra.
La gestione delle risorse, che siano economiche o alimentari o i vestiti, deve essere razionalizzata perché noi non possiamo permetterci lo spreco. Per questo stiamo cercando di costituire una banca dati degli interventi che vengono fatti per le persone per evitare che ci possa essere qualcuno che ci marcia e che fa il giro delle diverse associazioni. Per carità, ci sta anche questo, non ci si deve scandalizzare, però dobbiamo cercare di aiutare più persone possibile. La povertà ha sempre avuto le sue strategie da quando esiste l’umanità.
Mi viene in mente quel cartello contro l’accattonaggio davanti al supermercato che fa un po’ ridere. Davanti la mia parrocchia le persone che chiedono sono aumentate anche perché le chiese chiudono (ride, ndr). Poi c’è quello che chiede e basta, c’è quello che arriva alterato dall’alcol e quello non è nemmeno controllabile e in quel caso chiami la polizia che lo allontana. Noi diciamo sempre: evitiamo di dare, perché non sai mai dando dei soldi senza una verifica se fai del bene o del male. Se si presenta una persona insistente che puzza di alcol, capisco che uno li dà per liberarsene, ma non lo stai aiutando. Per questo sono importanti i centri di ascolto per capire i bisogni delle persone.

A questo punto non possono non chiederle se anche lei crede che ci sia una sorta di racket dietro l’accattonaggio?
Dipende dal tipo di accattonaggio. Esiste indubbiamente la spartizione delle zone. Poi si sa che l’accattonaggio minorile, soprattutto tra i nomadi, è una forma di sfruttamento. Direi che in questo senso è racket. Poi se è al livello malavitoso questo non ho le competenze per dirlo.

Una domanda un po’ provocatoria, mi rendo conto, ma chiedo a lei che è un uomo di fede quanto può essere frustrante occuparsi di povertà? Perché è come voler svuotare il mare col secchiello, i poveri sono in continuo aumento.
Come dicevo prima quando si riesce a risolvere un caso su cento si esulta. Il resto si tampona. La fede ci aiuta ad avere sempre uno sguardo di speranza per dire che l’ultima parola sulla vita non ce l’ha la morte. Secondo, quello che ci dice la fede è di avere sempre un occhio particolare di attenzione verso gli altri, particolarmente verso gli ultimi. Quando parliamo di opzione preferenziale verso i poveri, parliamo di qualunque tipo di poveri. Significa che se c’è una persona in uno stato di bisogno quella ha la precedenza rispetto ad un’altra. È quello che avviene normalmente in una famiglia. Se una madre ha due figli ed uno sta male, dedicherà naturalmente più attenzioni a quello che sta male perché è in uno stato di bisogno. Questo è un atteggiamento umano normale che vivono tutte le famiglie indipendentemente dalla fede. Credo che questo atteggiamento andrebbe recuperato a livello sociale, cioè chi è in stato di necessità merita attenzione. E quindi evitare le guerre tra poveri, ma soprattutto avere l’atteggiamento di dire che se un altro riceve quello che ho ricevuto io deve prevalere un sentimento di gioia perché finalmente anche lui questa sera avrà da mangiare e in quella famiglia ci sarà almeno una serata di serenità. Ecco, questo lo dobbiamo recuperare molto. Invece, si cerca sempre di dire “prima noi poi loro”, una differenziazione che rischia di essere estremamente pericolosa perché dal punto di vista dell’attenzione verso l’altro non c’è un prima e un dopo. Chi è in uno stato di necessità non può essere lasciato da solo. Non dico che si risolva tutto. Non sono un esperto di politica economica, non sono un politico, però credo che certi principi devono essere tenuti. Anche di fronte alla polemica su “Mare Nostrum” o mare di altri come si fa a fermare un fenomeno come quello? O ti metti a sparare, ma questo non ha mai fermato nessuno, come dimostra la frontiera tra il Messico e gli Usa. A livello internazionale occorre un’altra politica. Tutti parlano di cooperazione internazionale, ma dove la vediamo? Dov’è? Dicono: aiutiamoli a casa loro. D’accordo, ma perché fino adesso non si è fatto? Perché la cooperazione internazionale non funziona? Perché si ricade sempre nei fenomeni di corruzione? Se si è così capaci di andare a bombardare, credo si abbiano anche le forze per cercare di impostare una politica anche di forza, di pressione sui governi per dire “caro mio adesso se vuoi ti aiutiamo”. Io credo anche nel commissariamento di un governo. Questo non vuol dire ledere i principi della democrazia, ma proprio per il rispetto della democrazia cercare di creare quella rete di solidarietà che è necessaria.
È chiaro che nessuno ha la bacchetta magica e sconfiggere la povertà è un sogno. Anche i nostri stili di vita incidono parecchio. Nell’uso del denaro, che vuol dire uso delle risorse, ci sta la tua mentalità di come le usi, di come sprechi. Se vai a giocartelo alle slot machine è chiaro che diventi tu un costo per la società perché devi essere curato.

Qual è l’identikit della persona in difficoltà oggi?
Più che persone singole si tratta di famiglie giovani, possono essere italiane o straniere, in prevalenza straniere che chiedono un aiuto soprattutto per le utenze, l’affitto. Famiglie giovani con due figli. Poi ce la povertà cronica.
Non dimentichiamo un altro fenomeno che è andato crescendo. Il disagio mentale. La malattia mentale, la depressione sono un altro fenomeno che non accenna a diminuire, anzi con la crisi aumenta. Parliamo di persone giovani dai trenta ai quarant’anni. Uomini e donne.

Del resto quando non c’è una prospettiva di futuro la depressione è la patologia correlata, come si dice…
Se uno perde il lavoro e ha anche dei figli non sa come fare. Nella povertà non c’è nulla di romantico. Guareschi mette in bocca a don Camillo che la povertà è un dramma. Un conto è la povertà che uno sceglie consapevolmente, la povertà religiosa alla S. Francesco, ma quella è un patto, l’ho scelta io, un altro è la povertà subita. Quello è un dramma. Comunque, l’emergenza è il lavoro perché a questo è legato tutto: la dignità della persona, il costituirsi e portare avanti una famiglia, garantire un futuro, la stabilità di una casa.

Si parla si parla si parla, quanto tempo è che si dice che ‘l’anno prossimo’ la crisi sarà passata?
Adesso si è già spostata al 2015. Anche perché tutto quello che era il risparmio dei genitori di molte famiglie ormai è stato raschiato. So di famiglie che dicono che adesso va bene perché c’è la pensione dei genitori, ma dopo? Quando non ci saranno più? Come mangeranno? Su questo mi sembra si stia battendo la fiacca. Io non ho la soluzione, se ce l’avessi la direi. Se non si riparte garantendo un lavoro che sia dignitoso. Certi tipi di contratto come i voucher sono stati una grande invenzione però stanno diventando un alibi, un lavoro a chiamata senza diritti. Una forma di caporalato. Che futuro hai davanti lavorando in questa maniera? Anche due ragazzi che si vogliono sposare cosa mettono su? Insomma, il lavoro è la priorità. A livello politico bisogna muoversi tanto su questo. A parole il mondo si cambia. Quello sono capace anch’io di farlo.

Sicuramente lei ha fatto più di molti politici…
(Si schermisce con un sorriso, ndr) Beh, insomma, la cosa bella di questi ventuno anni è stato il volontariato. La passione dei volontari. Noi non chiediamo il certificato di battesimo a nessuno che voglia fare il volontario. Quando aprimmo, i primi volontari furono quattro mormoni. Ognuno fa quello che sa fare. Ci sono tanti pensionati che sono una forza incredibile. L’ambulatorio medico fu messo su dal dottor Giancarlo Rasconi, sua moglie era la ginecologa di riferimento al Sant’Anna. Tutto queste persone hanno dato molto. C’è tanta gente che ha voglia di mettersi in gioco, bisogna dargli l’occasione e un ambiente adatto.

Questo mondo del volontariato è veramente bello e andrebbe rivalutato tanto di più e ripreso nelle motivazioni: la gratuità, il tempo dedicato, la formazione. Ferrara da questo punto di vista non è seconda a nessuno.

LA STORIA
Pittrice ti voglio parlare…

Parco di Kolomenskoe, un po’ fuori Mosca, non tanto a dire il vero, il tempo di arrivarci in circa quindici-venti minuti di metropolitana. Incredibile come qui, a poche stazioni, ci si trovi velocemente e improvvisamente immersi nel verde e nella natura.

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Chiesa della Madonna di Kazan

Sotto il sole caldo, qui gli edifici bianchi sembrano ancora più bianchi e svettano nel verde accecante del soffice e delicato prato del parco che si estende lungo la Moscova per circa 390 ettari. Residenza estiva degli zar nel sedicesimo secolo, questo posto è incantevole. Alcuni tetti sono verdi, altri turchesi, tutti degni di un’antica fiaba russa. La loro forma è oblunga o a cupola, a seconda che ci si presentino davanti agli occhi la Chiesa dell’Ascensione, le porte di pietra o la Chiesa della Madonna di Kazan. S’innalzano verso il cielo, imponenti, seri, sicuri, maestosi, severi e altezzosi.
Ci ritroviamo, sorpresi e ammirati, in un mondo a sé stante, azzurro, solitario, quasi indipendente, lontano da ogni preoccupazione e rumore (solo qualche cinguettio e miagolio), secondo alcune leggende, scenario dello scontro fra San Giorgio e il drago.
Da lontano scorgo una signora anziana, con il capo coperto da un vecchio cappellino ricamato all’uncinetto, seduta, quasi accucciata, su un seggiolino di legno che sembra quello di un bambino o di un regista di piccola statura. Proprio per questo suo essere piccolina e per la posizione assunta m’intenerisce molto. Di fronte all’imponente Chiesa ortodossa si sta immaginando quell’immenso e potente drago e forse lo disegna. Ha con sé pennelli, barattolini, vasetti, un cavalletto di legno, qualche tavolozza, una tela e tanti colori, tanti quanti quelli delle ali di quel drago. E’ stata una pittrice, da giovane, di quelle che dipingevano a Montmartre, a Piazza Navona, lungo la Stari Arbat. Ritratti, paesaggi, gatti, cani, coppie di sposi e tanti giardini e fiori. Tutto nasceva dalle sue mani, miracolosamente, come un bocciolo fiorito. Non le importava, allora, cosa disegnava, bastava guadagnare per poter vivere di arte. Per convincere i genitori, prima, e gli amici, poi, che con la bellezza si riusciva a sopravvivere.
Dopo tanti anni era riuscita a diventare una pittrice abbastanza nota, grazie anche all’aiuto di un’amica gallerista di San Pietroburgo, città d’arte e di cultura. La sua avvenenza giovanile l’aveva sicuramente facilitata ma lei, Olga, era anche molto risoluta e sicura della strada scelta. Allora era forte, fisicamente e moralmente, e per quanto piccolina di statura aveva solcato mari e monti, guidata e accompagnata solo dal suo grande sogno. Che un giorno era divenuto realtà. Per un breve periodo aveva anche vissuto in Umbria, in un piccolo villaggio medievale che le aveva regalato nuove amicizie, passioni e, ammetteva, anche un bel carnet di ricette di cucina, diventate ispirazioni di piatti finiti anch’essi sulle sue tele. Olga aveva disegnato, dipinto, ricamato, pregato, scritto, letto, sognato, amato e quasi mai odiato. Non era capace di odio, proprio no. Questo sentimento non faceva e non fa parte del suo Dna. Anche quando era stata trattata male, magari umiliata e rifiutata, aveva sempre accettato quello che la vita le portava. Sempre, e tenacemente, convinta di poter inseguire il sole come “il piccolo e anticonformista Gabbiano Jonathan, che riesce a intravedere una nuova via da poter seguire, una via che allontana dalla banalità e dal vuoto del suo precedente stile di vita, e comprende che oltre che del cibo un gabbiano vive della luce e del calore del sole, vive del soffio del vento, delle onde spumeggianti del mare e della freschezza dell’aria”.
Negli anni aveva iniziato a dipingere nuovi soggetti, era passata a immagini religiose, altari, chiese, cupole. Forse la dimensione mistica aveva guadagnato terreno con la vecchiaia, con la voglia di pace e tranquillità. Oggi Olga è in pensione, se così la si può chiamare, vista la sua misera entità, e ancora dipinge, un po’ per quell’antico piacere della bellezza, un po’ per vendere a qualche turista attirato dalla sua ancora intensa vivacità.

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Parco di Kolomenskoe, aiuola di fiori

Ogni domenica prende allora i sui colori e le sue tele e cambia parco o giardino, in cerca d’ispirazione. Oggi la vediamo qui, a Kolomenskoe, domani la potremo trovare altrove. Le sue gracili spalle ricurve inteneriscono, per il peso che portano, per quanto hanno sopportato. Perché Olga, in tutto questo, aveva dovuto lasciare il suo bambino in un orfanotrofio, la bellezza non era stata sufficiente, da sola, per tutto. Quel bambino che, nascosto dietro un ramo o un tronco disegnato, compare sempre nei suoi dipinti. Guardando bene, da vicino, lo vedrete anche voi.

L’EVENTO
Internazionale a Ferrara ovvero dell’importanza di unire i puntini

Chi è Oleg? Me lo sono chiesta qualche tempo fa leggendo in rete la notizia dell’arresto di Oleg Vorotnikov in seguito a una rissa all’ex ospizio di Santa Marta di Venezia. L’articolo diceva che l’uomo è ricercato, che rischia l’estradizione in Russia, da cui è scappato con la famiglia nel 2013, e dove il processo a cui andrebbe incontro non sarebbe clemente né imparziale. Una raccolta di firme a favore dell’attivista (alcuni nomi: Zerocalcare, Andrea Lissoni, la crew di scrittori Urban Code) riesce però a farlo rilasciare dal carcere di Santa Maria Maggiore e a scongiurare l’estradizione. Della notizia e dei suoi protagonisti non si parla in modo diffuso, ma in parte conosco già la loro storia, che è anche la storia di Voina, grazie alla visione del proiezione del documenario Tomorrow realizzato da Andrey Gryazev e proposto al festival di Internazionale nel 2012.

Collettivo russo nato nel 2007, attraverso provocatorie azioni artistiche, Voina critica l’omofobia, l’autoritarismo, la strumentalizzazione della religione a fini politici, l’ormai divenuto stato di polizia russo. Con crudezza e assenza di filtri, racconta spaccati di vita dei componenti del collettivo, tra arresti, azioni sovversive, falli disegnati sul grande ponte di Mosca, rappresentazioni estemporanee, incarcerazioni e vita familiare sempre in bilico tra sostenitori e detrattori, tra filo del rasoio e le telefonate ai parenti su Skype, tra l’ammirazione di chi li sostiene e la violenza ideologica di chi li vorrebbe zitti e assenti.

Stesso posto e stesso anno. In sala Estense, poco lontano dal cinema Boldini in cui ho assistito alla proiezione, ascolto il fumettista Igort raccontare Quaderni russi, il suo nuovo lavoro a nuvolette, che diviene anche l’occasione per parlare con il pubblico di Femen, movimento femminista ucraino le cui componenti manifestano in topless contro le discriminazioni sociali e sessiste, intenzionate a scuotere le coscienze di un Paese ancora associato, nell’ottica estera, al turismo sessuale o alla delinquenza. O, ancora, delle Pussy Riot, due delle quali – Yekaterina Samutsevich e Nadezhna Tolokonnikova – cullate nell’embrione di Voina per poi prendere la propria strada.
Sono solo alcune delle storie collegate da un comune progetto o da un comune effetto, da una stessa idea e dalla stessa forza artistica, due punti uniti da una linea di pensiero chiara e originale che viene tracciata grazie alla matita di Internazionale.

Raccontare storie e persone, cercare connessioni naturali e nascoste tra eventi, soggetti, situazioni, darne una interpretazione a più voci di fronte a un pubblico, dare voce a chi e cosa una voce spesso non ce l’ha, oppure rischia di finire perduta tra le pieghe di una informazione (tema conduttore di questa edizione che inizia venerdì), nascoste in trafiletti o nell’oblio. Storie che vale la pena ascoltare e collegare, su cui riflettere. Come quelle del medico congolese Denis Mukwege, fondatore in sud Kivu di un ospedale per le donne vittime di stupro, del regista alternativo statunitense Robert Altman e del programmatore Aaron Swartz, dalla vita tanto geniale quanto drammatica, del coraggioso fotoreporter di guerra Giles Duley e del visionario presidente della multinazionale dei sogni Pixar e Walt Disney Studios Edwin Catmull, che saranno alcune delle protagoniste di questa edizione.
E chissà quale forme assumeranno i puntini che saranno uniti tra 3, 4 e 5 ottobre.

[Vedi il video di presentazione del festival]

L’OPINIONE
Considerazioni inattuali sulla politica e i suoi derivati

Da qualche tempo i quotidiani sono particolarmente polposi e le riviste che li accompagnano sembrano volumi in quarto. Quando mai tanta abbondanza? Fosse un’offensiva Marchionne-Renzi? Fossero mitragliate di twitter ed esternazioni? Fossero le dolenti note ispirate alla celebre “Melancolia” di Dürer che escono dal labbro stretto di Bersani? Macché! Sono pagine, decine e centinaia, che presentano la moda italiana per lei, per lui e per entrambi. Magnifiche confezioni presentate da stupefatte modelle/i che ti guardano con disgusto, irritazione e noia stringendo le preziose stoffe attorno alle loro gambucce, spallucce, testine, mentre avanzano con quel ritmo ondulante e artefatto che fa la gioia degli stilisti e dei fotografi. Perfetta metafora della politica italiana e dei loro protagonisti. Magnifici lavori che si adattano all’artificio di chi non sarà mai così annoiato, tetro, indifferente, scostante e falso come deve essere il comportamento dei modelli/e.

Una saturazione così evidente degli affari della politica con lo scontro gigantesco sull’articolo 18, sul job act, sulla lotta senza quartiere tra magistratura e politica tanto che ne risentono i talk show fino a ieri padroni incontrastati della serata televisiva: cadono Floris, Giannini, Santoro e le Gabbie, i Virus, le Piazze pulite. La ‘ggente’ non ne può più di esternazioni, di insulti, di veleni sussurrati a fior di labbra. Salta perfino fuori il vecchio ma sempre valido appellativo di ‘amico’ per definire il più odiato o disprezzato tra i contendenti (molto amato in area Pd). Perfino le contorsioni di De Magistris non suscitano sconcerto se non l’ironia del grande Francesco Merlo che firma uno dei suoi pezzi più strepitosi su La Repubblica: La Nemesi beffarda di Giggino ‘a manetta paladino della legalità che resiste alla legge. Le considerazioni del grande giornalista, che analizza i soprannomi di cui si riveste il sindaco di Napoli (oltre ‘a manetta, ‘o skipper, ‘o scassatore, ‘a promessa) culminano nell’ultima, a me cara perché cita un mio grande maestro Luigi Russo: Giggino Banderas è l’ultimo dei soprannomi. E’ la mamma che gli cucì la toga in 48 ore il giorno della tesi di laurea. La mamma che gli ha insegnato a tenere il Vangelo sempre sul comodino. Ma forse la mamma, che è l’erede del grande italianista Luigi Russo, mai aveva pensato a un destino di ‘ammuina populista’, di giudice ‘sciuè sciuè’. Un pezzo formidabile che pone ancora una volta in luce il carattere degli italiani a cui va la responsabilità della collezione nuova della moda e del comportamento dei politici.

Non so se dell’ammuina fa parte il comportamento del sindaco di Comacchio che sfida i rigori del grande statista a cui fa capo il suo partito. Non so se l’ammuina centri con la lotta per la conquista della presidenza della Regione Emilia-Romagna tra accuse e chiarimenti, tra rifiuti e resistenze: Bonaccini, Richetti, Balzani con il prolungamento della passerella dei modelli che sfilano fin sotto lo Scalone. Modonesi, Calvano, Zappaterra, Zaghini mentre il Sindaco s’industria, si defila e fa la voce grossa davanti alle sofferenze e ai trionfi con Marattin che parte per Roma spremendo una lacrimuccia. Non mi se ne voglia di queste parole scritte per ‘alleviare’ il cuore oppresso. Anch’io, nonostante avessi giurato mai, ieri ho votato alle primarie. Anch’io sento l’angoscia del presente. Anch’io trovo rifugio in quel benessere che solo la frequentazione della cultura alta può provocare. E ne fanno fede le sale stipate dei ferraresi e no che ieri sono accorsi all’Ariostea a sentir parlare di Matteotti e alla Pinacoteca dei Diamanti di Dosso Dossi. Poi si esce, e poco lontano già comincia la sagra europea delle bancherelle. Per favore, per favore amico Dario, fai che la cultura, i musei, non diventino sagre ma riescano a sconfiggere i modelli, con le loro facce annoiate e rivelino solo la bellezza delle stoffe dell’’ingenium’ italiano, della preziosità di un pensiero che non ha bisogno se non di riconoscere la verità e l’etica, là dove dovrebbe essere imperativo che si trovi e si frequenti: nella politica.

Fatti più in là

Rifletto sul tema del conflitto tra generazioni a partire da una infelice scorciatoia linguistica: rottamazione. Non varrebbe la pena di parlarne se questa non riflettesse una linea di azione che investe ogni mondo e istituzione, ben oltre la politica. Il conflitto tra generazioni è fisiologico, cambiano però i contenuti su cui tale conflitto si fonda, anche se assume sempre la veste di una differenza di visioni del mondo.
Negli anni Sessanta il conflitto aveva come oggetto la libertà contro l’autorità: libertà di scegliere il proprio corso di vita, di rompere i vincoli della tradizione e delle appartenenze. In una fase di espansione, di crescita dei consumi e del benessere di massa, quella generazione sentiva strette le gabbie della cultura del dopoguerra, le regole del costume e della morale corrente. Proponeva la ricerca di autenticità, comportamenti tra i sessi più paritari, il diritto di mettere in discussione istituzioni sacre come il matrimonio e la famiglia, di seguire le proprie vocazioni. Gli adulti rispondevano con inviti alla moderazione, ma vi erano, tra gli adulti, maestri venerati dai giovani, filosofi ascoltati (anche troppo talvolta) che, non a caso, hanno a volte assunto il ruolo di cattivi maestri. Il conflitto generazionale era avvertito prima di tutto sul piano privato (anche se il Sessantotto viene associato alla piazza) e si giocava in nome di una vita più libera e autentica.
Sul piano politico, anche allora la nuova generazione accusava quella precedente di avere tradito le speranze di un mondo nuovo, più giusto, e cercava nuovi modi per accelerare il corso della storia. Sul piano del lavoro, però, non vi era una rilevante divergenza di posizione tra generazioni. Gli adulti avevano un lavoro abbastanza garantito, erano immersi in un’innovazione che cambiava gradualmente le condizioni, automatizzava i processi, alleviando la fatica, migliorando i luoghi di lavoro e introducendo diritti. I giovani entravano in quel mondo senza troppa fatica, al termine di una scuola che era diventata più facile.
Qual è la differenza tra quel conflitto e quello attuale? La differenza sta nelle risorse che oggi, rispetto ad allora, sono in gioco. Vivevamo allora una fase di eccezionale crescita, i Paesi occidentali crescevano e, insieme ai tassi di occupazione, crescevano i salari e i consumi.
Se la torta non si può allargare, allora bisogna che si riduca il numero di persone chiamate al banchetto. Oggi, in questo tempo di risorse scarse, le nuove generazioni hanno fretta di liberare spazi, cercano di farsi posto: non c’è tempo di affiancare, ma si deve sostituire. Ogni persona matura, indipendentemente dalla qualità che esprime, occupa uno spazio e impedisce ad un giovane di essere occupato.
Tutto ciò ha fatto che sì che un termine come rottamazione sia diventato l’emblema dello scontro tra generazioni. Non è avvenuto solo in politica. I lavoratori maturi, in tutti i contesti, si sentono guardati con un’aria di attesa, più o meno paziente, con l’orologio in mano, più o meno come dal dottore si guarda l’orologio aspettando che arrivi più in fretta possibile il proprio turno.
Ma qual è il criterio di qualità per il ricambio generazionale? Il colore della camicia, la dimestichezza con Twitter, i centimetri di tacco? Mi si dirà che in politica una generazione compromessa deve essere sostituita con una che, in quanto giovane, non ha ancora fatto in tempo a sguazzare nella corruzione. Certo, se è così, non occorrerà molto tempo per imparare.
Il punto è che il clima di trepidante attesa con cui i più giovani guardano i più adulti affinché si tolgano dai piedi, investe anche ambiti in cui la corruzione non c’entra e su cui contano competenze, spessore culturale e perché no, esperienza.

Il brano intonato: Le sorelle Bandiera, Fatti più in là [clic per ascoltare]

Maura Franchi (Sociologa, Università di Parma)

Laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano: i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

IL FATTO
Vanno in scena
i giorni del sisma

Poche tende, un binario sul quale scorre la telecamera e una troupe di una trentina di persone che si affannano sul prato dietro le scuole materne di Mirabello. Sono iniziate le riprese di “Terremotati – La notte non fa più paura”, storia di amicizia, amore e speranza a cui lavorano, senza sosta da oltre un anno quattro giovani professionisti del cinema e un comunicatore.

Sono le tre del pomeriggio, l’attore Stefano Muroni si concentra sotto una tenda in attesa del ciack, il giornalista Samuele Govoni spedisce ai giornali le foto della mattinata, il regista Marco Cassini tiene d’occhio il monitor e Ilaria Battistella, il produttore esecutivo fa di tutto e di più. Terremotati è la loro scommessa, fatta di contenuti, passione e know-how.
“L’idea di fare il film a casa nostra mi è piaciuta fin dal primo momento, credo sia utile anche per stimolare chi come me è nato a Ferrara e ha dovuto studiare altrove per dare concretezza al proprio mestiere”, racconta Ilaria diplomata al Centro sperimentale di Cinematografia di Milano. Insieme ai suoi compagni di studi prima e di avventura poi, fa parte dell’associazione “Da Ferrara alla Luna” nata per gestire la produzione, ma anche per creare in città un piccolo centro cinematografico dedicato all’audiovisivo professionale.

La sceneggiatura, fedele al tragico incedere del terremoto, è lo specchio dei tempi nel quale gli effetti del sisma riflettono l’incertezza del lavoro, s’intrecciano con l’esperienza della morte, con i sussulti di una crisi economica e occupazionale senza precedenti. E’ una storia emiliana, ma è la storia di un Paese dove la vita non è più la stessa. Per nessuno, né per gli imprenditori né per gli operai, come dimostrano le tante testimonianze raccolte durante la preproduzione.

Terremotati rappresenta il Paese reale fotografato in corsa. “Avendo un budget risicatissimo e tenuto conto che il crowdfounding deve ancora cominciare, giriamo con ritmi serrati – spiega Ilaria – Dobbiamo fare in due settimane quanto si fa in almeno un mese e mezzo”. Sostenuta dall’entusiasmo, da alcune proposte relative alla distribuzione al vaglio dell’associazione e dall’idea di portare il film nei festival stranieri e italiani più prestigiosi, non ultimo il Giffoni con cui esiste una collaborazione, la troupe procede a passo spinto.
“E’ un piacere vederli lavorare, hanno cuore e passione. Sanno fare, possiedono strumenti e conoscenza, purtroppo quel che manca, ma non solo a loro, sono le opportunità per dimostrare il proprio talento”, dice Maria Rita Storti, l’insegnante che ha investito 20 mila euro nel progetto credendo nel suo valore sociale e umano.

A fare la differenza è proprio il contenuto, ne è convinto anche Giorgio Colangeli, il Salvo Lima del Divo e nel 2007 vincitore del David di Donatello come miglior attore non protagonista del film “L’aria salata” di Alessandro Angelini. In Terremotati, Colangeli che calca la scena dal ‘74, è Lorenzo, il padre di Leonardo- Stefano Muroni, protagonista della pellicola insieme a Giulio – Walter Cordopatri. “Mi è piaciuta la sceneggiatura – spiega – E’ un’esperienza interessante, oltre che un modo di mantenere un profilo etico alto. Con la mia presenza mi auguro di portare al progetto un po’ di visibilità. Noi tutti speriamo di lavorare per la qualità e di imboccare un percorso che porta all’estero, è un iter comune a gran parte dei film d’autore, un passaggio importante per poi imporsi in Italia con la giusta eco”.

Il problema della distribuzione, ricorda Giorgio Colangeli, riguarda quasi tutte le produzioni non commerciali, che possono comunque contare su piccole realtà indipendenti, vere e proprie agguerrite task force decise a raggiungere il risultato. Un risultato talmente cercato da meritare il tocco della fortuna per il combattivo impegno che sa conquistare chi ne percepisce l’energia.

Il dinamismo dell’economia ferrarese a cavallo tra Otto e Novecento

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (QUARTA PARTE)

Con l’Unificazione della penisola sotto la dinastia dei Savoia, si aprì per la Valle Padana un favorevole ventennio di espansione agricola e di un più vivace dinamismo economico, benché continuassero ancora a persistere diffuse zone di arretratezza. Sulle terre prosciugate dalle bonifiche, che avevano richiamato nel Ferrarese schiere di braccianti e di terrazzieri, incominciò ad insediarsi la grande azienda capitalistica, dedita alla produzione cerealicola su vasta scala e aperta al mercato nazionale e internazionale. Tuttavia, l’inizio dell’industrializzazione, con l’impianto in provincia di mulini a vapore, di zuccherifici e di canapifici, non fece che rimarcare la limitativa stagionalità dell’impiego della mano d’opera: la campagna saccarifera, ad esempio, occupava i lavoratori per non oltre sessanta giorni nell’arco di un intero anno. La conseguenza fu che non venne affatto risolto il problema della disoccupazione, anzi, il fenomeno era destinato ad aggravarsi.
Bisogna comunque ammettere che, alle soglie della Prima guerra mondiale, l’espansione produttiva era stata notevole: la produzione del frumento era passata da poco più di 500.000 a oltre 1.200.000 quintali, la nuova coltura della barbabietola da zucchero si era rapidamente affermata favorendo l’insediamento dei primi stabilimenti saccariferi, la coltivazione della canapa continuava ad espandersi. E da questa positiva contingenza traeva alimento anche l’attività industriale, infatti nel 1914 le imprese industriali della provincia di Ferrara erano diventate oltre milleseicento e occupavano quasi quindicimila lavoratori, di cui circa duemila impiegati nel settore della lavorazione dei metalli e la maggior parte dei rimanenti nelle industrie trasformatrici dei prodotti dell’agricoltura.

Briciole di un amore in sfacelo

“Cosa diavolo ti è successo?” / “Non lo so. E non mi importa”.

Rebecca Winter è stata una famosa fotografa, è stata la seconda moglie di Peter che non ha smesso di sposarsi ogni dieci anni ed è stata una newyorkese molto inserita. E a trentasei anni è stanca di raccattare briciole. “Natura morta con briciole” è la fotografia (oltre che il titolo del romanzo di Anna Quindlen, edizioni Cavallo di Ferro, 2014) di uno scorcio, sono i resti di una cena di altri e a cui non si è andati, sono i rimasugli che un marito lascia prima di andare a letto con la solita sfacciata noncuranza.
Quei bicchieri da vino sporchi e quelle forchette unte in mezzo a piatti accatastati si trovano lì per lei, sono la sua vita che, una mattina, all’alba inizia a fotograre. La luce che penetra dalla finestra la sveglia, lo scenario davanti è la notte di Peter con gli amici, la sua ennesima esclusione. Rebecca ne fa arte che i critici definiscono “un’elevazione e al tempo stesso un’accusa alla vita e al lavoro delle donne”, ma solo lei sa la stanchezza e la rabbia che c’erano state dietro a quelle immagini che diventano, giorno dopo giorno, la serie Piano da cucina. Seguono altre foto, assieme alla rabbia di Peter che non si è realizzato come avrebbe voluto e che vede la moglie farsi strada a partire dagli avanzi disordinati di una cena, mollati perché lei li sgomberasse.
Poi Peter se ne va con un’altra donna e la fortuna, si sa, ha i suoi rovesci. Rebecca lascia tutto, la città, la società, la casa e va lontano, a sessant’anni, in un cottage perso tra i boschi dove nuovi legami nascono per necessità e resistono per amore.
Rebecca continua a fotografare e si imbatte nelle tracce inquietanti di un’altra vita, chissà di chi. Queste immagini misteriose e un po’ sinistre le regaleranno una nuova stagione di celebrità nella serie di fotografie Croce bianca, proprio quando la solitudine è diventata per lei stile di vita e malattia interiore.
In una notte di tempesta capita l’irreparabile, l’amore e la morte corrono paralleli. Jim è con lei, ha quasi vent’anni di meno e una ruvidezza rassicurante. Solo Jim può sciogliere il mistero delle immagini Croce bianca perché lui è il custode di quel segreto.
Solo perché ormai nella sua vita c’è Jim, Rebecca potrà rispondere “sono felice” all’amica che le chiede cosa diavolo le sia successo.

LA STORIA
Detenuti in attesa di giudizio. Non solo marò in India

di Valerio Lo Muzio

Succede che, durante un viaggio in India, tre amici decidano di assumere dell’eroina prima di addormentarsi insieme in un grande lettone di una stanza d’albergo, succede che all’indomani malauguratamente uno dei tre non si svegli più, succede che i due amici vengano accusati di omicidio e condannati in primo grado all’ergastolo. Sarebbe l’incipit di un possibile film, ma questa purtroppo è la vera storia di Tomaso Bruno, trentenne di Albenga, che insieme con l’amica Elisabetta Boncompagni da oltre 4 anni e mezzo scontano una condanna di primo grado all’ergastolo nel carcere indiano di Varanasi.
Sulla loro vicenda un film uscirà. ‘Più libero di prima’ è il titolo, a dirigerlo sarà Adriano Sforzi, la produzione è di Articolture Bologna e Ouvert di Torino. Il giovane regista, già vincitore di un David di Donatello per il cortometraggio ‘Jody delle giostre’, dovrà affrontare una sfida non facile: non solo la storia è tortuosa da raccontare, ma le maggiori difficoltà sono date dai costi davvero ingenti: le trasferte in India costano, e i numerosi rinvii del tribunale indiano per emettere la sentenza definitiva (il processo è stato rimandato ben tre volte) mettono a repentaglio il budget. Ora la data finale della sentenza programmata dalla Corte indiana, quella che dovrebbe decidere la sorte dei due ragazzi è programmata per metà ottobre (del resto, non stupisce la lunghezza dei tempi della giustizia indiana, vedi il caso dei due marò italiani), per finanziare il viaggio finale di Sforzi ed il suo team è stata indetta una campagna di crowdfunding.
Questa triste storia inizia il 28 dicembre 2009, quando Tomaso, Elisabetta ed il suo fidanzato Francesco Montis, si recano in viaggio in India. Il giorno prima della partenza i tre giovani decidono di consumare della droga, la mattina dopo, Francesco Montis non si sveglierà più. Il referto post mortem, redatto da un oculista e non da un medico legale, parla di morte per strangolamento, nonostante non ci siano segni evidenti e nell’autopsia si faccia cenno ad un’emorragia cerebrale, alla quale non viene dato assolutamente alcun peso. Per la polizia indiana e per i giudici non ci sono dubbi: è un omicidio passionale, nonostante la sentenza affermi che non ci sono abbastanza prove per dimostrare l’omicidio: il fatto che i tre dormivano nello stesso letto (cosa inconcepibile per la cultura del luogo) è di per sé una prova valida. Ecco che impressione si è fatto il regista Adriano Sforzi.

In meno di un mese avete raccolto il 92% dei fondi per il film. Te l’aspettavi?
No, assolutamente no, non ne ero neanche convinto, perché sono ligure e conosco i liguri (scoppia a ridere, ndr) però, un po’ lo speravo perché so che i liguri sono anche persone molto di cuore. La campagna di crowdfunding, serve a finanziare quest’ennesimo viaggio in india. La produzione, Ivan Olgiati di Articolture di Bologna e Stefano Perlo di Ouvert di Torino, hanno finanziato i primi viaggi, assumendosi anche il rischio che il film non si girasse. Lo scorso anno quindi, abbiamo iniziato le riprese e c’è stato il primo rinvio in tribunale con un anno di attesa. Attorno alla storia di Tomaso ed Elisabetta si è creata una vera e propria comunità, si è pensato quindi di coinvolgerli soprattutto per tenerli uniti. Infatti una delle cose più positive che sono successe in questa storiaè che un piccolo paesino della Liguria come Albenga, si è scoperta comunità, cosa molto difficile negli anni Duemila.

A cosa serviranno questi soldi, che spese andranno a coprire?
Sul nostro sito (www.indiegogo.com) è specificato chiaramente, a cosa servono i finanziamenti. Siamo andati lì con un direttore della fotografia professionista, attrezzature professionali, ci sino da coprire le spese dei viaggi, degli spostamenti, il vitto e l’alloggio, le assicurazioni. Purtroppo tutte queste spese dovremo affrontarle di nuovo, a causa dell’ennesimo rinvio decretato dalla Corte indiana.

Ecco, parliamo di questo rinvio, il 16 settembre era prevista l’ udienza presso la Corte Suprema, poi è tutto è saltato in quanto mancava l’avvocato difensore, come affronterete queste vicende nel film?
Tutte queste vicende avranno un ruolo marginale nel film, perché vorrei rappresentare la crescita di Tomaso. Sarà principalmente un romanzo di formazione, scritto a mano da Tomaso, in quanto il film è soprattutto tratto dalle lettere che Tomaso ha scritto in questi lunghi 4 anni passati in carcere.

Cosa scrive Tomaso ai suoi genitori in queste lettere?
Nelle prime lettere, Tomaso descrive gli avvenimenti di quei giorni, ma la cosa che più mi ha colpito è che ogni volta scrive ai genitori :“State tranquilli perché questa storia finirà”. E’ sorprendente come questo giovane, rinchiuso in un carcere da 4 anni, senza acqua, senza elettricità e con altri 150 detenuti, dice agli altri di stare tranquilli. Tomaso chiude spesso le sue lettere con un “Forza Inter”, è tifosissimo e si fa spedire dalla mamma dei pacchi da 100 copie de ‘La gazzetta dello sport’ per tenersi informato sul campionato italiano. Sul muro della cella ha disegnato una classifica della serie A, questo lo tiene in Italia, lo tiene vivo, ancorato alle sue radici, e lo rimanda a quel bar dove noi vedevamo ’90 minuto.

Nella homepage del sito piùliberodiprima.it c’è una citazione di Tommaso, che recita: “Sono entrato in carcere in India come un ragazzo in perenne conflitto con se stesso. Oggi sono talmente tranquillo che non provo nemmeno un pizzico di odio verso i responsabili di questa vergognosa ingiustizia”. Insomma Tommaso pare aver acquistato una consapevolezza, cosa ha trovato secondo te? Perché è così sereno nonostante sia in carcere?
Cosa ha trovato veramente non lo so, ma credo che sia giusto raccontare come ci sia arrivato a questa serenità. Tomaso è arrivato a questa frase dopo aver passato 4 anni e mezzo in carcere per un delitto che non ha commesso. Credo fermamente che questa sua evoluzione può essere utile a tutti. Mi sono convinto a realizzare il film quando ho capito che questa, poteva essere una storia universale, utile davvero a chiunque. Mi chiedevo cosa potessi fare per Tomaso, di fronte quest’enorme ingiustizia ti senti impotente, l’unica cosa che potevo fare era raccontare in un film la sua storia.

Se nella sentenza definitiva dovessero essere condannati che farete, girerete lo stesso le scene?
E’ un’ipotesi che non prendo neanche in considerazione, il mio film finisce con Tomaso che ritorna a casa, non voglio pensare a nient’altro, perché è talmente assurda tutta questa storia, che non voglio credere che continui. Quindi ora attendiamo altro tempo, ma poi gireremo il finale come dico io, non come dicono loro.

Nel 2012 Le Iene, sono andate a Varanasi, in carcere con le telecamere e i due ragazzi hanno ammesso l’assunzione di droghe, pensi che quest’ammissione abbia contribuito a far spegnere i riflettori su questa vicenda?
Purtroppo è così, proprio in quel filmato, la serenità con cui Tommy ha ammesso di aver provato per la prima volta l’eroina è la serenità con cui io affronterò questo racconto. La droga fa parte della storia di Tomaso e purtroppo anche quelle persone che pensano che chi si droga è per forza un assassino fanno parte di questa storia. Anche perché nel referto dell’autopsia redatto da un’oculista si fa cenno ad un ematoma interno nella testa di Francesco Montis, che non è causato da nessuna botta, quindi è molto ma molto probabile che la causa della sua morte sia quella. Bastava che un qualsiasi medico valutasse quell’autopsia per dire che Checco è morto di overdose e mandare a casa quei due ragazzi.

(ha collaborato Sirio Tesori)

[www.lastefani.it]

Versailles e la Tempesta

Nel dicembre del 1999 due violenti uragani devastarono il nord della Francia. Furono eventi atmosferici straordinari e lasciarono alle loro spalle un regalo indesiderato di morte e distruzione. Una delle due fu particolarmente memorabile e i francesi quando ne parlano, non l’hanno battezzata con un nome proprio, ma usano semplicemente le maiuscole, quella è semplicemente, La Tempesta. I danni provocati dal suo passaggio furono enormi, fra i tanti, la distruzione di una quantità considerevole di alberature storiche e monumentali. Il parco della reggia di Versailles fu devastato, circa 10.000 alberi furono sradicati dalla violenza del vento, ma se guardiamo questo disastro da un altro punto di vista, si può dire che mise fine a una lunga discussione che animava il dibattito sulla sua gestione. Mi rendo conto che fare una considerazione del genere è come definire un terremoto come un nuovo piano regolatore, ma ci sono dei casi in cui l’eccesso di discussione, porta inevitabilmente ad una immobilità che può essere controproducente. Il governo francese, anche in tempi di crisi, stanzia fondi pubblici per la conservazione e il mantenimento del suo patrimonio di giardini storici che a noi italiani può sembrare fantascienza, di conseguenza il dibattito sulla gestione dei grandi parchi, anche se non diventa argomento da Bar Sport, è comunque al centro dell’attenzione pubblica e della stampa, anche per i non addetti ai lavori.
Nel caso di Versailles, il dibattito sulla sua gestione scatena sempre delle grandissime polemiche e all’avvicinarsi del cambio di secolo erano relative ad un fatto specifico: mantenere le grandi siepi che delimitavano la grande prospettiva centrale del parco o sostituirle con una nuova piantagione?
In Francia non c’è un problema di manutenzione del Verde, i nuovi impianti, soprattutto nei giardini di grande richiamo turistico, sono curati come principini, quindi la discussione riguardava i possibili cambiamenti dell’immagine storicizzata del parco. Sostituire le grandissime siepi che fiancheggiavano il “Grand Canal”, significava perdere per più di un decennio l’immagine ormai stabilizzata del parco e dare in pasto alle migliaia di turisti una cartolina diversa. La Tempesta ha messo fine alla discussione e verificare come il parco abbia cambiato la sua immagine, prima e dopo la catastrofe, è molto semplice, basta fare un giro su internet e curiosare nelle foto delle vacanze messe in rete.
È bene ricordare che nei grandi giardini formali creati da Le Nôtre nel 1600, ai tempi del Re Sole, queste lunghissime siepi potate erano una delle caratteristiche di questi luoghi, in cui la Natura, per diventare bella e degna di chiamarsi Giardino, doveva perdere ogni spontaneità ed essere regolata e dominata dalle mani e dalla ragione dell’uomo. Attraverso potature continue le piante assumevano forme geometriche e artificiali, per esempio alcune specie di alberi e arbusti di buon carattere, come i carpini e il bosso, perdevano il loro aspetto per diventare ricami, sculture e quinte di una scenografia teatrale complessa. Decenni di potature però indeboliscono le piante e in passato la loro sostituzione, per esempio nei labirinti, era considerata una prassi nella gestione della forma del parco, oggi invece, ovunque si tende a monumentalizzare le piante e a considerare il giardino storico o le cosiddette alberature storiche, come qualcosa di intoccabile. Questa vicenda mi ha sempre fatto riflettere, i giardinieri dei giardini formali, curavano le loro piante seguendo l’estetica dell’epoca, ma erano perfettamente consapevoli di maneggiare materia viva, una materia che nel tempo si ammala, cresce, invecchia, muore e rinasce, noi con la nostra cultura, sempre alla ricerca di una naturalità perduta, trattiamo i giardini come oggetti, li vogliamo eterni, come una cosa già morta.

L’APPUNTAMENTO
Lella e lo storione di Burana per un week end dedicato alla buona cucina

dalla redazione di Fuoriporta

Per assaggiare lo storione, cucinato con maestria, ma da un gruppo di amici, che non sono cuochi, ma più dei cuochi stellati ci mettono passione e amore, dovete andare nel centro sportivo di Burana, piccola frazione di Bondeno. Qui vi aspettano la Lella e tutta la sua truppa che con mestolo e pentole sono in grado di far miracoli! Mettetevi in coda e aspettate il vostro turno se non avete prenotato*.
Il centro sportivo in cui si svolge la sagra, è un luogo molto carino e accogliente ed ogni “mattoncino”, anzi tavola, perché è tutto in legno, è stata messa su dai membri dell’associazione. Mangerete storione dentro una baita in provincia di Ferrara, un’esperienza da non perdere.
Tortelloni ripieni con lo storione, ma non solo, antipasti e tanti secondi fanno parte del ricco menù che vi attende questo week end, sabato e domenica 27 al 28 settembre.
Creatura dal fascino mitologico per la capacità di donare le sue gustose uova, lo storione viene da sempre considerato il “signore del Po” perché può vivere sino a cento anni e pesare oltre 400 chili. Le sue tracce sono antichissime e si perdono negli angoli più remoti dell’Impero Romano, quando nuotava felicemente dall’Adriatico al Tirreno, finché la caccia indiscriminata ha finito per renderlo una specie rara, oggi protetta dalla convenzione di Washington Questa tradizione è da sempre fortissima nel Ferrarese, e ancora di più a Bondeno, che sorge proprio sulle rive del Po.
Oltre allo storione, non potete perdere il Museo della civiltà e della tradizione gastronomica, che in occasione della sagra sarà aperto e visitabile. Per gli amanti della cultura, oltre al grazioso centro di Burana, merita una visita Bondeno, con la splendida pinacoteca Galileo Cattabriga e la Chiesa Arcipretale dedicata alla Natività di Maria Vergine, costruita nel 1114 per donazione di Matilde di Canossa, la Rocca Possente a stella, il Duomo di Bondeno e il Campanile di Matilde di Canossa.

*Per prenotare, chiamare al numero 340 8505381

Per ulteriori informazioni vedi il sito di Fuoriporta [vedi]

L’EVENTO
Cento hacker a Ferrara
per promuovere progetti
di sviluppo sostenibile

Niente paura, i nostri sistemi informatici sono al sicuro. Il grande hackathon voluto da Alce Nero e Amnesty International parla di “Diritti alla Terra” e sceglie anche voi per discuterne.

Si riuniranno il 3 e 4 ottobre a Ferrara, al Consorzio Wunderkammer, i 100 partecipanti dell’evento  gratuito “Diritti alla Terra” voluto da Alce Nero e Amnesty International in collaborazione con Internazionale e il suo Festival.

Cento studenti e giovani professionisti (tra cui potreste esserci anche voi) si incontrano per discutere i grandi temi legati alla terra e cercare per essi una soluzione, lo faranno attraverso un nuovo modo di produrre innovazione: l’hackathon. Importati dall’America, più precisamente dalla ormai notissima Sillicon Valley Californiana, questi eventi riuniscono i loro partecipanti in maratone di 24/48 ore allo scopo di sovvertire l’approccio a grandi temi, cercando per essi soluzioni alternativi e nuove idee.

L’evento, organizzato con il supporto tecnico/scientifico di Future Food Institute, discuterà di terra, di diritti e di cibo buono: come si possono condurre progetti di sviluppo che preservino le risorse naturali e rispettino i diritti economici, sociali e culturali delle popolazioni che abitano i territori? Come si restituisce dignità al lavoro agricolo, ci si riappropria della sovranità alimentare e si ricostruisce l’idea di un cibo di relazione? Cosa si nasconde dietro al cibo con cui ci nutriamo ogni giorno?

A questi interrogativi dovranno dare risposta giovani aspiranti giornalisti, comunicatori, designer, agronomi, programmatori e perchè no, ingegneri, progettando un nuovo strumento di comunicazione, uno strumento editoriale alternativo o un prodotto alimentare simbolo di questo nuovo germogliare d’idee. A cosa potranno ambire? Alla possibilità di presentare il loro progetto pubblicamente, di fronte ad una platea interessata.

Ad arricchire la maratona ferrarese , la presenza di ospiti importanti come Simone Salvini, Cinzia Scaffidi, Giovanni Dinelli, Lucio Cavazzoni, Tom Mueller, Rossella Muroni, Jonathan Nossiter, Amalia De Simone, Gilles Luneau, Andrea Segrè, Stefano Pratesi, Rita Brugnara e molti altri ancora.

Le iscrizioni alla maratona sono ancora aperte e gratuite.
Qui tutte le informazioni, il programma e i premi in palio: www.dirittiallaterra.it.

Un ‘saluto al sole’
migliora la giornata

Tradizionalmente, il motivo principale dell’esecuzione di questa sequenza di Hatha yoga è di tipo devozionale: su Wikipedia si legge infatti che si tratta di un omaggio al sole (surya), sin dai tempi antichi identificato come colui che genera la vita con i suoi raggi energetici che fanno fiorire l’uomo e la natura. Ma lo scopo non è solo devozionale e simbolico, è anche fisico. Infatti, la pratica del saluto al sole ha il compito di sciogliere, allungare e rendere flessibili i muscoli. ‘Surya namaskara’ in lingua Sanskrita, il saluto al sole è una sequenza di 12 posizioni da realizzare in modo fluido, per massaggiare gli organi interni e ampliare la respirazione. Dato che questo saluto è composto da numerosi movimenti, è molto importante provarli in un primo tempo separatamente per acquisire familiarità con ciascuno, e poi eseguire la sequenza completa descritta di seguito.

L’ideale è alzarsi prima dell’alba, considerata l’ora del (brahman), l’ora divina, nella quale il campo energetico intorno a noi è più intenso. Per una buona pratica, si consiglia inizialmente di concentrarsi su una sola posizione (asana) al giorno. Lo yoga non è uno sport, quindi il suo scopo è cercare il rilassamento e l’armonia. Mentre si fanno gli esercizi, si deve solo pensare a lasciarsi andare e sentire il proprio respiro e il proprio corpo. E’ un momento importante, più si pratica, più si sviluppa la propria autocoscienza. Il nostro consiglio è di arrivare, piano piano, ad seguire dagli 8 ai 12 saluti al sole ogni mattina. Se hai solo 10 minuti al giorno da dedicare al tuo benessere, prova il saluto al sole!

“Mi alzo, apro gli occhi, apro le braccia innanzi a te. Mi muovo e mi sento così assorbito, la mia anima e il mio respiro sono mossi talmente dalla tua magnificenza, mi sento così umile, modesto… quando arrivo a toccare quella magnificenza è talmente immensa che mi sento così piccolo da inchinarmi fino a terra.”
Swami Veda Bharati, “Philosophy of Hatha Yoga”

La serie di asana prevede sia la fase statica della posizione, che la fase dinamica di passaggio da una asana alla successiva. Questa fase dinamica, fortemente legata alla respirazione, è importantissima per il risultato finale dell’esercizio sia dal punto di vista fisico che spirituale. Nella prima fase, si faranno gli esercizi portando avanti la gamba destra e, nella seconda fase, portando avanti la sinistra.

Spiegazione tecnica e pratica

saluto-sole1 POSIZIONE A MANI GIUNTE (PREGHIERA)
Dalla posizione della montagna (tadasana), tenere le gambe unite. Verificare che il peso del corpo sia ben distribuito sulle piante dei piedi. Inspirare e portare le mani unite all’altezza del petto, nella posizione della preghiera. Espirare.

2 POSIZIONE DELLE BRACCIA IN ALTO
Inspirando, distendere le braccia verso l’alto, poi piegarsi all’indietro, inarcando la schiena secondo le proprie possibilità e spingere le anche leggermente in avanti.

3 POSIZIONE DELLE MANI AI PIEDI
Espirando, piegarsi in avanti e portare le mani ai lati dei piedi, possibilmente con i palmi appoggiati a terra. Distendere la schiena il più possibile e, se necessario, aiutarsi piegando leggermente le ginocchia.

saluto-sole4 POSIZIONE EQUESTRE
Inspirando, portare la gamba destra indietro, appoggiando il ginocchio e il piede al suolo, guardando in avanti o in alto.

5 POSIZIONE DEL BASTONE
Trattenere il respiro, portando la gamba sinistra indietro e sostenendo il peso del corpo con le mani e con le punte dei piedi. Mantenere il corpo e la testa in asse e guardare a terra tra le mani.

6 POSIZIONE DEL SALUTO CON OTTO PARTI DEL CORPO
Espirare, mantenendo ginocchia, petto e fronte sul tappetino, tenendo il bacino sollevato e le dita dei piedi piegate.

7 COBRA
Inspirando, abbassare le punte dei piedi e il bacino, allungare i piedi e inarcare la schiena all’indietro. Guardare verso l’alto, tenendo le spalle abbassate e le gambe unite.

8 MONTAGNA
Espirando, fare pressione sulle mani, distendere le braccia e portare il bacino in alto, distendendo le gambe e portando le piante dei piedi e, possibilmente, i talloni a terra.

9 POSIZIONE EQUESTRE
Inspirare e flettere in avanti la gamba destra, portare il bacino verso il basso, poi espirare e flettere in avanti la gamba sinistra.

10 POSIZIONE DELLE MANI AI PIEDI
Distendere le gambe, mantenendo le mani al suolo, la schiena distesa il più possibile e il capo in basso.

11 POSIZIONE DELLE BRACCIA IN SU
Inspirando, sollevare gradualmente la schiena e le braccia, portando le braccia distese in avanti, poi verso l’alto, con i palmi delle mani uniti. Inarcare all’indietro, espirando e spingendo leggermente le anche in avanti.

12 POSIZIONE A MANI GIUNTE (DELLA PREGHIERA)
Tornare nella posizione eretta di partenza, mantenendo i palmi delle mani uniti.

Di seguito sono elencati alcuni dei benefici psichici e fisici:

• con l’espansione e la contrazione dell’addome, si massaggiano le viscere, questo movimento attiva la digestione elimina la costipazione e l’indigestione, rinforzando il sistema digestivo;
• rinforza la cintura addominale, mantiene gli organi al suo posto e la stagnazione sanguigna è eliminata;
• durante la pratica con la sincronizzazione del movimento dei respiro i polmoni sono ventilati;
• nei movimenti in avanti ed indietro la colonna vertebrale diviene più flessibile;
• grazie alla massiva espulsione di CO2 e altri gas attraverso le vie respiratorie, il sangue si ossigena e purifica;
• il flusso sanguigno e l’attività cardiaca sono incrementati, questo è indispensabile per ridurre l’ipertensione, le palpitazioni e riscaldare le estremità del corpo (mani e piedi) e quindi godere di buona salute;
• attraverso lo stiramento e l’elongazione della colonna vertebrale, il sistema nervoso si rafforza, regolando le funzioni del sistema nervoso simpatico e parasimatico, questo aiuta ad accrescere lo stato onirico e la memoria;
• con il movimento e la decompressione del collo, le ghiandole endocrine sono stimolate, in particolare la tiroide;
• la pelle elimina una grande quantità di tossine, ringiovanendo la pelle;
• migliora la muscolatura totale del corpo.

Prevenzione, prevenzione, e ancora prevenzione!

LA PROPOSTA
Rilanciamo la città: via delle Volte, strada delle botteghe e delle tipicità locali

Se ne parla da sempre, a parole son tutti d’accordo. Ma nulla succede. Via delle Volte, l’antica strada dei fondachi medievali, dovrebbe tornare quel che era per originaria vocazione, riadattando l’inclinazione al presente: dunque laboratorio, teatro di botteghe artigianali, emporio di prodotti tipici del territorio, spazio d’esposizione delle eccellenze d’ogni genere, dall’arte alla gastronomia, dai manufatti alle opere d’ingegno.
Meriterebbe d’essere strada brulicante di passanti, turisti e ferraresi, meta d’obbligo per chiunque venga in città. Invece è poco più di un retrobottega, nel quale i curiosi sbirciano da via San Romano o da corso Porta Reno. E’ attraente come un vestito fuori moda, a tratti risulta scalcinata e trasandata, non ispira allegria ma tenerezza. In definitiva è spenta. Nell’insieme appare senza scopo né identità.
E dire che le sue potenzialità sono enormi. Per rilanciarla e imporla come una gemma della città bisognerebbe compiere un’operazione lungimirante al pari di quella a suo tempo realizzata per il recupero delle mura estensi. Un’operazione ispirata dal compianto Paolo Ravenna e condotta dall’amministrazione del sindaco di allora, Roberto Soffritti, che di tanti peccati politicamente si macchiò, ma al quale non si può negare di aver saputo dispiegare risorse e sviluppare progetti che hanno dato grande lustro a Ferrara.

Dunque, attorno al tavolo di programmazione – con la volontà di fare e non di chiacchierare – sarebbe bene che sedessero tutti gli attori qualificati: le istituzioni, le associazioni civiche e culturali, le rappresentanze delle forze produttive, imprenditoriali e commerciali; anche le banche, se una banca ancora ci fosse in città che ragiona nell’interesse della comunità. L’intrapresa non potrebbe evidentemente prescindere da un robusto finanziamento europeo e dalla munifica benevolenza ministeriale. E perché non approfittarne proprio ora, che al dicastero siede un ferrarese?

Il percorso, nel cuore della Ferrara medievale, è pregno di storia e di suggestioni da rivificare. Il tratto centrale ha un’estensione di 600 metri fra via Boccacanale di Santo Stefano e via Gioco del Pallone. E’ stretto fra casette in mattone a vista spesso con la classica configurazione del cassero ed è tratteggiato dalle tipiche volte che danno nome alla via.
Il naturale prolungamento della strada si ha verso ovest, in direzione corso Isonzo, con via Capo delle Volte; mentre sul fronte opposto, quello est, il cammino prosegue idealmente in via Coperta, staccata da via Gioco del Pallone dai 150 metri di percorrenza obbligata sull’adiacente via Mayr, sino all’innesto in via Belfiore. In questo caso a spezzare la continuità del passeggio sono i giardini interni di due residenze private. In tutto, da un fronte all’altro della città, un’escursione di due chilometri esatti che le conferiscono un primato: risulta essere la più lunga strada medievale del mondo.

Lo spazio e l’atmosfera sono ideali per esposizioni, performance, mercatini, eventi… Serve un intervento misurato e raffinato. Signori amministratori, è tempo di passare dalle chiacchiere ai fatti.

Viaggio sola, a un passo
dalla felicità

Irene (Margherita Buy) è una donna di successo, bella, poliglotta, colta, senza figli né famiglia, libera, che ha superato i quarant’anni e svolge un lavoro insolito, divertente e coinvolgente: è “l’ospite a sorpresa” degli hotel di lusso a cinque stelle, invitato in incognito per verificare che gli standard di qualità presentati ai clienti corrispondano alla realtà, in poche parole che il prezzo elevato (spesso elevatissimo) richiesto sia in qualche modo giustificato.

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La locandina del film

Per questo, gira il mondo con il suo bel taccuino prezioso, preciso-pignolo-spietato-ma onesto, controllando ogni cosa con meticolosa e maniacale attenzione. Redige le sue relazioni finali con severità e solo alla fine del soggiorno rivela la sua vera identità, con immancabile grande sorpresa e costernazione del direttore dell’albergo del momento e dei suoi collaboratori. Tutto affascinante e interessante, salvo che quando Irene rientra a casa è sola, immancabilmente e sempre molto sola. Supplisce alla mancanza di affetto e di maternità con le nipotine, figlie della sorella Silvia, ha un ex fidanzato, Andrea (Stefano Accorsi), come grande amico con cui è rimasta in sintonia e con il quale trascorre qualche momento piacevole, senza implicazioni e complicazioni di alcun genere.

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Irene, nella camera di un hotel di lusso

A seguito di un fortuito incontro con l’antropologa Kate Sherman (Lesley Manville), che muore improvvisamente nell’hotel di cui lei è “ospite a sorpresa”, Irene inizierà a chiedersi se, pur conscia di essere una privilegiata, la sua possa definirsi realmente felicità, in un mondo in cui una donna di quarant’anni, single, non può sentirsi del tutto realizzata se non ha né figli né una relazione stabile e duratura. Ecco allora angoscia, ansia e paura. Lei, come Kate, è una donna saggia, agiata, ma sola. La conclusione è quella che la felicità non esiste, che essa è semplicemente un compromesso, una rinuncia inevitabile a qualcosa. Sceneggiatura (curata anche da Francesca Marciano e Ivan Cotroneo), montaggio e regia sono di ottimo livello. E poi incantano le location scelte, da un affascinante e colorato Marocco fino alle terme della Toscana, da Parigi alla Puglia, a Berlino. Gli alberghi sono veri e bellissimi. Divertente e autentico.

Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi, con Margherita Buy, Stefano Accorsi, Fabrizia Sacchi, Gianmarco Tognazzi, Alessia Barela, Lesley Manville, Carolina Signore, Diletta Gradia, Italia, 2001, 85 mn.

LA PROPOSTA
Pensare in grande: riscopriamo il canale Panfilio per cambiare faccia al centro storico

Il castello di Ferrara è un quadrilatero con sole due facce, quella che guarda il corso Martiri e l’altra rivolta a piazza Savonarola. Gli altri due lati sono di scorrimento, sostanzialmente invisibili perché non adeguatamente valorizzati. Il prospetto che sta fra viale Cavour e corso Giovecca è sacrificato al transito automobilistico, mentre come un retrobottega è stato sempre trattato il fronte che guarda i “giardini della Standa” (tutti continuano a chiamarli così perché nessuno ha mai saputo il loro nome, che è stato recentemente cambiato in “20 e 29 maggio 2012” in memoria del terremoto).

Bene, anzi: male. La città Unesco è tale per il carattere dell’impianto urbanistico del suo centro storico e vanta alcune perle famose nel mondo: il palazzo dei Diamanti, corso Ercole d’Este (definita da Byron la strada più bella d’Europa), il duomo, palazzo Schifanoia, le vie medievali, le mura. Fra i monumenti eccelle il castello Estense. Possibile non si possa fare nulla per meglio esaltarne i pregi?
Proprio in questi giorni il deputato Alessandro Bratti ha rilanciato l’idea di chiudere l’asse Cavour-Giovecca fra l’intersezione con via Spadari (palazzo delle poste) e quella con via Bersaglieri del Po. Rendere pedonali quei 500 metri di strada darebbe un nuovo volto alla città e nuova vita all’area monumentale. Ferrara, che con Perugia ebbe per prima l’intuizione e la forza di impedire alle auto l’ingresso in centro all’inizio degli anni Settanta, deve ritrovare quello slancio e quel coraggio di scommettere su se stessa.

Ma si potrebbe fare ancora di più. Sotto viale Cavour, scorre l’antico canale Panfilio, che fino all’Ottocento conferiva al centro di Ferrara un carattere “veneziano”, con acqua e ponticelli di attraversamento. Fu creato artificialmente e progressivamente ampliato fra la fine del Cinquecento e la metà del 1600, e tombato nel 1880. Riportarlo alla luce si può!
Non è un’idea folle, è un progetto grandioso che rilancia l’ambizione di una città che nel Rinascimento fu riconosciuta capitale artistica e culturale d’Europa e che nei secoli seguenti è andata progressivamente spegnendosi, per pigrizia intellettuale, facendosi provincia di se stessa e di un provincialismo senz’anima e senza ambizioni.

In uno slancio neorinascimentale, lanciarono questa proposta anni fa lo scrittore Roberto Pazzi e lo storico dell’arte Ranieri Varese. Nonostante la loro fama e la riconosciuta autorevolezza furono sostanzialmente irrisi come sognatori fuori tempo. Invece quell’idea fu seriamente considerata e ripresa dallo stimatissimo architetto Carlo Bassi, che in un prezioso documento del 2004, dal titolo “Come sogno Ferrara fra 10 anni” (raccolta di opinioni promossa dall’associazione il Pane e le Rose), scrisse: “Demolirei viale Cavour per ritrovare il canale Panfilio. La vecchia idea di Ranieri Varese e Roberto Pazzi bocciata come una inutile fantasia di mezza estate ritengo invece che sia di grande attualità per dare un senso a questo viale ʹumbertinoʹ così estraneo, nella sua dimensione, allo spirito della città”.
In realtà non sarebbe neppure necessario smantellare la via, già basterebbe riaprire la parte di controviale fra il palazzo delle poste e il castello per conferire a quel tratto stradale, che è preludio ai tesori antichi, la funzione di suggestiva porta di accesso alle meraviglie della città estense.

IL VIDEO
Le strade della criminalità,
Varese: “Così le mafie
conquistano nuovi territori”

Tra i massimi esperti di mafie a livello mondiale, Federico Varese, sociologo ferrarese professore della Oxford University, è stato nei giorni scorsi fra i relatori al convegno nazionale “La regolazione dell’economia tra formale e informale”, organizzato dall’Associazione italiana di sociologia all’università di Milano Bicocca, che ha visto fra i partecipanti anche Nando dalla Chiesa. Per Varese si è trattato di un’occasione per ripercorrere sinteticamente il senso delle sue più recenti ricerche, in particolare in riferimento al tema delle migrazioni delle mafie nel mondo.

Qui è possibile vedere il video della sua conferenza (28 minuti) [clic per andare al filmato]

Il video è ospitato sul canale WikiMafia, libera enciclopedia sulle mafie [vedi]

L’EVENTO
Aliens, l’arte
della diversità

E’ oggi la 7a Giornata europea del dialogo interculturale. Una buona occasione per vedere la mostra “Aliens, le forme alienanti del contemporaneo” alla Casa di Ludovico Ariosto di Ferrara. Fino a domenica la rassegna con le opere di 22 artisti. Quadri, disegni, murales che danno spazio alla rappresentazione di tutto quanto può essere diverso, alieno, sovversivo.

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Dipinto murale “Quinto Stato – Sfiggy Invasion” di Alessio Bolognesi, tra i curatori della mostra “Aliens” alla Casa dell’Ariosto di Ferrara

Il finissage si terrà sabato a partire dalle 18.30 e prevede la ultime quattro performance e videoproiezioni della rassegna con la presentazione del catalogo ufficiale.

In via Ariosto 67 a cura di Frattura scomposta art magazine, ingresso gratuito ore 10-12.30 e dalle 16.

LA STORIA
La bambina senza identità
che ha ritrovato i colori della vita

Ha un anno appena e già resta sola con la mamma e il fratello, di cinque anni più grande. Il papà, José Maria Molina, militante clandestino del Partito rivoluzionario dei lavoratori, viene rapito e fucilato, assieme a 15 compagni, da un organizzazione paramilitare, la cosiddetta ‘Tripla A” (Alleanza anticomunista argentina), attiva ben prima dell’avvento della dittatura. E’ il 12 agosto del 1974 e la vita di Jorgelina è già sconvolta.
Nel 1976, dopo il golpe, la situazione in Argentina precipita e tutti gli oppositori del regime sono a rischio di vita. Quando Jorgelina ha da poco compiuto i tre anni, le milizie fanno irruzione nell’appartamento dove vive, a Lanús, nella provincia di Buenos Aires. Nella notte, in sua presenza, la mamma viene sequestrata. Non la rivedrà mai più e di lei non saprà più nulla. Isabel Cristina Planas da allora è ufficialmente ‘desaparecida’, per sempre. Di quel trauma, Jor, serba lacerante memoria e ancor oggi fatica a parlare.
Qualche giorno più tardi viene condotta da una vicina di casa al tribunale per i minori che la affida a un orfanotrofio, dove rimane per sei mesi. In seguito il giudice, senza preoccuparsi di ricercare i suoi parenti, la assegna a una famiglia, probabilmente connivente con il regime militare, i Sala. Le dicono che i suoi genitori erano guerriglieri che buttavano le bombe e l’hanno abbandonata: loro sono i suoi salvatori. Magari ne sono intimamente convinti e si sentono davvero benefattori. Come in ogni guerra (e anche quella Argentina, in un certo senso, guerra è stata, sia pur non dichiarata, guerra civile ad armi impari), i carnefici hanno un rapporto ambivalente con le vittime. Si può immaginare in questo caso che la ‘salvezza’ offerta ai figli rappresentasse nella mente obnubilata dei persecutori una sorta di riscatto dalla brutalità del male ‘necessario’ inflitto ai genitori, ‘nemici della Patria’.

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‘Jorgelina piange’, autoritratto di Jorgelina Molina Planas

E’ l’ottobre del 1977. Jor vive con inevitabile tormento e sofferenza la propria condizione in quella famiglia. Le dicono subito: “Non ti chiamerai più Jorgelina, il tuo nome ora è Carolina”, Carolina Maria Sala. Studia, si diploma, si iscrive all’Accademia di Belle arti. Del fratello Damiàn non sa più nulla. Nel frattempo la nonna paterna Ana Taleb de Molina, rifugiata in Svezia, la cerca disperatamente. La sostengono le ‘Abuelas de Plaza de Mayo’ e varie organizzazioni per i diritti umani. Finalmente, nel 1984, entra in contatto con la famiglia adottiva, che però non le permetterà mai di parlare con la nipote. Continuerà a scriverle sino al giorno della sua morte, ma quelle lettere non saranno consegnate. Jor ritroverà anni più tardi gli originali conservati dalla nonna.

Nel 1996 ‘Carolina’ Jorgelina ha 23 anni ed entra in convento, nella congregazione “Schiave del Sacro Cuore di Gesù”. Ci resterà sino al 2002, quando deciderà di lasciare la vita religiosa. In quegli anni, però, inizia a ricreare se stessa e comincia a colmare di senso i vuoti di un’identità tutta da costruire. Dipinge anche, ma lo fa in “in bianco e nero”, giocando sulle sfumature del grigio: rappresentano bene una vita senza colore e senza felicità.

Il riscatto avviene a poco a poco. E inizia proprio dai giorni del convento, quando le suore le permettono di ricevere la posta e le lettere di amici e congiunti, quelle che la famiglia adottiva le aveva sempre celato. Le suore l’aiutano nel processo di ricerca della sua identità. Già nel maggio del ’96 ritrova il fratello Damián e la famiglia biologica: zii, cugini e nonna materna. Così, piano piano, può prendere a riordinare i tasselli della sua esistenza e a riscoprire la sua storia. Poi incontra Antonio, l’uomo di cui si innamora e che sposa. Oggi Jor ha 41 anni, tre figli, un amore e una vita. Continua la sua attività artistica, dipinge ed espone in tutto il mondo. E le sue tele, tracce di un anima dispersa e poi riafferrata, hanno ritrovato la gioia dei colori.
Per se stessa e ufficialmente anche per il mondo, il suo nome ora è Jorgelina Paula Molina Planas.

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La copertina del romanzo di Michele Balboni ‘La diva del tango’, illustrata da un dipinto di Jorgelina Molina Planas

“Jor” è l’autrice del dipinto riprodotto sulla copertina del romanzo “La diva del tango”, pubblicato da Faust edizioni e scritto dal ferrarese Michele Balboni. Il volume sarà presentato nell’ambito degli eventi del Festival Internazionale. Racconta di Marisol e di sua figlia Ines e narra una vicenda di fantasia, specchio delle tragedia dell’Argentina dei generali negli anni della dittatura, centrando nello specifico proprio il tema dell’appropriazione dei bambini dei desaparecidos da parte delle famiglie compiacenti con il regime. Nella postfazione del libro c’è la biografia di Jorgelina.

Venerdì 3 ottobre, per la presentazione, saranno a Ferrara anche Walter Calamita e Claudio Tognonato, promotori in Italia della “Campagna per il diritto all’identità” a sostegno dei figli dei desaparecidos argentini. L’incontro si svolgerà alle 17 alla libreria Ibs di piazza Trento e Trieste.

LA RIFLESSIONE
Reali bisogni e tutela dei beni collettivi al tempo della crisi

La società attuale si fonda sui due pilastri collegati della produzione e del consumo. Poco importa che politiche differenti privilegino l’uno o l’altro versante, il profitto o il lavoro: secondo il mainstream la crescita illimitata del consumo sembra essere ancora l’unica possibile soluzione per garantire infrastrutture e servizi che diamo ormai per scontati; ed è proprio nel nome della crescita che devono sempre essere inventate nuove opportunità per ampliare e rimodellare i bisogni: questi diventano sempre più spesso un attributo del sistema economico, una produzione della mega-macchina, una variabile della produzione piuttosto che essere una dimensione fondante del vivere civile che si appoggia innanzitutto sulle precondizioni biologiche, antropologiche e sociali della vita.

La crisi che stiamo attraversando pone drammatici interrogativi a questo modello che mostra come non mai un’autoreferenza estremamente pericolosa, che lo porta a funzionare ciecamente in base alle proprie regole interne, dissipando e distruggendo tutti quei beni comuni che sono indispensabili alla vita. L’urgenza di un cambiamento radicale rispetto a questo stato di cose si sta dimostrando tutt’altro che semplice: se cambiamento positivo ci sarà, esso non potrà che scaturire anche dal basso e passare anche attraverso una destrutturazione e uno smontaggio del concetto stesso di bisogno e del suo utilizzo corrente. E’ proprio dal modo con cui una società definisce, conosce, organizza i propri bisogni e li risolve che si misura il suo grado di civiltà. Ma quali bisogni e per quali persone?

Il bisogno si mostra sempre in due modi: come spinta all’azione, come stimolo e motivazione interna che porta a certi tipi di comportamento o di scelta; come stato di carenza, di mancanza rispetto a qualcosa ritenuto importante, possibile auspicabile, problematico o addirittura essenziale; come un problema che può essere risolto.
Dietro questa tensione tra motivazione e carenza si può intuire la presenza di un duplice meccanismo generatore di bisogni: da un lato, imprese che lavorano a pieno ritmo per individuare e strutturare nuovi bisogni, soggetti sociali impegnati a costruire sciami di consumatori perennemente insoddisfatti che inseguono l’oggetto del desiderio – beni e servizi non fa differenza – secondo i dettami delle mode e spesso all’insegna dell’usa e getta; dall’altro, legioni di esperti che, insieme ad organizzazioni pubbliche e non profit, sono impegnati nell’individuare e patologizzare sistematicamente ogni tipo di comportamento e su questo costruire sempre nuovi servizi.
Se questo meccanismo alimenta la crescita e fa crescere l’economia nel nome del bisogno, alimenta anche una spirale perversa che rischia di depotenziare sempre di più le capacità più genuine delle persone ormai ridotte a meri consumatori che possono o credono di esercitare il loro spazio di libertà solo nella scelta di beni o servizi.
Al di sopra di questo aleggia (ed è parte integrante del meccanismo) una formidabile retorica pubblica che parla di solidarietà, di libertà, di democrazia, di tolleranza che, muovendosi nel contesto ideologico della crescita a tutti i costi, non mette minimamente in discussione il meccanismo produttore del disagio; la crescita infinita e null’altro è il meccanismo che deve essere salvaguardato ad ogni costo per garantire lavoro, efficienza e quindi ulteriore consumo.
In tale contesto economico e sociale il problema dei bisogni fondamentali dell’uomo non è affatto risolto ma è diventato – in assenza di radicali cambiamenti – quasi irrisolvibile: per definizione infatti, il bisogno non deve mai essere soddisfatto definitivamente pena la fine della corsa alla crescita illimitata.
Osservata in questa prospettiva centrata sui bisogni, la situazione sociale appare in una luce decisamente inquietante, caratterizzata da una immagine riduttiva e stereotipata di uomo come essere insaziabile ancor prima che orientato in modo prettamente egoistico; una società che non sa più riprendere contatto con i valori fondativi, con l’ambiente che manipola e con la dimensione genuinamente umana dell’esistenza sostituita completamente dalla dinamica del consumo compulsivo e per certi versi obbligatorio.

Che conseguenze per il welfare attuale e per quanti si occupano professionalmente e direttamente di bisogni nel mondo dei servizi alla persona? Per quanti sono impegnati nel riconoscere ed affrontare vecchi e nuovi problemi che si riproducono incessantemente nella società del consumo?
Per tutti corre l’obbligo di muoversi in questo campo complesso con discernimento e senso della strategia aprendo spazi di riflessione e creatività finora poco frequentati.

Alcuni spunti:
– il potenziamento e il rafforzamento delle capacità dei soggetti assistiti e delle loro reti di relazioni diventa sempre più importante; infatti esiste sempre il rischio che progettando ed offrendo servizi e soluzioni venga soffocata la spinta personale a superare lo stato di bisogno, quella motivazione che consente ad ogni individuo di giocarsela e di arrangiarsi;
– operatori ed organizzazioni sociali devono diventare sempre più spesso scopritori ed organizzatori di capacità e di risorse, presenti ma spesso ignote, che finora non rientravano nelle loro attenzioni e nei loro obbiettivi;
– il riconoscimento di essere all’interno di un sistema complesso esclude che politiche e settori possano agire in modo indipendente ed autoreferenziale senza tener conto delle conseguenze per altre parti del sistema;
– ne consegue che la co-partecipazione alle scelte strategiche di pianificazione territoriale diventa particolarmente importante per affrontare alla radice meccanismi perversi generatori di disagio; infatti è necessario riconoscere che numerose scelte e non scelte politiche ed amministrative sono esse stesse potenti generatori di problemi a fronte dei quali è sempre più difficile trovare risorse adeguate;
– il tema dei determinanti della salute ampiamente intesa e del benessere sociale (non riduttivamente inteso in senso economico) devono diventare vincoli (e risorse) per qualsiasi tipo politica: l’idea di prevenzione appare infatti come un palliativo piuttosto debole che si contrappone a forze economiche ampiamente incontrollate;
– la crescente carenza di fondi costringe ad intraprendere profondi processi di cambiamento basati sull’innovazione sociale e l’utilizzo massiccio di nuove tecnologie: alla luce di questo urge capire quali tipi di bisogno sono fondamentali ed irrinunciabili e rivedere quali tipi di servizio sono strategici per affrontarli seriamente con l’unico obiettivo di soddisfarli.

In quest’ottica il riconoscimento, il recupero, la tutela e la riproduzione dei beni collettivi diventa pista di sviluppo quasi obbligata.

Si può FARE! Passaparola!