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Da mercatone a mercatini,
ieri e oggi tutto un altro volto

Così è un’altra storia. Non sul corso, ma nelle piazze dove gli spazi sono ampi; non i banconi del mercato con cumuli di roba disordinatamente accatastata e furgoni a lato, ma graziosi ed eleganti banchetti sui quali è esposta merce raffinata di antiquariato, modernariato e artigianato. Da ieri a oggi Ferrara ha cambiato volto: non il mercatone, ma i mercatini. Un’immagine che la rallegra e le si addice.

Abbottonarsi la giacchetta,
un rituale politico

Abbottonarsi è un gesto politico assai complesso, non solo fattuale ma anche simbolico. La cerimonia dell’ ‘abbottonìo’ – mi si passi il neologismo- è molto complesso e rivela il carattere del politico che usa la giacca come ‘instrumentum regni’ oppure come simbolo della sua condizione. L’unico pericolo è se la vestizione della giacca – o meglio della giacchetta – per usare il termine toscano a cui si riferisce l’ormai proverbiale ammonimento: “non tiratemi per la giacchetta” – viene effettuata davanti a fotografi e giornalisti che nella frettolosa apparizione del politico riescono ad immortalare solo il lato B dell’indumento di solito stazzonato dall’uso e soprattutto rivelatore attraverso gli spacchetti laterali del tentativo di nascondere forme callipige (consiglio un rapido sguardo al vocabolario per conoscere il significato del desueto vocabolo). Chi esibisce una forma di tal tipo è sicuramente Obama che preferisce e impone una visione della giacchetta dal lato A. Ma lasciando queste non inutili precisazioni veniamo alla cerimonia dell’abbottonìo. Ormai celebre la discesa dalla macchina del giovane Presidente del consiglio atteso per la prima volta da Frau Merkel (espertissima di giacchette, in quanto non passa giorno, da anni, che non ne esibisca una nuova e perfetta) che affannosamente nel tentativo di abbottonarsi sbaglia asola e produce una goffa assimmetria sul suo firmatissimo – e fiorentino – capo di vestiario. Da quella non riuscita esibizione dell’abbottonarsi Renzi preferisce ora la scioltezza della camicia, sempre e solo bianca, come simbolo di apertura che, tuttavia e purtroppo, rivela preoccupanti rotoli di grasso non nascosti dalla camicia fasciante. I due, però, che usano la giacchetta e il cerimoniale dell’abbottonìo con rara perizia sono sicuramente Berlusconi e Alfano. Ma il più spettacolare, l’appena sceso in campo (non calcistico ma politico) Diego della Valle che esibisce, oltre alle sue magnifiche scarpe, sonanti braccialettini in studiata confusione e uno spettacolare collo ‘à la Robespierre’, come si diceva ai miei tempi, tenuto assieme, non a caso, da una fusciacca a mezzo tra pashmina e cravatta. Che si proponga davvero come un Robespierre che mette a posto il giovane Matteo?
Vedete come la presentazione della giacchetta corrisponda a un mix di termini antichi (callipigio, fusciacca) e di moderni ed eversivi (job act, tasse, rumors e tradimenti, quest’ultimo vocabolo sempre attuale in politica).

Pensiamo alla inimitabile cerimonia dell’abbottonamento messa in pratica dall’ex Cavaliere. Si sa che lui predilige il completo doppio petto, lontano ricordo delle sue frequentazioni crocieristiche. Ma questa forma di giaccona più che di giacchetta obbliga a contorcimenti (politici e fisici) faticosissimi. Il travaglio è molteplice perché occorre prima agganciare il bottone interno, indi sistemare la doppia fila di quelli esterni stando attenti – dio non voglia – di chiudere il primo: segno di selvaggiume e cafoneria. Ecco allora il sorriso tirato del Nostro che s’assetta – direbbe Boccaccio a uso e consumo dei fotografi, mentre sul viso stampa il sorriso di rappresentanza sotto il casco non metaforico della rossiccia capigliatura. Se si traspone il rito in mito, ecco che Berlusconi con l’abbottonìo rivela la sua strategia politica fatta di strepitosa convenzione a certi valori – e varianti politiche – che tuttavia dissimulano l’incapacità di attuarli senza il robusto sistema del nascondimento della vera intenzione.

Del tutto plateale, l’abbottonamento di Alfano: meridionale, ampio. Un ruotar di braccia che centra le maniche con precisione millimetrica; indi, con un colpo secco la chiusura della giacchetta. Solo a quel punto fluisce la suadente parlantina che a volte, studiatamente, si trasforma in urletto.

Ma quale è l’abbottonìo che preferisco? Sicuramente quello del Ministro dei Beni Culturali. Franceschini – beato lui – può esibire fisico asciutto e scattante. Come porta la giacca? Anzi! Come non la porta? In modo assolutamente artistico, come ben s’addice a chi regge il ministero a mio avviso più importante d’Italia. Con aria tra l’assorto e il perspicace, l’appende a un dito e con mossa scattante la fa scivolare sulla spalla. A questa novità anticonformistica spero segua una immediata e pronta risoluzione dei terribili problemi che affliggono l’abbandonato giacimento aurifero dei beni culturali. Un caro amico che di questi problemi si occupa senza far sconti a nessuno, Tomaso Montanari, richiesto di un voto di apprezzamento sulla politica del ministro da parte di Conchita de Gregorio, che l’intervistava, ha dato un sei, cioè una sufficienza, rispetto al disastroso punteggio di quasi tutti i predecessori del ferrarese ministro. A questo punto, auspico e spero che la giacchetta appesa al dito del non conformista Franceschini possa, almeno in parte, avviare un processo di riforme tale da ritrovare la via perduta che conduce al tesoro nascosto dell’immenso patrimonio della cultura italiana.

SGUARDO INTERNAZIONALE
“L’economia mondiale è in crescita. Sono Europa e Stati Uniti che vanno indietro”

“Non è vero che la crisi è mondiale come ci raccontano. L’economia del pianeta nel 2012 segna un più 3,9 per cento. E’ il vecchio mondo che è in crisi. E il vecchio mondo siamo noi: Europa, Giappone e Stati Uniti. A trainare lo sviluppo sono quei Paesi che ci ostiniamo a definire emergenti: Cina in primo luogo e India. Non so cos’altro dovranno fare per convincerci di essere ampiamente emersi, mentre noi sprofondiamo…”

Per oltre un’ora di lezione, avvincente come un thriller, brillante come una commedia, il professor Lucio Poma dell’Università di Ferrara ha tenuto inchiodati alle sedie il pubblico di Internazionale, che ha riempito l’aula magna e altre due sale approntate per l’occasione, spiegando ciò che di norma gli altri economisti non dicono. “Tutti i modelli che abbiamo utilizzato finora non funzionano più”, ha affermato. Ecco in pillole la sua analisi.

La crisi parte da lontano, non dal 2008 come si tende ad affermare, è strutturale e non congiunturale. E’ dal 1999 che la forbice fra import ed export si è ribaltata a danno di Europa e Stati Uniti. Da allora il divario è costantemente cresciuto a vantaggio dalla Cina sino alle attuali impressionanti proporzioni.

Con una crescita annua costante del 14 per cento dal 1986, la Cina ha ormai quasi raggiunto il livello del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti, se continua così fra 7 o 8 anni lo supererà. Ma cresce anche l’Africa, dove i cinesi stanno investendo.

La Cina, oltretutto, dal 2004 è creditrice degli Stati Uniti, questo la pone in una posizione di forza. Ha acquistato parte del debito americano e come ogni creditore può chiedere in ogni momento la restituzione del prestito. Se ciò dovesse succedere l’economia americana si troverebbe in grandissima difficoltà. Perciò la Cina è in grado di condizionare le scelte degli Stati Uniti e di conseguenza di controllare le mosse sullo scacchiere internazionale nel quale gli Stati Uniti restano principali attori.

In Europa, la politica della Bce, che ha ridotto a zero il costo del denaro, non funziona poiché – spiega il prof con un esempio calzante – gli imprenditori, se hanno già in casa 10 macchinari e tre sono fermi per mancanza di lavoro, non prendono l’undicesimo nemmeno se glielo regalano, perché poi la manutenzione costa.

Il problema non sono le banche, il debito o il tasso di interesse. La produzione ristagna perché non riusciamo più a competere a livello di costi, le incidenze da noi sono tali da squilibrare il mercato dei prezzi. Il nostro prodotto costa troppo e non è appetibile. I cinesi ci hanno copiato come negli anni Sessanta facevano i giapponesi. Irrisi gli uni e gli altri. Poi s’è visto come è andata.

Pensiamo anche all’impatto esplosivo, in termini di consumi, di oltre un miliardo e 300 milioni di persone, finora sempre escluse dal benessere, che si stanno avvicinando ai livelli minimi di comfort. Moltiplichiamo per quel numero il semplice fabbisogno di pavimenti, pneumatici, pannolini…

Funziona la manifattura cinese che si alimenta di grandi squilibri economici e sociali. I vantaggi competitivi della Cina derivano da un mercato del lavoro privo di tutele. Ma se Obama alza la voce per imporre alla Cina il rispetto dei diritti dei lavoratori o protesta per lo sfruttamento dei minori si sente rispondere: non c’è problema però tu ridacci il nostro prestito. E allora deve subito spiegare che stava scherzando. Questa è la situazione.

Noi occidentali siamo vecchi, vecchi dentro. Sopraffatti dai monopoli che non hanno interesse a innovare perché dominano i mercati. Dal 1989, dopo il crollo del muro, si è sopita la competizione internazionale e la concorrenza, lievito dell’innovazione. L’innovazione si fa in Oriente e negli Emirati, dove si investe perché c’è ansia di riscatto e di affermazione di status.

Come se ne esce allora? C’è una speranza, in particolare per noi italiani? Sostanzialmente non abbiamo risorse minerarie, non siamo produttori, ma operiamo da sempre nel segmento della trasformazione. La nostra forza è la conoscenza, coniugata alla cultura del fare. Dobbiamo valorizzare questa leva. Abbiamo le università più antiche del mondo, dobbiamo mettere il sapere e la ricerca al servizio dell’industria e della produzione. Ciò che ci ha sempre reso grandi è stata la capacità di tramutare un bene in un manufatto a forte valore aggiunto. E’ indispensabile ritrovare la capacità di fare fruttare il nostro talento e il nostro genio.

SGUARDO INTERNAZIONALE
Chicago girl, la rivoluzione siriana pilotata dal web

Nel presentare il film, Francesco Boille, che cura per Internazionale la rassegna Mondovisioni, dice: “Chicago girl è l’esempio perfetto del documentario che cerchiamo durante l’anno per la rassegna Mondovisioni: un lavoro che unisca un evento urgente, come lo è oggi la guerra in Siria, e uno sguardo particolare su cos’è l’informazione, come si fa, e come circolano le notizie.”

Dalla sua stanza alla periferia di Chicago una ragazza americana, figlia di esuli siriani, coordina attraverso la rete la rivolta in Siria: tramite Facebook, Twitter e Skype aiuta i compagni sul campo a fronteggiare cecchini e bombardamenti, e denuncia al mondo le atrocità commesse dal regime di Bashar al Assad. “Questo – continua Boille – è un film datato perché raccoglie filmati girati dai ‘citizen journalist’ siriani tra il 2011 e il 2012, e la prima proiezione risale al novembre del 2013. Da allora la situazione è molto cambiata, si è fatta ancora più complessa con la comparsa dei guerriglieri dell’Isis. Ma “Chicago girl” rimane un documento importante e ben fatto di ciò che è successo in Siria, che è di una gravità enorme.”

Ed proprio questo il punto, i tanti ragazzi che hanno preso la telecamera e i cellulari in mano per filmare gli orrori del regime di Assad, avevano chiara l’idea di possedere un’arma formidabile, la migliore: sapevano che le centinaia e centinaia di video girati sulle strade di Homs e Damasco e pubblicati su You Tube avrebbero costituito comunque, in un momento anche lontano, la prova inconfutabile della colpevolezza del governo di Assad. “Girati, riprendi dietro di te! Riprendi, riprendi!”, “Domani usciamo ancora a filmare!”, queste alcune delle frasi che si sentono durante tutto il film. L’imperativo è continuare a filmare per sapere al mondo… per cambiare il mondo.

Nel film colpisce la determinazione di questi ragazzi che si alzano ogni giorno, si connettono con l’amica di Chicago per verificare dove si sarebbero tenute le proteste. “Quando ero al liceo pensavo ad uscire con le mie amiche, a divertirmi. Da quando c’è la rivoluzione non ho più tempo, ho troppo da fare. Sono sempre connessa, non riesco nemmeno a seguire le lezioni perché devo dare indicazioni ai miei amici su come muoversi, loro contano su di me, si fidano di me. Sono responsabile di centinaia di persone in Siria.” Perché la cosa peggiore e più pericolosa è quando le proteste sono piccole, diventa importante quindi coordinare le operazioni e ampliare i gruppi. Il suo lavoro è anche quello di tradurre le informazioni, inserire le notizie, scaricare i video, oscurare i volti delle persone, pubblicarli con data, luogo, autore, e spedire ai suoi amici materiale elettronico come piccole telecamere Bluetooth. Appena sa che un amico è stato intercettato o catturato dall’esercito di Assad, ne cancella l’utente Fb, perché la prima cosa che fanno è estorcere utente e password per rintracciare tutti gli amici della rete.
La ragazza di Chicago si dimostra una fonte sicura, una figura necessaria, “perché quando si fanno le rivoluzioni in rete – come dice un esperto che nel film spiega il senso di questo nuovo fenomeno – non basta affidarsi ai mezzi tecnologici, occorre il social network, e il social network sono le persone, la fiducia e la verifica delle informazioni.” I video pubblicati su youtube piano piano filtrano e arrivano sui media: “Quando vedo i miei video nelle breaking news della Cnn e di Al Jazeera, sento che sto facendo la mia parte nel mondo”.

“#ChicagoGirl. The social network takes on a dictator”, di Joe Piscatella, Usa/Siria, 2013, 74′

Sarà proiettato ancora domenica 5 ottobre 2014, ore 10.30 alla Sala Boldini

Tutti i documentari della rassegna, da quest’anno si potranno vedere in streaming su MyMovie, dall’8 al 15 ottobre, in una sala web dedicata a Mondovisioni.

La settima arte
snobbata dalla scuola

di Massimo Piazza, Direzione Cinema Mibact

“Piazza Cinema” è uno spazio in cui parlare della settima arte affrontando gli aspetti meno divulgati delle culture cinematografiche, dei problemi del settore e dei protagonisti attuali. E magari anche per divertirci un po’ insieme.

“È assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita,
mentre la vita si ispira alla televisione” (Woody Allen)

Cinema “settima arte”, una frase conosciuta e usata come un mantra. Settima, sì, ma anche la più popolare, insieme alla musica. Un’arte che, nonostante la crisi del piccolo esercizio, offre un circuito di distribuzione e presenza ampio e capillare.
Eppure, quanta attenzione le viene dedicata dal nostro circuito di comunicazione mediatico, a parte il facile glamour dei red carpet e delle stelle e stelline? E, soprattutto, quanto spazio è dedicato dal nostro sistema educativo-scolastico alla conoscenza della storia del cinema?
La risposta è sotto gli occhi di tutti: l’insegnamento del cinema a scuola è saltuario, affidato alle iniziative dei singoli operatori didattici. Unici in Europa, i nostri programmi scolastici non prevedono forme di divulgazione della cultura cinematografica.
In tutto il mondo occidentale il cinema si studia nelle scuole, fa parte del patrimonio culturale comune, diventa strumento di crescita anche sociale e partecipativa; da noi invece no, in ossequio ad una concezione ancora elitaria, spesso passatista e appassita, della cultura, che trascura in particolare la formazione delle giovani generazioni, che potrebbero utilizzare e metabolizzare più facilmente e proficuamente questo strumento.
Tanto per dire, nel Regno Unito il British Film Institute agisce in sinergia con il sistema educativo, e l’insegnamento del cinema è presente, sia pure spesso in modo facoltativo, nei programmi scolastici, in particolare delle materie letterarie; in Francia il cinema fa parte dei programmi, facoltativi e obbligatori, di educazione ai media e alle materie letterarie, tanto che si stima che oltre il 10% degli studenti svolga sistematico apprendimento specifico in campo cinematografico. Anche in Germania l’apprendimento dei media, e nello specifico del cinema, è previsto nelle scuole di ogni ordine e grado. E così accade, in diverse modalità, in Spagna, nei Paesi Bassi, e a seguire negli altri Paesi dell’area occidentale.
In Italia, invece, il sistema scolastico è fermo a programmi e ispirazioni di 50 anni fa, prevede percorsi che vengono conclusi senza aver mai nemmeno sfiorato materie divenute nel frattempo fondamentali, come la conoscenza dei media e delle nuove tecnologie, dei meccanismi fondamentali dei sistemi e degli strumenti economici, delle principali culture internazionali, in particolare extra europee.
Così un giovane può concludere un percorso didattico nella più completa ignoranza dei rudimenti della storia del cinema e dei film, e perdere dunque tutto quel patrimonio che racconta le emozioni, le estetiche, gli stili, le tecniche e i contenuti del cinema.
Non parlare mai di Nascita di una nazione di Griffith, della “fantozziana” Corazzata, del neorealismo, o della nouvelle vague, è un po’ come ignorare la Divina Commedia, La Gerusalemme liberata, Leopardi e via dicendo. Non è un problema solo culturale, ma soprattutto una carenza che va a colpire un aspetto fondamentale, perché il cinema produce e materializza i canoni estetici ed espressivi che divengono il codice interpretativo delle realtà e dei tempi; il cinema è come uno specchio nel quale viene proiettata una immagine idealizzata, sintetica e simbolica, di una società o di un tempo; propone frammenti, schegge dei modi di vivere, di parlare, di muoversi, di vestire, ci parla e ci fa vedere luoghi e architetture sociali spesso scomparse; in sintesi potremmo dire che è un dispositivo del racconto storico-sociale, è la storia che racconta le nostre Storie.
Rappresenta le emozioni, le gioie, le paure, le sconfitte e le vittorie, vissute negli ambiti illuminati, ma anche in quelli oscuri, della nostra mente e della nostra psicologia.
E’ in sostanza uno strumento di conoscenza, razionale ma anche emozionale, indispensabile per la piena realizzazione di una personalità completa e matura.
Nonostante frequenti impulsi e richieste in tal senso, nel nostro paese niente si muove. Per ora vive l’auspicio che il prossimo ventilato intervento sulla scuola annunciato dal Governo comprenda anche questo aspetto, e che il Ministro della Cultura e del Cinema Dario Franceschini possa immaginare qualche percorso che porti più cinema di qualità nelle nostre scuole e ai nostri ragazzi, con particolare attenzione alle “periferie” sociali e urbane del nostro Paese.
Nell’attesa noi proviamo a fare divulgazione cinematografica a modo nostro, con una comunicazione creativa e partecipativa: qui a seguire un primo articolo e un test con cui il lettore potrà verificare la propria conoscenza della storia del cinema, indicando il film e se possibile il regista, senza che un esito non entusiasmante debba gettarlo nello sconforto: si può sempre recuperare.
E se invece le indovinerete tutte, non perdeteci di vista, perché dalla prossima volta andremo più sul difficile …

TEST DI CULTURA CINEMATOGRAFICA

1) Due suonatori di jazz per sfuggire a una banda di mafiosi si travestono da donna
Risposta:
2) Una giovane donna ha un passionale incontro senza parole in un appartamento parigino
Risposta:
3) Un film americano racconta l’intreccio delle storie di vari personaggi nel corso di un festival di musica country
Risposta:
4) Una comparsa muore in croce per aver mangiato troppo
Risposta:
5) Due motociclisti attraversano gli USA per andare al festival di New Orleans
Risposta
6) Un film inglese del ’70 che tra i primi racconta in un drammatico crescendo un interno gay
Risposta:
7) Un cameriere ubriaco distrugge una festa con finale in una piscina
Risposta:
8) Una epica esplosione di un frigorifero nel deserto americano
Risposta:
9) Quattro personaggi hanno una brutta avventura in un bosco, ognuno racconta una versione diversa dell’accaduto, film giapponese del ‘50
Risposta:
10) Un cavaliere gioca a scacchi con la Morte

Risposte: [clic per vedere]

Internazionale a Ferrara:
tra informazione, politica e cultura gli appuntamenti da non perdere di sabato 4

Ecco la segnalazione di alcuni fra i più interessanti appuntamenti di sabato al festival di Internazionale.

11.00 Teatro Comunale L’amico invadente Come cambiano i rapporti tra Europa e Stati Uniti. Bernard Guetta France Inter, Josef Joffe Die Zeit, David Rieff giornalista statunitense. Introduce e modera Luigi Spinola Pagina99

11.30 Ridotto del Teatro Comunale Verso un apartheid sanitario Il progresso medico ha migliorato la salute e la speranza di vita nel mondo. Ma non per tutti. Esteban Burrone Medicine Patent Pool, Manica Balasegaram Msf Access campaign, James Love Knowledge Ecology International. Modera Luigi Ripamonti Corriere della Sera

12.00 Cortile del Castello Le metamorfosi Scrivere nella lingua dell’altro. Jhumpa Lahiri scrittrice statunitense dialoga con Caterina Bonvicini scrittrice. Modera Alberto Notarbartolo Internazionale

14.00 Cinema Apollo La lobby più potente del mondo Idee per la società civile contro la finanza casinò. Ugo Biggeri Banca Etica, Kenneth Haar Corporate Europe observatory, Aline Fares Finance watch. Introduce e modera Nunzia Penelope Il Fatto Quotidiano

14.00 Mercato coperto Apri gli occhi Una conversazione sul mestiere di fotoreporter e il valore della testimonianza. Giles Duley fotografo britannico, Francesco Zizolafotografo italiano. Modera Giovanni Porzio giornalista

14.30 Sala Estense Africa. Il continente arcobaleno Gay, minoranze religiose e atei nel mirino del fanatismo. Tre autori in difesa della diversità. Ntone Edjabe Chimurenga,Lola Shoneyin scrittrice nigeriana, Binyavanga Wainaina scrittore keniano.Introduce e modera Pierre Cherruau giornalista e scrittore francese

16.30 Cinema Apollo Titoli tossici La stampa economica al tempo della crisi. Gerard Baker The Wall Street Journal, Nicolas Barré Les Echos, John Lloyd Financial Times. Introduce e modera Ferdinando Giugliano Financial Times

17.00 Teatro Comunale La politica al tempo dell’antipolitica Una conversazione sul futuro della democrazia e le nuove forme di partecipazione. Laura Boldrini presidente della camera dei deputati, Ilvo Diamanti sociologo e politologo. Modera Eric JozsefLibération

18.00 Mercato coperto L’orto in casa Prodotti locali, biosostenibilità e nuove opportunità economiche. Novella Carpenter scrittrice e contadina urbana statunitense,Aurelia Weintz 10 milla orti in Africa. Introduce e modera Emanuela Rosa-ClotGardenia

18.30 Cinema Apollo Ruanda, vent’anni dopo L’ombra del genocidio sui conflitti di oggi. Jean-Hervé Bradol Msf e Crash, Colette Braeckman Le Soir, Giovanni Porziogiornalista. Introduce e modera Loris De FilippiMsf

19.00 Teatro Comunale Creatività s.p.a. Fare, rischiare e fallire: i segreti del successo.Edwin Catmull Pixar e Walt Disney animation studios dialoga con Annamaria Testaesperta di creatività e comunicazione. Modera Claudio Giunta Università di Trento

SGUARDO INTERNAZIONALE
A Maisa Saleh il premio Politkovskaja: “Giornalista per raccontare l’orrore della Siria”

Non ostenta la sua naturale e distinta eleganza, ma nemmeno la reprime, ora che non è costretta a farlo. Maisa Saleh è bellissima, e molto femminile: cascata di capelli neri, tubino e decolleté, un tocco di rossetto color ciliegia. Sale sul palco, emozionata e discreta, ma non per ricevere un premio come miglior attrice protagonista, come si potrebbe anche pensare vedendola. Maisa Saleh è una giovane giornalista siriana e questa mattina ha ricevuto, dalle mani del Sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, il premio giornalistico Anna Politkovskaja, ormai alla nona edizione, concepito per sostenere il coraggio di giovani che nel mondo si sono distinti per le loro inchieste.

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la giornalista siriana mentre racconta al pubblico di Internazionale la sua storia

“La vincitrice dell’edizione 2014 del premio Anna Politkovskaja”, recita la motivazione del premio, “è l’attivista per la pace e giornalista televisiva siriana Maisa Saleh, che oggi è costretta a vivere in esilio a causa delle persecuzioni del governo di Bashar al Assad. Ha seguito così il destino di altri tre milioni di suoi connazionali che hanno dovuto abbandonare il loro paese.” Ha lavorato come corrispondente per la Orient news television, seguendo la guerra civile in Siria da Damasco. Nascondendo la sua identità, ha condotto un programma settimanale di interviste ai rivoluzionari, occupandosi anche della resistenza non violenta della popolazione civile. Nel 2013 è stata arrestata e trattenuta per sette mesi dal governo di Bashar al Assad.

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appello per la liberazione della sorella, catturata dall’Isis l’agosto scorso

Maisa Saleh ora ha trent’anni, prima della rivoluzione era infermiera a Damasco e non aveva la minima intenzione di diventare giornalista. Ma la dittatura era insostenibile, allora come adesso. “L’anno 2011 è stato l’occasione – dice – per noi giovani di iniziare a sapere e a capire cose terribili del regime, che nemmeno i nostri genitori ci avevano mai raccontato.” E continua: “Allora siamo sono scesi in piazza a manifestare in modo pacifico, per porre fine alla dittatura, per un ‘sogno rosa’, come lo definisce con trasognata dolcezza, per costruire una ‘Sūriya’ (perché ci parla in arabo e ripete spesso il nome del suo Paese) libera, democratica, in cui i diritti di ogni cittadino venissero rispettati. Pensavamo sarebbe stato facile.” Invece il gioco si è fatto duro, il governo ha reagito con repressioni e terribili massacri. E’ così che “ogni attivista si è dovuto trasformare in giornalista, e non solo, ha dovuto anche imparare a prestare i primi soccorsi, a imbracciare le armi per l’autodifesa”. Il governo aveva oscurato e vietato la libera informazione, quindi “siamo stati costretti a diventare giornalisti.”

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Maisa intervistata da Francesca Caferri di Repubblica

Maisa ora è esule in Turchia, ha deciso di proseguire con il giornalismo perché è portata e perché la rivoluzione deve continuare, anche ora che l’Isis ne sta offuscando lo svolgimento con i suoi orrori, al pari del regime di Assad. La cronista è riuscita ad ottenere il visto per l’Italia e ad essere presente ad Internazionale, anche grazie a Lorenzo Trombetta, corrispondente dal Medio Oriente per l’Ansa, che segue lo svolgimento della guerra in Siria fin dall’inizio. Intervenendo all’incontro “Il mondo deve sapere. Fare informazione nella Siria in guerra” (immediatamente successivo alla premiazione), Trombetta racconta come è avvenuta la scelta di Maisa: “A fine febbraio scorso abbiamo cominciato a scandagliare il fitto e variegato panorama dei giornalisti siriani. Non ci è stato facile individuare Maisa, intercettare quella zona di grigio tra il bianco e il nero, che desse la certezza di una certa obiettività. Poi abbiamo visto le 13 puntate realizzate e prodotte in proprio per l’Orient news television, che dimostrano una grande capacità di fare informazione di qualità, di fare ricerche, interviste, filmare, montare servizi, con una particolare attenzione nel raccontare e scrivere le storie delle persone.” “In più – continua – si è distinta soprattutto per la tenacia, il coraggio e la modestia: è cosciente di non essere una giornalista professionista e che il suo impegno è perfettibile”.

Ferraraitalia ha partecipato alla giornata di solidarietà e mobilitazione internazionale per i siriani #AvecLesSyriens, al Trocadero a Parigi il 15 marzo scorso [vedi]

Strapaesana

Alla faccia dell’Internazionale! vien da dire pensando a Totò. In concomitanza con l’inaugurazione del festival che la proietta in una dimensione cosmopolita, Ferrara non ha resistito alla tentazione di esibire anche la propria anima strapaesana, con la sua silhouette più ‘smandrappata’. Così, gli ospiti e il pubblico (che in gran parte è anche turista) anziché godere lo spettacolo di monumenti e bellezze architettoniche, questa mattina ha potuto ammirare magliette e reggiseni del mercato.
Ma possibile non si potesse – almeno per un venerdì – evitare lo scempio del centro storico con i banchetti degli ambulanti, che oltre all’immagine borgatara, creano un oggettivo intralcio al transito delle migliaia di persone che rapidamente tentano di spostarsi da un luogo all’altro?
Non bastasse, in piazza Castello – come d’altronde capita tristemente ogni giorno – si può ‘ammirare’ il disordinato parcheggio di mezzi addetti al carico-scarico e di altri veicoli tranquillamente in sosta (una quarantina), alla faccia dei divieti e delle limitazioni dell’area monumentale pedonalizzata.
Insomma, se nelle peggiori tradizioni, quando non si riesce a rigovernar casa prima dell’arrivo di ospiti di riguardo, si butta la polvere sotto al tappeto, a Ferrara non siamo riusciti a celarci neppure dietro al velo della più trita ipocrisia borghese. Non si sarebbe risolto il problema – un problema che prima o poi dovrà essere affrontato seriamente – ma quantomeno ci avrebbe risparmiato una figuretta da provincialotti.
Nei casi migliori si dice buona la prima, nel nostro proprio non si può.

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SGUARDO INTERNAZIONALE
Creazionismo e apologia del capitalismo nel Texas ultraconservatore

Il Texas fa spesso parlare di sé. Secondo stato più popoloso degli Stati Uniti, dominato dai repubblicani – tra cui i presidenti Johnson, Bush padre e Bush figlio –, ha un’economia legata al petrolio e alla relativa industria. Il grande stato del Sud è inoltre molto importante per essere uno dei poli nazionali dell’ingegneria aerospaziale, perché vanta la sede della Nasa.
Record negativo, il Texas è il primo stato dell’Unione per esecuzioni capitali, ed è conosciuto anche al di fuori dei suoi confini per la disinvoltura dei suoi abitanti a maneggiare le armi, causa delle molte assurde stragi avvenute sul suo territorio.
Il Texas confina con il Messico, di cui sfrutta la manodopera a prezzi ridicoli, ma combatte con metodi disumani l’immigrazione illegale dei tanti ‘indocumentados’ che si introducono con qualsiasi mezzo sul suolo americano, a volte a costo della vita.
Il Lone Star State, Stato della stella solitaria, soprannome con il quale il Texas è conosciuto – è anche il più grande baluardo del protestantesimo evangelico degli Stati Uniti, e conta il più alto numero di praticanti del paese. Non a caso i testi scolastici recepiscono questa devozione tutta americana, che discende in linea diretta dal fondamentalismo cristiano sviluppatosi nel Paese tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Oggi, molto forti sono i movimenti religiosi di stampo conservatore che credono nell’infallibilità della Bibbia e mettono in discussione il concetto costituzionale della separazione tra Stato e Chiesa, al punto che i libri di scuola texani sono infarciti di informazioni storiche distorte e idee scientifiche alquanto discutibili.
Il Texas freedom network (Tfn), un’organizzazione non profit che difende la libertà religiosa e combatte la diffusione di idee ultraconservatrici nella società texana, ha preso in esame i più recenti manuali scolastici e ha rilevato gravi imprecisioni in materie quali la storia, la geografia, la religione, l’educazione civica.
In alcuni testi si afferma che Mosè ha ispirato la democrazia americana, o si liquida la questione della segregazione razziale nelle scuole pubbliche del secolo scorso come un fatto occasionale. Vari libri di storia mostrano una visione ostile all’Islam e ai musulmani, con un’operazione piuttosto discutibile in un momento storico delicato come quello che stiamo vivendo.
In generale, i testi tendono ad amplificare l’influenza della tradizione giudaico-cristiana sulla fondazione della nazione e sulla storia politica dell’Occidente, e a descrivere con caratteri enfatici e acritici la società capitalistica odierna.
Provocazioni di questo tipo hanno fatto crescere la tensione in uno Stato dove il mercato dei libri scolastici è talmente ampio da condizionare l’intera industria editoriale nazionale. Voci critiche lamentano il fatto che un manipolo di attivisti religiosi – o semplicemente di conservatori – abbia acquisito un potere così forte in grado di plasmare ciò che quasi 5 milioni di studenti delle scuole pubbliche texane si apprestano a studiare.
Le battaglie più violente si giocano sulle questioni riguardanti le cause del cambiamento climatico e sul binomio evoluzionismo-creazionismo, da anni al centro di un aspro dibattito. Mettere in discussione la responsabilità umana sui mutamenti climatici, chiedere agli studenti di valutare se le Nazioni Unite possano minare la sovranità degli Usa, o sostenere che gli esseri viventi e l’universo sono frutto della creazione divina, e non di un processo evolutivo da forme primitive a forme più complesse, oltrepassa i confini dell’ambito scolastico – peraltro fondamentale per la formazione delle coscienze di futuri adulti e cittadini consapevoli – e sconfina nel grande mare della politica.
Dietro a queste idee fa capolino l’Heartland Institute, un centro studi di Chicago attivo nell’ambito della salute, dell’ambiente e dell’istruzione, ‘think tank’ di posizioni conservatrici e in controtendenza rispetto al pensiero scientifico condiviso dalla comunità internazionale, finanziato da imprenditori della destra americana contrari all’amministrazione Obama.
A novembre una commissione esaminatrice locale dovrà decidere se approvare i nuovi testi. Il rischio, per le future generazioni, è quello di approcciarsi alle scienze sociali sotto la lente del revisionismo e dell’ideologia, e di alimentare oscurantismo e nuovi fondamentalismi.

“Sto solo provando a mostrare quello che vedo”. Il film su Altman introduce l’Internazionale

Con Mondocinema, rassegna internazionale d’autore è ufficialmente incominciata l’ottava edizione del festival di Internazionale.

“Si tratta di film che trovano ingiustamente poco spazio nelle sale”, spiega Chiara Nielsen “e che sono invece perfettamente in linea con il lavoro della rivista.” Presentando il film “Altman”, Francesco Boille, che segue per la rivista il settore cinema, dice: “Questo non è un film per soli appassionati di cinema e di Altman, è un film per tutti, perché nel ripercorrere la carriera e la produzione cinematografica del regista, mostra uno spaccato della società contemporanea.”

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Presentazione di Mondocinema da parte degli organizzatori

E non ci sarebbe stato modo migliore di aprire il Festival del giornalismo, ieri giovedì 2 ottobre, perché il film Altman di Ron Mann restituisce la vita di un uomo eccezionale, il cui principale imperativo era raccontare la verità, sempre. Ad una conferenza gli chiesero: “Sembra che i suoi film siano fatti per far esplodere i miti e i generi americani.”, e Altman rispose, “Sto solo provando a mostrare quello che vedo”.

Nella carrellata di interventi di amici e colleghi, come Paul Thomas Anderson, Bruce Willis, Julianne Moore e Robin Williams, alla domanda “Cosa significa altmaniano?”, rispondono: “Vita, libertà, ricerca della verità”, “far vedere agli americani chi siamo”, “fare il culo a Hollywood”, “raccontare storie in modo magistrale”, “ispirazione”.

Altman girò 39 film, un mix di generi, tecniche e stili e, in una delle ultime interviste, si definisce “un artista ancora profondamente coinvolto con il mondo”.

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locandina del film

Ecco, “coinvolti con mondo” è l’augurio che con questo film Ron Mann, e Altman con lui, fanno a tutti noi, giornalisti e scrittori, amministratori e organizzatori, partecipanti e spettatori di questa ottava edizione di Internazionale.

“Altman” di Ron Mann, con Julianne Moore, Bruce Willis, Robin Williams, Keith Carradine, James Caan e altri, documentario, durata 95 min., Canada 2013 durata 95 min.
Presentato alla 71a Mostra internazionale del cinema di Venezia, presentato al Toronto film festival 2014

L’IDEA
La memo bottle, bottiglia minimalista ecologica che riduce gli sprechi

Quante volte abbiamo incrociato ragazze con sgargianti borse griffate appesantite dalle bottiglie piene d’acqua o di improbabili e alla moda bibite energetiche. La salute prima di tutto, vari litri d’acqua al giorno, quantità variabile a seconda delle indicazioni dei vari nutrizionisti e dietologi. Ma tutta quest’acqua, oltre ad avere un peso sulle spalle delle aitanti giovincelle, ha un peso per l’ambiente: la sua temuta bottiglia di plastica che, per quanto compressa, potrà richiedere millenni (si scrive cinque) prima di essere smaltita. Se, dunque, restare ben idratati è importante, è altrettanto importante salvaguardare l’ambiente (e, perché no, le nostre spalle).
Ecco allora l’invenzione ultra design e di tendenza che fa tanto discutere, Memo Bottle, una sottile bottiglia di acqua riutilizzabile, disponibile nel formato A5, A4 e busta da lettera.

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La memo bottle è disponibile in differenti misure

Un oggetto nato nel tentativo di ridurre la quantità di bottiglie di plastica monouso che vengono fabbricate e usate ogni giorno, realizzata con materiale senza Bisfenolo A (BpA, sostanza organica nociva rilasciata da molte plastiche), lavabile in lavastoviglie. Un’iniziativa nata con passione (e buon fiuto per il marketing…), per creare un equilibrio tra sostenibilità ambientale e maggiore efficienza e convenienza. La bottiglia unisce la praticità al design, e, grazie alle sue linee ben studiate, è facilmente trasportabile in una qualsiasi borsa da notebook o zaino per i libri. Elegante, leggera e simpatica, persa magari fra qualche carta da lettere pergamenata o qualche merendina o barretta di cioccolato, può fare la sua bella figura.
L’hanno inventata e lanciata il designer di Melbourne Jesse Leeworthy e il suo partner commerciale Jonathan Byrth, di San Diego. Si tratta di un oggetto rettangolare, trasparente, che trova paziente e facile posto di fianco a un computer portatile, a un bloc notes o a una bella ed elegante agenda, Moleskine o altra che sia. La sua chiusura ermetica garantisce che tutto, all’interno della borsa, resti completamente asciutto. Il prodotto, sottile e originale, è stato creato dai due giovani creativi e nemmeno a dirlo… un grande successo! Per avere la vostra Memo Bottle, visitate Kickstarter, a noi piace…

[Vedi la presentazione]

Frances Ha, la vita è una danza

Ambiente da Nouvelle Vague, sia per l’utilizzo del bianco e nero che per i luoghi e le situazioni del film. Quasi un romanzo, un bel romanzo, o una commedia romantica.
La storia è quella di Frances (Greta Gerwig), una ragazza di oggi, tenera, accattivante, talentuosa e simpatica, ma senza alcuna reale certezza nella vita. Frances ha 27 anni ma si sente già vecchia, è carina ma è più buffa e stravagante che attraente, se ne sta quasi sempre per conto suo. Frances non ama le donne ma divide casa con un’amica (Sophie, Mickey Sumner), che è quasi un grande amore, e quando l’amica se ne va con un ragazzo lei fatica ad accettarlo.

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La locandina del film

Con sottofondo il “tema di Camille” di Georges Delerue, le due amiche giocano, fumano, chiacchierano, sgattaiolano nella brulicante e rumorosa metropolitana di New York, dormono nello stesso letto, guardano film e si leggono e raccontano storie. Sophie è la persona con la quale Frances può essere davvero se stessa: “Siamo la stessa persona con capelli diversi”, Frances dice a tutti. Ma un giorno Sophie, che pure adora Frances, si sposta dal loro appartamento a Brooklyn per trasferirsi nella costosa e ricca Tribeca con un’altra amica Lisa. Inizia, così, la serie dei passaggi difficili e dolorosi della vita di Frances. La storia d’amicizia sembra finire e Frances passa il resto del film a cercare disperatamente persone e posti che possano raccontarle di Sophie. Frances frequenta una scuola di danza e danza tanto, sempre, ogni volta che può, anche tra i tavolini di un ristorante o in mezzo alla strada, e non importa se cade, quando questo accade, si rialza con grande noncuranza. Rimane ottimista e viva, pur nelle difficoltà quotidiane. E’ serena, in fondo. Pur nel caos sa trovare sempre la sua dimensione.

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Una scena del film

Ne indoviniamo i gusti, i pensieri, i desideri segreti, la voglia di andare avanti, di conoscere, di viaggiare, di essere curiosi, di vivere, di crescere ed evolvere nella propria spiritualità, di nutrire il proprio stimolo intellettuale, di mantenere principi integri e solidi, di inseguire e realizzare i propri sogni. Ci sono sempre tante aspettative, a volte con una leggera sfumatura di malinconia, in un mondo convulso, dove a volte è difficile incontrarsi perché ci sono tanti ‘io’ protetti da spesse corazze di gusti, idiosincrasie, paure, idee, progetti, ambizioni, sogni, delusioni. Ma dove, alla fine, ci s’incontra. Spesso. Andiamo anche a Parigi, passeggiamo con lei lungo la sempre romantica Senna, eterna; la seguiamo, Frances, ed è impossibile non volerle bene alla fine. Anche se è difficile non vedere le difficoltà cui va incontro. Con un’energia e un’incoscienza che lascia sperare. Perché sogna di diventare una ballerina ma scopre di essere un’ottima coreografa.
Perché evolverà con noi, evolveremo con lei e realizzerà la sua vita.
Perché, come diceva Walt Disney, “se puoi sognarlo, puoi farlo”.

Frances Ha, di Noah Baumbach, con Greta Gerwig, Mickey Sumner, Lev Adam, Michael Zegen, Patrick Heusinger, Charlotte d’Amboise, Grace Gummer, USA, 2013, 85 mn.

L’eco di Dionigi: l’acufene
e i disturbi dell’udito

L’Orecchio di Dionigi è una grotta artificiale che si trova a Siracusa. Imbutiforme, scavata nel calcare, alta circa 23 metri e larga dai 5 agli 11 metri, con una singolare forma, vagamente simile ad un padiglione auricolare, che si sviluppa in profondità per 65 metri, con un insolito andamento a S e con sinuose pareti che convergono verso l’alto, in un singolare sesto acuto. La grotta è, inoltre, dotata di eccezionali proprietà acustiche: i fischi vengono amplificati fino a 16 volte.
Le caratteristiche acustiche e la forma indussero Michelangelo di Caravaggio, che visitò Siracusa nel 1608 in compagnia dello storico siracusano Vincenzo Mirabella, a denominarla Orecchio di Dionigi, dando così forza alla leggenda cinquecentesca secondo la quale il famoso tiranno Dionisio avesse fatto costruire questa grotta come prigione e vi rinchiudesse i suoi prigionieri per ascoltare, da un’apertura dall’alto, le parole ingigantite dall’eco, come un acufene.

Che cos’è l’acufene
Solitamente l’acufene non viene considerato una vera e propria patologia, ma piuttosto un sintomo di svariate altre condizioni di salute. A volte, però, la causa rimane sconosciuta e chi ne soffre finisce, per lo più, per doverci convivere, con ricadute anche importanti sulla qualità della vita: è il tinnito, noto anche come acufene, disturbo dell’udito caratterizzato dal fatto che chi ne soffre percepisce rumori simili a fischi e sibili in assenza di stimolazione acustica. Il rumore ‘fantasma’ può essere percepito a diverso volume, e può quindi risultare basso in alcuni soggetti e alto in altri, e può essere continuo, manifestandosi in modo persistente, oppure può andare e venire, manifestandosi a fasi alterne. Il compositore ceco Bedřich Smetana ha descritto, per esempio, il suo acufene come un accordo di settima in re maggiore. Può colpire un solo orecchio, ma anche entrambi. Molte persone convivono senza grandi disagi con questa percezione uditiva fantasma, mentre per altre l’acufene diviene intollerabile: c’è chi non ha mai la possibilità di godere realmente del silenzio, avvertendo costantemente questo ronzio continuo, giorno e notte.
L’acufene è una percezione acustica senza sorgente sonora esterna. L’intensità dell’acufene è compresa generalmente tra 5 e 15 decibel sopra la soglia uditiva della persona colpita. Si distingue tra acufene obiettivo, nel quale la fonte sonora (per esempio flusso sanguigno dovuto ad anomalie vascolari) è all’interno del corpo, e acufene soggettivo, quando è percepito solo dal soggetto affetto perché non scaturisce da una fonte sonora interna. In base alla sua durata si classifica in acuto (fino a tre mesi), subacuto (tra tre e dodici mesi) e cronico (superiore a dodici mesi).

Le cause dei disturbi uditivi
Gli acufeni sono localizzati nell’orecchio interno; ora, avviene che l’orecchio (medio ed interno) abbia delle relazioni nervose, circolatorie e muscolari con l’articolazione della mandibola. Ciò spiega il successo delle terapie occlusali (nella mal occlusione dentaria) che hanno come effetto immediato il ripristino del funzionamento delle articolazioni. Questo potrebbe spiegare il motivo per cui l’intensità dell’acufene può variare spostando semplicemente il collo, la testa o serrando mascella e mandibola.
Il problema è pertanto che la risposta ai segnali somato-sensoriali è eccessiva. La condizione di tinnito potrebbe verificarsi in seguito a lieve perdita dell’udito, oppure a un trauma di collo e testa, per esempio dopo un incidente d’auto o un intervento odontoiatrico.
L’acufene può essere causato da una serie di fattori, molti dei quali possono essere associati con l’alta pressione sanguigna o l’aterosclerosi.
Altri problemi che possono essere associati all’acufene sono il disallineamento della cervicale e la congestione nella regione occipitale, o disfunzioni della mandibola con rumore indotto e perdita di udito, trauma cranico o trauma acustico, il diabete e alcune allergie. L’ acufene o tinnito può verificarsi anche come un sintomo di quasi tutte le patologie dell’orecchio, comprese le infezioni dell’orecchio o il liquido che si accumula nella tuba di Eustachio (colla dell’orecchio), la malattia di Ménière o addirittura problematiche cardiache.
Una delle possibili cause prevenibili di acufene dell’orecchio interno è l’esposizione eccessiva alla rumorosità. In alcuni casi di esposizione al rumore, come primo sintomo si ha perdita dell’udito; questo dovrebbe essere considerato un segnale di avvertimento e l’indicazione della necessità di protezioni acustiche in ambienti rumorosi.
Altre possibili cause possono essere la tossicità di alcuni farmaci o sostanze chimiche, compresi i salicilati, alcuni diuretici e alcuni antibiotici, metalli pesanti e alcol. Questi possono danneggiare le cellule ciliate dell’orecchio interno e causare tinnito. Tra questi farmaci rientrano ne rientrano alcuni non soggetti a prescrizione come l’aspirina, uno dei farmaci più comuni e più noti che possono causare l’acufene e l’eventuale perdita di udito. Inoltre, con l’avanzare dell’età, c’è un incidenza degli aumenti di tinnito.
L’orecchio ha due muscoli importanti: il tensore del timpano (che stabilizza la vibrazione in eccesso causati da suoni forti) e il tensore del palatino (che circonda la tromba di Eustachio, e aiuta ad aprire e chiudere la tuba, equilibrando così la pressione all’interno dell’orecchio interno). C’è anche il sospetto che una carenza di vitamina B12 e la mancanza di ferro, possa contribuire a casi di acufene da accertare con prescrizione del medico.

Oggi è possibile trovare numerose cure pubblicizzate come efficaci ma che non possono essere di alcuna utilità, perché mai sperimentate su esseri umani, ma solo sugli animali, e senza prove attendibili:
• laser per acufeni («soft laser»): pubblicizzato come strumento in grado di favorire la rigenerazione cellulare delle cellule ciliate cocleari; questo è biologicamente impossibile poiché le cellule ciliate cocleari non sono in grado di rigenerarsi dopo un danno essendo cellule perenni;
• vasodilatatori e fluidificanti del sangue: qualora fosse realmente venuto a mancare sangue e ossigeno alle cellule ciliate cocleari, dopo appena 4-7 minuti queste avrebbero un danno permanente, con conseguente necrosi e morte definitiva; la successiva reintegrazione di sangue e ossigeno non potrebbe mai rigenerare cellule ormai morte;
• vitamine o additivi nutrizionali: non svolgono alcun ruolo documentato nel meccanismo di formazione degli acufeni.

Rimedi
La prima cosa da fare è accertare quali siano le cause del ronzio, consultando un medico, di preferenza uno specialista otorinolaringoiatra e un osteopata. Le cause possono essere banali come la presenza di tappi di cerume nelle orecchie, ma possono anche indicare l’esistenza di problemi di circolazione e di pressione troppo elevata; possono essere provocati da un’otite, una labirintite, o essere collegati a perdite di udito a causa dell’età.
Nella mia esperienza di osteopata ho verificato che vi sono alcuni ottimi rimedi naturali, come l’assunzione della Ginkgo Biloba, una pianta che, come dimostrato in numerosi studi, presa ad un dosaggio di 120-140 mg al giorno per 4-6 settimane, produce un miglioramento del tinnito, vertigini, smemoratezza, ed in genere della circolazione nel cervello (Stange et al. 1975; Jung et al. 1998, Soholm 1998, Morgenstern et al. 2002). Ma anche di altre sostanze come la melatonina, le vitamine del gruppo B, lo zinco ed il magnesio.

Importantissima dunque la prevenzione con un’alimentazione e uno stile di vita sani, ma anche un uso moderato di apparecchi come smartphone e cellulari.

LA STORIA
Galline ovaiole alla riscossa ovvero giovani allevatori crescono

Meglio un uovo oggi che un giovane disoccupato domani. Ai tempi tribolati che stiamo vivendo, potrebbe essere questo adattamento del vecchio adagio il biglietto da visita di Edoardo Poli, ventitreenne di belle speranze – e ci mancherebbe altro, a quell’età – che, ‘scecherando’ l’aziendina agricola di famiglia, a suo tempo trasformata in boschetto planiziario con oltre sessanta specie di alberi e arbusti tipici della nostra pianura, alcune decine di galline baciate dalla buona sorte in quanto sottratte alla vita grama dell’allevamento intensivo, e una propensione imprenditoriale esaltata dalla mancanza di alternative, ha creato dal nulla un’attività ‘ovaiolica’ che si è allargata a macchia d’olio, a partire da un cartello affisso nel cortile di casa: “Vendo uova no ogm”.
E così, oltre ogni più rosea previsione, le pollastre razzolanti felici nel sottobosco a caccia di vermi, bacche, insetti, bisce e insomma di tutto quel che capita a tiro di becco, hanno attirato una clientela sempre più vasta e affezionata (pare che le uova di galline ruspanti siano decisamente più buone di quelle d’allevamento), creando al giovane Edoardo seri problemi di approvvigionamento.

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Uova fresche no-ogm

Le spensierate pennute, incuranti delle necessità del padrone, faticano non poco – anzi non ce la fanno proprio più – a star dietro alla messe di richieste che fioccano da tutte le parti: i clienti a casa, il gruppo di acquisto solidale Schiaccianoci, altri gruppi che si stanno organizzando e premono alle porte e, ultimo ma non ultimo, il nascituro mercato di Slow Food che è ormai sui blocchi di partenza, in vista dell’inaugurazione prevista per sabato 18 ottobre nel cortile degli ex magazzini Amga, dietro ai Bagni Ducali.
Imponendo al novello imprenditore un allargamento dell’attività, che è in corso e sta vedendo l’ingresso di gallinelle di razze rustiche, adatte alla vita all’aria aperta, che entreranno in produzione nel giro, si augura, di alcune settimane; muta delle penne, sbalzi di temperatura e altri accidenti vari assortiti permettendo. Perché l’allevamento non è una fabbrica, in cui basta intensificare i turni per aumentare la produzione, ma è una delicata attività biologica soggetta a mille variabili; e ogni uovo, se ci si pensa bene, non è un uovo e basta: è un miracolo della natura.
In becco alla gallina, Edoardo!

La lezione civile
di un uomo di parola

Ha ragione l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, mons. Luigi Negri, che definisce la tragica morte di don Francesco Forini una perdita incalcolabile.
Non solo per la parrocchia di Mizzana, dove da anni era parroco; non solo per la comunità ecclesiale, ma per tanti e tanti a Ferrara.
La notizia della sua scomparsa improvvisa a causa di uno schianto, che come quelli che avvengono sulle strade avrà avuto il rumore sordo e traditore di una vita strappata tra un respiro e l’altro, arriva al termine di una domenica in sella alla sua bici, nel paesaggio del Delta del Po e tra gli affreschi di Pomposa.
Biblista, uscito da un rigoroso percorso di studi accademici al Pontificio istituto biblico a Roma, don Francesco è stato un indimenticato assistente dell’Azione cattolica diocesana; direttore di Casa Cini insieme con don Franco Patruno nei primi anni della ripresa delle attività dell’istituto di cultura, dopo la decennale presenza dei gesuiti; per dieci anni in Africa, a Kamituga e alla scuola di altri due grandi nomi della chiesa ferrarese: don Alberto Dioli e don Silvio Turazzi (a Goma); stimato insegnante all’Istituto diocesano di scienze religiose e tanto altro ancora.
Grazie a lui, innanzitutto, un quasi inesistente settore giovani dell’Azione cattolica ferrarese si rianima nei primi anni ’80 e consegue risultati numerici e di radicamento parrochiale che hanno lasciato il segno in molti. Non solo attività formative e spirituali, ma anche coraggiosi convegni rivolti alla città su temi come la disoccupazione giovanile e la pace.
A Casa Cini, insieme con don Patruno, è stato autore di un vero e proprio Programma culturale rivolto alla città, coinvolgendo le migliori intelligenze nei vari campi del sapere e chiamando a Ferrara alcuni dei grandi nomi della teologia, della filosofia, della scienza, dell’arte e della cultura.
Quasi uno stato di grazia, ancora oggi ricordato come una sorta di primavera ferrarese culturale a tutto tondo.
Non c’era ambito del pensiero umano al quale quel Progetto non volesse rivolgersi, parlare, dialogare. Sulla scorta del proemio della Gaudium et Spes, la Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del Concilio Vaticano II, Casa Cini voleva essere luogo e spazio d’incontro con le “gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini”.
E così fu da subito la casa (non istituto) di intellettuali, giovani, donne e uomini. A partire dagli incontri di esegesi biblica del mercoledì, ai quali don Francesco non rinunciò mai. Un piccolo gruppo di persone che, sinossi dei Vangeli alla mano, era condotto per mano a comprendere innanzitutto il senso letterale, storico-critico, di quei testi.
Esercizio che dapprima suscitava l’attrito di non poter piegare quei testi ad un’ermeneutica spesso frutto di un’omiletica talvolta solo orecchiata, ma che alla lunga educava, con incrollabile pazienza, a lasciarsi interrogare dalla nudità, spesso inquietante e per nulla facilmente consolatoria, di quella Parola, che proprio così è in grado di parlare ad ogni coscienza.
Non ha mai trascurato un faticoso e serio lavoro di studio dei testi, e si sentiva, ostintamente declinato in un’esposizione certamente rigorosa e sistematica, ma sempre alla portata di tutti. Consapevole che quella Parola è rivolta all’uomo, tutti gli uomini.
Chi lo ha ascoltato, anche recentemente, ha avuto la sensazione di una sicura, autorevole, onesta e sedimentata esperienza dell’intero arco narrativo biblico.
Così don Francesco ha saputo, come pochi, entrare in tanti cuori e intelligenze che ora, comprensibilmente, sentiranno la mancanza di una voce colta, paziente e ironica, capace di parlare a credenti e non credenti, bambini e adulti, che egli ha sempre sentito pastoralmente come una famiglia.
Questa è stata la sua fede, la sua vita di prete, di un uomo per il quale la Parola ha avuto il valore e il senso di un impegno, di un legame, di una relazione, di un sacramento nel senso di una Presenza che unisce gli uomini a Dio e, si badi, contemporaneamente gli uomini tra loro.
Qui è sempre stato radicato il suo senso, teologicamente fondato quindi, di giustizia e solidarietà.
Mi viene in mente la voce arrabbiata di Alberto Moravia durante i funerali di Pier Paolo Pasolini:
“E’ morto un poeta e di poeti non ce ne sono tanti!”.
Con la morte di don Francesco Forini se ne va un prete, un amico, che ha avuto il talento di far risuonare Antico e Nuovo Testamento proprio come la poesia riesce a mettere insieme cuore e mente, ragione e sentimento, interrogando la coscienza nuda di ogni donna e uomo.
La sua, dunque, è stata innanzitutto una grande lezione civile; la lezione civile di un uomo di parola, perché lui per primo ha voluto che la parola diventasse un potente richiamo alla coerenza e mai semplicemente un suono.
E’ stato, quindi, essenzialmente un intellettuale, non nel senso salottiero nel quale tante volte è scaduto questo termine, ma in quello autentico di tenere insieme la riflessione con la vita.
Ciao Gogo.

Internazionale a Ferrara con
“La diva del tango. Alla ricerca del niño rubato”, libro del ferrarese Michele Balboni

da: ufficio stampa Faust Edizioni

Tra i tanti appuntamenti che animano per tre giorni il cuore della città di Ferrara, in contemporanea con l’ottava edizione del Festival di Internazionale, la presentazione di un romanzo che ci parla di tango; e del dramma dei bambini rubati ai tempi della dittatura argentina.

Festival di Internazionale: un weekend con giornalisti, scrittori e artisti di tutto il mondo nel cuore della città di Ferrara.
Tra i tanti dibattiti, mostre, proiezioni, workshop e presentazioni di libri segnalati da Ferrara città Universitaria, ricordiamo la presentazione del romanzo di Michele Balboni, ambientato nel mondo del tango, che ha sullo sfondo il tema dei desaparecidos e il dramma dei bambini rubati ai tempi della dittatura argentina.
Il libro si inserisce nell’azione che l’Ambasciata Argentina in Italia e altre associazioni stanno svolgendo per ritrovare l’identità dei bambini che all’epoca della dittatura furono rubati, alcuni dei quali si ritiene possano essere residenti in Italia. La stessa copertina del romanzo, pubblicato da Faust Edizioni, casa editrice indipendente fondata e diretta dal ferrarese Fausto Bassini, è un quadro realizzato da una vera nipote ritrovata, Jorgelina Paula Molina Planas. L’autore, “dirigente d’azienda, scrittore novello ma avanti con gli anni, ballerino esperto ma maldestro”, assieme ad altri appassionati, contribuisce alla gestione della milonga “La Casona del tango” a Ferrara. Ha già pubblicato Il mio tango, Volta la carta edizioni.

Presentazione venerdì 3 ottobre alle 17 alla sala dell’Oratorio San Crispino – alla libreria Ibs
Intervengono con l’autore Claudio Tognonato, Università Roma-Tre
Walter Calamita, presidente Ass.ne 24 marzo
Barbara Bongiovanni, Ass.ne Oltre Confine Ferrara

Letture a cura di Fabrizia Lotta

LA RIFLESSIONE
Welfare, sognavamo
la Scandinavia

Che il welfare al quale eravamo abituati sia in drammatica crisi è un fatto riconosciuto. Decisamente meno chiaro è lo scenario che abbiamo davanti: che ruolo avranno alla fine gli attori istituzionali che sono stati o dovevano essere i pilastri del welfare? Che conseguenze ci saranno per tutte quelle professioni orientate alla cura, all’educazione e all’inclusione sociale che di queste istituzioni erano e sono la struttura portante? Quale ruolo ci sarà per il terzo settore, per il non profit nelle sue diverse articolazioni? In che modo si svilupperà la sussidiarietà e quali relazioni prenderanno forma tra i vecchi attori istituzionali e quelli nuovi che si affacciano sulla scena?

Per ora si deve prendere atto della fine della tenuta di un modello concettuale semplificato, caratterizzato dalle imprese che producono ricchezza, dallo Stato che si occupa delle questioni sociali attraverso i suoi servizi socio-sanitari, educativi e le sue politiche economiche, e, infine, delle organizzazioni politiche, partiti, sindacati, movimenti di pressione che segnalano i temi e gli spazi dove intervenire.

Da questa disgregazione sono emersi e stanno emergendo in Italia tentativi di soluzione, modelli, ipotesi di lavoro, pratiche e processi che variano da regione e regione, da territorio a territorio: alcuni falliscono, altri restano circoscritti al caso di successo, pochi si affermano, molti stentano ad affermarsi. Tutti però mettono radici e crescono all’interno di un sentire collettivo fin troppo spesso caratterizzato da un sentimento collettivo molto diffuso di timore e paura che non di rado sfocia nel rancore e nell’intolleranza; in un ambiente dove si contrappongono e si giustappongono argomenti ed opinioni che variamente oscillano tra l’ottimismo cieco nel progresso e nelle virtù del mercato, la fede nella tecnologia e l’aspettativa di leggi adeguate, l’impegno e il disinteresse sociale e l’indifferenza.

In mezzo a questo ribollimento sociale si colgono ancora, ora forti ora flebili, le voci delle due grandi narrazioni collettive del novecento italiano, quella del solidarismo cattolico e quello del mutualismo della sinistra, il modello cooperativo bianco e rosso con le imprese sociali, le centrali e il più vasto mondo del volontariato e dell’associazionismo. Sotto a tutto questo, per chi sa guardare, si rivela infine il tessuto delle reti di solidarietà familiare, una prospera economia informale che sfugge alla contabilità ufficiale, la rete ancora sperimentale delle sempre più numerose comunità intenzionali. Questi i veri elementi portanti di quella galassia sociale e culturale composta dai piccoli comuni (a rischio di sopravvivenza) e dalle piccole città che tra mille contraddizioni rappresentano ancora una peculiarità del territorio italiano. Un intero sistema relazionale che troppo frettolosamente si riteneva fosse stato superato e reso obsoleto dalla modernità industriale imperante.

In questo terreno composito cresce buona parte dell’associazionismo, si afferma quella ideologia del prendersi cura (I care, come recitava lo slogan ampiamente frainteso di una passata campagna elettorale) che alimenta i valori di molte persone che hanno scelto – più per passione che per calcolo – o che si sono trovate loro malgrado a far parte di quel vasto spazio imprenditoriale e lavorativo che si denomina solitamente con l’etichetta non profit. Almeno in parte queste persone condividono un comune impegno, una focalizzazione alla cura di altre persone, una centratura sui bisogni che è propria di molte professioni come quella degli educatori, dei medici, degli insegnati, degli assistenti sociali, dei terapeuti.

Di fronte a questo mondo – seppure lungo un confine sfumato, una terra di nessuno in cui si scorgono manipoli isolati in movimento – sta la comunità dei produttori, la comunità operosa, il profit, il mondo degli affari, quello che viene celebrato ogni giorno nelle pagine economiche dei media. Un mondo altrettanto composito e diversificato, fatto da pochi grandi gruppi, forse una decina, 4.000 medie imprese e milioni di piccole imprese e micro imprese; un tessuto produttivo che malgrado le spinte alla delocalizzazione e alla dematerializzazione del capitalismo finanziario, malgrado le chiusure e le dismissioni, proprio per la sua frammentazione mantiene ancora un forte riferimento al territorio. In Italia, terra dei comuni e dei distretti industriali, del capitalismo familiare, delle imprese di famiglia e del diffuso artigianato, malgrado la crisi, malgrado lo scempio ambientale causato anche dagli insediamenti produttivi è proprio alla scala del territorio che gli attori sociali possono giocare nuove sfide assumendosi nuove responsabilità.

Che relazioni si possono costruire su un territorio tra questi attori per rispondere allo stato di crisi del welfare, per sviluppare inclusione sociale, per costruire pezzi di welfare comunitario? Che ruolo dovrebbero giocare in tal senso le amministrazioni se riuscissero ad interpretare al meglio il loro ruolo di enti regolatori? La peculiarità italiana, la specificità del capitalismo italiano, suggerisce a mio parere di prendere spunto da altre esperienze nazionali, ma obbliga allo stesso tempo a costruire una via innovativa che sappia valorizzare le diversità territoriali. Modelli di capitalismo differenti, affermatisi in culture diverse, che hanno generato welfare diversi e che hanno dato luogo a pratiche molto differenti di non profit. Ed è a questi modelli che molti guardano per affrontare la crisi in Italia:

• si guarda molto, anzi decisamente troppo, al modello liberale anglosassone, finanziario, dove l’impresa conta solo per i suoi rapporti con la borsa, con la finanza. Nel processo di accumulazione (predatoria?) si formano le grandi fondazioni (Bill e Melinda Gates ad esempio o George Soros che dopo aver speculato e guadagnato sulla crisi argentina combatte la fame nel mondo con la sua rete di fondazioni o ancora la famosa e chiacchierata fondazione dei Rockefeller) che consentono di finanziare interventi sociali: il massimo di profitto per le imprese per garantire il massimo di fondazioni (non profit) per la società (soprattutto un grande vantaggio per le imprese che trasferiscono nelle fondazioni quote esentasse e attraverso esse promuovono la propria immagine e le proprie strategie);
• si guarda al modello corporativo del welfare tedesco basato su un imponente volume di risorse fiscali e sulla cogestione ai vertici delle grandi imprese dove è la presenza del sindacato diretta e non conflittuale che esprime il mondo dei lavoro e dei meno ambienti se non proprio dei più deboli (quello che forse aveva cercato di fare senza successo l’IRI in Italia?), un modello che pur garantendo sostegni e sussidi pubblici anche ai disoccupati spinge le persone ad avere un ruolo attivo nella ricerca di soluzioni per i propri problemi;
• si guarda poco a quello corporativo francese con uno stato forte dove il rapporto tra profit e non profit sta in mano a prefetti e prefetture che si occupano anche di sociale oltre che di ordine pubblico;
• si guarda infine all’inarrivabile modello delle socialdemocrazie scandinave, caratterizzato da un welfare pervasivo ed in grado di garantire quasi tutto ai suoi cittadini, al punto di rendere quasi inutile il terzo settore.

Le culture e le tradizioni che hanno generato questi modelli di welfare ai quali si guarda per trovare ispirazione non sono le culture e le tradizioni (il plurale è d’obbligo) dell’Italia delle differenze regionali, dei distretti industriali, delle piccole (e grandi) città, della presenza diffusa della chiesa e del Vaticano, delle contrapposizioni ideologiche perduranti e del divario tra nord e sud. L’Italia dei piatti e dei prodotti tipici, che non ha una propria cucina ma molte cucine che resistono all’omologazione, dei dialetti e dei campanili, di Internet e della Ferrari. Dunque, se il vecchio modello di welfare familiare caratteristico del nostro paese e dell’Europa mediterranea non sta più in piedi è ancora alla cultura e ai territori, a nuove possibilità di collaborazione tra i diversi attori istituzionali, che bisogna guardare per trovare buone soluzioni innovative.

In questa Italia molto operosa che rapporto dunque ci può essere tra profit e non profit? Che rapporto può avere l’imprenditoria morale con i grandi gruppi (in primis le banche)? Che rapporto con le medie imprese che spesso investono in welfare aziendale o di comunità contribuendo a garantire la tenuta della coesione sociale (si pensi agli asili aziendali o ai progetti di conciliazione dei tempi familiari con quelli di lavoro). Che rapporto può avere il non profit con le micro-imprese, con il capitalismo molecolare e diffuso spesso aggregato in quella specificità italiana che sono i distretti industriali? E infine, che ruolo possono e devono giocare le Pubbliche amministrazioni (a livello regionale, provinciale, comunale) in questo scenario?

Le risposte a queste domande possono essere molteplici e, dunque, un ruolo fondamentale tocca alla innovazione sociale, alla capacità di escogitare soluzioni innovative di fronte ai nuovi problemi emergenti, anche trovando nuove forme di collaborazione tra costellazioni produttive (profit) e costellazioni di cura (non profit). Se la via maestra dell’innovazione attende sempre nuove soluzioni alcune appaiono già chiare e percorribili:

• la rendicontazione sociale da parte delle imprese profit che possono così mostrare la loro responsabilità sociale (ed ambientale) a fronte del loro investimento per il non profit;
• la ricerca di finanziamenti alternativi rispetto a quelli pubblici da parte delle agenzie di cura del non profit e di certi settori del settore pubblico, in primis attraverso le fondazioni e la valorizzazione delle donazioni;
• l’inserimento degli attori e delle istituzioni profit nelle procedure di pianificazione e programmazione sociale e territoriale;
• la valutazione costante e condivisa del valore sociale prodotto dal sistema degli attori istituzionali impegnati.

E’ anche nella gestione strategica di questa complessità che quel che resta del pubblico, decimato dai tagli, può valorizzare il suo ruolo ed ottenere nuova legittimazione. Molto del presente va però disegnato e ridisegnato, partendo dal positivo ed inventando nuovi modelli che partano sempre dal riconoscimento reciproco dei diversi attori pubblici e privati, profit e non profit che agiscono sul territorio; tenendo conto che in Italia l’economia informale (non parliamo naturalmente dell’economia nera) e familiare, le reti informali e familiari, sono ancora un fattore rilevante, seppure con grandissime differenze tra città metropolitane (a loro volta diversissime tra di loro) e campagne, tra paesi e cittadine, tra nord e sud. Qualcosa di diverso da quello che viene dipinto dal sistema omologante dei media ma che può rappresentare, e forse in qualche luogo già rappresenta, il tessuto relazionale a partire dal quale pensare nuove soluzioni realmente percorribili.

IL FATTO
‘E’ entrato il sole’ in via De’ Romei: i negozianti fanno il miracolo
e rilanciano la zona

In meno di un anno tre nuovi negozi hanno aperto in via De’ Romei, un quarto inaugurerà a breve. I titolari sono tutti giovani uomini e donne, tra i trenta e i quarant’anni. Hanno una luce particolare negli occhi, sono entusiasti e pieni di idee: vogliono promuovere le loro attività e al tempo stesso rivalorizzare una parte bellissima di centro storico che è morta con l’avvento dei supermercati, dall’inizio degli anni Ottanta. Per animare la strada e le zone limitrofe, hanno di recente ideato e organizzato un evento al quale hanno aderito anche tutti gli altri commercianti e ristoratori. “Via De’ Romei in festa” è stata un’iniziativa spontanea riuscitissima: mercoledì 17 settembre, i negozi sono rimasti aperti, hanno messo fuori i loro banchetti espositivi, offrendo aperitivi con sottofondo musicale, proponendo video e performance di vario tipo.

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La serata di festa

Abbiamo voluto incontrare coloro che la serata l’hanno ideata e organizzata, in particolare i titolari di You and Tea, di Pop Design Store e del negozio d’arte Michelangelo, per sapere quali ingredienti hanno utilizzato per compiere la magia. Ma anche la mitica signora Marisa dell’alimentari all’angolo con Voltapaletto, negozio storico che aprì nel lontano 1946. E le titolari che stanno per aprire la loro bottega dei desideri, il cui nome, “Lasciate entrare il sole”, sintetizza perfettamente lo spirito che anima tutti i commercianti.

You and Tea è al 36 di via De’ Romei, è una Sala da tè che offre oltre 150 varietà di tè e infusi. Sono stati i tre soci ad avere per primi l’idea della festa, abbiamo chiesto a Francesca di raccontarci com’è andata.

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Francesca di You and Tea
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Sala da tè You and Tea

Sapevamo già dall’apertura, nel dicembre 2013, che non era una via di passaggio, pur essendo in pieno centro storico: la gente a Ferrara tende sempre a passeggiare nelle stesse strade, non si avventura in avanscoperta, non entra nei nuovi negozi. I turisti paradossalmente arrivano, perché loro girano tutto il centro e hanno un’apertura a 360°, entrano, guardano, scuriosano dappertutto. Quindi abbiamo cominciato a proporre piccole iniziative per renderci visibili, e quando abbiamo visto che stavano aprendo altri negozi, ci siamo immaginati di poterci mettere insieme.

Come è stata recepita l’idea della serata di festa dagli altri commercianti della via?
All’inizio ci siamo incontrati con Pop Design Store, Michelangelo e la galleria d’arte L’altrove, quando il progetto ha preso forma, abbiamo coinvolto tutti gli altri, anche le attività che si trovano vicino a de’ Romei, come Renata Bignozzi e Il Molo di via Contrari. Di gente ne è venuta tanta, si è creato un bel movimento, molti sono entrati per la prima volta nei nostri negozi, incuriositi e sorpresi.

Come vi siete mossi, avete avuto delle partnership?

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Dj Niko
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Bandzai Sax Quartet

Abbiamo proposto l’evento all’Assessorato alla cultura, turismo e giovani che ci dato il permesso di chiudere la strada. Per animare la serata ci siamo organizzati tra di noi: noi di You and Tea abbiamo chiamato degli amici jazzisti, L’altrove i ballerini di tango, Pop Design Store la Dj StereoSilva, Michelangelo ha invitato un’artista che faceva i ritratti, e via dicendo.

Altri eventi in programma?
Visto che la serata è andata molto bene e che sono stati tutti contenti, pare che ripeteremo. Anche perché solo muovendoci insieme si riesce a creare un evento forte e visibile da cui tutti possiamo trarre beneficio.
Michelangelo e Pop Design Store hanno aperto a giugno, a distanza di una settimana l’uno dall’altro.

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Davide del negozio d’arte Michelangelo

Al titolare di Michelangelo (de’ Romei 27), Davide Personale, abbiamo chiesto le impressioni sulla serata.
L’iniziativa ha funzionato perché c’è stato l’apporto di tutti e, come diceva Totò, “la somma fa il totale”. E’ da ripetere, magari migliorando l’organizzazione, chiedendo un’illuminazione adeguata e, soprattutto, coinvolgendo anche i negozianti di Voltapaletto e via Contrari perché, essendo io all’angolo con Voltapaletto, vorrei che si animasse anche questa parte.

Pop Desing (De’ Romei 19A) è un concept store dove si incontrano design e artigianato. Il titolare, Giorgio Paparo e il suo compagno Massimiliano Di Giovanni, sono stati i veri promotori della serata. Giorgio ha un background romano di negozi e spazi polivalenti, ha vissuto e lavorato a Londra, Firenze, Bologna, e quindi nel Dna una visione innovativa di negozio.

Siamo molto soddisfatti perché ci hanno conosciuto tante persone e perché l’iniziativa ha davvero rianimato la zona. I commercianti più “vecchi”, che non si aspettavano questo successo, si sono complimentati con noi: “Non avevamo mai visto una situazione del genere in questa strada”. Anche i residenti e l’Amministrazione stessa hanno apprezzato perché stiamo portando movimento in una zona che, malgrado la sua centralità, è ancora poco frequentata e conosciuta.

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Massimiliano e Giorgio di Pop Design Store
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Pop Design Store, concept store

Il vostro è un negozio molto particolare, atipico, soprattutto per una città come Ferrara…
Sì, infatti. Nel nostro negozio convivono un’area vendita, in cui trovare oggetti sempre unici e originali, e un laboratorio per la promozione di progetti e collaborazioni. Da noi i giovani creativi possono venire e mostrare il loro talento durante workshop e dimostrazioni. Io stesso progetto e realizzo complementi d’arredo e gioielli. Lo scopo di questo concept store è quello di offrire una selezione d’eccellenza, che affianchi prodotti handmade di piccole realtà imprenditoriali (da tutta Italia, in particolare Ferrara) alle proposte di design contemporaneo di giovani aziende già leader nel settore, che selezioniamo alle fiere più prestigiose in giro per il mondo. Questo ci permette di vendere articoli a un prezzo sempre controllato pur vantando un alto contenuto qualitativo.

Quale futuro vedi per questa zona della città?
Auspichiamo che i ferraresi tornino a passeggiare in questa zona storica e bellissima della città. Che si crei un circuito alternativo alle solite vie del centro e ai tanti franchising che ci vogliono sempre più omologati. Il nostro modello per Via de’ Romei? I quartieri di tante città del nord Europa, in cui convivono botteghe d’arte, artigianato locale e design di innovazione.

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Il negozio della signora Marisa, angolo Voltapaletto

Alla signora Marisa, la veterana della strada, abbiamo chiesto se anche lei ha apprezzato l’iniziativa e se è disposta a ripetere.
Ma certo, una volta noi lo facevamo sempre, tenevamo aperto una domenica al mese, al pomeriggio, ognuno con il proprio banchetto e offrivamo i nostri prodotti. Allora, negli anni ’70, eravamo in tanti: c’era la Pasticceria 2000, c’era una restauratrice, una latteria, una ferramenta, un bibiclaro, un negozio di dolciumi.

La zona a quel tempo era frequentata?
Era una zona commerciale conosciutissima e la gente ci passava regolarmente, anche le donne in pelliccia!

E per finire, il nuovo negozio “Lasciate entrare il sole” (al numero 30) che aprirà l’11 ottobre. Chiediamo a Eleonora Ferrari e Chiara Cicotti di raccontarci come hanno deciso di intraprendere l’attività e cosa ne pensano della serata di festa.

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Tratto della strada che porta a via Giovecca

La serata è stata bellissima, c’era un’atmosfera molto particolare, quasi parigina: i vinili, la proiezione di filmati sui muri, il tango, la mostra di foto giapponesi, e tutto questo mentre la signora Marisa offriva ciccioli e prosecco.

Come mai avete deciso di aprire il negozio in una zona così poco frequentata?
La nostra idea era quella di aprire una piccola bottega dei desideri, piena di cose tutte diverse e particolari, come piacciono a noi; un negozietto di nicchia, un po’ intimo, un posto che rispecchiasse anche il nostro carattere timido e riservato, che non fosse sotto i riflettori. De’ Romei ci è sembrata perfetta.

Siete amiche da tanti anni, avete cinque bellissime bambine, quando avete deciso di mettervi in società e partire sul serio?
E’ nato tutto molto d’istinto, di pancia. Il momento magico è arrivato a fine gennaio scorso, ad una fiera della moda, a Milano, in cui abbiamo sentito che era il momento giusto. Da allora abbiamo cominciato a fare viaggi di ricerca, in Italia e all’estero, tra fiere di moda e piccoli artigiani locali, alla scoperta di marchi sconosciuti e cose deliziose. Ci stiamo divertendo moltissimo, siamo molto in sintonia, e la cosa che ci emoziona di più è che ci capita sempre di scegliere esattamente lo stesso capo: su una parete di mille pezzi, il 99% delle volte veniamo rapite dalla stessa cosa… è quasi imbarazzante!

Voi offrite capi da donna, accessori e bigiotteria altamente selezionati, ma anche mobili, creme, foulard, come definireste il vostro stile?

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Selfie di Eleonora e Chiara durante uno dei loro viaggi

Il nostro stile? Si potrebbe definire fresco, vivace, un po’ caotico. Ci piace mescolare cose belle, anche molto diverse tra loro; adoriamo quell’atmosfera frizzante e dinamica che abbiamo ritrovato in varie fiere e che a Parigi si respira in modo particolare. Quello che troverete in negozio sarà un mix insolito di capi e accessori molto originali, in alcuni casi veri e propri pezzi unici, di gusto e per tutte le tasche.

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logo di “Lasciate entrare il sole”

“Lasciate entrare il sole” è un nome poetico, evocativo. Come l’avete pensato?
Il nome del negozio è stata un’illuminazione: giravamo per Parigi, al Marais, sempre a caccia di novità, e siamo state attratte entrambe da una scritta dipinta su una vetrina: “Laissez entrer le soleil”, una frase positiva, gioiosa, luminosa. Ci siamo subito dette che, se mai avessimo aperto, il nome del negozio sarebbe stato quello.

E luce sia! Ci auguriamo davvero che la zona di De’ Romei ritorni vivace e attrattiva come un tempo, e che gli sforzi dei commercianti vengano sostenuti dall’Amministrazione, con una lungimirante e sapiente strategia.

L’APPUNTAMENTO
Per non voltarsi dall’altra parte.
Educazione alla legalità e alla responsabilità

“La legalità non è un valore in quanto tale: è l’anello che salda la responsabilità individuale alla giustizia sociale, l’io e il noi. Per questo non bastano le regole. Le regole funzionano se incontrano coscienze critiche, responsabili, capaci di distinguere, di scegliere, di essere coerenti con quelle scelte” (don Luigi Ciotti)

Incontri, dibattiti, proiezioni, spettacoli teatrali e persino la simulazione di un processo, questo è il programma della Festa della Legalità e della Responsabilità 2014, che si svolgerà a Ferrara dal 4 al 15 ottobre e che rimette al centro le coscienze. Non è un caso, infatti, che al centro del manifesto ci sia un cervello: varie sono le strade, contrastare, analizzare, coinvolgere, scegliere, ma l’unico comune denominatore è la nostra coscienza critica, la nostra volontà di chiederci il perché di ciò che ci accade intorno. Per farlo però dobbiamo avere gli strumenti, per questo questa quinta edizione si intitola Educare alla Legalità.
Educare significa condividere la propria esperienza perché gli altri ne possano fare tesoro, ed è quello che farà Gherardo Colombo nei due appuntamenti della serata del 13 ottobre alla Sala Estense e della mattina del 14 ottobre alla Sala Boldini. Il primo, intitolato Il rispetto della legalità come responsabilità diffusa e rivolto a tutta la cittadinanza, vedrà la partecipazione del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani e del presidente emerito del Movimento Nonviolento Daniele Lugli. Mentre il secondo sarà un dialogo con gli studenti delle scuole superiori ferraresi sul tema Le regole non fanno la felicità. O sì!?
Educare significa far conoscere e rendere consapevoli degli episodi di illegalità che accadono ogni giorno, ma anche di ogni gesto concreto di impegno che contribuisce a non farci perdere la speranza. Educare significa coinvolgere e far partecipare perché le regole non rimangano sentenze astratte, ma diventino parte del nostro vivere quotidiano. Educare significa anche far riflettere e far divertire, perché la quotidianità è fatta di incontri e da ogni incontro impariamo qualcosa. E una volta consapevoli e capaci di interrogarci, una volta in grado di riconoscere gli indizi e i sintomi dell’illegalità, possiamo scegliere di non voltarci dall’altra parte, di essere responsabili: una responsabilità che non è solo individuale, ma che condividiamo con le istituzioni e con il resto della società.
Per questo legalità, responsabilità e educazione sono le parole chiave di questa quinta edizione della manifestazione. Legalità, responsabilità, educazione, sono purtroppo parole che questo nostro paese sta sempre più lasciando ai margini, mentre potrebbero e dovrebbero essere fra i fondamenti di una società che voglia dirsi civile nel vero senso del termine.

Il programma completo della Festa della Legalità e della Responsabilità è disponibile su provalegalita.wordpress.com.

L’EVENTO
All’Ariostea l’Istituto Gramsci ripercorre
la Grande Guerra degli italiani

Annatevene tutti, lassatece piagne da soli.
Con questa frase, scritta su un muro di Roma ai tempi dell’occupazione tedesca, Enzo Biagi terminava un suo articolo per il Corriere dal titolo Qualche eroe tra la brava gente.
Anche Pirandello e Gadda, a modo loro, hanno trovato eroi negli italiani. Eroi tragici e grotteschi, che vorrebbero farsi beffe ma destinati a essere beffati. La tragedia pirandelliana I vecchi e i giovani è il crollo delle speranze e dei valori risorgimentali di una Italia fresca di recente unità che somiglia terribilmente a quella di oggi; mentre i suoi protagonisti, in piena crisi dell’uomo moderno, non hanno niente da invidiare al nichilismo dell’uomo contemporaneo, così come i vizi che appartengono di diritto all’antropologia dell’italiano medio che sarà dipinto da Alberto Sordi nei suoi indimenticabili ritratti cinematografici – arrivismo, corruzione, pigrizia, malgoverno. La lezione è quella del Gattopardo: perché tutto resti uguale a se stesso, le cose devono cambiare. Ovvero: cambia l’epoca, ma non l’italiano. Quello è ancora il poeta, santo e navigatore; e fondamentalmente buono, come ricordava Biagi nel suo articolo. La cognizione del dolore è invece un ritratto di grande bellezza e dolore. Quello che è il triste Gonzalo, perso tra le figure del padre e della madre tra angosce, timori e nevrosi annaspando nel dramma borghese della perdita materiale e soprattutto affettiva, il barocchismo degli inganni nelle relazioni e nella (scarsa) capacità comunicativa, restando un uomo solo pur nel sollievo della linguaggio di Gadda. I due libri saranno spunto per parlare di Italiani oggi (2 ottobre) con Claudio Cazzola e il 24 ottobre con Rosanna Ansani.

Ubbidisci al comando della tua coscienza, rispetta sopra tutto la tua dignità, madre: sii forte, resisti lontana, nella vita, lavorando, lottando.
Una donna di Sibilla Aleramo è forse il primo romanzo femminista italiano. Quella condizione i cui primi segnali arrivano da un momento buio e triste, e dove sono le donne che all’inizio del Novecento, trovandosi sole, gli uomini tutti partiti per il fronte, assumono quella guida e quella forza che è l’anticipazione e la culla del movimento femminista.
Si arruolano, sono infermiere e operaie, cambiano consistentemente il proprio ruolo sociale e familiare, affrancandosi da quella condizione che descrivevano poetesse e intellettuali (a loro volta criticate per la forte voce di indipendenza); diventano crocerossine, come racconta Hemingway in Per chi suona la campana; cucinano per poveri e orfani, cuciono vestiti di lana per i soldati al fronte, tengono vivi i collegamenti tra combattenti e familiari, vanno a lavorare in fabbrica – preludio di un altro ruolo fondamentale che avrebbero avuto durante la Seconda guerra mondiale, diventano staffette, portando indicazioni militari e notizie e rischiando la vita.
A raccontare i movimenti femminili nell’ambito della Grande Guerra sarà Anna Quarzi il 13 ottobre. Piero Stefani introdurrà invece una forte voce femminile della Seconda guerra mondiale, il 28 ottobre. Quella della partigiana Eliana Millu, maestra elementare, scrittrice, giornalista sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, “dove ero il numero A5384”, come ricordava; la voce femminile di Primo Levi, che racconta la guerra sua e di milioni di persone nel libro Fumo di Birkenau, sei racconti-testimonianza sui lager nazisti, scritti nel 1946.

Altra voce della Prima guerra mondiale, discussa da Paola Gnani il 17 ottobre, è quella del poeta austriaco Georg Trakl, morto a 27 anni nella battaglia di Grodek. La decadenza del mondo, tanto inarrestabile quanto, e l’infinita solitudine che avvolge ogni cosa sono i protagonisti delle sue opere. Solitudine, lontananza da Dio, dipendenza da sostanze psicotrope e disagio esistenziale si affiancano a quello fisico: vive lo strazio della Grande Guerra, raccontando la crisi profonda che agitava la società asburgica. Trakl rappresenta il suo dolore intimo con occhio onirico: Grodek, la sua ultima poesia, scritta prima di togliersi la vita, ne è l’esempio più grande e terribile, tanto da sembrarne il testamento. Frutto della sua esperienza al fronte quale medico, testimone dello scontro tra ragione strumentale e istinto di dominio, vi è descritta la bellezza naturale della scena della battaglia che si mescola alla violenza della guerra, realizzando la tragedia personale di Trakl e quella, universale, della guerra.

L’INTERVISTA
Russo: “Promuoviamo il Buskers festival a Open street, la vetrina internazionale dell’arte di strada”

Nessuna città italiana può vantare una tradizione dell’arte di strada come Ferrara. Certo tutto era cominciato con la musica del Buskers Festival, ma dopo 27 anni la manifestazione è diventata portabandiera internazionale delle tante discipline on road. Proprio per questo il festival ha aderito a Open Street, vetrina internazionale nata per incrociare domanda e offerta di un settore artistico oggi diffuso in tutto il Paese e strettamente connesso con le altre piazze d’Europa.

L’appuntamento, in programma dal 9 al 12 ottobre a Milano, è nato dall’esigenza di far incontrare organizzatori e produttori di spettacoli. “L’iniziativa è cominciata a Fermo e ora viene proposta a Milano in spazi prestigiosi. Rispetto alle altre due edizioni, quella meneghina si caratterizza per la presenza del pubblico. Abbiamo lavorato in modo da garantire a ciascuna compagnia un parterre di spettatori a ogni esibizione”, racconta Luigi Russo, presidente della Federazione nazionale artisti di strada (Fnas) e direttore organizzativo del Ferrara Buskers Festival. Open Street, promosso da Comune di Milano, associazione europea Aisbl Open street in collaborazione con Fnas, si gioca tra le piazze del Cannone, Castello, Parco Sempione, ex Cobianchi in piazza Duomo e il Castello Sforzesco. “C’è una parte fieristica aperta solo agli organizzatori – spiega – in sostanza c’è chi pagherà un biglietto e chi potrà guardare gli spettacoli gratuitamente nei luoghi e secondo gli orari previsti dal programma”. Spettacoli per tutti, famiglie, curiosi e organizzatori come nella miglior tradizione della strada. “In Italia l’arte di strada è cresciuta molto, è mutata la qualità così come la competenza del pubblico – continua – Da due indagini di Ipsos e Stage up è emerso che muove lo stesso numero di persone del teatro e delle rassegne cinematografiche”.

Sono 50 le compagnie selezionate tra le 250 interessate a Open Street, vengono da tutti i Paesi d’Europa per esibirsi. Performance, installazioni, show con e senza palco, mostre fotografiche, incontri e dibattiti con star dalle professionalità maturate on the road come Banda Osiris e il mitico Leo Bassi. E tra gli ospiti italiani ci sono Ondadurto Teatro, Teatro Necessario e Jashgawronsky Brothers, nomi di primo piano della scena open air, ma non solo. “Abbiamo artisti e produzioni di tutto rispetto – prosegue – ci troviamo però a dover fare i conti con la necessità di gestire gli spazi delle esibizioni, cosa che a Milano già avviene attraverso la piattaforma Strada Aperta messa a punto da Fnas e utilizzata dal Comune per evitare problemi”. Prenotarsi e avere delle certezze sul luogo dove esibirsi è d’aiuto all’amministrazione pubblica e allo stesso lavoro degli artisti: niente conflitti e meno caos. “L’idea di potersi prenotare da Londra, Roma, Bruxelles, non solo comporta l’aprirsi alla civile convivenza tra lavoratori dello spettacolo di strada e amministrazioni, ma semplifica la vita degli artisti oltre a favorire il formarsi di un circuito europeo – prosegue – Non è bello trovarsi di fronte a casi come quello di Venezia, Fnas ha offerto assistenza legale a un trampolista buttato a terra, un episodio che ci auguriamo non si ripeta”. Anche la strada ha le sue regole da rispettare, specie quando si trasforma in un teatro aperto. In un teatro appunto, non un ring. Benvenga dunque Open Street, una carrellata di professionalità e spettacoli da promuovere con la comunicazione, soprattutto quando le produzioni nascono in Paesi dove l’arte di strada è un capitolo marginale in seno alla cultura.

“Il nostro obiettivo è quello di aumentare le occasioni d’incontro per allargare il mercato artistico soprattutto in Italia – conclude – Con Open Street speriamo di essere sulla buona strada, un plauso va naturalmente al Comune di Milano per la sensibilità e l’attenzione dimostrata verso discipline che hanno il pregio di divertire, coinvolgere e rendere più allegre le nostre città”.

www.openstreet.it

Le angosce dei genitori contemporanei

Se dovessi riassumere quali sono le principali angosce dei genitori contemporanei, ne indicherei principalmente due: l’esigenza di sentirsi amati dai propri figli e quella legata al principio di prestazione.
La prima ribalta la dialettica del riconoscimento. Per risultare amabili occorre dire sempre Sì, eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative. Tuttavia, senza l’esperienza del limite non c’è esperienza del desiderio che viene risucchiato da un godimento illimitato. Per essere amabili i genitori cedono su tutto, sempre. Non si assumono mai la responsabilità del taglio. E i giovani hanno bisogno di essere tagliati. Tagliati nel dialogo, innanzitutto. Oggi si assiste al culto del dialogo dei mass media: interminabili talk show in cui tutti parlano su tutto e di tutto. Il dialogo deve poter terminare: chi deve mettere un punto dev’essere il genitore. Oggi nessuno si assume la responsabilità del taglio, di mettere questo punto.
È il punto di asimmetria generazionale che implica il conflitto che è fondamentale nella formazione.

La seconda angoscia, legata al principio di prestazione, attiene al fatto che il fallimento dei propri figli non è tollerato. Si tenta di rimuovere l’ostacolo senza lasciar tempo al figlio di poterne fare esperienza nemmeno della difficoltà. Così, incontro genitori che fanno compiti ai figli in modo che risultino sempre pronti e non debbano incappare in frustrazioni dovute al fatto di andare a scuola impreparati. Il desiderio di avere un figlio senza difetti riflette le angosce narcisistiche dei genitori, la loro esigenza di efficienza e la loro necessità di occultare ogni imperfezione.
Incontro genitori, ossessionati dal principio di prestazione, che alla minima difficoltà cambiano scuola ai figli. Questi genitori probabilmente non sanno che la dimensione fondamentale della formazione è il fallimento. Ma i figli devono avere il tempo di elaborare il fallimento. I giovani non sopportano lo scacco perché a non sopportarlo sono i loro genitori.
Una mia paziente riferisce in seduta: “Non aveva senso ciò che chiedevo perché mi davano ciò che volevano”. Il genitore non deve proporsi come esemplare. Il figlio lo dovrà trovare esemplare in un altro tempo, magari più avanti, in un tempo anche lontano, ma non al momento dell’infanzia e dell’adolescenza. L’esempio deve tornare nella memoria successivamente.
La diffusione delle buone conoscenze sull’educazione (con i tanti consigli diffusi dai media in tal senso) non modifica la diffusione delle patologie.
L’eccesso di comunicazione pedagogica di massa indebolisce la posizione di genitore, indebolisce la fiducia nelle proprie intuizioni, per cui spesso ascolto genitori che hanno perso fiducia nelle proprie capacità educative. Chi conosce veramente il proprio figlio è il genitore. Se i genitori valutano l’esigenza di chiedere consigli ad uno psicoterapeuta, lo devono fare a partire da sé, dalla propria esigenza di mettersi in questione e non solo cercando ogni responsabilità nel comportamento del figlio. Il bravo genitore non ha una risposta su tutto. Lascia un vuoto insaturo.
E soprattutto non insiste con la sua domanda. Sa rispettare la differenza e valorizzare la particolarità del proprio figlio, sostenendo attitudini e passioni. Sa parlare della propria mancanza e in ultima analisi – aspetto che non è di minor importanza – non si pone come educatore.

Chiara Baratelli, psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

L’EVENTO
Ferrara si tinge di giallo.
I giorni di Internazionale

Per una volta Matteo Renzi sarà solo di contorno. Ovvio, la sua presenza a Ferrara attirerà l’attenzione di giornalisti italiani e stranieri e la curiosità dell’opinione pubblica. Ma il cuore del festival di Internazionale resta un altro. Lontano dai palazzi della politica e dai suoi protagonisti. Attento alla vita reale delle persone, alle vicende dei popoli. L’ottava edizione si apre giovedì, con un giorno di anticipo rispetto al consueto e con una novità: la rassegna del cinema d’autore che proporrà cinque pellicole che in Italia hanno avuto scarsa distribuzione. “Rientra nella nostra missione culturale”, spiega la curatrice Chiara Nielsen. Il festival, definito dal vicesindaco Massimo Maisto “fiore all’occhiello” di Ferrara, si svolge a un anno esatto dal naufragio e dall’ecatombe di Lampedusa. Anche per questo il tema dei migranti sarà al centro della riflessione, trasversale a vari eventi.

Accanto al dibattito sull’attualità si dipanerà il ragionamento sul mondo dell’informazione, per cercare di intuirne le tendenze e le trasformazioni in atto, con particolare attenzione al giornalismo d’inchiesta, nicchia privilegiata e sempre più riserva indiana poco presidiata.

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Un’immagine della conferenza stampa di presentazione del festival di Internazionale 2014

Fra le novità dell’edizione 2014 c’è anche un più diretto coinvolgimento dell’Università, tradizionalmente cauta nei suoi passi che, sciolte finalmente le riserve, ha deciso di apportare al festival un contributo più significativo e sostanziale del mero conferimento di sale e spazi nei quali svolgere gli incontri. Il rettore Pasquale Nappi e il prorettore Alessandro Somma si sono personalmente impegnati a favorire un diretto coinvolgimento nella programmazione e nella progettazione, che vedrà direttamente partecipi alcuni docenti, fra i quali lo stesso Somma, Patrizio Bianchi, Lucio Poma e Guido Barbujani e idealmente coinvolti gli studenti.

Particolare curioso ma significativo, segnalato dal presidente di Arci Ferrara, Paolo Marcolini, il festival quest’anno ha ottenuto la certificazione Iso 20121 a garantirne la sostenibilità ambientale. Buone prassi che accompagnano il buon giornalismo.

LA STORIA
Giulianelli, da cent’anni
l’occhio sulla città

L’occhio sempre al centro. Prima fotografo, poi ottico e per passione anche pittore e disegnatore, Alberto Giulianelli ha avviato la sua attività in Borgo dei Leoni nel 1914. Ha attraversato due guerre e momenti complessi. Ma oggi i suoi eredi ne celebrano il centenario, sempre nella medesima sede. “Non sono tanti gli esercizi commerciali che vantano una così lunga continuità e per di più ancorati nello stesso luogo”, affermano con emozione e legittimo compiacimento il nipote Giampiero e la moglie Rula. In quello che fu tradizionalmente il negozio di foto per generazioni di ferraresi, oggi c’è un elegante e raffinato emporio che, accanto agli occhiali, espone pannelli e cimeli d’epoca che raccontano la storia dell’attività commerciale e insieme riflettono quella della città.

Sono i tasselli della mostra che i proprietari hanno voluto allestire per festeggiare la ricorrenza, affidandone la cura a Silvia Villani. “Qualunque ferrarese – afferma – conserva una foto celebrativa o ha nel portafogli una fototessera di Giulianelli, un marchio ben radicato nella storia cittadina, percepito come patrimonio comunitario. A questo studio infatti le famiglie hanno affidato nei decenni le loro memorie più care. Io sono andata alla ricerca delle testimonianze qui custodite, che mi hanno consentito di ricostruire un mondo. Fondamentale per questo è stato l’aiuto fornito dalla figlia Giuliana”.
In questa operazione si coglie l’orgoglio dell’imprenditore e insieme la consapevolezza di ciò che significa responsabilità sociale d’impresa. Una condizione che si realizza solo quando l’impresa concepisce se stessa non meramente in funzione del profitto, ma come entità sociale che vive in osmosi con la comunità e può arricchirla, arricchendo se stessa, perché è parte integrante e attiva di quel mondo.

La curatrice della mostra racconta di quando Ferrara, prima dell’Addizione erculea, finiva alla Giovecca e il Borgo dei Leoni, esterno alla città vera e propria, ancora si chiamava Borgo San Leonardo. “Divenne ‘dei Leoni’ dopo una battaglia vinta contro i veneziani per via di due leoni sottratti al nemico e qui tenuti e allevati”. Poi sottolinea come in età contemporanea, nel corso del Novecento, la via diviene tipicamente strada dei fotografi.
Il successo di Giulianelli passa attraverso la ritrattistica fotografica, la foto architettonica e industriale, i reportage degli avvenimenti culturali, politici e mondani. Dal dopoguerra, per impulso del figlio Giorgio, si avvia l’attività di “occhialeria”, che via via diventerà preponderante e poi esclusiva.

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Le autorità intervenute alla presentazione della mostra sui cento anni di attività della foto-ottica Giulianelli

Di tutto questo si trova traccia nella tavole appese alle pareti, attraverso le quali scorrono la vita famigliare e quella sociale della città, fino a sovrapporsi. L’archivio privato si intreccia con quello pubblico, il mondo di Giulianelli racconta la vicenda di Ferrara.
Ci sono i ricordi di eventi, festeggiamenti, incontri mondani, personaggi, luoghi. E c’è anche la testimonianza della bomba che il 28 gennaio 1944 sventrò il borgo e uccise 69 persone che avevano cercato la salvezza nel rifugio antiaereo della Banca d’Italia. Alla storia si uniscono i reperti: foto e stampe d’epoca, dipinti, disegni, bozzetti grafici…
A chiudere la rassegna, ecco i Google glass. Uno sguardo proiettato al futuro, al prossimo centenario, magari. Con fiducia. Nonostante tutto.

La mostra, salutata dall’apprezzamento del vicesindaco Maisto e delle autorità cittadine, sarà aperta al pubblico da domani (2 ottobre), in orario 9-20 allo storico numero 42 di via Borgo dei Leoni.

In Capaci

Quindici votazioni nulle. Da giugno alla Corte costituzionale mancano due giudici. Ma il Parlamento non è in grado di nominare i sostituti che consentirebbero di riprendere l’attività della Consulta. L’elezione si trascina e ha assunto i toni della farsa. Unici candidati restano Luciano Violante voluto dal Pd e Donato Bruno di Forza Italia, su cui gravano ombre di un’inchiesta giudiziaria che lo rende indigeribile a molti. Più che proposti, i loro nomi sono imposti: i partiti giocano al braccio di ferro e non arretrano.
L’arzillo vecchietto che sta al Quirinale, solitamente ciarliero, in questa circostanza si è limitato a un ammonimento per denunciare “la gravità” della situazione, un paio di settimane fa. Renzi fa spallucce e dice che è affare di cui lui non si impiccia, perché (in questo caso) rispetta le prerogative del Parlamento. Una situazione così grottesca ci riporta al maggio del 1992, ai tempi dell’elezione del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, avvenuta al sedicesimo scrutinio, dopo che l’Assemblea per 15 volte aveva votato senza esito. Allora ci volle la strage di Capaci per dare una scossa a partiti, deputati e senatori e forzarli a farsi carico delle loro responsabilità istituzionali. Questa volta cosa dovrà capitare?

LA NOVITA’
Pampapato e ‘ciupeta’, coppia vincente anche sul web

La Camera di Commercio di Ferrara attraverso l’iniziativa “Made in Italy – Eccellenze in Digitale” di Google Italia e Unioncamere, promuove la digitalizzazione delle imprese ferraresi del settore agroalimentare. I prodotti individuati per la provincia di Ferrara sono il pampapato e la coppia di pane ferrarese Igp. Due giovani laureati esperti del web, aiuteranno le Pmi del territorio ferrarese a sfruttare le opportunità offerte dalla rete per far conoscere, nel mercato interno e a livello internazionale, le loro produzione tipiche.

Abbiamo voluto incontrare il tutor del progetto, Andrea Migliari (responsabile del Servizio sistema qualità e comunicazione, progetti speciali), e i due giovani “digitalizzatori” Lucia Romanelli e Daniele Borrelli, per capire meglio in cosa consiste e cosa offre agli imprenditori del settore.

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i promotori dell’iniziativa

“Il Progetto è promosso e finanziato da Camera di commercio, Google Italia e Unioncamere, con un grosso investimento dunque da parte di tutto il sistema camerale – spiega Migliari -. Google e Unioncamere si sono occupati della formazione dei ragazzi coinvolti e Google, in particolare,  della divulgazione del progetto, utilizzando due diversi canali: da una parte, implementando una piattaforma in cui vengono raccolte e presentate le esperienze delle imprese che l’anno scorso hanno preso parte al progetto [vedi]; dall’altra, realizzando vere e proprie gallerie digitali che mirano a promuovere alcune produzioni d’eccellenza come, nel nostro caso, le ceramiche graffite ferraresi [vedi].
Il progetto è partito a inizio settembre e terminerà a fine febbraio, con una durata complessiva di sei mesi. A breve presenteremo il progetto in conferenza stampa, siamo un po’ in ritardo ma solo perché vorremmo avere la conferma della presenza dei responsabili, in modo da dare consistenza e risalto alla presentazione.

Chiediamo ai giovani ‘digilizzatori’, Lucia Romanelli (27 anni, laurea in lingue e specializzazione in Internazionalizzazione e comunicazione d’impresa) e Daniele Borrelli (28 anni, laureato in Tecnologie della comunicazione audiovisive e multimediali e specializzato in Produzione multimediale) di spiegarci la genesi del progetto.

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pagina home del sito “Eccellenze in digitale”

“Eccellenze in digitale” è la prosecuzione di un progetto pilota del 2013 che si chiamava “Distretti sul web”: lo scorso anno erano coinvolti 20 distretti produttivi d’Italia, quest’anno invece c’è un focus sulle produzioni d’eccellenza del Made in Italy, da qui il nome del progetto. Per Ferrara sono stati individuati per la provincia di Ferrara il pampapato e la coppia di pane ferrarese.

In Emilia Romagna quali altri prodotti sono stati selezionati?
In Emilia Romagna, oltre Ferrara, aderiscono altre 3 Camere di commercio: Reggio Emilia con Parmigiano Reggiano e Aceto Balsamico, Piacenza con vini e salumi e Forlì-Cesena con il settore agroalimentare e turistico.

Quanto tempo hanno le Pmi per aderire?
Gli imprenditori interessati al progetto, completamente gratuito, possono compilare la scheda di adesione on-line entro il 31 ottobre, questo per avere il tempo necessario per sviluppare al meglio la strategia, metterla in pratica e vederne i primi risultati nei mesi successivi.

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Lucia Romanelli e Daniele Borrelli, i giovani “digitalizzatori” scelti per la provincia di Ferrara

Se un imprenditore volesse aderire, come deve fare?
Iscriversi è facile, basta andare sulla pagina del sito della Camera di Commercio [vedi], e scegliere se contattarci telefonicamente o compilare un breve modulo on-line. In entrambi i casi si prevede poi un incontro qui in Camera di Commercio, presso il Servizio qualità e comunicazione, Largo Castello 6.

Come state procedendo ora, in questa fase iniziale del progetto?
Le prime due settimane ci sono servite per monitorare il settore analizzando il livello di digitalizzazione delle imprese che producono pampapato e coppia: abbiamo fatto un’indagine per capire quante hanno il sito web, quante una pagina Facebook, se già vendono on-line, ecc. Nell’ultima settimana abbiamo cominciato a prendere i primi contatti, ad oggi ne abbiamo già una decina, alcuni li abbiamo intercettati noi, altri hanno visto l’annuncio sul sito.

Quali strumenti web proponete agli imprenditori ferraresi e quali pensate si adattino meglio al mercato del pampato e del pane coppia?

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coppia ferrarese
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pampapato ferrarese

Gli strumenti varieranno in base alla situazione dell’azienda e alla strategia che ha intenzione di attuare. Ci saranno aziende più interessate al mercato locale, come forse nel caso della coppia perché si tratta di un prodotto fresco, per le quali sarà opportuno migliorare la propria presenza sul territorio, con la promozione per esempio di eventi tramite Facebook. Altre, probabilmente quelle che producono Pampapato, possono puntare a strumenti come l’e-commerce o un sito appetibile per i buyers esterni che aprano di più ai mercati esteri, magari con una campagna ad hoc sotto Natale. Ma non è detto, ogni azienda si costruirà la propria strategia, caso vuole che proprio oggi abbiamo incontrato un imprenditore di pane coppia che vuole puntare sull’export.

Il vostro ruolo è quindi di consulenza e avviamento, giusto?
Sì, il nostro compito è quello di diffondere il ‘verbo’ del digitale, di far avvicinare gli imprenditori a questi strumenti web che, sfortunatamente, in Italia non vengono ancora sfruttati perché non c’è confidenza; in realtà molti di questi sono facili da usare, gratuiti, e possono dare grandi risultati con piccoli investimenti, sfatando l’idea che solo le grandi aziende possono permetterselo. Noi, come digilizzatori, ci occupiamo di tutta la parte relativa alla comunicazione e alla presenza virtuale. Vorremmo trasmettere delle conoscenze generali sul web e sugli effetti che ha nell’economia reale, per farne comprendere l’importanza e le opportunità: avere, ad esempio, un sito ben organizzato, fruibile anche da mobile e da cellulare, localizzare l’attività in rete ovvero avere la geolocalizzazione su Google, con orari d’apertura, riferimenti e link al sito o alla pagina Facebook; ma anche delle nozioni specifiche su alcuni strumenti che permettono all’imprenditore di monitorare autonomamente la propria presenza web e orientare la sua strategia di conseguenza. Un esempio banale: se il sito riceve molte visite dalla Russia, si potrebbe tradurre il sito anche in Russo.

Una volta terminata la fase di avviamento, le aziende dovranno camminare con le proprie gambe o li seguirete anche dopo?
Con il termine del progetto finirà anche la nostra consulenza, ma l’obiettivo principale è quello di educare le Pmi ferraresi al digitale ed evitare che si rendano conto troppo tardi del suo enorme potenziale. Ci teniamo a dire che questo progetto non vuole fare concorrenza alle web agencies, ma anzi valorizzarne il ruolo, facendo capire che molto spesso è meglio affidarsi a professionisti, a figure esperte e preparate, ed evitare il ‘fai da te’. Inoltre daremo una mano alle aziende per inserirsi all’interno di Italian quality experience, una piattaforma implementata da Unioncamere che raccoglierà tutte le imprese agroalimentari italiane in occasione dell’Expo di Milano. Al momento è ancora in fase di allestimento, ma presto sarà on-line e rappresenterà un importante biglietto da visita per le nostre aziende e i prodotti del Made in Italy.

Il progetto coinvolge 52 Camere di commercio per un totale di 107 ragazzi selezionati tra oltre 3500 candidature da tutt’Italia. I giovani digilizzatori hanno seguito un percorso di formazione molto intensivo a Roma, nella sede di Unioncamere, guidati dal responsabile del Centro studi Unioncamere, Domenico Mauriello, e da Diego Ciulli, Senior policy analyst in Google.

IL FATTO
Una corsa in bus da 88 euro

Chiedo scusa se torno ad occuparmi di autobus. Ma è un puro caso che proprio in questi giorni un’amica m’abbia raccontato d’averne preso uno, convinta di avere ancora una corsa sul suo abbonamento. Si sbagliava la poverina. Perché il controllore all’esibizione del “titolo di viaggio” le ha inflitto una multa di 88 euro. Sì, ottantotto euro. Cinquantotto volte il costo del biglietto!
Ho scoperto che le sanzioni sono regolamentate dall’art. 40 della legge regionale n. 30 del 1998, che prevede, oltre al pagamento del biglietto, una penale che va da 40 a 150 volte il costo della corsa. Non è però dato sapere con quali criteri, se non quelli personali del controllore, si decida se quaranta o centocinquanta. Per cui le ragioni della multa pagata, corrispondente a cinquantotto volte il costo del biglietto, anziché un’altra cifra compresa tra 40 e 150, sono nella mente di chi l’ha inflitta o forse riportate a verbale.
Ma la questione non è questa. Mi viene invece da pensare che il nostro Paese è da diverso tempo malato di “accanimento terapeutico”. Un accanimento spersonalizzato che non guarda in faccia a nessuno e che non sente ragioni, che ha finito per produrre, oltre al rigetto, effetti tragici, se pensiamo a quei piccoli imprenditori che si sono tolti la vita perché non in grado di saldare i propri conti con Equitalia.
Un Paese esasperato dal baratro della spesa pubblica e del suo debito e, che per questo, si è incattivito contro i suoi cittadini, si è fatto sempre più sospettoso e malfidente, con tasse che crescono, con sanzioni che anziché sancire puntano a rimpinguare le varie casse pubbliche in rosso, che fa pagare gli oneri di un mal digerito stato sociale a chiunque contravvenga, a prescindere dalle ragioni o dalle abitudini.
Un Paese dove le amministrazioni pubbliche possono rinviare ‘sine die’ il pagamento dei loro creditori. Ma se è il cittadino a sgarrare, non dico non c’è perdono, che sarebbe davvero troppo, non c’è proprio tolleranza, la normale, civile, umana tolleranza.
Quando il sistema di controllo assume i connotati di un sistema offensivo della persona e del cittadino non siamo più di fronte alla volontà di garantire il rispetto della legge, la convivenza civile, la giustizia sociale, ma di fronte al sopruso sociale. Lo Stato e la sua burocrazia divengono il Leviatano di Hobbes che divora i suoi cittadini, lo Stato assoluto che tutto sottomette a sé.
Insomma si ha l’impressione ormai di vivere in un Paese dove “lo Stato è stato” nel senso del participio passato del verbo essere.
Forse gli ottantotto euro che la mia amica dovrà pagare serviranno ai bilanci dell’Acft, a migliorare il servizio, certo hanno peggiorato però il suo rapporto con il pubblico, come l’eccesso nelle sanzioni e nelle imposte peggiora il nostro rapporto con lo Stato e le amministrazioni locali, perché anziché sentirsi cittadini ci si sente sudditi, non ci si sente più parte di una comunità condivisa, ci si rinchiude nel proprio particolare, ci si rifugia, per difendersi, nel proprio individualismo. Come negare che tutto ciò ha fornito e fornisce ossigeno alla demagogia populista e ha alimentato l’affermarsi delle ricette neoliberiste in tutti questi anni.
Il rapporto tra Stato e cittadino è ancora una questione estremamente attuale e centrale della nostra democrazia.
Noi vorremo uno Stato e amministrazioni pubbliche capaci di costruire cittadinanza, non il proliferare di individualismi, come invece ci sembra che da diversi anni sia andato sempre più accadendo nel nostro Paese.
C’è differenza tra cittadino e individuo. Il cittadino si sente parte di una polis e ha a cuore il bene comune, l’individuo si sente separato dagli altri, punta ai suoi interessi personali. Le politiche liberiste, le politiche dell’austerità hanno generato il tramonto del cittadino a favore dell’individuo che cerca di difendersi dalla comunità, anziché partecipare e contribuire al suo sviluppo.
Questo è il prezzo che ognuno di noi sta pagando alla crisi, e sanzioni come quelle dell’Actf, ma anche tutte le altre, aiuteranno forse a risanare i bilanci, ma certo aggravano le patologie di cui ormai la nostra convivenza e la nostra democrazia da tempo soffrono.
Forse è il caso di aprire una seria riflessione a partire dalla nostra Actf, non certo per eliminare le sanzioni a chi contravviene, ma per porre modalità e limiti che non le rendano vessatorie.

Filastrocca dell’articolo diciotto

Ci vorrebbe l’articolo prima del nome,
son poche le lettere di cui si compone.
Se non lo metti è un po’ imbarazzante,
come una bancarella senza ambulante.
Uno può essere determinativo
e, se non sei davvero creativo,
serve ad indicare con precisione,
gli oggetti, gli animali e le persone.
Ci vorrebbe l’articolo sopra al giornale,
che non può essere sempre cordiale,
tutti, altrimenti, posson capire
che chi lo fa è per farsi gradire.
Di verità c’è bisogno dentro un’inchiesta,
il giornalismo non è diventar cartapesta.
Serve per far conoscere a tutta la gente
che c’è chi ha tutto e chi non ha niente.
Ci vorrebbe l’articolo numero diciotto,
difende chi lavora da un ragazzotto
che con fare arrogante e da guascone,
si pavoneggia quasi fosse un padrone.
Dice: «Non è così che si crea lavoro»,
abbagliando con denti lucenti di fluoro.
«Matteo, che strana idea di uguaglianza:
vuoi toglier diritti, così tutti son senza.»
Se servirà scenderemo anche in piazza;
tu puoi meditare stando in terrazza.
Però sappi che rimarremo a lottare:
questa proposta è da cancellare.
Se c’è bisogno lo scrivo a filastrocca:
l’articolo diciotto non si tocca!
Serve a resistere a questa grande indecenza,
di dignità e di speranza non siam mica senza.