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A tutti capita di pensare al futuro e quasi sempre lo viviamo con l’ansia dell’incognito. Cosa sarà di noi? Molti economisti, politici, intellettuali, spesso si sono misurati su questo tema. Proverei a parlarne anche io, senza la presunzione di avere certezze. Solo per dare qualche spunto di riflessione.
In una sintesi parziale e personale direi che siamo a questo punto: è cresciuta la popolazione (e con questa l’immigrazione e il razzismo), sono aumentate le diversità sociali e culturali, sono cresciuti i problemi di alimentazione e sofisticazione (vedi alimenti transgenici), è cresciuto il degrado ambientale e metropolitano (industrializzazione, urbanizzazione, criticità nei trasporti), vi è stata dispersione delle risorse idriche e naturali, con conseguente cambiamento del clima (catastrofi atmosferiche), ma soprattutto è aumentato lo squilibrio ricchezza-povertà e la disuguaglianza sociale.
Stigliz, nel suo libro “La globalizzazione e i suoi oppositori”, ci ha ricordato che la globalizzazione ha creato una società civile globale, ha migliorato le condizioni di salute e il tenore di vita, ha cambiato il modo di pensare della gente, ha servito gli interessi dei paesi industrializzati, ma non ha funzionato per molti poveri del mondo, ha determinato problemi all’ambiente, ripercuotendo l’instabilità a livello globale.
In generale, mi pare dunque che i principali trend di mutamento ci abbiano portato grandi rivoluzioni nel campo dei valori e nella produzione di simboli. La gestione dei sistemi tramite il sapere è stata sostituita da subsistemi interdipendenti a livello globale; i rapporti virtuali hanno vinto sui rapporti fisici. Questo, in contrasto con la crescita della creatività e della dimensione estetica. Nonostante il tempo libero abbia prevalso sul tempo di lavoro (anche se non ci sembra) e sia aumentata la consapevolezza che la qualità della nostra vita sia diventata una priorità. In fondo i nuovi valori emergenti sono diventati l’affettività, la soggettività, l’etica, l’affidabilità, l’estetica, anche se in contrasto tra loro.
Pesanti sono a proposito le riflessioni di Jacques Attali nel suo libro “Breve storia del futuro”, di cui ho sintetizzato alcuni passaggi: l’uomo di domani percepirà il mondo come una totalità al proprio servizio; vedrà l’altro come uno strumento per la propria felicità; un mezzo per procurarsi piacere e denaro. Non penserà più a preoccuparsi per gli altri: perché dividere se si deve combattere? Nessuno penserà più che la felicità altrui gli possa essere utile. La maggior parte non avrà più un posto di lavoro fisso. Per i più giovani viaggiare sarà il segno del progresso verso l’iperclasse. Delocalizzazione delle imprese ed emigrazione dei lavoratori ridurranno i redditi. La precarietà e la slealtà diventeranno la regola. Le leggi verranno sostituite con dei contratti, la giustizia con l’arbitrato. La fine della libertà, in nome della libertà.
In contrapposizione, i valori della società industriale sono diventati la massimizzazione della efficienza e della produttività, l’accentramento delle informazioni e del potere, la sincronizzazione dei tempi di vita e di lavoro, le economie di scala e la parcellizzazione delle mansioni, ma soprattutto la disoccupazione. Insomma, abbiamo rafforzato valori antagonisti. Lo sviluppo tecnologico ha accresciuto le disuguaglianze.
In un accennato ciclo dei fondamentali atteggiamenti intellettuali, siamo così passati dalla teologia e dal razionalismo, all’empirismo, al relativismo, allo scetticismo e al cinismo. Insomma ci siamo impegnati a farci del male.
Sennet nella “Cultura del nuovo capitalismo” ci ricorda che l’etica del lavoro sta cambiando e che tendono a scomparire i confini tra politica e consumo. Bisogna agire a breve, e nel breve, perché l’uomo deve essere flessibile (il “saper fare” moderno, l’artigiano della modernità). Ai lavoratori viene chiesto di comportarsi con maggiore flessibilità, di essere pronti a cambiamenti con breve preavviso, di correre continuamente qualche rischio, di affidarsi meno ai regolamenti e alle procedure formali.

Vorrei però credere anche che il pensiero positivo (senso dell’essere e progresso mentale) potrà vincere. Credo nello sviluppo della mente, della tecnologia multimediale come strumento di comunicazione per i diritti all’informazione, alla libertà individuale e al rispetto dei vincoli del collettivo, ai progressi della medicina, alla flessibilità nell’istruzione e nel lavoro (anche nella sua destrutturazione spaziotemporale).
In fondo anche Bauman (“La società individualizzata”) crede nella progressiva individualizzazione della società contemporanea, nonostante permangano sentimenti di paura per i singoli, apatia politica e paura di abbandono. Tocca a noi riprendere la vecchia arte di mantenere legami e valori. Insomma proviamoci.

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Andrea Cirelli

È ingegnere ed economista ambientale, per dieci anni Autorità vigilanza servizi ambientali della Regione Emilia Romagna, in precedenza direttore di Federambiente, da poco anche dottore in Scienze e tecnologie della comunicazione (Dipartimento di Studi Umanistici di Ferrara).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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