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LA NOVITA’
Quando arte e filosofia dialogano. Da Ferrara un caso unico nel panorama editoriale italiano

Parlare di arte e di bellezza non è solo piacevole, ma anche utile e addirittura salvifico, soprattutto in periodi come questi, dominati da eventi tragici e problematici che ci investono di preoccupazioni e percezioni tutte negative. Saper leggere l’arte e il bello, possono aiutare ad innalzarsi ad un livello più alto e nobile, proprio dello spirito umano. Non è quindi una cosa ‘per persone colte’ o per i soli studenti dei licei e delle Accademie d’arte, ma allo stesso tempo non è un’operazione scontata, come in tutte le cose occorrono gli strumenti giusti.

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La copertina del libro

E’ per fornire questi strumenti che Maurizio Villani e Paola Marescalchi, per molti anni insegnanti presso il Liceo classico Ludovico Ariosto, hanno scritto e di recente pubblicato “Filosofia dell’arte”, un caso unico nel panorama editoriale italiano. Presentato il 30 settembre alla Biblioteca Ariostea di Ferrara, il libro è già alla seconda edizione e sarà in libreria a partire dall’8 gennaio, acquistabile on-line sul sito della Libreria Filosofica già dal 1 dicembre [vedi].

Prima di ripercorrere la sintetica e agile presentazione che i due autori hanno proposto al pubblico dell’Ariostea, ricca di citazioni e immagini esemplificative, riportiamo qui il colloquio avuto a margine con ferraraitalia:

Quali prevedete saranno i vostri ipotetici lettori?

“Una volta si diceva le persone colte, anche se non sappiamo se sia un genere antropologico ancora esistente. Battute a parte, abbiamo avuto dei segnali di interesse da parte delle Accademie d’arte perché il nostro libro va a colmare un’area scoperta, non ci sono cose del genere sul mercato italiano.”

Se doveste presentare il vostro libro in due parole, cosa direste?
“Il libro vuole essere un’introduzione alla Filosofia dell’arte. Non è né una storia dell’arte, né un libro di filosofia. Ha una natura mista, ambivalente, e questo si spiega con la sua origine.”

Qual è dunque l’origine di questo lavoro?
“C’è una storia abbastanza lunga e travagliata dietro a questo libro, perché era nato per essere tutta un’altra cosa: doveva essere un manuale di liceo, quando si era ritenuto che i licei artistici dovessero avere un programma di filosofia ad hoc. Nel 2009, incominciammo a lavorare in quella prospettiva, con l’idea di pubblicare per il 2011. Quel progetto di riforma del licei saltò completamente, sostituito dalla riforma della ministra Gelmini. A quel punto, ci siamo chiesti se quel materiale sarebbe potuto servire per una pubblicazione, non più di tipo scolastico ma destinata al mercato in generale. L’editore Mario Trombino della Diogene Multimedia [vedi] ci ha molto sostenuto e abbiamo accettato la scommessa. L’abbiamo naturalmente rivisto e adattato, ma l’impostazione originaria è rimasta.”

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Presentazione alla Biblioteca Ariostea, da sinistra Marescalchi, Sansonetti (conduttore), Villani

Nell’introdurre il libro, Villani spiega che l’impianto sistematico è scandito dai setti grandi paradigmi interpretativi del pensiero sull’arte: il primo, il più importante perché il più duraturo, è l’arte come mimesi, come imitazione della natura, che ebbe origine nel pensiero greco e che ha dominato incontrastato per duemila anni. Altro paradigma importante è quello romantico dell’arte come costruzione (Kant) e dell’arte come creazione (Hegel): l’idea di Hegel, e dei romantici in generale, è che l’arte sia creazione, l’artista è visto come un genio, assimilabile a Dio, nella sua capacità di creare dal nulla un mondo completamente nuovo, il cui influsso credo sia ancora largamente presente nel modo di pensare di oggi. Altri due personaggi, sempre inseriti nel contesto romantico, e per molti versi comparabili, sono Nietzsche e Schopenhauer: del primo l’idea dell’arte come gioco, del secondo l’arte come forma di conoscenza della verità, necessaria per innalzarsi al di sopra del piano del mondo come rappresentazione.
Poi il professore passa rapidamente in rassegna lo sviluppo storico del rapporto tra l’arte e il bello. Nella cultura tra ‘800 e ‘900 non c’era alcun dubbio, ciò che rendeva artistica un’opera per i romantici era la bellezza. In realtà, se si approfondisce, si riscontra che, dall’antichità in avanti, la concezione del bello non è univoca: c’è il bello come manifestazione del bene in Platone, il bello come manifestazione del vero in Heidegger (“Nell’opera si attua la storicizzazione della verità”, Heiddeger), come simmetria, e così via fino ad arrivare al Novecento con le Avanguardie artistiche che portano addirittura alla dissoluzione del bello come criterio estetico.

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“Orinatoio”, Marcel Duchamp, 1917
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“Campbell soup can”, Andy Warhol, 1962

Da Duchamp a Warhol, dall’”Orinatoio” alla “Scatola di zuppa Campbell”, succede che l’arte rompe con tutti i canoni della tradizione, ponendo alla filosofia la sfida enorme di riformulare nuove categorie estetiche e ricostruire un sistema interpretativo. Su questo dato di fatto si muovono, per esempio, i pensatori della scuola di Francoforte (da Benjamin ad Adorno). Famosa è la tesi del sociologo Bauman, secondo il quale il concetto di bello estetico ha avuto uno slittamento, passando dall’esperienza dell’arte all’esperienza della “ricerca del piacere e del consumare”, e che quindi colloca lo svuotamento dell’estetica nel passaggio della società contemporanea alla società consumistica. Altro pensatore interessante in questo senso è Coleman Danto, un filosofo americano, morto di recente, nel 2013. Partendo da Duchamp e Warhol, osserva che l’unico sistema categoriale per la comprensione di queste forme di espressione artistica è quello della filosofia, che diventa la chiave interpretativa dell’arte contemporanea, l’unica possibilità per permettere allo spettatore di capire le opere.

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Da destra Paola Marescalchi e Maurizio Villani

Nel libro le medesime tematiche vengono affrontate da Marescalchi da un punto di vista complementare, quello dell’arte. Con un’acrobazia spettacolare Marescalchi fa dialogare le opere classiche di Mirone e Zeusi Parrasio con quelle iperrealiste di Duane Hanson, Estes, Wateridge e Ron Mueck, dimostrando che il paradigma classico dell’arte come imitazione non sia svanito, anzi. Plinio e il vecchio e Boccaccio, assertori del “bello perché sembra vero” tanto da portare l’occhio ad ingannarsi, non si sarebbero mai immaginati che sarebbe arrivato un momento nell’arco del Novecento, in cui il visivo senso degli uomini sarebbe stato colto veramente in inganno.

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Iris, Fidia (447-442 a.C.)
"Turisti", D. Hanson, 1970
“Turisti”, D. Hanson, 1970

Questo succede con le opere degli iperrealisti americani, come i “Turisti” (1970) di Duane Hanson, sculture a grandezza naturale, dotate di tutti gli accessori come scarpe, occhiali e vestiti, opere impressionanti che, ad una prima occhiata, traggono lo spettatore veramente in inganno. Stesso discorso per “The architect’s house” di Wateridge (2009) o “In bed” di Ron Mueck (2005), e per la pittura le “Cabine telefoniche” di Estes (1967), dipinto a olio su tela che riproduce esattamente ciò che vede, partendo da una fotografia. Le opere appena citate non sono presenti nel libro perché Marescalchi dichiara di aver privilegiato solo le cose che le piacciono, e l’iperrealismo non è tra quelle. Ma l’iperrealismo si prestava bene ad introdurre in modo sintetico tutta la parabola della filosofia dell’arte, dalla cultura classica a quella contemporanea.

 

"Telephone Boots", R. Estes, 1967
“Telephone Boots”, R. Estes, 1967
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“In Bed”, Ron Mueck, 2005
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“The architect’s house” , J. Wateridge, 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

Il confronto prosegue, e Platone, Aristotele, Hegel, Schopenhauer, Nietszche, Freud si trovano a dialogare con Fidia, Giotto, Picasso, Munch, De Chirico, Warhol, mostrando le molteplici sfaccettature del rapporto tra arte e natura, i suoi possibili ruoli nel mondo umano (dall’arte come forma di conoscenza all’arte come espressione della psiche) e il legame tra l’arte e il bello, fino a toccare una domanda più che mai attuale: cos’è “arte” e cosa non lo è?

M. Villani, P. Marescalchi, “Filosofia dell’arte”, Ed. Diogene Multimedia, Bologna, 2014, pp. 274

Maurizio Villani ha insegnato Storia storia e filosofia al Liceo Classico Statale “Ludovico Ariosto” di Ferrara, attualmente è professore di Storia della filosofia presso l’istituto superiore di Scienze religiose di Ferrara e membro del Consiglio direttivo della Società filosofica italiana.

Paola Marescalchi ha collaborato con Renato Barilli presso la cattedra di Storia dell’arte contemporanea (Università di Bologna) ed ha insegnato Storia dell’arte al Liceo classico statale “Ludovico Ariosto” di Ferrara.

Per saperne di più della casa editrice Diogene Multimedia clicca qui [vedi]

La buona istruzione

Perché ragionare di “buona Scuola”, come il primo ministro Renzi ha intestato il proprio progetto di intervento sul sistema scolastico del nostro Paese?
Innanzitutto perché aggettivi qualificativi come ‘buono’ nella realtà non qualificano proprio nulla, se non un sentire individuale, se mai anche condiviso, ma che non sfugge alla soggettività di chi lo esprime.
In secondo luogo perché la ‘scuola’ non è cosa che possa essere trattata senza ragionare sulle cause ultime, vale a dire sul servizio che oggi l’istruzione è chiamata a fornire alla comunità.
Scuola significa gran parte della cultura nostra e delle future generazioni, vuol dire il patrimonio di saperi che ci accompagnerà per tutta la vita, quel bagaglio di conoscenze che ci rende e renderà i nostri giovani cittadini attivi.
Scuola è termine che non ha più nulla in comune con il significato che i greci attribuivano alla parola ‘scholé’, tempo libero, noi potremmo anche interpretarlo, forzando un poco e perché ci piace, come tempo liberato, tempo in cui ognuno attraverso l’istruzione si affranca dalla schiavitù dell’ignoranza.
Per la nostra tradizione ‘scuola’ è il luogo deputato all’istruzione per eccellenza. Ecco ‘l’istruzione’, la parola chiave, perché di questo si tratta. E se ‘buona’ si deve dire, dunque sia la “buona Istruzione”. Allora dovremmo interrogarci intorno a cosa è una buona istruzione.
Intanto chi stabilisce qual è un’istruzione buona e cos’è l’istruzione cattiva?
Se sappiamo guardarci attorno ci rendiamo subito conto che la possibilità di decidere in merito da tempo ci è sfuggita di mano. Sempre più gli Stati del mondo, tra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo, sono stati defraudati della loro autonomia. Del resto le stesse proposte di nuovi saperi, contenute nel progetto del governo, ricalcano le ricette imposte dalla globalizzazione dei mercati, dal ‘coding’ all’economia.
Semplicemente perché la crescente società ‘civile’ globale è andata sviluppando sulla Terra forme di scolarizzazione che sono la fotocopia le une delle altre, mentre i tradizionali ‘Stato-nazione’ hanno perso potere anche sul versante dell’istruzione dei loro cittadini.
Ciò è accaduto senza che ce ne accorgessimo, ma nella storia dell’educazione, che è oggetto fragile e delicatissimo, sono sempre state le ideologie a prevalere su ogni altra considerazione. Così negli anni quello che è stato sfacciatamene contrabbandato come spirito riformatore senza riforme, altro non era che l’assecondare i cambiamenti imposti dalle concezioni neoliberali del libero mercato e dell’economia dei consumi, adombrando il valore dei diritti umani e il ruolo che l’istruzione, la buona istruzione, gioca per la loro affermazione e tutela.
Anziché servire i diritti di ogni singolo uomo e di ogni singola donna, l’istruzione è stata monopolizzata e manipolata per costruire una società mondiale ad un’unica dimensione: quella del mercato, della competizione, della crescita economica e del consumo.
Tramontate le forme tradizionali della educazione nazionale che tendevano a formare cittadini leali e patriottici, emozionalmente legati ai simboli dello Stato, si è passati alla assoluta fedeltà ai mercati e alla loro dipendenza.
Nel frangente, il diritto delle persone ad autodeterminare la propria vita, a vivere l’esistenza che desiderano, come direbbe l’economista Amartya Sen, si è eclissato.
Non è questo il tema primo con cui ogni discorso sull’istruzione oggi dovrebbe iniziare?
Di un’istruzione intesa al servizio delle persone e non del mercato come neppure dello Stato, ma grande strumento di scelta per la propria esistenza e per il bene delle esistenze degli altri. Si può ancora continuare a tradire il significato vero della scuola come luogo deputato all’istruzione per eccellenza?
Vogliamo finalmente porre al centro le persone, i giovani in carne e ossa? Questa è l’occasione che, a meno di virate dell’ultimo minuto, “la buona Scuola” del governo ha perso insieme a quel millantato aggettivo qualificativo che proprio ‘buona’ come promette non può essere.
Intanto nel mondo c’è chi non si arrende. Chi pensa che sia possibile un modello globale di scuola al servizio dell’uomo. Una scuola della buona istruzione che insegni agli studenti come vivere a lungo, condurre un’esistenza felice, tutelare l’ambiente che ospita le nostre esistenze e combattere le diseguaglianze sociali. Come fare della globalizzazione non la prigione delle nostre vite, ma una grande occasione di libertà, di partecipazione ad una comune e condivisa cittadinanza planetaria.
Su questo sono impegnati gruppi, associazioni, organizzazioni nel mondo come l’Human rights education network, United nations’ cyberschoolbus, World wildlife fund’s education programs, Earth charter initiative, North american association for environmental education, il Globe program e altri ancora.
È sufficiente visitare i loro siti internet per rendersi conto che non si tratta di sogni ad occhi aperti, ma che un’altra scuola, la scuola della ‘buona Istruzione’ è possibile.

LA SEGNALAZIONE
Guida di Snoopy alla vita dello scrittore

Davvero divertente e interessante, questo libro dall’insolito formato rettangolare edito dalla Scuola di scrittura Omero di Roma. Insolito e originale non solo per la sua forma, ma anche, e soprattutto, per il contenuto: 180 strisce dei Peanuts di Charles M. Schultz accompagnate da rapidi e brillanti consigli di scrittura da parte di autori come Ray Bradbury, Ed McBain, Clive Cussier, Sidney Sheldon, Danielle Steel, Cherie Carter-Scott, Catherine Ryan Hyde o Fannie Flagg, per citarne solo alcuni. Tutti dialogano con Snoopy, lo consigliano, lo seguono, gli danno opzioni, spunti e suggerimenti, lo aiutano e l’accompagnano nella difficile quotidianità della scrittura.
Questo simpatico “manuale” andrebbe letto da tutti, giornalisti e scrittori in erba (ma anche da quelli più esperti), da chiunque si appresti ad affrontare la temuta e misteriosa pagina bianca.
Divertente e istruttivo allo stesso tempo, potrebbe essere facilmente usato come testo d’insegnamento e orientamento in qualsiasi scuola di scrittura.
La prefazione al libro è di Monte Schulz, il figlio del creatore delle famose strisce dei Peanuts, che racconta come il padre amasse i libri e la letteratura, con i suoi oltre tremila volumi che ricoprivano le pareti del suo studio e cataste accumulate sulla scrivania, in attesa di essere lette.
Il dono del talento di un artista e la sua responsabilità, secondo Charles, consistevano nel dover esprimere la bellezza e il dolore del mondo per tutti quello che non riuscivano a farlo. Si legge per ascoltare le voci degli altri e imparare, anche da esse. Schulz scriveva ascoltando Brahms, Beethoven o un qualsiasi cantante country. E in quell’ambiente fatto di parole e note aveva inventato Snoopy, Charlie Brown e gli altri. Un sogno che sarebbe diventato realtà.
Snoopy arrampicato di fronte alla sua macchina da scrivere, sulla sua famosa cuccia sotto il cielo vigile, è un’immagine costante e ispiratrice: il simpatico bracchetto, come molti di noi, è sempre alla ricerca delle frase, della parola, del paragrafo, del racconto, della storia, insomma dell’illuminazione. E mostra la vera determinazione dello scrittore, il suo impegno costante a cercare parole, personaggi, idee, situazioni e momenti giusti. Allora, anche lui ha bisogno di consigli, di un tutor illuminato, come si direbbe oggi.
Partendo dalla storica e indimenticabile “era una notte buia e tempestosa”, Daniel Steel ricorda a Snoopy che scrivere è un lavoro davvero duro e faticoso, scrivere bene ma anche scrivere male. Un mestiere spesso stressante per la sua incertezza, accompagnato dalla paura, dall’eccitazione, dalla fantasia ma anche da tanta disciplina. Vi sono dolore e sofferenze nell’avventura dello scrivere ma il senso di vittoria e di sopravvivenza possono essere davvero molto entusiasmanti. Come fare una lunga maratona o scalare una montagna. Snoopy potrebbe scegliere un’altra carriera, ma Danielle dubita che lui, come lei, lo farebbe mai. Allora Sidney Sheldon consiglia Snoopy di lavorare molto sull’idea del suo romanzo, perché sia avvincente e brillante, Cherie Carter-Scott gli suggerisce le dieci regole per scrivere bene (quasi un manuale di sopravvivenza, perché il nostro libro deve aiutare qualcuno in qualcosa), Catherine Ryan Hyde gli consiglia di studiare bene il suo spazio di mercato editoriale e di accettare l’idea che le sue probabilità di successo sono in po’ di più di quelle della lotteria, ma non troppo. E poi c’è Fannie Flagg, che ricorda come scrivere non abbia nulla a che fare con le lauree, il vocabolario o l’analisi delle frasi ma semplicemente con il grande desiderio di raccontare una storia. Questa storia però, dice John Leggett, deve svolgersi in un luogo preciso. Ci dobbiamo ritrovare li, insieme al lettore, vivere con lui e i personaggi, sentendosi accaldati, assetati e sudati se siamo in Honduras o infreddoliti se siamo in Alaska. Dobbiamo vedere il sole cuocere la sabbia e le piazze, il vapore alzarsi dalla terra accaldata, la nebbiolina a alzarsi e far cadere goccioline sui nostri vestiti. Dobbiamo essere lì, tutti insieme. Per mano.
snoopy1Perché scrivere, ricorda J.F. Freedman in chiusura del volume, “è il miglior lavoro che io conosca, perché ti permette di aver il controllo completo di quello che fai e puoi davvero creare qualcosa dal niente”. E questo, aggiungo io, è un potere meraviglioso, unico, un dono, quasi magico. Davvero fortunato chi sa (e può) farlo.

Guida di Snoopy alla vita dello scrittore
A cura di Barnaby Cornad e Monte Schulz, traduzione di P. Restuccia, Omero Editore, 2012, 200p.

L’OPINIONE
L’articolo 18 non salva
gli operai della Thyssen

Come andrà a finire la trattativa sulla Thyssenkrupp nessuno lo sa, mentre ci si arrovella e ci si divide sul jobs act, altri 550 lavoratori – che dovrebbero godere (se presi singolarmente) dell’art.18 – stanno ugualmente perdendo il loro lavoro, a dimostrazione che il problema non è esattamente quello così ideologico delle tutele, ma è molto più ampio, una politica industriale latitante da anni, anche per colpa sindacale e politica, mancanza totale di politiche per lo sviluppo, crisi economica universale da cui si fatica a trovare la giusta ed equa soluzione, industriali poco inclini ad investire ma invece molto inclini a spostare le produzioni in zone più favorevoli dal punto di vista delle relazioni industriali, e sostanziale incapacità di chi governa politica ed economia di fare programmi a medio termine che vadano oltre le propaganda ma che siano capaci di creare sviluppo.

Consapevole di dire una cosa impopolare aggiungerò che questi 550 lavoratori della Thyssenkrupp hanno dalla loro una piccola, forse impercettibile, fortuna, che forse non salverà i loro posti di lavoro, ma che, certamente, dà a loro una visibilità mediatica, pertanto invito tutti noi, mentre leviamo il nostro grido di protesta per salvare i posti di lavoro alla Thyssenkrupp di pensare anche a tutti quei lavoratori invisibili ai più, dipendenti di piccole aziende che stanno fallendo, artigiani e commercianti e lavoratori autonomi che dopo aver fatto i salti mortali per resistere si devono arrendere alla mancanza di una prospettiva, senza, peraltro, avere alcun tipo di salvagente, se non i pochi risparmi, probabilmente erosi dalla resistenza e dalla cocciutaggine tipica dei piccoli imprenditori.
Però i nostri media ci fanno vedere sopratutto il premier che inaugura stabilimenti tipo, che si interfaccia con imprenditori di successo mentre, purtroppo, il resto del paese sta affogando tra debiti, tasse, gabelle e mancanza di prospettive.

Proviamo quindi a mettere in moto il nostro pensiero e riflettiamo su cosa vorremmo che la politica facesse e proviamo a non rinchiuderci nel nostro privato, a non abbandonarci alle nostre malinconie, perché è solo in questo modo che – tutti insieme – potremmo indurre chi ci governa a togliersi gli sfavillanti abiti e indossare vesti più umili, adatte ad ascoltare anche i più deboli e coloro che, da sempre, sono tartassati.

Se questa è una piazza

Liberatela. Piazza Savonarola è assediata dalle auto. Prigioniera innanzitutto dei taxi: a volte, come questa mattina, più che per il fabbisogno di Ferrara sembrano calibrati per quello della stazione di Roma! Fra vetture pubbliche, auto di servizio, autorizzati (non si sa a che titolo) e avventori vari capita di contare una ventina di veicoli, in uno spazio di 40 metri per 40 all’ombra del monumento più prezioso.
Dovrebbe essere il salottino buono della città questo, incastonato fra i gioielli degli estensi. Invece il povero Savonarola dall’alto della sua statua ci biasima sdegnato, dovendo respirare ancora fumi: non quelli esalati dalle fascine del rogo, ma quelli delle marmitte delle vetture che insensatamente gli ronzano attorno. Un’ingiusta condanna per lui e per noi.
Siamo seri: qualcuno pensa davvero che davanti al castello serva la compresenza di otto-dieci taxi? Magari! Vorrebbe dire che la città s’è svegliata dal torpore. Invece gli autisti stanno lì a fare filò: e grazie! è più piacevole farlo lì fra i monumenti che altrove… Ma mica si devono spedire in periferia. Basterebbe traslocarli in corso Porta Reno o nei pressi dei giardini di viale Cavour, nel raggio di un centinaio di metri le alternative ci sono. Qual è il problema?

L’EVENTO
I 250 anni dell’Hermitage in un grande film, domani l’unica proiezione

Il 14 Ottobre, il bellissimo e magico Hermitage (o Ermitage) di San Pietroburgo celebra i suoi 250 anni con un evento cinematografico unico e spettacolare, trasmesso nelle sale italiane. La proiezione avrà luogo solo quel giorno, a Ferrara sarà al Cinema Apollo alle ore 21.

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La locandina

250 anni, tanti, ma allo stesso tempo così pochi per arrivare a contenere tanta bellezza. È, infatti, il 1764 quando la zarina Caterina II acquista 225 dipinti della raccolta d’arte di un mercante berlinese: nasce così, in pieno secolo illuminista, il primo germe dell’Hermitage, il museo russo che rappresenta una delle mete più amate dei viaggiatori di tutto il mondo. La zarina lo immagina come un luogo isolato, un eremo non lontano dalla Prospettiva Nevskij e con una magnifica vista sul fiume Neva: in francese ‘un petit ermitage’ dove godersi momenti di rigenerante riposo, circondata solo da pochi amici intimi e da opere d’arte. Il tour del film di Margy Kinmonth (regista pluripremiata anche per altre opere sulla storia del Teatro Mariinsky e sul balletto e l’opera russe) guiderà gli spettatori alla scoperta di alcuni dei tre milioni di pezzi conservati nel sontuoso scrigno di San Pietroburgo. Da quel 1764, infatti, la collezione si è allargata enormemente: la zarina Caterina non mancava di allargare pian piano la preziosa raccolta, man mano che se ne presentava l’occasione. Né furono da meno gli altri zar della dinastia Romanov, che anno dopo anno arricchirono la collezione aprendola al pubblico a metà Ottocento, quando per le vie della città si incontravano i grandi scrittori russi, Pushkin, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj e Cechov. Così, passeggiando per le sue belle, luccicanti e sontuose sale, l’Hermitage è un vero tuffo nel passato, un concentrato di meraviglie che ha visto passare ricevimenti, momenti storici e rivoluzioni che ci fanno essere quello che siamo oggi.
Qui la città di San Pietroburgo viene chiamata la Venezia del Nord, e l’impressione di essere a Venezia a volte c’è davvero: i colori del crepuscolo, i canali, i ponti, la luce che si riflette nell’acqua, la sensazione di attraversare la storia, di esservi immersi a ogni piccolo passo, di vedere personaggi misteriosi, principesse, principi e, perché no, anche fantasmi.

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“Madonna Litta”, Leonardo
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“Amore e Psiche”, Canova

L’Hermitage parla italiano, non solo per i suoi Bartolomeo Rastrelli (che lo ha progettato fra il 1754 e il 1762 per la zarina Elisabetta), e Giacomo Quarenghi (al quale Caterina II, succeduta a Elisabetta diede ordine di costruire il teatro dell’Ermitage il teatro di corte che venne completato nel 1787), ma anche per i corridoi che sembrano quelli del Vaticano (scoprirò che la zarina aveva dato ordine di copiarli), i quadri di Leonardo da Vinci (qui c’è la “Madonna Benois” dipinta fra il 1478 e il 1482 e la “Madonna Litta” del 1590), le sculture di Giacomo Canova (qui si trovano quattro sue sculture fra le quali la bellissima “Amore e Psiche”), di Michelangelo 250-anni-hermitage“Ragazzo accovacciato”, Michelangelo(attribuito a lui il “ragazzo accovacciato”) e, infine, per il gemellaggio fra la città e Venezia (la Fondazione Ermitage Italia si trova ora nella città lagunare, dopo il trasferimento non privo di polemiche dalla nostra Ferrara, che, lasciatemi dire, non ha saputo cogliere l’opportunità di un tale gemellaggio). L’amore per l’Italia si respira nelle stanze ma anche nella città. E anche in altre città della Russia. La bellezza si parla con la bellezza, nessun miglior linguaggio per intendersi.

Ma in questo anniversario, godiamoci questo posto da sogno. Noi ci siamo andati recentemente. Eccovi allora alcune belle immagini, che vogliamo condividere con voi, cari lettori.
Buona passeggiata, allora, e fate buoni sogni…

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LA RIFLESSIONE
La rivincita del pensiero positivo

A tutti capita di pensare al futuro e quasi sempre lo viviamo con l’ansia dell’incognito. Cosa sarà di noi? Molti economisti, politici, intellettuali, spesso si sono misurati su questo tema. Proverei a parlarne anche io, senza la presunzione di avere certezze. Solo per dare qualche spunto di riflessione.
In una sintesi parziale e personale direi che siamo a questo punto: è cresciuta la popolazione (e con questa l’immigrazione e il razzismo), sono aumentate le diversità sociali e culturali, sono cresciuti i problemi di alimentazione e sofisticazione (vedi alimenti transgenici), è cresciuto il degrado ambientale e metropolitano (industrializzazione, urbanizzazione, criticità nei trasporti), vi è stata dispersione delle risorse idriche e naturali, con conseguente cambiamento del clima (catastrofi atmosferiche), ma soprattutto è aumentato lo squilibrio ricchezza-povertà e la disuguaglianza sociale.
Stigliz, nel suo libro “La globalizzazione e i suoi oppositori”, ci ha ricordato che la globalizzazione ha creato una società civile globale, ha migliorato le condizioni di salute e il tenore di vita, ha cambiato il modo di pensare della gente, ha servito gli interessi dei paesi industrializzati, ma non ha funzionato per molti poveri del mondo, ha determinato problemi all’ambiente, ripercuotendo l’instabilità a livello globale.
In generale, mi pare dunque che i principali trend di mutamento ci abbiano portato grandi rivoluzioni nel campo dei valori e nella produzione di simboli. La gestione dei sistemi tramite il sapere è stata sostituita da subsistemi interdipendenti a livello globale; i rapporti virtuali hanno vinto sui rapporti fisici. Questo, in contrasto con la crescita della creatività e della dimensione estetica. Nonostante il tempo libero abbia prevalso sul tempo di lavoro (anche se non ci sembra) e sia aumentata la consapevolezza che la qualità della nostra vita sia diventata una priorità. In fondo i nuovi valori emergenti sono diventati l’affettività, la soggettività, l’etica, l’affidabilità, l’estetica, anche se in contrasto tra loro.
Pesanti sono a proposito le riflessioni di Jacques Attali nel suo libro “Breve storia del futuro”, di cui ho sintetizzato alcuni passaggi: l’uomo di domani percepirà il mondo come una totalità al proprio servizio; vedrà l’altro come uno strumento per la propria felicità; un mezzo per procurarsi piacere e denaro. Non penserà più a preoccuparsi per gli altri: perché dividere se si deve combattere? Nessuno penserà più che la felicità altrui gli possa essere utile. La maggior parte non avrà più un posto di lavoro fisso. Per i più giovani viaggiare sarà il segno del progresso verso l’iperclasse. Delocalizzazione delle imprese ed emigrazione dei lavoratori ridurranno i redditi. La precarietà e la slealtà diventeranno la regola. Le leggi verranno sostituite con dei contratti, la giustizia con l’arbitrato. La fine della libertà, in nome della libertà.
In contrapposizione, i valori della società industriale sono diventati la massimizzazione della efficienza e della produttività, l’accentramento delle informazioni e del potere, la sincronizzazione dei tempi di vita e di lavoro, le economie di scala e la parcellizzazione delle mansioni, ma soprattutto la disoccupazione. Insomma, abbiamo rafforzato valori antagonisti. Lo sviluppo tecnologico ha accresciuto le disuguaglianze.
In un accennato ciclo dei fondamentali atteggiamenti intellettuali, siamo così passati dalla teologia e dal razionalismo, all’empirismo, al relativismo, allo scetticismo e al cinismo. Insomma ci siamo impegnati a farci del male.
Sennet nella “Cultura del nuovo capitalismo” ci ricorda che l’etica del lavoro sta cambiando e che tendono a scomparire i confini tra politica e consumo. Bisogna agire a breve, e nel breve, perché l’uomo deve essere flessibile (il “saper fare” moderno, l’artigiano della modernità). Ai lavoratori viene chiesto di comportarsi con maggiore flessibilità, di essere pronti a cambiamenti con breve preavviso, di correre continuamente qualche rischio, di affidarsi meno ai regolamenti e alle procedure formali.

Vorrei però credere anche che il pensiero positivo (senso dell’essere e progresso mentale) potrà vincere. Credo nello sviluppo della mente, della tecnologia multimediale come strumento di comunicazione per i diritti all’informazione, alla libertà individuale e al rispetto dei vincoli del collettivo, ai progressi della medicina, alla flessibilità nell’istruzione e nel lavoro (anche nella sua destrutturazione spaziotemporale).
In fondo anche Bauman (“La società individualizzata”) crede nella progressiva individualizzazione della società contemporanea, nonostante permangano sentimenti di paura per i singoli, apatia politica e paura di abbandono. Tocca a noi riprendere la vecchia arte di mantenere legami e valori. Insomma proviamoci.

Non solo politica: altri modi per partecipare

Ho letto che a Los Angeles gli amministratori stanno prendendo in considerazione l’idea di introdurre una lotteria per premiare i cittadini che andranno a votare per le elezioni locali, come soluzione per contrastare la bassa affluenza alle urne. Il progetto di lotteria è all’esame del Consiglio comunale che discuterà l’istituzione di un premio da 100mila dollari da dividere in quattro premi di 25mila dollari, o in 100 premi da mille dollari ciascuno per gli elettori più fortunati. La proposta scaturisce dal tentativo di invertire una tendenza al ribasso nella partecipazione degli elettori. Lo scorso anno, solo il 23 per cento degli elettori di Los Angeles ha partecipato alle elezioni amministrative, contro il 37 per cento del 2001. Coloro che hanno proposto l’idea argomentano: “Considerando che la nostra democrazia è una democrazia rappresentativa, se circa il 23 per cento delle persone scelgono i leader della città, dobbiamo chiederci se questi stanno davvero rappresentando la maggioranza”. Certo quando si parla di maggioranza o minoranza, è difficile ignorare la base reale sulla quale tale maggioranza viene calcolata.
Il problema esiste, al di là delle norme elettorali ed è riduttivo e ingenuo vederlo unicamente come l’esito di una caduta di reputazione delle istituzioni e dell’azione pubblica e, quindi, come un fenomeno che potrebbe essere invertito con una svolta di onestà. Condizione questa imprescindibile e auspicabile. La questione riguarda anche la trasformazione epocale dell’idea di partecipazione. Sul piano del rapporto con le istituzioni, credo che l’esercizio della cittadinanza vada spostandosi dalla decisione al controllo: da anni, del resto, il cinema americano ha messo in scena grandi campagne di opinioni sollecitate da episodi di corruzione o da scelte lesive della salute dei cittadini.
La partecipazione sta cambiando profondamente forma in una pluralità di modi. E’ stato coniato il termine di “hashtag activism” per descrivere quella forma di attivismo che si esprime con un post o con un like, senza che ciò comporti alcun serio impegno rispetto al tema, una modalità di risposta sociale superficiale che avrebbe il solo obiettivo di sentirsi a posto con la coscienza e poter dire di avere fatto qualcosa. Questa espressione “debole” di cittadinanza tende a banalizzare le questioni, producendo ulteriore disinformazione piuttosto che una crescita di sensibilità. Ma, obietterà qualcuno, è difficile stabilire in quali casi una campagna di opinione svanisca senza lasciare alcuna traccia e quando contribuisca a portare un tema all’attenzione dell’agenda politica.
Altre forme di partecipazione vanno profilandosi come contributo al bene comune: ad esempio, molte delle informazioni che noi utilizziamo in rete derivano dal fatto che i cittadini si scambiano esperienze in rete. Queste informazioni nelle città possono migliorare il traffico, ridurre i costi dell’inquinamento, massimizzare i vantaggi della creatività, ridurre i costi di molti servizi. È la sharing economy che comprende ormai diversi progetti nati grazie ai processi collaborativi che riguardano la sostenibilità ambientale, la riduzione dello spreco, Il salone dell’innovazione sociale del 7-8 ottobre a Milano ha trattato questi temi. Segnalo un solo titolo: “La sospesa: spesa consapevole, reciprocità, innovazione”. (www.csreinnovazionesociale.it)

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
maura.franchi@gmail.com

Ragazzi obesi, anche il computer è alleato del grasso

Milioni di persone muoiono di fame ogni giorno nei Paesi del Terzo Mondo, mentre altrettante soffrono di sovrappeso ed obesità nei paesi occidentali. Purtroppo il problema, che è oggi in costante crescita, colpisce specialmente i bambini e gli adolescenti. I dati raccolti dal ministero della Salute mostrano che la percentuale dei ragazzi italiani (fascia compresa tra i 6 e i 17 anni) che sono in eccesso di peso, ammonta al 26,9%, percentuale che aumenta tra i bambini che hanno dai 3 ai 10 anni (35,7%).
Le cause scatenanti questa grave problematica sono numerose. Prima di tutto, un’eccessiva e scorretta alimentazione nella fase infantile, è premonitrice di obesitá nella fase adulta. Se i bambini, nei loro primi anni di vita, ingeriscono un quantitativo esagerato di calorie e vengono nutriti nella maniera sbagliata, prendono peso che difficilmente riusciranno a perdere nel corso degli anni. Ciò avviene perchè l’iperalimentazione determina, oltre ad un aumento di volume delle cellule adipose (ipertrofia), anche un aumento del loro numero (iperplasia), pertanto, da grandi sará possibile ridurre le dimensioni delle cellule, ma non eliminarle.
Sono sempre stata contraria al comportamento ultraprotettivo di alcuni genitori perchè, personalmente, credo che per i bambini (e non solo!) sia una gioia mangiare gelati, merendine confezionate e in generale tutto quello che viene comunemente definito “junk food”. Sicuramente non si tratta di alimenti genuini, ma se mangiati sporadicamente di certo non danneggiano gravemente il nostro organismo! Sono le quantitá che devono essere tenute sotto controllo. Una corretta alimentazione è fondamentale per la crescita del bambino e il buon esempio deve venire prima di tutto dai genitori. Molti bimbi invece non mangiano frutta e verdura, privandosi così di principi nutritivi fondamentali; spesso inoltre i genitori, o perchè a causa del proprio lavoro non hanno tempo per cucinare o perchè invece non amano farlo, abituano i figli al cibo dei take-away. Ricordo una sera di aver accompagnato due miei amici in un McDonalds di Milano e di essere rimasta scioccata nel vedere che i consumatori erano soprattutto adolescenti e bambini in compagnia dei genitori.
Altro fattore responsabile dell’obesitá è la familiaritá. Nei ristoranti mi capita spesso di vedere adulti esageratamente grassi che invitano e spronano i propri figli, giá evidentemente in sovrappeso, a mangiare porzioni enormi di cibo. Provo solo tanta rabbia nei confronti dei primi e tanta pena per i secondi. Sono sicura che vedere il proprio bambino godere di ciò che mangia renda un genitore felice, perchè sono perfettamente d’accordo con chi sostiene che il cibo sia uno dei “piaceri della vita”; tuttavia, quei genitori che hanno abitudini alimentari scorrette e le trasmettono ai propri figli, dovrebbero capire che con tale comportamento non fanno il loro bene, ma ne danneggiano gravemente la salute. L’esempio della famiglia è quindi fondamentale: se i genitori non seguono una dieta equilibrata non possono infondere alcuna educazione alimentare.
Altro fattore determinante l’obesitá è la sedentarietá: quando i miei genitori erano bambini, i maschi giocavano con le macchinine, con il trenino elettrico o si trovavano nei cortili a giocare a pallone; le femmine invece vestivano le bambole o inventavano giochi da fare all’aperto. Quando io ero bambina si giocava con le Barbie, con le carte dei Pokemon o con i primi game boy e tamagotchi. Oggi invece tutto è diventato virtuale: i ragazzi passano troppe ore davanti ad uno schermo a giocare ai video games o direttamente online. Anziché incontrarsi fuori, ci si ritrova in casa dove si sta seduti per ore davanti a qualcosa che concretamente non esiste, rischiando di sviluppare lo Iad (Internet Addiction Disorder): si calcola che oggi in Italia il 70% della popolazione mostra segni di dipendenza da pc. Oltre al rischio di questa patologia, una sovraesposozione agli schermi porta gli individui a muoversi di meno, bruciare meno grassi e calorie e, di conseguenza, ad aumentare di peso.
L’esercizio fisico è di fondamentale importanza per il bambino che cresce in quanto, oltre a farlo dimagrire lo rende più attivo, contribuendo a ridistribuire le proporzioni tra massa magra (tessuto muscolare) e massa grassa (tessuto adiposo).
A tutti questi elementi si aggiunge il fatto che oggi non sappiamo cosa mangiamo, quali sostanze, conservanti e coloranti vengono usati dalle industrie. Ciò che è certo è che anche le adolescenti soffrono di cellulite, mentre 50 anni fa questo era un disturbo raro e sconosciuto alla maggior parte delle ragazze.
Abbiamo la fortuna di vivere nel paese che ha la cucina migliore al mondo, quella più variegata e saporita, ed è giusto apprezzarla, ma senza abusarne. Come in ogni cosa, gli eccessi sono sempre sbagliati e controproducenti. Chi è genitore deve capire che i figli non vanno costretti a mangiare, ma devono essere educati ed abituati a gustare i cibi e a scegliere quelli più salutari. Bisogna far loro capire fin dalla più tenera etá l’importanza di avere una vita sana, a cui sport ed alimentazione contribuiscono in maniera fondamentale. I giovani invece devono imparare a viziarsi quanto basta e a non abusare di hotdog e hamburger; a ridurre le ore spese davanti agli schermi e, perchè no, riscoprire i giochi e i passatempi di una volta.
L’obesitá non deve mai essere sottovalutata: spesso gli individui tendono ad ingrassare a causa di un malessere, un vero e proprio disturbo psicologico (stress, dispiaceri, solitudine, inadeguatezza,…), che può venir loro trasmesso o dai genitori o dalla societá in cui crescono. Nel rapportarsi con gli altri i bambini/ragazzi in sovrappeso possono perdere la propria stima, chiudersi in se stessi creando un proprio mondo parallelo in cui trovare conforto nel cibo o incappare nella problematica opposta e cadere nel baratro dell’anoressia.
L’alimentazione è uno dei tanti aspetti dell’educazione e come tale deve essere impartita dai genitori ai figli, ovvero da chi giá la possiede a chi ancora deve apprenderla. Purtroppo però non tutti gli adulti hanno questa accortezza e non prestano sufficiente attenzione ai disagi e ai problemi a cui spesso i figli vanno incontro; non si rendono conto che usano il cibo come arma per sopperire alle proprie sofferenze, facendo diventare ciò che dovrebbe essere un piacere una forma di dipendenza.

LA SATIRA
Contromano

In qualità di assiduo praticante dueruotistico, mi permetto di aggiungere il mio interessato parere ai tanti e tanti espressi nel dibattito che ferve in città sull’opportunità di emanare un provvedimento che consenta ai ciclisti di circolare contromano sulle strade a senso unico: NO!
Essendo i ciclisti ferraresi, nella loro intierezza, sia detto con rispetto, figli di madri di dubbia moralità – autoctoni, extracomunitari, intracomunitari, turisti, viandanti, parenti in visita compresi, sarà l’aria che volete che vi dica – se gli dai il dito del tragitto contromano loro si prendono il braccio dell’Impunità Totale. Già adesso, risalgono i sensi unici con la cocciuta frenesia dei salmoni in preda a fregola da accoppiamento, costringendo gli sventurati automobilisti che vengono giù tranquillamente per il loro verso a farsi da parte per non asfaltare gruppi di badanti ucraine in libera uscita, ragazzini che sciamano compulsando lo ‘smartfon’, pensionati che avanzano a pettine da marciapiede a marciapiede litigando sulla Spal e dispensando pacate espressioni di biasimo “ch’a ‘t jena al zzadròn a tì e a tuta la tò raza, arnani!” al pilota che li obbliga a restringere la formazione col rischio di strifelarsi la mano nel contatto manubrio con manubrio.
La delibera del Sindaco, dio non voglia, farebbe cadere tutta la variegata fauna dei pedalatori estensi nel delirio di onnipotenza, facendoli sentire autorizzati a salire sui marciapiedi affollati, passare col rosso, girare all’esterno delle piste ciclabili, viaggiare di notte senza fanali e catarifrangenti. Cosa che già fanno di prassi, intendiamoci, ma almeno con un qualche sottile senso di colpa.
Insomma, si finirebbe per creare un’emergenza umanitaria: non tanto per i ciclisti, che dai tempi dei tempi sono adusi a prevaricare tutte le altre categorie, nessuna esclusa, compresi gli autisti di tir, bensì per tutte le altre categorie, nessuna esclusa compresi gli autisti di tir di cui sopra, che rischiano di sbarellare di brutto, già ora che i bigaroli sono calmierati, figurarsi dopo.

LA RIFLESSIONE
Vecchi o solo anziani

Diventare vecchi per alcuni è un privilegio, ma per altri un problema. In questa regione gli anziani sono quasi un milione di persone (di cui la metà sono ultrasettantacinquenni). Nell’ultimo decennio l’incidenza della popolazione anziana è aumentata e tra vent’anni circa un terzo degli anziani avrà più di ottanta anni.
Crescono però fortunatamente anche gli anziani autosufficienti e i pensionati impegnati nel sociale.
E’ possibile pensare ad una importante e crescente forza civile che sia disponibile per gli altri, in cui l’anziano non sia indicatore di criticità ma anzi protagonista nella solidarietà? Ora che anche io sto entrando in questa categoria, me lo sto chiedendo spesso.
Mi piacerebbe chiamare in aiuto gli esperti delle scienze come geriatria (branca della medicina che si occupa non solo della prevenzione e del trattamento delle patologie dell’anziano, ma anche dell’assistenza psicologica, ambientale e socio-economica), gerontologia (scienza che studia le modificazioni derivanti dall’invecchiamento) e geragogia (scienza che studia tutte le possibilità per invecchiare bene).
Io però so che aumentano i bisogni e le richieste di offerta sostenibile in molti settori e territori e si potrebbe pensare di sviluppare un welfare sociale, sussidiario e non sostitutivo, sui temi della qualità della vita. Quando una città ha una buona qualità di vita, significa, infatti, che la maggioranza della sua popolazione può fruire di una serie di vantaggi politici, economici e sociali che le permettono di sviluppare con discreta facilità le proprie potenzialità umane e condurre una vita relativamente serena e soddisfatta. Su questi principi si stanno misurando da molto tempo istituzioni e associazioni, ma il loro impegno non è sufficiente se non produce processi di innovazione.
Se a questo dato di necessità si aggiunge che sul piano culturale si fa largo la convinzione che il sociale sia quasi un fattore produttivo, allora credo ci debba essere qualche ragione in più per contribuire a ripensare i rapporti sociali nel nostro territorio.
Bisogna allora aumentare l’area della responsabilità e sviluppare progettualità.
Dobbiamo promuovere l’impegno degli anziani nel volontariato e aumentare l’impegno civico; penso che il volontariato sia ricerca di relazioni con altri riconosciuti titolari di diritti e per questo dobbiamo metterci a disposizione per gli altri in una logica di reciprocità e responsabilità, per favorire in una parola lo sviluppo della “cultura della vecchiaia”.
L’invecchiamento attivo può dare agli anziani di domani la possibilità di sentirsi valorizzati con semplici opportunità di restare occupati e condividere la loro esperienza lavorativa, ma soprattutto di continuare a svolgere un ruolo attivo nella società. Serve qualche attenzione prioritaria a partire dalla opportunità di partecipare pienamente alla vita della società e consentire alle persone anziane di dare un valido contributo con il loro volontariato, ma soprattutto di permettere alle persone della terza età di vivere in modo autonomo grazie a strutture che tengano conto delle loro esigenze (alloggi, infrastrutture, sistemi informatici e trasporti).
La domanda dunque a questo punto è: come si fa?
Forse si deve accelerare prima di tutto la costruzione di reti di collaborazione e di relazione all’interno di strutture esistenti con le varie associazioni presenti sul territorio, con tutte le risorse disponibili, sia di carattere economico che sociale, a partire dal volontariato e dalla promozione sociale fino all’associazionismo sindacale. Per affrontare il duro, faticoso, difficile lavoro di “lavorare insieme, in modo integrato”, unica condizione per massimizzare l’efficienza e l’efficacia. Mi rendo conto che sono cose che si dicono sempre, ma che si fanno raramente.
Mi sia permessa una citazione che considero centrale. (Da la percezione di sé e ruolo politico degli anziani- Rapporto Sociale anziani Rer, gennaio 2010):
“Emerge una condizione soggettiva degli anziani che ne evidenzia la qualità e di massima la possibilità di poter contribuire in maniera ancora sostanziale allo sviluppo della vita sociale e civile della comunità regionale” “Se l’obiettivo per le giovani generazioni è di accelerare l’assunzione di responsabilità, bisogna dunque chiedersi come gli anziani (individualmente, collettivamente, attraverso le proprie rappresentanze ed organizzazioni) possono concorrere a questo scopo. L’assunzione di responsabilità può avvenire soprattutto attraverso la dimostrazione che non si tratta di una attribuzione sostitutiva (cioè prendi tu le responsabilità che fino ad ora sono state mie), ma attraverso un superiore livello di condivisione; prendiamoci, ognuno secondo le nostre possibilità, le responsabilità di tutti.”
La capacità delle persone, una volta invecchiate, di condurre vite socialmente ed economicamente attive è un diritto. È questa, in sintesi, la concezione di active ageing (“invecchiamento attivo”) espressa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) e tenuta in gran conto da parte della stessa Commissione Europea, la quale prevede che entro il 2050 il tasso medio europeo di dipendenza degli anziani sarà attorno al 50%: ciò significa che se oggi, in Europa, ci sono circa 4 persone in età attiva per ogni persona over 65, nel 2050 ce ne saranno solo due. Politiche di integrazione lavorativa e di inclusione socio-culturale degli anziani possono dunque diventare elementi centrali di sviluppo, rafforzando la partecipazione della persona anziana alla vita attiva della comunità e contrastando le conseguenze negative legate a sensi di solitudine e inutilità sociale.

Essere anziani al giorno d’oggi significa fare esperienza di grandi cambiamenti nei ruoli assunti all’interno della famiglia e della società: basti pensare al pensionamento, da alcuni vissuto come perdita di un ruolo sociale, o alla scomparsa del coniuge, l’allontanamento dei figli, tutte occasioni che comportano la perdita di importanti punti di riferimento. Le relazioni sociali possono essere una risorsa fondamentale per l’anziano, il primo baluardo contro la solitudine, ma soprattutto, sostiene la psicoterapeuta Emanuela Boldrin, è utile “diffondere l’idea che la vecchiaia è una fase di vita, non necessariamente legata alla patologia e che rappresenta il naturale proseguimento di ciò che si era prima. È importante far vivere il concetto di cambiamento non come una limitazione ma come una nuova possibilità per coltivare diversi interessi e passioni”.
In ognuno di noi deve crescere la disponibilità a sperimentare e sviluppare nuovi progetti per il valore sociale. In successivi articoli proverò a fare qualche esempio e mi piacerebbe ritrovare la voglia di molti nel cercare soluzioni.

Il ‘boom economico’ del secondo dopoguerra: frutta, piccole-medie imprese e la Montecatini

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (SESTA PARTE)

L’immediato secondo dopoguerra vide Ferrara alle prese con i disastri arrecati dal conflitto bellico: migliaia d’ettari di terre sommerse a causa dei danni provocati agli impianti idrovori, i ponti crollati sul Po, i nodi ferroviari impraticabili, le principali industrie della zona a nord-ovest distrutte, Pontelagoscuro rasa al suolo dai bombardamenti. Il numero dei braccianti agricoli superò le centomila unità e il pilastro della produzione agricola ferrarese, la canapa, entrò in una crisi irreversibile.
Nel corso degli anni Cinquanta, Ferrara divenne la capitale della produzione di mele, sorsero così magazzini, impianti frigoriferi, strutture per la lavorazione e la commercializzazione della frutta, imprese per il suo trasporto, fabbriche di imballaggi, industrie per la produzione e la conservazione, distillerie per la trasformazione in alcool della frutta di scarto. Il lavoro agricolo subì dunque un processo di “meccanizzazione”, incentivando la nascita di molte imprese dedite alla lavorazione dei terreni. Al contempo si insediò nella zona industriale il grande complesso della Montecatini, che rese la città un polo chimico di importanza nazionale.
Anche Ferrara fece la sua parte negli anni del “boom economico”, sebbene con caratteristiche strutturali diverse da quelle del modello emiliano, che privilegiava le piccole e medie imprese integrate fra loro. Verso la fine degli anni Sessanta, con l’esaurirsi del “miracolo economico”, entrarono in crisi alcune delle prime aziende della pionieristica industrializzazione ferrarese, come la Zenith e la Lombardi, oltre a diversi zuccherifici e conserve alimentari. «Ma mentre vecchi impianti smantellavano e vecchie gloriose imprese cessavano di esistere, altre novità stavano emergendo a fianco e al di sotto della tradizionale realtà produttiva. Stava decollando una rete di imprese artigianali e di piccole industrie più legate al mercato locale e al contesto emiliano. Anche Ferrara entrava nella graduatoria delle province italiane a maggiore incremento del reddito, pur conservando caratteristiche, contraddizioni e squilibri nel mercato del lavoro, forte stagionalità nell’occupazione, elevati indici di disoccupazione giovanile»*.

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* F. Cazzola, Economia e Società (XIX-XX secolo), in F. Bocchi (a cura di), La Storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.

Giallo di Francia al tempo di Carlo Magno

Un fatto storico misterioso da cui partire, un bel po’ di studi e la passione per la scrittura a dare voce alla fantasia. Duilio Chiarle, piemontese che nella vita lavora nella pubblica amministrazione, ha pubblicato “Le notti buie dei franchi” (ilmiolibro.it), un giallo storico ambientato a Tours nell’anno 781 dopo Cristo. Una morte misteriosa, un investigatore dell’epoca, personaggi della corte carolingia e un’accurata ambientazione come contorno.
Chiarle, alla base del romanzo vi sono numerose fonti storiche e letterarie, oltre che una ricca bibliografia che lei ha consultato, è evidente il tentativo di documentare un’epoca considerata ‘buia’. Da dove è partito?
“Diciamo che fantasia e ricerca sono andate di pari passo intrecciandosi continuamente. Ho consultato un centinaio di volumi, di cui cinquanta sono stati decisivi per la stesura dell’opera. Per citare solo alcune delle fonti che mi hanno aiutato nella ricostruzione di quegli anni, importanti sono state le lettere di Carlo Magno, Henri Pirenne, Barbero, Vita di Carlo Magno di Eginardo. La morte misteriosa di cui parlo è un fatto storico su cui io azzardo una congettura, la vittima è un personaggio della corte carolingia. Anche l’investigatore Aucario è realmente esistito, misterioso pure lui, una primula rossa del suo tempo”.
Perchè proprio l’anno 781?
“In quell’anno capitano diverse cose importanti, ad esempio l’ambasceria di Bisanzio a Carlo Magno, Pipino re d’Italia e altri avvenimenti documentati storicamente”.
Un libro ricerca?
“Sì, ci sono molte notizie sui franchi, armi, alimentazione, costumi, cultura, superstizione, ho cercato di andare oltre il fatto noir e ricostruire i dettagli dell’epoca funzionali alla storia”.
La notte, citata nel titolo quasi in tautologia con buia, è un elemento ricorrente nel romanzo…
“E’ vero, sembra una tautologia, ma in realtà la notte del medioevo era molto più buia di quella di adesso. La notte è una presenza fissa, è inquientante, è la foresta con le belve, la notte è pericolo, agguato, paura e demoni. Il buio è anche, nell’opera, l’oscurità dell’animo, qualcosa di non ben chiaro interiormente. La notte ha sempre esercitato fascino, anche all’epoca, ne scrive un trattato il monaco Fredagiso di Tours, ad esempio”.
Il mistero poi si risolve?
“Senza svelare il finale, posso anticipare che dopo 1200 anni, provo a indagare su un segreto di stato…”

Per saperne di piu: http://ifranchi.jimdo.com/

Corrado Govoni
e la poesia elettrica

Ho optato per una cifra neutra, oggettiva, selezionando per la letteratura ferrarese del nostro tempo, scrittori genericamente lineari e-o sperimentali (poeti video e-o digitali inclusi): opzione esclusivamente s-oggettiva creativa e meritocratica, secondo me; autori celebri, noti, meno noti, poco noti, audience o meno dei nomi e degli scrittori “storicizzati”. Non un mero dizionario meccanico, ma spesso la focalizzazione dell’opera più rilevante: secondo criteri critici, prossimi, sia a certa analisi transtestuale e aperta, suggerita, ad esempio dal postmoderno essenzialmente francese, Deleuze, Baudrillard, sia da figure celebri ma liminari quali Franco Rella, sia lo stesso Giorgio Colli che definì poeta anche chi vive come tale, al di là (ovvio relativamente) del prodotto-opera in sé. Tutti contemporanei, eccetto pochissimi, selezionati per certo ruolo archetipico fondamentali per la letteratura ferrarese (e non solo) di fine secolo e del primo Duemila. A partire da Corrado Govoni.

Corrado Govoni, nato a Ferrara (Tamara di Copparo, 1884), spirato a Roma (Anzio, 1965) resta tutt’oggi il più geniale poeta ferrarese del XX secolo, uno dei più grandi della letteratura italiana contemporanea. Dopo anni di relativo oblio, a partire dal trentennale della morte, l’editoria e l’ambiente poetico nazionale hanno riportato all’attenzione Corrado Govoni, capace di assurgere a suo tempo fra i protagonisti del futurismo e tra i più fedeli amici (almeno nella fase eroica dei primi tempi) di Marinetti e Palazzeschi: il carteggio di quest’ultimo con Govoni appare significativo, e altrettanto un eloquente tributo postumo del poeta al fondatore Marinetti (citato da De Maria in “Marinetti e il futurismo”). Tale riscoperta segue la riscoperta stessa del Futurismo, di cui sono stati recentemente promotori i vari Benedetto, Grisi, Agnese, Tallarico, Verdone e De Maria (ecc.).
Nel trentennale della morte (1995), Ferrara stessa con la rivista “Poeticamente” gli ha dedicato un omaggio contemporaneo, “Elettriche Poesie”, ricordandolo come poeta vivo e vitale di questi anni duemila (anche in “Rete a Ferrara” in versione trailer). Negli anni Ottanta, la città dedicò al poeta un importante convegno (centenario della nascita) ben puntualizzato anche da Antonio Caggiano, il noto critico e scrittore nonché cronista d’arte del Resto del Carlino. Corrado Govoni fu autenticamente futurista, cavalcò la rivoluzione della poesia italiana e mondiale, scoprì lo spirito moderno con colori squisitamente artistici. Al passo con i futuristi e con le avanguardie, Corrado Govoni immaginò e sperimentò un rinascimento moderno in netta polemica con il modernismo volgare e materialista che ha poi dominato l’intero XX secolo: Corrado Govoni anticipò – pure – con esiti raramente uguagliati, la Poesia visiva e le Neoavanguardie del secondo Novecento; e i vari Spatola, Sanguineti e Perfetti provengono tutti dalla lezione govoniana. Alle soglie del 2000, in particolare, i toni non solo aggressivi, ma aurorali, sereni e cosmici della poesia govoniana, rispetto alla ‘tradizione’ futurista (ad esempio, tra l’anarchismo letterario di Marinetti e il lirismo meccanico di Soffici), ci indicano autentiche preveggenze ecologiche di ovvia importanza: in Govoni, l’utopia futurista diventa un’utopia verde, futuribile, come è evidente anche in certo suo crepuscolarismo, una visione della macchina, tra i bordi di Spengler e lo stesso Marinetti.
Letto oggi, in Govoni non vibrano più soltanto virilismo guerriero, automobili, aeroplani e radio bellicose, ma anche auto elettriche, centrali solari e sensualità: la poesia del futuro come ecologia dirompente…

da “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, eBook a cura di Roby Guerra (Este Edition-La Carmelina, 2012)

Per ulteriori informazioni, visitare la pagina su Corrado Govoni in Wikipedia [vedi], la pagina di Roby Guerra [vedi] e il sito di Este Edition [vedi]

IL FATTO
In fabbrica c’è il robot, Cipputi resta a casa

L’annuncio della Volkswagen di voler sostituire con i robot una parte dei circa 32 mila lavoratori che andranno in pensione dal 2015 al 2030 è un cambiamento destinato ad avere ripercussioni importanti. La decisione della casa automobilistica tedesca è di natura economica: il costo del lavoro oggi è superiore ai 40 euro/ora contro gli 11 dell’Est Europa, i 10 della Cina; ma il robot oggi arriva a 5 euro all’ora e forse costerà ancor meno in futuro.
La Volkswagen continuerà ad assumere giovani ai livelli attuali, ha detto il capo del personale Horst Neumann. Ma non è solo questo il punto. Che nell’industria avanzata il ricorso ai sostituti meccanici sia in crescita non è una novità, mentre sotto i nostri occhi sta cambiando la natura del lavoro e l’apporto umano nei processi manifatturieri dei paesi dell’Ocse si sta profondamente modificando. Insomma, non più solo ‘homo faber’.
La robotica peraltro, invade sempre più le nostre esistenze: nelle aziende, nelle case, negli uffici, negli ospedali. Secondo l’International Federation of Robotics tra il 2012 e il 2015 verranno venduti nel mondo 15,6 milioni di robot. In Giappone oggi le vendite di sostituti meccanici superano le 20 mila unità all’anno in cui sono comprese modelle, badanti, cuochi robot. Tra l’altro, l’Italia è il quarto paese al mondo per l’utilizzo dei robot nella chirurgia. Arriveremo forse al personal robot, mentre si sta sviluppando la sperimentazione per ottenere umanoidi sempre più simili a noi.
Qualche considerazione. La prima: il cambiamento della natura del lavoro vedrà – sta già vedendo – tutti i soggetti interessati alle prese con questo problema. Il robot non si ammala, non protesta, non va in ferie, lavora 24 ore su 24: come sarà la fabbrica di un non lontano futuro? Meglio pensarci già da ora.
Seconda considerazione: lo sviluppo della robotica, che riguarderà applicazioni attualmente inimmaginabili in aggiunta a quelle attuali, è uno dei settori della nuova economia: anche in Italia, anche in Emilia-Romagna, dove possono svilupparsi nuove realtà produttive.
Da ultimo, cambierà il senso della vita. Se la rivoluzione elettronica in trent’anni ha così tanto modificato le nostre esistenze – non sempre in meglio – quella robotica cosa comporterà? Per adesso, abbiamo come principale termine di paragone la fantascienza o i film come “Blade Runner”. Tra pochi anni, che passeranno velocemente, non saremo più dentro un film.

L’EVENTO
Pittrice del Po a Casa dell’Ariosto

Alberi, rive del fiume, canne e foglie. Sono pezzetti di terra e acqua, di natura e cielo alle pareti per festeggiare l’88° compleanno della pittrice del Po, Carolina Marisa Occari. All’opera delicata e intensa dell’artista scomparsa pochi mesi fa, la Casa dell’Ariosto di Ferrara dedica una mostra nel giorno della sua nascita. Domani alle 17,30 l’inaugurazione con le opere di una vita intera. Disegni, acquerelli e incisioni realizzati dal 1946 al 2013.

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“La vecchia fornace a Serravalle”, acquerello di Carolina Marisa Occari

Curatori della mostra e del catalogo – edito da Marsilio – i figli dell’artista, Licia e Luca Zampini. Al critico Gianni Cerioli il compito di raccontare i percorsi dell’opera e dalla vita di Carolina.
Nata a Stienta – 18 chilometri da Ferrara e e 31 da Rovigo, di cui è frazione – a Ferrara studia e prende la maturità artistica al Dosso Dossi. A Bologna si iscrive all’Accademia di belle arti, dove è allieva di Giorgio Morandi, da cui impara così bene l’arte dell’incisione. Nel 1954 le sue acqueforti e riproduzioni a stampa ricevono il premio dell’Accademia per l’incisione e il primo premio per il bianco e nero dall’Università di Bologna. Ma, soprattutto, la sua capacità di rendere in bianco, in nero e in grigio paesaggi e immagini naturali le valgono la proposta del grande maestro e insegnante. Al termine degli studi, Morandi le chiede ufficialmente di fargli da assistente. Lei ci pensa, ma poi rinuncia. “Voleva restare vicina al suo fiume” racconta il figlio. Vicina al Po, che l’ha ispirata in tanti disegni e incisioni, anche durante l’alluvione del Polesine del ’51, quando realizza tante opere, ora conservate in collezioni private, all’Accademia dei Concordi di Rovigo e alla Cassa di risparmio del Veneto-Intesa San Paolo.
Luca – che il talento artistico materno lo ha riversato nella fotografia – ama ricordare Carolina con le mani quasi sempre macchiate d’inchiostro e i vestiti “pieni di patacche”. Una luce speciale illumina il suo sgardo, mentre ricorda una madre attentissima, che pure incarnava lo stereotipo del genio, capace di illuminazioni artistiche folgoranti, eppure tante volte così inconsapevole del mondo intorno o dei dettagli pratici. “Era un po’ persa – ride Luca – distratta. Figurarsi che da ragazza, sovrappensiero, una volta raccontava di essersi presentata a un distributore di benzina per fare il pieno al motorino, salvo poi rendersi conto di essere in sella alla bicicletta!”. Anche l’altra figlia Licia, che ha curato la catalogazione di tutte le opere, ha raccontato sorridendo del caos artistico degli oggetti della mamma, con alcuni disegni rintracciati perfino in mezzo ai panni.

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“Alluvione del 1951 a Occhiobello”, olio di Carolina Marisa Occari

Madre e artista, del resto, sono le due anime parallele di Carolina creatrice. Che anziché fare l’assistente del grande maestro Morandi si sposa e, dal 1958 al 1963, dà alla luce quattro figli. Intanto insegna a Tresigallo, Codigoro e altri comuni ferraresi per una ventina d’anni. Resta quindi così poco spazio e tempo per la sua vocazione artistica. Che però torna fuori appena i bambini crescono, e che la fa ricominciare a dipingere dal 1976. Da quel momento non smette più. In golena, nelle valli o seduta nel giardino della vecchia casa sul Delta del Po, Carolina acquerella fronde d’alberi e argini, tratteggia il vecchio ciliegio della sua gioventù, l’olmo, la quercia, come pure il verde intenso che coglie nel cortile alberato sotto la sua casa, nel condominio di via Francesco del Cossa affacciato sull’Istituto Canonici Mattei di Ferrara.
Le sue opere ora sono in mostra alla Casa dell’Ariosto, via Ariosto 67. Ingresso libero. Promotori dell’evento il Comune di Ferrara, Ferrara Arte, Biennale donna, Cassa di Risparmio del Veneto. Dal 12 ottobre al 7 dicembre 2014, ore 10-12,30 e 16-18, chiuso lunedì.

Leggi anche su Ferraraitalia: “L’addio a Carolina Marisa Occari: maestra d’incisione e allieva di Morandi insegnava agli studenti l’arte di guardare” di Davide Bassi

L’APPUNTAMENTO
Le tante vie dell’antimafia

Dopo la presentazione di Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti sociali, lunedì mattina al dipartimento di Giurisprudenza, la Festa della legalità e della responsabilità 2014 torna ad affrontare il tema del radicamento della criminalità organizzata nel Nord Italia, cambiando però l’angolo di osservazione. L’appuntamento di lunedì con la ricerca curata dal gruppo di sociologi coordinato da Rocco Sciarrone ha rappresentato un momento di riflessione, in cui l’obiettivo era la ricerca di un metodo di studio del fenomeno per coglierne le diverse sfaccettature. La serata di mercoledì alla Sala Boldini, con la proiezione del documentario Romagna Nostra. Le mafie sbarcano in riviera, è stata ancora momento di riflessione, ma quella riflessione che nasce dalla denuncia. Il documentario è, infatti, il frutto dell’impegno dei ragazzi del Gruppo Antimafia Pio La Torre di Rimini che per più di un anno hanno lavorato alla ricostruzione del radicamento della criminalità organizzata tra Ravenna, Rimini, Riccione e San Marino: dal gioco d’azzardo dominato dai calabresi, all’affare del riciclaggio attraverso le strutture alberghiere controllato dalla camorra. Hanno realizzato interviste a giornalisti, avvocati, amministratori pubblici e magistrati, hanno letto gli atti delle inchieste e hanno ricostruito le operazioni della forze dell’ordine. E quando non hanno ricevuto attenzione o risposta da case di produzione e distribuzione a livello locale e nazionale, invece di lasciar perdere, hanno imboccato la strada del crowdfunding sulla piattaforma Produzioni dal basso, raccogliendo in brevissimo tempo i circa 2.000 euro con i quali hanno sostenuto le spese necessarie a realizzare il documentario. “Il nostro obiettivo è abbattere due stereotipi”, hanno spiegato Stefano e Davide, arrivati da Rimini per presentare il loro lavoro, “quello della negazione della presenza delle mafie al Nord” e “quello di una criminalità fatta di colletti bianchi, per cui sarebbe difficile riconoscere i mafiosi perché non utilizzano metodi violenti”. Romagna Nostra è quindi il racconto di fatti, aggressioni, intimidazioni, omicidi e sparatorie, avvenuti negli ultimi 25 anni in riviera.
romagna-nostra-le-mafie-sbarcano-in-riviera-2_673_676Due mezzi, due metodi diversi, che hanno in comune la ricerca, lo studio, la passione, l’onestà intellettuale. Per una maggiore consapevolezza di una realtà che ancora molti non riescono o non vogliono vedere, si possono percorrere entrambe le vie. Entrambi, infatti, la ricerca sociologica di Sciarrone e il documentario dei ragazzi riminesi, arrivano alle stesse conclusioni: “La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.” (Giovanni Falcone)

Ragionare da umani,
ragionare da alberi

Anni fa, durante un corso di specializzazione, rimasi colpita dalle parole di un relatore: “Se vuoi lavorare con gli alberi, ragiona da albero”. Forse si trattava di una battuta, forse era una citazione altrui, di certo chi aveva espresso questo pensiero non era esattamente uno qualunque, infatti si trattava di Gildo Spagnolli, una figura mitica per chi si occupa di giardini e di verde pubblico in Italia. Spagnolli ha praticamente fondato la Giardineria del Comune di Bolzano, da lui diretta con energia e competenza per quarantadue anni, creando un esempio di progettazione e di gestione delle aree verdi urbane, stabile e indipendente dalle logiche elettorali. È sufficiente aprire la pagina del sito della città di Bolzano, scorrere i servizi che fornisce la Giardineria e leggere con quanta chiarezza sono espressi, per renderci conto che stiamo parlando di un altro pianeta. Dal vivaio delle piante, ai giardinieri che le curano, fino ai progettisti e amministratori, la Giardineria fornisce un pacchetto di gestione completa, che delega agli esterni solo alcuni interventi di pulizia. Soprassediamo sul fatto che tutto questo ha determinato una conoscenza della complessità del sistema del verde della città che dovrebbe essere una componente fondamentale di chi lavora in questo settore, vorrei però sottolineare un aspetto della Giardineria che mi piacerebbe fosse obbligatorio ovunque: il vivaio comunale.

È evidente che produrre in proprio il necessario richiesto dai progettisti, garantisce una coerenza totale tra progetto e realizzazione e, soprattutto, la qualità delle piante stesse. Piante sane, ben formate, messe in terra nel momento giusto, sono un’ottima partenza per ridurre i costi di manutenzione nel tempo e permettere di ragionare in termini di piantagioni stabili, evitando il cava-e-metti delle annuali. Nel caso degli alberi, la qualità della pianta dovrebbe essere un obbligo, ma non è così. Gli alberi sono organismi straordinari, la loro forma, caratteristica per ogni specie, è una macchina perfetta che ne garantisce salute e stabilità. Quando un albero crea dei problemi, nella stragrande maggioranza dei casi è colpa degli esseri umani. I casi più frequenti sono quelli della diffusione di malattie che si trasmettono usando attrezzi infetti e non puliti, o ignorando le pratiche di smaltimento del legno malato (come nel caso della epidemia di cancro colorato del platano). Poi ci sono errori di piantagione, specie sbagliata per lo spazio a disposizione, con conseguenti sbancamenti di muretti e pavimentazioni, e errori di potatura. Gli alberi non amano le potature, i tagli su legno vivo sono delle ferite che permettono l’ingresso agli intrusi: funghi, parassiti, malattie varie e che possono compromettere la stabilità perché, interrompendo l’asse di crescita, si formano ramificazioni con angolature che, nel tempo, cedono per il loro peso. Basterebbe questo per pensarci bene prima di pigliare in mano una sega a motore e ridurre una pianta maestosa a uno scheletro di legno, eppure questa convinzione è talmente dura a morire che persino l’animazione di apertura di Google, nel giorno di equinozio d’autunno, ci mostrava degli alberi, che dopo aver perso le foglie, avevano la ramificazione tipica di un albero cimato, o ancora peggio capitozzato.
Intorno a noi è rarissimo vedere un albero con la sua forma caratteristica, perché per decenni ai giovani alberi veniva castrata la punta, si spezzava la “freccia”, il ramo che sale dalle radici e esce dalla terra diretto verso il cielo, per favorire una forma regolare, sferica e innaturale della chioma. Ma non c’è verso, continuiamo a ragionare da umani, “perché si fa così”, ma quello che può avere un senso per un albero da frutto che deve produrre molto e vivere poco, non ne ha per un albero che fiancheggia una strada, che fa ombra in un parcheggio o che ci delizia nei giardini. Per le alberature storiche, ormai, bisogna considerare caso per caso, ma per le nuove piantagioni impariamo a scegliere in base allo spazio disponibile, scegliendo piante ben formate e dritte. Ci sono alberi bellissimi, di tutte le forme e dimensioni e, se non abbiamo lo spazio per un gigante in giardino, impariamo a goderne la bellezza in un parco e a scegliere con criterio i nostri amici vegetali, in modo da evitare di ridurli a patetici moncherini privi di grazia e bellezza. Insomma, bisogna avere buon senso e cominciare a ragionare da alberi, e capire che quando un albero potato vigliaccamente produce uno sproposito di ramificazioni, non lo fa perché si diverte, ma perché ha paura e sta cercando di sopravvivere.

[La foto è di Raffaele Mosca]

IL FATTO
Elogio dell’uovo
oggi è la sua festa

Oggi è la giornata mondiale dell’uovo. Qualcuno potrebbe dire, e allora? Cosa ci importa, con tutti i problemi che abbiamo? A quando il giorno dell’insalata? Ormai c’è un giorno per tutto, ci mancava davvero solo questo. Eppure è già dal 1996 che si celebra questo giorno, quando la Commissione Internazionale di Vienna “Egg Commission” annunciò questo evento per il secondo venerdì di ottobre di ogni anno.
A pensarci bene, indipendentemente dalla convinzione personale sull’eterno dilemma “è nato prima l’uovo o la gallina”, l’uovo è davvero un prodotto naturale alimentare fondamentale, universale, alla base dell’alimentazione quotidiana di ciascuno di noi.
La diffusione dell’uovo nei paesi poveri, secondo la Commissione internazionale e la Fao, potrebbe salvare quegli 842 milioni di persone che in tutto il mondo, specialmente nell’Africa subsahariana, soffrono di fame cronica. Il direttore generale della Commissione ha dichiarato, inoltre, che, rispetto alla carne, la produzione delle uova ha un basso consumo di carbonio ed è più sostenibile ecologicamente. In media una gallina depone all’anno 300/325 uova: circa uno al giorno. Una buona notizia, dunque.
L’uovo è un alimento versatile: ci piace alla coque, sodo, in una bella e farcita omelette, al tegamino, nelle frittate, nelle quiche, nelle crespelle, nelle crepes, nelle mousse, nelle meringhe e nella pasta; i bambini vanno matti per le gialle uova strapazzate, lo zabaglione o le pastine e le torte, profumate di zucchero a velo, che lo contengono.
E’ senza orario, lo possiamo mangiare a qualsiasi ora della giornata, alla mattina a colazione, durante una pausa, a pranzo o a cena. Sodo, fa parte del ricco cestino del picnic che ci accompagna nelle scampagnate primaverili o estive, è quello di Pasqua, colorato, farcito, di cioccolato al latte o fondente. E’ un magico mondo a se’, indipendente, racchiude la vita e la crea. E’ il pulcino che spunta dal guscio, la mamma chioccia che cova, il caldo racchiuso al suo interno, il tepore di una casa.
Ha un costo ridotto, contiene proteine nobili, ha un basso apporto di calorie e grassi, è stupendamente miracoloso dal punto di vista nutrizionale ed economico.
Recentemente assolto dalle accuse di eccessivo apporto di colesterolo, i medici ne consigliano l’uso 3-4 volte a settimana. Perché apporta grandi benefici alla vista (per il suo contenuto di carotenoidi) e alla memoria (per la sua ricchezza in colina che, se assunta in gravidanza è un fattore determinante per sviluppo delle capacità mnemoniche del bambino); perché le proteine dell’uovo sono di altissima qualità, seconde solo a quelle del latte materno, e il tuorlo è uno dei pochi cibi naturali che contengono una buona dose di vitamina D. Questo alimento è importante per cervello e muscoli, ma la lista potrebbe facilmente continuare. I giapponesi ne consumano quasi uno al giorno, gli italiani circa 20 al mese. L’uovo, giudicato «il cibo più buono del mondo» anche da Dante Alighieri, è un alimento davvero unico nel suo genere, perciò oggi, non dimenticate la Giornata Mondiale dell’Uovo. E fatevi una bella frittata.

LA RIFLESSIONE
Fisiognomica e politica

E così passa al Senato il fonologicamente – a seconda degli/delle speakers – detto Jobbs Acht, Jobs Echt e dal premier Renzi Jobs Ek. Naturalmente tra voli di libri, urla, e scalate alla presidenza dove lo sbalordito testimone incontra sconvolgimenti di grigie grisaglie fotografate mentre s’inerpicano sui banchi. E visi deformati dall’ira, gote enfiate (le “enfiate labbia” di dantesca memoria), le barbe sempre più folte (notevole anche quella del sindaco di Roma tenuamente brizzolata), e lo svolazzìo di orribili cravatte.
Ma una notizia lieta viene riportata dai quotidiani: i ‘barbudos’ più famosi d’Italia resteranno nella loro casa e non affronteranno lo stress dell’esibizione delle loro nudità all’Expo milanese. Parlo naturalmente dei Bronzi di Riace.
Alla scompostezza della politica si associa una riflessione.
Per calmarmi dalle desolanti notizie che ci propongono i telegiornali (inequivocabile l’avvio ogni sera, minacciosamente severo, di “mitraglia” Mentana), offre oasi di pace e di bellezza un canale televisivo che propone la musica più fastosamente eseguita da geni solisti e da grandi compagini orchestrali. Osservando quei volti, brutti, belli, giovani e vecchi, si nota una dignità sovrana mai turbata, anzi esaltata, dalle smorfie, dagli atteggiamenti innaturali obbligati dalla necessaria compenetrazione con lo strumento: labbra strette nella compagine degli strumenti a fiato, silenziosi scatarrii tra le trombe, braccia e colli tesi tra gli archi. Tutto si armonizza in una dignità che trova origine e salvezza dalla bellezza e dallo spirito. Se si potesse esprimere in una figura la nobiltà dello spirito, sceglierei quella dell’ottantenne Arthur Rubinstein mentre suona il concerto n.2 di Chopin. Dignità, bellezza, spirito: ciò che dovrebbe essere l’aspirazione dell’umano.
A differenza, e mi dispiace constatarlo, nelle aule parlamentari dove l’umanità più scomposta riduce la fisicità a bisogni primari, quasi tutti appaiono brutti perché scomposti. La fretta – o l’urlo – che dismaga la naturale dignità umana. Sibili, vociate, gesti sconvenienti sono dunque il riflesso di ciò che si pensa debba essere la lotta politica? E a questo punto, l’atteggiamento formale del Presidente della Repubblica appare o dovrebbe apparire modello di comportamento. Sempre più i personaggi della politica si fondono e si confondono con la satira di Crozza e perdono di carisma e di serietà. Ho ripreso in mano uno dei testi più corrosivi della nostra tradizione letteraria contemporanea. Un pamphlet di Carlo Emilio Gadda recitato in Rai, terzo programma il 5 dicembre del 1958 dal titolo “Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo”. Tra i protagonisti, la dama Donna Clorinda Frinelli, il professor Manfredo Bodoni Tacchi e l’avvocato Damaso de’ Linguagi, scoppia una diatriba sull’importanza del Foscolo, della sua poesia e del periodo storico di cui fu protagonista. Alla vacuità della dama e all’importanza seriosa del professore, si oppone il dissacrante avvocato che Insulta Bodoni Tacchi con l’inversione del nome: TaccaBodoni o ancor più il riferimento a un famoso B. (non è una premonizione ma l’indicazione di Bonaparte detto anche il Nano!) fatta da de’ Linguagi, insultato a sua volta col nome di Linguaggia.
Ecco, dunque, che tutto ritorna alla parola, alla capacità della parola di dire tutto e oltre il tutto; ma quando la parola, ridotta a mezzo politico s’isterilisce e si contrae in se stessa, perde di veridicità e non si conforma più alle cose.
Ancora segnali fisiognomici nel quartetto ferrarese scelto per la Regione. Nella foto ufficiale due candidati, una donna e un uomo, si presentano con l’ormai abusato sciarpone annodato al collo, ultimo riferimento ad un vezzo modaiolo adottato dalla politica. Gli altri due si presentano, invece, con una renziana camicia bianca.
Non sarà un segno di un’imitazione – assai facile da decodificare – che non trova, purtroppo, una sua originalità e semplicità di messaggio?

Osteopatia in ambito
neonatale e pediatrico

L’osteopatia in ambito neonatale e pediatrico rappresenta una reale medicina preventiva. In caso di nascita naturale, rappresenta una terapia imperiale ed elettiva che permette al neonato di superare il trauma da parto. Anche in caso di cesareo, l’osteopatia permette il ripristino del meccanismo di respirazione primario, un meccanismo che controlla tutte le fasce del tessuto del neonato e che avviene prima del normale respiro toracico, già intorno alla quarta settimana di vita intrauterina. L’osteopata si prende attenzione del bebè considerandolo come una un’unica unità funzionale di corpo, emozioni, mente e spirito.
In molti Paesi del nord Europa e negli Stati uniti, viene data grande importanza al ruolo dell’osteopata che affianca l’ostetrica in sala parto, assistendo alla dinamica del parto per poi verificare, nell’immediato, se la dilatazione e la contrazione delle ossa del cranio, che sono collegate al sacro attraverso la dura madre (una membrana quasi inestensibile), avviene rispettando i limiti fisiologici.

osteopatia-neonataleDurante il passaggio della testa del feto lungo il canale del parto, si determina un modellamento delle ossa craniche ed uno stimolo meccanico essenziale per uno sviluppo regolare di tutto il corpo. Se questo viene a mancare, come in caso di parto cesareo, l’intervento dell’osteopata può rendersi necessario per favorire una crescita più corretta possibile. La pressione subita dal cranio al momento della nascita può rappresentare un fattore determinante per l’ossificazione delle ossa craniche. Inoltre, la pressione e la compressione che il cranio riceve, nel passaggio dal canale pelvico, può creare irritazioni dei nervi cranici del neonato. In età fetale il bambino possiede una grande malleabilità delle ossa del cranio e, a causa dell’espulsione e delle enormi pressioni cui è sottoposta la testa durante la nascita, questi può subire una deformazione del cranio stesso. Si spiega infatti come, per via di un difficile travaglio, molti neonati abbiano una forma strana del cranio (ad esempio un cranio allungato, naso più schiacciato, occhio più chiuso…). Spesso le deformazioni del cranio durante l’espulsione si riassestano completamente col tempo. Talvolta, però, se la nascita è stata difficoltosa, questo processo non si verifica in maniera completa, con conseguenti alterazioni di mobilità di alcune ossa craniche, non ancora saldate, e la possibilità quindi di sviluppare disfunzioni a carico del sistema visivo e occlusale. I tessuti conservano spesso le asimmetrie delle pressioni e degli stiramenti subiti. Ogni regione del corpo può essere lesa e a causa dell’interdipendenza, ogni disequilibrio si ripercuote a distanza.

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Nel parto cesareo, a causa del gioco di pressioni, si possono riscontrare problemi. Vi è una notevole pressione all’interno della pancia ed una pressoché nulla nell’ambiente esterno. Il feto, durante il passaggio diretto dall’ambiente fetale al mondo esterno, è sottoposto ad una forza come di trazione del cranio in senso trasversale ed una successiva difficoltà di adattamento alle nuove pressioni. In entrambi i tipi di parto, se l’adattamento fisiologico del cranio non avviene, l’osteopata può intervenire per riequilibrarlo e per permettere una migliore fisiologia, eliminando le disfunzioni ed evitando che queste si possano manifestare in futuro. A seconda della disfunzione cranica presente, nel bambino possono infatti manifestarsi successivamente problematiche specifiche. Difficoltà respiratorie, suzione, irrequietezze, allergie, asma, faringiti, riniti, sinusiti, otiti, adenoidi, possono essere legate ad un’alterazione del movimento delle ossa del cranio o di una scorretta mobilità del diaframma toracico.

Sintomi legati a problemi di disfunzione cranica al momento della nascita:
• la presenza di disturbi del sonno, suzione difficoltosa, rigurgiti, difficoltà a deglutire, agitazione e irritabilità, coliche possono essere legate ad una tensione o compressione delle suture o dei tessuti membranosi intracranici che tendono a creare un’irritazione di strutture nervose alla base del cranio;
• le alterazioni a carico della colonna e del sacro possono dare luogo a manifestazioni posturali che si evidenzieranno durante la crescita come scoliosi, dismetrie e dimorfismi degli arti inferiori (ginocchia vare, valghe, alterazioni dell’arco plantare);
• la presenza di emicranie, cefalee, strabismo, cattive occlusioni possono essere legate a lesioni o tensioni delle membrane intracraniche o cranio-sacrali .

Desidero far comprendere che gli studi sul cranio e sul suo movimento sono ormai una realtà e che, nel mondo culturalmente avanzato, gli osteopati qualificati intervengono già due ore dopo la nascita, in collaborazione con i medici specialisti.
E’ importante dare ai futuri genitori questo tipo di informazioni, i pediatri dovrebbero documentarsi di più e divulgare l’importanza della scienza osteopatica in ambito craniale.

“I tessuti posseggono una loro memoria” (J. Barral) e tutto rimane impresso.
Per questo è importante l’osteopatia nei bambini, perché evita che le disfunzioni si strutturino.

LA PROPOSTA
Un disegno unitario per rivitalizzare piazza Castello e piazza Repubblica

Proviamo a immaginare Repubblica e Castello come un’unica piazza. Un enorme contenitore urbano di oltre cinquemila metri quadri (centotrenta di lunghezza con un’ampiezza media di quaranta) tutto da reinventare. Oggi piazza Castello è ridotta a disordinato e poco dignitoso parcheggio semiabusivo in cui autorizzati, ‘parautorizzati’ e affini – specie la mattina – sostano senza pietà e senza adeguato controllo o disciplina accanto al monumento più rappresentativo della città.
Piazza Repubblica in compenso non si sa nemmeno cosa sia: retrobottega di ‘soft drugs’, ripostiglio di negozi che tengono vetrina in via Garibaldi, area di sgambamento barboncini, munita solo di un triste lavacro (una fontana peraltro senz’acqua) cinta da alberi maleodoranti (le loro bacche in certi periodi dell’anno sono davvero fetenti, fateci caso: quell’odorino che sentite non sono escrementi di cani, sono gli alberi!).

Le due piazze contigue andrebbero certamente liberate dai veicoli, ripensate nell’arredo e nell’utilizzo e potrebbero forse essere ricongiunte in un unico disegno urbanistico, chiudendo il varco d’accesso fra la chiesetta di san Giuliano e il muretto del castello, creando così un rettangolo sghembo, una sola grande piazza con elementi interni di richiamo che diano unitarietà all’area.

Lo spazio così ridefinito potrebbe più agevolmente sviluppare con sistematicità quella vocazione che già negli anni ha sedimentato: quella di essere teatro di eventi, spettacoli, concerti. Potrebbe continuare a dare ospitalità ai mercatini d’arte, antiquariati e modernariato. E potrebbe persino rappresentare una soluzione per la spinosa questione del mercato del venerdì, offrendo un accettabile punto di compromesso fra chi considera accettabile che i banchetti dei venditori ambulanti stazionino in pieno centro e coloro invece che vorrebbero allontanarli dalla zona monumentale. Se proprio non si vuole evitare di esibire maglie e mutande in piazza, per una volta alla settimana allestire il mercato in questo grande e un po’ defilato contenitore sarebbe forse un male sopportabile anche per chi, come noi, lo considera – letteralmente – fuori luogo.
La grande piazza Repubblica-Castello e l’ampia strada di accesso dal fronte di viale Cavour potrebbero infatti ospitare, se non proprio tutti, almeno gran parte dei venditori, creando magari due aree mercatali distinte: una fra piazza Travaglio e corso Porta Reno. L’altra, appunto, fra piazza Castello e piazza Repubblica.

In ogni caso le auto dovrebbero essere bandite da tutta l’area. Normalmente ne stazionano una quarantina, con particolare accanimento nella prima parte della giornata. Non è accettabile che per il comodo di qualche decina di persone si comprometta il decoro di una piazza così rappresentativa, il cui godimento deve essere sempre garantito a tutti i cittadini e ai turisti, che nel centro storico di una città patrimonio Unesco si attendono di poter ammirare i monumenti e non di dover sopportare un parassitario traffico automobilistico.

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Piazza Castello e sullo sfondo piazza Repubblica

IL RICORDO
La sua Africa.
Vita di Giorgio Giaccaglia
il dottore buono di Tharaka

Questo libro “è la testimonianza che nella vita esistono dei valori”, scrive Gian Pietro Testa nella postfazione, e che ogni tanto “il mondo ha una buona stella che gli permette di andare avanti”.
Mercoledì 15 ottobre alle 18, al Ristorante Guido e Galleria d’Arte Marchesi di via Vignatagliata 46, Gian Pietro Testa, noto scrittore e giornalista ferrarese, presenta il libro di Giorgio Giaccaglia, “Storie africane di un chirurgo atipico”.

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Giorgio Giaccaglia

Anestesista e chirurgo, dopo aver lavorato diversi anni al Sant’Orsola di Bologna, dal 1982, per vent’anni, Giaccaglia è stato primario anestesista agli ospedali del Delta di Lagosanto e San Camillo di Comacchio, e l’ideatore del progetto di Gestione delle Emergenze per la Regione Emilia-Romagna. Negli gli ultimi 13 anni della sua vita si è dedicato all’assistenza delle popolazioni africane, fondando due ospedali missionari, uno in Kenya, a Tharaka, e uno in Tanzania.

Il libro è un racconto-diario delle sue esperienze di medico in Eritrea, Kenya e Tanzania, scritto quando la sua salute stava già declinando a causa di una grave malattia, tra il 2009 e il 2011. Testa e Giaccaglia erano legati da un ultratrentennale rapporto, fatto di amicizia e condivisione, nato ai tempi della spedizione umanitaria in Eritrea a sostegno della popolazione, durante la guerra contro l’Etiopia: era il 1979 e nel mondo dominava la Guerra fredda, il giornalista inviato dall’Unità descriveva gli eventi nei suoi reportage giornalistici, mentre il medico ne affrontava le emergenze sanitarie.

“Era un’avventura straordinaria: in breve tempo riuscimmo a operare in territorio di guerra. Mai nessuna équipe italiana, dopo la Seconda guerra mondiale, era andata in una zona bellica per portare soccorso medico chirurgico.”

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Eritrea 1979. I primi da destra, Gian Pietro Testa e Giorgio Giaccaglia

Testa andò una seconda volta in Africa con l’amico medico, quando quest’ultimo decise di costruire un ospedale a Tharaka, con loro portarono un mattone della Cattedrale di Ferrara, dono della Curia, e che sarebbe stata la prima pietra dell’ospedale.
Poi, “era l’inverno del 2009”, ricorda Gian Pietro Testa con grande commozione, “dovevamo andare a sciare a St. Moritz, lui mi chiama e mi dice: “Questa volta non posso venire amico mio, ho un tumore al pancreas.” E da quel momento si dedicò a scrivere, con le forze che gli rimanevano, le sue storie africane.”

Nel racconto il medico ripercorre i momenti difficili e tragici ma anche le soddisfazioni, ricorda i nomi, i volti e le ferite dei suoi pazienti, le figure che gli indicarono la strada del suo percorso umano e cristiano, e tutti i colleghi che condivisero la realizzazione del suo sogno: portare soccorso alle popolazioni “più povere e più diseredate della terra” e costruire ospedali in zone dimenticate dal mondo. Racconta anche di tutti coloro che, associazioni, amici, enti, istituzioni, aiutarono l’iniziativa giaccagliana. Tante le foto a documentare il lavoro di quegli anni. Esperienze straordinarie di un uomo di grandi capacità professionali e di immensa generosità, che nel suo “fare” per chi ha più bisogno ha dato senso a tutto il proprio esistere.

Giorgio Giaccaglia, “Storie africane di un chirurgo atipico. Mpira… Wapi?”, Ed. Pendragon, Bologna, 2014, pp. 155

Io sono Li, storia
d’immigrazione e d’amicizia

Una storia d’immigrazione difficile, dura e complessa ma anche una bellissima storia d’amicizia, fatta di tenerezza, di attenzioni e di grande umanità.

Shun Li (Zhao Tao) passa le sue giornate fra un duro lavoro, senza orari, né pause né diritti, e un’anonima (e triste-grigia) casa, prima in un laboratorio tessile della più sperduta e tentacolare periferia romana, poi nella piccola, nebbiosa e umida Chioggia. Lavora per rimborsare il suo debito, fatto dei soldi necessari a ottenere un permesso di soggiorno per l’Italia e dei documenti per farvi arrivare il figlioletto di otto anni. Per “aspettare la notizia” dell’estinzione del debito e dell’arrivo del piccolo.

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Locandina del film

L’Italia è sullo sfondo, questa terra di sogni, speranze e desideri, dove una laguna, come quella veneta, accoglie ma anche intrappola, come l’acqua che non arriva tutta al mare. Chioggia sarà l’acqua ma anche la sua osteria, un posto caldo e accogliente, dove Li trova lavoro, ma anche comprensione, in tanta solitudine, e amicizia. Quell’amicizia che sfida ogni barriera, quella di Bepi (Rade Sherbedgia), “il poeta” pescatore di origini slave, immigrato in Italia ai tempi di Tito, trent’anni prima. Una fuga poetica, un dialogo silenzioso, sommesso e intenso fra culture.

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Li e “il poeta”, una scena del film

Ma l’amicizia tra i due turba le due comunità, quella cinese e quella chioggiotta, che ostacolano questo nuovo e avvincente viaggio, di cui forse hanno semplicemente ancora troppa paura. I pregiudizi restano duri a scalfiggere e a morire.
Ci sono lirica, poesia, sorrisi, leggerezza, delicatezza, incontri fra solitudini che si sfiorano, frasi non dette, situazioni insolite e insolute, in questo film. Quasi una favola.
Il paesaggio è spesso opaco ma un bel giorno è illuminato dalle lanterne, a forma di fiore in carta velina rossa, usate nella festa del grande poeta cinese Qu Yuan (340-278 a.C.) luci tremolanti che scorrono sulla laguna. Le poesie si parlano, qui. Sommessamente.
L’integrazione si dimostra difficile. Le due comunità non hanno una vera possibilità di comunicazione e il pubblico ha bisogno dei sottotitoli per comprendere la lingua di entrambe (cinese e dialetto di Chioggia). Shun Li un giorno deve andare.

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Una scena del film

Se le speranze sembravano perse, un felice colpo di scena salva Li, che si sentiva già condannata a lavorare per sempre per ripagare il suo debito: un giorno, inaspettatamente, arriva il figlio. Qualcuno ha pagato per lei e non si tratta certo di un italiano, al quale non è concesso farlo (anche se tutti abbiamo pensato all’amico Bepi).
Bepi si trasferirà dal figlio a Mestre e morirà presto, malinconico, ma è anziano. Per questo non ci sono lacrime, solo il rimpianto di non aver potuto rivedere per l’ultima volta Shun Li, che in suo onore innalzerà una pira di fuoco bruciando il suo “casone” (la palafitta utilizzata come rimessa e riparo dai pescatori), che lo stesso Bepi le ha lasciato.
Tutto, qui, è unito dall’amore per la poesia, la vita e le piccole cose.
Film toccante e sincero, una favola tenera, dolce-amara che non lascia certo indifferenti.

Io sono Li, di Andrea Segre, con Zhao Tao, Rade Sherbedgia, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston, Giordano Bacci, Spartaco Mainardi, Zhong Cheng, Wang Yuan, Amleto Voltolina, Andrea Pennacchi, Guo Qiang Xu, Sara Perini, Federico Hu, Hi Zhijian, Ni Jamin, Francia-Italia 2011, 100 mn.

LA STORIA
L’agronomo che studia l’inquinamento e sogna
di coltivare la terra

Andrea Mantovani, 27 anni, una laurea in agronomia in tasca e un sogno nel cassetto, aprire un’azienda agricola a Comacchio, la sua terra d’origine. Ma le possibilità di farlo, per sua stessa ammissione, sono ridotte a un lumicino: troppi costi e sostegno quasi inesistente ai progetti dei giovani. E il dottorato di ricerca oscilla tra l’improbabile e l’improponibile. “Non solo è difficile ottenerlo, ma non si concilia neppure con le esigenze e la possibilità di costruirsi un lavoro. Alla fine del dottorato, sei troppo vecchio per il mercato – spiega – Siamo in Italia, la ricerca non ha la giusta considerazione, del resto lo si vede dall’arretratezza della nostra agricoltura, povera di innovazione al contrario di quanto succede in altri paesi, come ad esempio la Francia. Non è un problema legato alla tecnica, bensì alla nostra politica agricola”.

Niente di nuovo sotto il sole, i giovani come Andrea non possono evitare di accarezzare l’idea di trasformarsi in migranti laureati. Al momento pare la sola alternativa al vuoto proposto dal nostro Paese, dove l’Istat ha rilevato tra i giovani fino ai 25 anni un tasso di disoccupazione pari al 44,2 per cento. E’ una realtà inconfutabile, tuttavia la passione e l’amore per un mestiere specializzato non si sfalda di fronte alle difficoltà. E per Andrea non è stato diverso. Parte della sua scelta di studi è maturata in Legambiente Circolo Delta Po, frequentato fin dalle scuole elementari nella consapevolezza dell’importanza di frenare l’inquinamento. “Sarà per questo che la tesi finale del quinquennio riguarda la qualità delle piogge e i cambiamenti climatici prodotti dall’uomo”, racconta.

Quattrocento campioni raccolti nell’azienda agricola sperimentale dell’Università di Bologna Alma Mater, analizzati nell’arco di un anno grazie alla collaborazione con il laboratorio di Chimica dell’Università di Bologna, hanno scattato una fotografia di quanto succede nelle campagne vicino alla città, dove agricoltura e industria convivono fianco a fianco. “L’azienda si trova a ridosso di Bologna, in zona Castenaso e dintorni dove insistono alcune piccole realtà industriali, l’autostrada e un termovalorizzatore che brucia rifiuti – spiega – La tenuta è praticamente assediata e risulta ricca di nitrati e solfati. Lo si è stabilito dopo differenti approfondimenti, perché la lavorazione agricola rendeva i campioni raccolti quasi neutri, sembrava non ci fosse nulla di particolarmente anomalo, invece è stato rilevato un inquinamento superiore a quanto ci si aspettava”.

Relativi a polveri sottili, nebbie, piogge e depositi nel terreno, i dati sono stati comparati con quelli del centro cittadino, assai più sano dal punto di vista della qualità dell’aria. “I provvedimenti presi, che vanno dalla revisione degli impianti di riscaldamento alla limitazione del traffico, sembrano aver dato risultati positivi – continua – E’ invece evidente quanto ci sia da fare sul fronte industriale, il sistema è troppo vecchio per rispondere alle eco esigenze attuali. Le imprese dovrebbero essere messe in condizioni di sposare innovazioni tali da limitare i danni all’ambiente e alla salute delle persone”. I danni alla vegetazione, frutta e verdura inclusi, sono in parte la conseguenza di un immobilismo che danneggia indirettamente l’uomo quando mangia e respira il peggio del progresso. Eppure si sa. La diagnosi di malattia figlia delle piogge acide è conclamata, del tutto nebulosa la cura, un interrogativo stampato sullo sfondo di mille ritardi, primo tra i quali il rispetto del Protocollo di Kyoto sul quale, per dirla con Andrea, siamo molto indietro.
Il rimedio dovrebbe arrivare da politiche illuminate, ma il buio è dappertutto, siamo ancora all’anno zero stretti tra silenzio politico, arretratezza e interessi di categoria.

Data la situazione è normale chiedersi: cosa succede ai dati raccolti dagli universitari? Li si tiene in considerazione o sono solo una pratica fine a se stessa? “A livello accademico hanno un loro peso specifico – prosegue – Ma non è chiaro se vengano utilizzati da Arpa (Arpa è l´Agenzia regionale per la prevenzione e l´ambiente dell´Emilia-Romagna, ndr), sarebbe una cosa auspicabile, tanto più che comporterebbero un esborso di denaro inferiore rispetto alle analisi”. Nel Paese dei “doppioni” – dove Andrea troverebbe utile estendere lo studio alle città emiliano romagnole per mettere a punto soluzioni ambientali – tutto è possibile. Del resto ricerca e innovazione sono la cenerentola italiana: perché mai affannarsi nel tentativo di prendersi e dare futuro? Molto meglio adagiarsi su una comoda poltrona. E’ questione di essere fedeli alla tradizione.

LA PROPOSTA
Sculture, arredi floreali e caffetteria per il Giardino delle duchesse

Basterebbe davvero poco. Poco per rendere il Giardino delle duchesse uno spazio piacevole e accogliente. Così è desolante. Ed è un peccato perché questo salotto verde in pieno centro storico è una chicca che ha pochi eguali nelle altre città d’arte. Ferrara lo ha riscoperto solo nel 2007, dopo secoli di abbandono, in occasione delle celebrazione per la Ferrara rinascimentale volute dalla giunta Sateriale. Ma per recuperare quello scrigno i Verdi si battevano già da vent’anni.
Le sporadiche aperture iniziali sono divenute via via sempre più frequenti nel corso di tutto l’anno per impulso dell’attuale Amministrazione. Vengono ospitate presentazioni di libri, incontri, spettacoli musicali, eventi ludici, commedie, iniziative enogastronomiche, la pista di pattinaggio sul ghiaccio, intrattenimento per bambini.

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Il Giardino delle duchesse visto dal cielo

Ma per quanto riguarda il decoro, poco si è fatto. Al di là di uno spelacchiato prato e di una gettata di ghiaia non si è andati. E pensare che in questo caso non servirebbe nemmeno un particolare investimento per rendere dignitoso e gradevole il luogo. Basterebbe qualche arredo floreale, magari neppure a carico del Comune, facendo appello (come avviene in tante altre realtà e talvolta anche Ferrara) a professionisti del settore: chiedendo ai vivaisti, per esempio, di allestire alcune aiuole, che conferirebbero vivacità all’ambiente e avrebbero per loro carattere promozionale. Magari esponendo anche sculture, opera d’arte, introducendo qualche elemento di arredo che rendesse il luogo meno triste e spoglio di quanto ora non sia.

Le cronache antiche citano splendide aiuole di bosso dai fantasiosi sviluppi, dovute all’abilità dei celeberrimi giardinieri estensi. Si menzionano alberi da frutto, piante medicinali e ornamentali ad abbellire un magnifico prato, dove le duchesse (da Eleonora d’Aragona a Margherita Gonzaga) trovavano quiete e refrigerio nelle calde giornate d’estate.
Il Giardino delle duchesse fu realizzato tra il 1473 ed il 1481 nell’ambito delle trasformazioni del palazzo ducale volute da Ercole I d’Este. Era dotato di una mitizzata fontana dorata e viene descritto come luogo paradisiaco circondato da bellissimi loggiati.

Quello spazio verde, un tempo riservato al ristoro del duca e della corte, è ora un patrimonio pubblico che merita di poter essere goduto appieno, in tutta la sua bellezza.

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Edificio attualmente adibito a magazzino

Sette anni fa, duranti i lavori di recupero dell’area che si presentava come incolta sterpaglia, venne estirpato qualche albero e incomprensibilmente demolita una graziosa minuscola cappelletta ottocentesca. E’ rimasto però un vecchio edificio in mattoni, attualmente utilizzato come ricovero di attrezzi e magazzino comunale. Potrebbe essere trasformato in un locale pubblico di ospitalità, con caffetteria e magari un piccolo bookshop o uno spazio multimediale, analogamente a quanto si è fatto con gradevole effetto nel giardino un tempo trascurato di palazzo Schifanoia, ora rifiorito come luogo di sosta e intrattenimento.