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L’INTERVISTA
L’incomodo Balzani:
“L’Emilia deve tornare
a pensare in grande”

Balzani, come possiamo definire la sua candidatura a presidente della Regione? Solo coraggiosa, di testimonianza o si pone obiettivi più ambiziosi?
Non credo assolutamente che sia di testimonianza, le primarie sono imprevedibili, l’ho sperimentato a Forlì, la mia città, nel 2008. Corro per vincere, oggi come allora, e ho già dichiarato che non sono interessato né a un posto da assessore regionale né da consigliere. Ho invece un progetto politico: quello di ristabilire un contatto tra uno spazio civile ed economico, molto cambiato negli ultimi anni, e la politica. Superando l’autoreferenzialità e la gestione del potere fine a se stessa che ha contraddistinto in questi anni la nostra Regione. Vorrei che si tornasse ad una Regione come ad un ente di progettazione e di programmazione, come fu alle origini l’Emilia-Romagna di Guido Fanti. Un’era grandiosa.

Per tanti anni l’Emilia-Romagna è stata addirittura un modello europeo. Il famoso riformismo emiliano fondato sui servizi sociali, su di un welfare ammirato e copiato ovunque, sulla progettazione urbanistica, sulla programmazione territoriale, eccetera. Da un po’ di tempo non si pensa e non si progetta più in grande e la nostra regione oggi arranca in molti settori. E’ cosi?
Sì. Ed è il vero motivo per cui mi candido. Occorre recuperare la grande dimensione culturale che aveva questo riformismo. E’ la caratura culturale di una classe dirigente che mette insieme diversità o interessi apparentemente contrastanti, evitando una negoziazione che quasi sempre avviene al ribasso. Sono i progetti, le ampie visioni che possono consentire il rilancio ed autentiche unità. Occorre ricreare un nuovo modello per la nostra regione.

Cosa la divide da Bonaccini, dato quasi unanimente per vincente?

Ci sono differenze che derivano dalle esperienze di vita, assai diverse. Io non sono un politico di professione. Credo che la politica non debba divenire mai una professione, anche quando viene esercitata per molti anni. Penso ad essa come ad un ruolo di servizio reso ai cittadini. Il mio obiettivo è di essere l’interlocutore non di un ceto politico ma di una vasta opinione pubblica, da un lato, e di un mondo di attori economico sociali, dall’altro.

La grandezza dell’Emilia Romagna si è sempre sostenuta sulla piccola e media impresa, ricca di tante eccellenze e di un mondo del lavoro responsabile e qualificato, e ha beneficiato dell’iniziativa di un ceto politico intelligente e credibile per capacità e respiro culturale. Condivide?
Sono d’accordo. Non esiste una buona politica e quindi una buona classe dirigente priva di cultura. Per il resto, nella mia esperienza da sindaco sono sempre stato vicino alle imprese e al mondo del lavoro. L’impresa vera, quella che esporta, che produce reddito, che fa ricerca e che conquista mercati, ha sempre potuto contare sulla mia collaborazione. Purtroppo, lo debbo dire, talvolta il mondo economico ha prodotto poi istituzioni che sono diventate parapolitiche anch’ esse e sono talvolta state di ostacolo ad un dialogo ed un confronto più ampio ed aperto.

Oggi però i temi all’ordine del giorno sono la riforma del lavoro e quella sulla giustizia. Temi caldissimi. Sul lavoro si rischia un’ulteriore precarizzazione specie per i giovani, la ventilata riforma della giustizia non convince. Lotta alla corruzione, rafforzamento della legalità, non sono affrontati con la dovuta fermezza. Lei peraltro si candida in un momento in cui anche l’Emilia è coinvolta in vicende non esemplari. Che ne pensa del ‘riformatore’ Renzi? E che ne pensa delle ventilate riforme di Renzi?
Sulle riforme istituzionali, la complessità delle società moderne e i grandi cambiamenti (si pensi al crollo dei partiti di massa, per esempio), pongono problemi non più rinviabili. La nostra pur bella Costituzione va aggiornata avviando una modernizzazione consona ai tempi. Trovo efficace la comunicazione politica di Renzi su alcuni temi, apprezzo la sua voglia di fare. Sulla giustizia, la riforma di Orlando sta su di un crinale particolare. Guarda anche ad una parte del Parlamento che non è certo quella del centrosinistra storico. Personalmente, credo che nel nostro Paese il ruolo della magistratura sia importante e vada tutelato. Sul lavoro, il confronto rischia di essere distorto dalla politicizzazione in atto sull’articolo 18. La vera posta in gioco sta nell’evitare la precarizzazione, soprattutto per i giovani. Ravviso la necessità di entrare più e meglio nel merito, perché il lavoro oggi non è più garantito per nessuno. Lavoro e diritti non possono essere scissi.

L’ultima domanda è quanto mai di attualità. Se lei fosse raggiunto da un avviso di garanzia, che farebbe?
A suo tempo, da sindaco, fui indagato per una strana cosa: peculato immateriale. Avevo partecipato ad una trasmissione televisiva. Se fossi stato rinviato a giudizio mi sarei dimesso immediatamente. Resto di quell’idea.

IL REPORTAGE
Passaggio a nord-est: Grecia, terra di frontiera al confine d’Europa

di Valentina Cioni

Entrare nelle acque verde smeraldo di Batis, appoggiando di tanto in tanto i piedi sulle pietre grandi e lisce che ricoprono il fondale. Alzare il capo e vedere come il sole taglia il profilo delle montagne verdi di Thassos, enorme macigno, che sembra galleggiare sul mare. Vedi perfino i profili dei pini sulle colline, ti illudi di non essere né vivo, né morto, ma di rimanere sospeso così, nell’eternità che è la Grecia.

È un momento idilliaco, che si interrompe mentre mi volto verso riva: ecco Batis Beach. Moderno stabilimento balneare, pieno di famiglie all’inverosimile in questa cacofonica domenica di fine estate. C’è chi cena al ristorante piantato sulle rocce, chi rimane sotto all’ombrellone a discutere con amici e parenti; chi saltella al piano bar con il disk jokey che propone pezzi di Battisti cantati da Lavredis Maheristas. “La canzone del sole” che più o meno doveva essere intitolata “Sinnefiorame ne mou oura”, mi ha fatto passare cinque minuti di risate e nostalgia.
Quando mi è stato chiesto il perché del mio attacco convulso di risate, ho cercato di spiegare che Battisti, artista italiano, era il famoso cantante della melodia.
E niente, mi faceva strano sentirla qui, a Kavala. A duecento chilometri dalla Turchia. In quel momento il dj ha iniziato a battere le mani, cantando “Un’avventura” (in idioma greco, s’intende). Ho capito che era il momento di abbandonare la compagnia e rientrare in città col bus.

Dopotutto, erano già le sette e non volevo rischiare di perdere l’ultimo mezzo che mi avrebbe portato indietro. La fermata è nel parcheggio dello stabilimento, al di sotto di una curva a gomito che gli autisti affrontano con estrema destrezza. L’autobus arriva in orario – nonostante nessun orario sia affisso – e, salendo, timbro il biglietto davanti all’autista, passando per i tornelli. Mi affretto a prendere il posto più simpatico, quello dietro al cestino per l’immondizia e al secchio per le pulizie. È, a mio parere, il posto più simpatico, dato che mi aspetto sempre che questi attrezzi possano cadere – ahimè, mai successo – e perché è sempre bello vedere la civiltà delle persone che buttano i biglietti usati e le cicche alla vaniglia, centrando il cesto con l’autobus in pieno movimento.

È bello prendere il bus anche di sabato, qui, a Kavala. Dal quartiere di Vyronas, attraverso una via silenziosa circondata dalle case degli operai turchi e mi fermo al palo della luce: la fermata del bus. Di solito, ci sono già due o tre vecchiette, che, vedendo il mio zaino da trekking sulla schiena, mi fermano, chiedono se sono una turista, per poi sbattere i bastoni da passeggio (o scuotere i carrellini a due ruote per la spesa) urlando: “Qui è il Congo! I nostri figli lavorano all’estero, in Germania! I Greci sono retrogradi, ma anche l’Italia non se la passa mica bene, eh!”.

Poi salgono sul bus, mentre io non ho neanche dato quattro tiri alla sigaretta, che mi vedo costretta a buttarla. Alzo gli occhi, e vedo l’anziana signora che abita nella casa di fronte che scuote la testa tra le sue rose: spesso, la mattina, mi dice che l’autobus sta scendendo dalla montagna. Io non so mai se crederle o meno: non ci sono orari alle fermate. Di solito scelgo di non crederle così accendo la sigaretta, l’autobus scende, e io sono costretta a buttarla. E lei a credermi fessa.

Ripeto: è sabato. Non è un giorno come un altro. È giorno di mercato. Le donne, giovani e anziane, affollano il bus sempre più, urlando a squarciagola: “Moussakà!”, “Fao!”, “Tellio!”.
Di solito sono le parole che sento più spesso. Ruotano tutte attorno al cibo. I piatti sono intrisi di olio, sciroppi zuccherini, aceto. Si mangia alle due del pomeriggio, se si vuole fare presto. Si mangia alle tre per normalità. Si rimane a tavola un’ora, due. Vietato alzarsi. Vietato rifiutare qualunque piatto ti venga propinato. Pena la rabbia silenziosa, degli occhi verde acquamarina delle massaie greche.

Il mercato, ricorda a detta di molti i bazaar in Turchia. A me non li ricorda molto. Sembra solo una versione più povera e priva di giacche borchiate della “montagnola” di Bologna. I banchetti delle giacche sono sostituiti da infinite casse di pesche, bamies (delle specie di zucchine), biscotti, bastoncini di sesamo e chi più ne ha più ne metta. Il tutto, a prezzi stracciati.

Il greco, oggigiorno, ha due scelte per fare la spesa low budget: Lidl o mercato. Mentre dribblo gli tsigani (i rom) e le trecce d’aglio che spuntano un po’ ovunque, penso al fatto che tra questi banchi, non servono alcolici. Gli alcolici sono nei supermercati come il Carrefour ed hanno prezzi, per noi italiani, esorbitanti.
La tassazione sugli alcolici, che ne ha fatto lievitare i prezzi, ha reso di lusso avere il piano bar a casa. Come anche l’angolo doccia. Come anche gli alimenti serviti a tavola.
In ogni angolo della città, sorgono mini market di frutta e verdura. A prezzi più o meno concorrenziali. Il resto, è non proprio off-limits, ma abbastanza ai limiti del prezzo abbordabile.

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Anziani al bar che giocano al ‘tavli’

Esco dal mercato, carica di dolci che non avrò il fegato di mangiare e vado al porto. Il porto è un lungomare pedonabile dove sorgono bar coi tavoli all’aperto dai nomi vagamente familiari: “Vento Lounge Bar”, “Venezia”, “Da Giorgio”. Vado da Giorgio: il caffè greco al tavolo, da lui, costa “solo” due euro. Sono circondata da anziani, come sempre. Mi guardano tutti, come sempre. Giocano a tavli, da bravi.
Io li imito, rimango un’ora ferma al bar, a sorbire caffè e fumare sigarette. I miei polmoni, però implorano pietà: il tabacco greco, dagli aromi che hanno risvegliato la mia più cupa dipendenza, interrompe questa sessione di araliki greco.

Sulle colline attorno a Drahma, vicino al teatro di Filippi, si coltivava tabacco: la grande ricchezza della regione fino agli anni sessanta. Durante il boom edilizio, vennero abbandonate le fabbriche che sorgevano in città. Nascevano farmacie e studi di dottori. Le piccole case neoclassiche venivano abbattute per costruire condomini in cemento armato. Un boom durato una decina di anni, fino a quando gli ingegneri non trovarono più le famiglie disposte a vendere un pezzo di terra in cambio di appartamenti lussuosi. Passando per il centro città, rimangono i cadaveri di questi edifici, chiusi con delle assi di legno marcite oppure convertiti in centri per lo shopping.

Le case indipendenti e gli appartamenti greci, sono costruiti con materiali spesso, preziosi; la moglie di un diplomatico britannico, ha la casa nella zona residenziale, la più bella della regione. Qui, tutte le case sono foderate in marmo di Carrara, in colonne doriche, in minimalismo chic. Così chic, che quelle case furono costruite poiché in una zona all’epoca di scarso valore. L’investimento ha portato i suoi frutti negli anni Novanta: erano diventate le case dei ricchi, poiché vicine ad una spiaggia incontaminata, che ne aveva fatto schizzare il valore alle stelle. Ora nessuno le può più mantenere. Sono vendute ai russi, ai tedeschi. Con scarsa sopportazione, e un filo di odio. La moglie del diplomatico ha una borsa di Michael Kors. E’ un lusso, per molti qui. Nessuna donna gira in Louis Vuitton, nessuna Audi ultimo modello sfreccia per le strade.

C’è un contenimento spasmodico su tutto. Una donna, al cui marito, guardia di finanza, sono stati decurtati cinquecento euro di stipendio al mese, continua a ripetermi che: “Noi vogliamo essere come voi europei, abbiamo il complesso dell’Europa. Per noi è bella e di lusso la camicia di Zara, ostentiamo le possibilità che ci dà la vita, perché, cos’altro abbiamo?”.
Non è la prima persona che mi parla di “complesso dell’Europa”. In ogni istituto, sono appesi i corsi e le graduatorie dell’attestato “Proficency” di Inglese. La corsa all’imparare le lingue, segna la carriera di ogni cittadino. Un ragazzo delle superiori di Atene, parlerebbe meglio l’inglese di un universitario italiano.

A parte gli anziani, tutti parlano l’inglese fluentemente. Molti, visitano Roma. Tanti, detestano Atene. Ne criticano la sporcizia, la corruzione, l’immigrazione.
Ma guai, per le critiche dello straniero: scattano tutti in piedi, gli occhi lampeggiano. Solo il greco, può detestare e criticare il proprio Paese. Solo lui lo può mettere a processo, decretarne le crudeltà e condannarlo. Come il ferrarese con la sua città.

Mi alzo dal tavolo quando arriva lo scontrino. Viene portato sempre al tavolo. La legge vuole che gli esercizi commerciali emettano sempre le ricevute. Se il cliente non riceve “il conto”, può non pagare ed andarsene.
Gli anziani lanciano le pedine al tavli e mi fissano senza imbarazzo: tanto loro, si schioderanno di lì solo per pranzo.

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la taverna ‘Araliki’

Araliki è un termine rude usato per indicare il rilassarsi. C’è anche un locale, nella città vecchia, che si chiama così. È una taverna, sulla cui tettoia vi è, evidentemente, un posto riservato a pochi eletti.
Sono proprio qua davanti a riprendere fiato. Nascosta sotto l’ombra del portone dell’Imaret. Qui, nella città vecchia, dove tutto torna ad essere una salita, lo spettacolo è irreale. E’ mezzogiorno, ci sono 33° e il silenzio regna sovrano. Non viene interrotto neppure dai tedeschi in vacanza. Anche loro passeggiano con la bocca sigillata.

Le case turco-egiziane, sono dipinte in colori brillanti, ma molte sono abbandonate. Rimangono così dei muri scrostati, con piani sorretti da tremolanti pali in legno. Sotto l’architrave di alcuni ingressi, si possono trovare delle croci nere, bruciate sulla calce bianca: con un brivido, ricordo che sono state apposte per scacciare il diavolo.

L’Imaret, invece, non posso dire se è bello o brutto. Lo hanno trasformato in hotel dei privati egiziani, dopo un lungo contenzioso. Ora, lo possono vedere solo i ricchi clienti, lasciando cinquecento euro a notte. E’ una struttura egiziana, color pesca, con tante cupole. Una volta in ogni cupola, vi era una stanza. In ciascuna di essa abitava una famiglia greco-ortodossa: i rifugiati dalla Turchia, con i loro grembiuloni neri. Ora, in ogni cupola, vi è una camera singola e letti candidi come la neve. Dove una volta sorgevano minareti, ora rimane il vuoto, la scogliera, il mare al di sotto.

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scogliera

Più in alto, rimangono una chiesa ortodossa ed una lunga discesa che parte da un campo scuola spelacchiato. Gli anziani scendono due, trecento gradini, con cappellino e telo sotto braccio. Poi vanno a nuotare, a pescare polpi.
Le chiese ortodosse sono sempre piene di fedeli. La spiritualità è per molti dono innato, tempra l’animo. Ai sacrari, per esempio, c’è chi piange, chi appoggia la testa alla vetrina, chi rimane immobile e con lo sguardo vuoto.

Io penso allo sguardo vuoto del bambino che ha cercato di vendermi le rose a piazza Aristoutelous a Salonicco. Mia zia non ha voluto dargli dei soldi, e lui se ne è andato ondeggiando, con le mani sui fianchi. Era un bambino greco.
Ed io, ora, sono sulla corriera che mi porta a casa, anzi no, sono già a casa, ma vedo ancora il cartello stradale nostalgico con la scritta: “Kostantinopolis – 680 km”. Lo vedevo dal finestrino del pullman, ricordavo il patriarca ortodosso che predicava come Istanbul fosse dei Greci di diritto e mi si ferma il respiro perché, a volte, non è vero che il tempo non passa mai.

LA STORIA
Lady Pink forever

Lady Pink, nome d’arte di Sandra Fabara, è nata ad Ambato, in Ecuador, nel 1964, ed è cresciuta a New York, fin dall’età di 7 anni (arrivata nella Grande Mela con la madre e la sorella, fa parte di quegli emigranti di prima generazione, come ricorda lei in alcune interviste). Ha iniziato a dipingere vagoni della metropolitana nel 1979, dopo la perdita del suo ragazzo, mandato a vivere a Porto Rico dopo che era stato arrestato. Sandra aveva esorcizzato il grande dolore diffondendo il nome del suo ragazzo per tutta la città, come se fosse un’etichetta da stampare e imprimere sui muri. Poco dopo, aveva iniziato a firmarsi come Lady Pink, nome legato alla sua passione per le storie romantiche e a lieto fine, per l’Inghilterra, il suo periodo vittoriano e l’aristocrazia.

lady-pinklady-pinkLady Pink ha studiato alla High School of Art & Design di Manhattan, dove ha iniziato a conoscere il favoloso mondo dei graffiti, e dopo che aveva cominciato a scrivere fin dall’età di 15 anni. Ha colorato i treni della metropolitana di New York, dal 1979 al 1985. Negli anni Settanta, poche donne si dedicavano all’arte dei graffiti (tanto più che, all’epoca, avevano ancora un ruolo da rivendicare) e per questo motivo fu presto definita come la “prima donna dei graffiti”.
Nel 1980, partecipa all’evento newyorchese “Gas: Graffiti art success”. Giovane, alla mano e una delle poche donne di quel mondo colorato, Lady Pink diventa presto una delle artiste di graffiti più fotografate e intervistate dell’epoca. Nel 1983, appare in teatro, nel ruolo di Rose, nel film hip-hop Wild Style, di Charlie Ahearn. Grazie a esso diventa un’icona della cultura hip-hop. Nello stesso anno, lavora a una serie di grandi dipinti con Jenny Holzer, espone con artisti come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, incontra Andy Warhol.

Fin dalle scuole superiori espone nelle gallerie d’arte e, a soli 21 anni, allestisce la sua prima mostra personale, “Femmes-Fatales”, al Moore College of Art & Design di Philadelphia.
Dal 1987, Lady Pink prende la distanza dall’arte di strada ma vi ritorna nel 1993, quando conosce il futuro marito, l’artista leggendario e stravagante SMITH, con il quale collabora nella realizzazione di murales e di opere a carattere più commerciale. Quasi in simbiosi.

lady-pinklady-pinkI suoi dipinti, che spesso contengono ancora immagini dei treni della metropolitana di New York (ricordo cui resta molto affezionata), sono stati ampiamente esposti negli Stati Uniti e all’estero. Come esponente dell’arte dei graffiti, molte sue creazioni sono entrate a far parte d’importanti collezioni d’arte del Whitney Museum of American Art, del Metropolitan Museum of Art di New York, del Brooklyn Museum e del Groningen Museum of Holland. I collezionisti sono spesso alla ricerca delle sue belle opere, considerate sempre più preziose.

lady-pinkOggi, Lady Pink continua a creare nuovi dipinti su tela che esprimono la sua unica e originale visione personale e gestisce una piccola azienda con il marito, creando enormi opere in giro per New York. Mobilita gli artisti per donare arte pubblica nelle comunità culturalmente trascurate, e condivide i suoi quasi trent’anni di esperienza tenendo seminari e lezioni sui murales ad adolescenti e studenti universitari. Cerca pure di dire ai bambini che si sta lavorando anche per loro e con loro, e di spiegargli quanto sarà meraviglioso e sorprendente crescere.

LA RIFLESSIONE
Il cibo e la politica

L’abbinamento cibo-politica sembra ormai un dato acquisito con tutto il senso un po’ untuoso o appiccicoso delle performances più note: dalla mortadella in parlamento, ai cibi grevi scambiati in piazza a Roma ai tempi di Alemanno sindaco, ai gelati offerti coram populo dal presidente del Consiglio attuale. Non dimentichiamoci che in questa stagione del nostro scontento è d’obbligo il rifugio in sagre, incontri mangerecci plurimi dove si spettacolarizza di tutto e di più: pesce, carne, anatre, tartufi, “pinzini” richiestissimi ancora, come ai miei tempi, nelle feste dell’Unità dove volonterosi volontari stringono mani e abbondano in sorrisi al politico di turno per cui diventa obbligatorio da parte di quest’ultimo soffermarsi negli stand in cui si cucina. L’ossessione attuale e mediatica che fa leva sull’istinto primario del cibo sembra adombrare l’angoscia di una reale minaccia per cui il cibo non sarà più scelta e attrazione ma unicamente bisogno non sempre soddisfatto: la spesa degli italiani in default. La televisione d’altra parte, spettacolarizza i master chefs proponendoli come divinità padrone del destino umano. Anche chi vi scrive ha le sue colpe (o i suoi meriti) essendo stato per anni socio della prestigiosa e antica Accademia della cucina italiana per la quale ha ripubblicato testi rinascimentali di cucina e divagato anche sulle proprietà e nascita nientemeno che della salama da sugo oggi orrendamente chiamata con un ipercorrettismo degno di miglior causa “salama da succo” (brrr…). Poi il destino e le scelte lo hanno di fatto allontanato dai profumati pranzi e cene per avviarlo più convincentemente verso i banchetti della mente; quei simposi dove il cibo intellettuale, direbbe Dante, è il “pan degli angeli”.

Torniamo all’importanza del cibo in politica. Ieri una “Amaca” di Michele Serra su “La Repubblica” parla di questa metaforica sazietà del cibo abbinato alla politica che si conclude con una riflessione non solo letterariamente bella ma che ci induce anche ad assaporare un retrogusto di sazietà che fa bene a un’etica della politica. Scrive Serra che il connubio politica – cibo “lascia perplessi” proprio per l’abuso della “promiscuità tra microfono e pistacchio, tra discorso programmatico e brodo, un sentore di macchie d’unto sulle austere carte, di briciole sulla cravatta, e un’ostentazione pubblica di allegro appetito non è neanche tanto opportuna, via…”

Dunque se non è più tanto sollecitante scoprire come in segreto si mangino torte tra i politici, anzi, che la gravezza del post -prandium potrebbe essere solo riscattata dalle passeggiate che il commissario Montalbano fa fino al faro per digerire così , come in un transfert, lo scrittore Camilleri rinuncia alle sue fantasie mangerecce per affidarle al suo personaggio il quale alla fine proprio per quelle scorpacciate riporta la moralità e la giustizia là dove sono state offese e irrise.
Questo succede anche alla politica politicante? Lascio al lettore il giudizio.

Mi arriva appena edito un volumetto di un caro amico, lo scrittore Hans Tuzzi che è diventato famoso per i suoi romanzi polizieschi e per le inchieste condotte dal commissario Melis che lo hanno fatto conoscere al grande pubblico ma che è anche autore di un importante romanzo di natura etico-politica Vanagloria ambientato nella “Milano da bere”. Il titolo del libriccino è Zaff&rano e altre spezie, editore Slow Food, quindi in regola con l’attuale mania del cibo. Eppure questo racconto complesso e affascinante fa del cibo non qualcosa che lascia il sapore di unto sui vestiti e in bocca ma si rivela una lirica evocazione affidati a due “djinn dei deserti” due Folletti che si chiamano Zaff e Rano. La storia di questa spezie si affida alla rivelazione della prozia Augusta, unica e somma ministra dei misteri della cucina. Il cibo diventa dunque la possibilità di un’evocazione lirica che traduce in parole sapori e memorie. Bellissimo! Le tradizioni materne della cucina austriaca e paterne italiane si fondono e diventano quella “passione civile” assente nella casa dell’autore ma che l’autore oggi rivive proprio alla luce del racconto di memorie che sono, come ci è stato detto dai grandi scrittori non un fedele ricordo ma una menzogna letteraria. C’è un passo che spiega tutto questo e che vale la pena riportare. La memoria riporta alla mente (e alla scrittura) un’Italia diversa che l’autore ricostruisce ben sapendo che in quel caso non è quella della sua infanzia ma una finzione. Eppure quell’Italia anni Cinquanta: “ Aveva già come il seme la pianta, tutto il degrado etico civico culturale e ambientale che ci devasta oggi. Ma era l’Italia della mia infanzia, e se oggi le rimpiango entrambe – Italia e infanzia- sono consapevole di mentire a me stesso, perché è solamente nel mio rimpianto che la complice magia dell’inverno succedeva innocente e perfetta dell’assorta immobilità dell’estate”

Sapranno i politici locali e nazionali difronte a salama e “pinzin”, “taiadel” e “torta ad taiadel” capire e ritrovare il giusto rapporto tra politica e cibo?

Tanto è un maschio

Ho sentito spesso mamme riferirsi al loro bambino con l’espressione “tanto è un maschio”. La frase suona in apparenza come una svalutazione del maschio rispetto alla femmina. In realtà la frase e l’idea di differenza che la sostiene, pone il bambino fin dalla prima infanzia, in una posizione di superiorità, dispensandolo da certi compiti.
Occorrerebbe trattarlo come si tratterebbe una figlia. Soprattutto nel caso in cui si abbiano un maschio e una femmina è evidente la differenza che fanno sia le madri che i padri nel rapportarsi con uno o con l’altra. L’educazione è permeata da stereotipi culturali che condizionano il tipo di messaggio passato da una generazione all’altra. Basta osservare i giochi per le bambine e i bambini per accorgersi di quali significati veicolano gli uni e gli altri. I giochi per le bambine abituano a un gioco fin da subito più sul piano del simbolico, i giochi per i bambini coinvolgono di più solitamente il corpo e l’azione.
Ho ascoltato troppo spesso mamme mentre raccontavano di come chiedevano solo alla figlia femmina di sparecchiare dopo cena, lasciando andare il maschio a guardare la tv. Per poi stupirsi successivamente di come il figlio non le aiutasse mai in casa. Bisognerebbe insegnare l’uguaglianza nei diritti, ma soprattutto nei doveri fin da piccoli. Solo così si potrà far capire al figlio maschio fin da subito, ad esempio, che occuparsi della casa è una fatica che andrà condivisa con la persona che amerà.
Non bisognerebbe usare frasi come “non piangere che è da femminuccia”, perché così non si abitua il bambino a verbalizzare le emozioni e a saperci fare con esse da adulto. Possono crescere così maschi non in grado di manifestare le emozioni nel modo corretto fino ad arrivare a casi estremi in cui le emozioni vengono espresse attraverso atti violenti. È importante educare alla verbalizzazione fin dall’infanzia per non avere adolescenti incapaci di esprimere emozioni e di provarle oppure adulti non in grado di gestire la rabbia ad esempio.
Bisogna parlare coi figli e chiedere di parlare, non in modo intrusivo certo ma mostrando una disponibilità all’ascolto attivo. Non archiviare tutto con un «è un maschietto, certe cose se le tiene dentro». I pregiudizi sul maschile e femminile veicolano significanti che condizionano e strutturano il comportamento successivo. Occorre insegnare ad aprire un dialogo, a chiarirsi, a confrontarsi. Far capire com’è importante usare le parole, l’intelligenza, anche la furbizia, al posto della violenza. Spiegare come «stendere» una persona con un discorso, non con un pugno. E fare capire che la violenza si combatte con il dialogo, con le domande, con la comprensione, non con altra violenza. Altro punto fondamentale è il posto dato al figlio all’interno della famiglia. Il figlio maschio non può essere messo, come spesso purtroppo accade, al posto dell’uomo: non è un fidanzato o un marito. È un figlio, e un giorno dovrà andare via e amare altre persone. Bisogna spingerlo ad andarsene un pochino ogni giorno. E’ sicuramente emozionante sentire il tuo bambino che ti dice «ti amo», ma poi, ad un certo punto, dovrà dirlo ad un’altra persona. E non potrà cambiare improvvisamente: dovrai essere tu, mamma, giorno dopo giorno, a fargli capire che c’è un mondo là fuori che aspetta lui e tutto il suo affetto. Una madre non deve apparire perfetta agli occhi del figlio, perché non lo è e non lo deve essere, anche perché altrimenti il confronto con le altre donne diventa sempre perso in partenza perché mai nessuna sarà all’altezza della MAMMA. Le nuove famiglie pongono altre questioni che rimando ad un prossimo articolo.

Chiara Baratelli, è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com

Nel nome del Padre, 40 anni di storia ecclesiale italiana

Dal 9 al 13 novembre si svolge a Firenze il prossimo convegno ecclesiale italiano. Una convincente analisi del direttore della rivista bolognese “Il Regno”, Gianfranco Brunelli, fila liscia come l’olio e merita un po’ di tam tam, pur con tutti i limiti di una sintesi soggettiva.
“I vescovi e l’Italia”, questo il titolo della riflessione, ripercorre quarant’anni di storia ecclesiale italiana lungo quattro pontificati.

Firenze è il quinto appuntamento nazionale dopo Roma (1976), Loreto (1985), Palermo (1995) e Verona (2006). Programmi pastorali, cattolici, società e politica, si intersecano in questo itinerario di quattro decenni, mettendo in luce uno spicchio d’Italia su cui non è tempo perso soffermarsi. I convegni nazionali sono da sempre un momento di verifica degli orientamenti pastorali della Conferenza episcopale italiana (Cei), posti significativamente a metà strada di ogni decennio.
L’appuntamento romano a metà degli anni ’70 si celebra sulla spinta di una riflessione che trova nel referendum sul divorzio (maggio 1974) un tornante storico: l’Italia non è più un paese cattolico. Per la Chiesa significa una perdita di incidenza sulla società italiana, che pone un urgente problema di evangelizzazione. I principali artefici di questa linea furono monsignor Enrico Bartoletti (segretario Cei) e Paolo VI.
Papa Montini spinse perché la parola d’ordine fosse: evangelizzazione. Così i documenti Cei degli anni ’70 portano praticamente tutti questo termine nel titolo, fino al convegno di Roma del 1976, “Evangelizzazione e promozione umana”.
Un filo conduttore che come strumenti aveva, accanto alla Conferenza dei vescovi, l’Azione cattolica (Aci), rimodulata sull’intuizione, tra gli altri, di Vittorio Bachelet della “scelta religiosa”, ossia del suo riposizionamento su un terreno più pastorale ed ecclesiale. Era la volontà di affrancare la principale associazione del laicato cattolico dagli anni pacelliani della politica diretta, della falange cattolica, come è stata definita dagli storici, e dell’immediato serbatoio elettorale per il partito cattolico.
Da un lato, la necessità di rianimare la comunità cristiana innanzitutto su un terreno di educazione e di formazione delle coscienze, anche come lineare conseguenza del concilio Vaticano II. Dall’altro, si voleva porre fine all’ambizione geddiana di controllare direttamente il partito di riferimento.
L’idea era di una Dc fuori dalle secche clerico-moderate, o noguelfe, senza però archiviare l’unità politica dei cattolici.
Il punto però stava in un consenso non più basato esclusivamente sull’esteriore professione di fede, ridotta a criterio sociologico di appartenenza, ma sulla tenuta ed efficacia in sé della proposta politico culturale del partito. Qui sta, probabilmente, anche tutto il peso della riflessione sul tema della laicità di Giuseppe Lazzati (storico rettore della Cattolica di Milano).
Se sul piano ecclesiale compito dell’Aci era una particolare declinazione dell’evangelizzazione, per la formazione di coscienze laiche adulte in grado di animare cristianamente la città dell’uomo, alla Democrazia cristiana veniva riservato quello, distinto, della tenuta di un quadro politico-istituzionale e delle libertà civili, pericolosamente squassato dall’ondata del terrorismo e della strategia della tensione e, simultaneamente, dai contraccolpi della modernizzazione, specie nell’accelerazione dal ’68 in poi. Unità politica dei cattolici, come scrive Brunelli, che da principio clerico-dottrinale viene declassato a politico-prudenziale.
Al disegno di Paolo VI vengono però a mancare progressivamente i riferimenti.
In ambito ecclesiale, se con la prepolitica scelta religiosa si cerca, non senza fatica e tensioni con la gerarchia, di preservare il contenitore dell’Aci dai convulsi mutamenti in corso nella società italiana, le Acli decidono con la storica “scelta socialista” di andare controcorrente. Il dissenso si articola ulteriormente con le posizioni e le voci di gruppi e comunità di base, sulla base di una lettura del concilio progressisti-conservatori, che oggi si può definire datata.
Il risultato fu che dissenso e spaccatura entrarono comunque nel recinto della Chiesa italiana.
Se l’intuizione di Bartoletti, autentico regista del convegno del 1976, della necessità di un cattolicesimo non più anagrafico ma di convinzione; del bisogno perciò di un’evangelizzazione che partisse dal basso e dalle coscienze prima ancora che dalle strutture; di una lettura non necessariamente negativa della secolarizzazione; e quindi di una conseguente riorganizzazione ecclesiale, era una lettura forte della realtà, ciò non impedì che dentro la stessa Chiesa prendesse piede un’altra impostazione.
Una risposta ai mutamenti ad extra e ai fallimenti ad intra ecclesia che richiedesse maggiormente il volto più netto ed antagonista del movimentismo cattolico, di fronte a ciò che veniva letto come un’aggressione all’identità cristiana del Paese.
Sono gli anni nei quali il laicato cattolico italiano si spacca sulle tesi della mediazione culturale (Aci) e della presenza (Comunione e Liberazione). Tanto la prima è letta come formula involuta, sintomo di incertezza e debolezza che demanda alle singole coscienze un difficile esercizio di discernimento di fronte alle questioni che spesso reclamano, nella perdurante contingenza italiana, la necessità di fare numero (fino all’accusa di protestantesimo piovuta sull’allora presidente nazionale dell’Aci, Alberto Monticone), quanto la seconda è percepita come una riposta più comprensibile e netta, di fronte alle sfide etico-sociali del tempo.

Così si arriva agli anni ’80 e si comprende come, alla luce di questo clima di divisione, la parola d’ordine dei programmi Cei diventa: comunione. “Comunione e comunità” è infatti il titolo del documento dei vescovi del 1981, accompagnato dalla famosa nota “Chiesa italiana e prospettive del Paese”, dello stesso anno.
Ulteriore articolazione del quadro laicale si ha nel frattempo con il consolidamento sulla scena sociale del volontariato. Se la cultura più movimentista assume un approccio strumentale verso il partito di riferimento (e verso la politica), sollecitato a tutelare spazi e istituzioni cattoliche, quella del volontariato si contraddistingue per un approccio decisamente più prepolitico, se non di disinteresse.
In questo contesto si celebra il convegno di Loreto (1985). Il nuovo pontefice è Giovanni Paolo II e nel 1986 diventa segretario della Cei Camillo Ruini, che ne fu successivamente presidente dal 1991 al 2007.
Proprio a Loreto papa Wojtyla chiese un netto cambiamento di rotta. In quel secondo convegno ecclesiale, intitolato significativamente “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini” (chiarissima eco delle divisioni), famoso resta il passaggio del discorso del pontefice venuto dalla Cortina di ferro: “Le strutture sociali siano o tornino a essere sempre più rispettose di quei valori etici in cui si rispecchia la piena verità sull’uomo”.
Ogni pluralismo doveva passare in secondo piano rispetto a questa priorità. Riprende fiato il tema dell’evangelizzazione con i nuovi orientamenti pastorali inaugurati da “Evangelizzazione e testimonianza della carità” (1990).

1. CONTNIUA

O che bel mestiere
fare il giardiniere

DA MOSCA – Oggi è il turno di un gruppo di pakistani e indiani. Li ho visti per la prima volta a fine maggio dell’anno scorso, intenti a rinverdire i giardini di Gogolenskaya: abili, precisi, attenti. Li ho rivisti anche quest’anno, stesso periodo, anzi forse un po’ dopo, stessa zona, stessi gesti, stessi visi, stesse espressioni, stesse mani, stessa precisione, stessa attenzione, stessa dedizione, stessa cura. Sono gli angeli dei parchi moscoviti, quelli che ogni anno, finita la stagione fredda, animano i viali dei giardini per ridare vita ad aiuole spente, svenute, spettinate, congelate e ibernate durante il rigido e lungo inverno.
In una quindicina di giorni fanno rivivere il verde cittadino, danno colore e amore, piantano fiori, violette, rose, gerani, tulipani, gardenie. Scavano, vangano, piantano e ripiantano piccole piantine che a breve diventeranno belle signorine colorate. Lavorano silenziosi, spesso qualche cenno e sorriso.Qualche pacca sulla spalla ossuta.

bel-mestiere-giardiniere
Piantine pronte per essere sistemate nelle aiuole

Li vedo anche al Gorky Park, ai giardini dell’Ermitage o a quelli vivacissimi e gremiti di Alessandro, sono ovunque, brulicano come tante formichine gentili e operose che devono sbrigarsi a finire un lavoro in tanti piccoli quadrati di terra. Forza, forza, sembra sussurrare un signore alto e nerboruto che li controlla a vista. Perché quel signore sussurra, non urla, mai, non vuole turbare l’immagine di piccoli giardinieri laboriosi e devoti. Sì, perché questi giardinieri sono anche piccoli, come gnomi simpatici che accarezzano un’erba che sta crescendo. Sono delicati, come ninfe eleganti che sfiorano un tulipano appena dischiuso. Sono sorridenti, come bambini educati che si siedono su un prato a mangiare una fetta di pane con burro e marmellata, preparata dalla nonna materna. Sono gentili come Biancaneve che offre zuccherose mele candite al luna park di periferia che ha comprato giostre italiane. Sono artistici, come il pittore stravagante che poco più in là dipinge ritratti con fiori sullo sfondo. Sono creativi, come lo scrittore pensieroso che siede nella panchina a fianco, intento a descriverli. Sono innamorati, come il poeta eccentrico che disegna cuori a margine delle sue pagine consumate dai pensieri. Sono attenti, come il baffuto conducente di bus che gli passa a fianco, lanciandogli uno sguardo complice. Sono tanti, sono amici, sono belli e sono brutti, sono simpatici e un po’ meno, sono complici e coinvolti come la giovane coppia che passeggia a mano nel parco.
Un passante incuriosito si ferma a scambiare quattro chiacchiere, magari per chieder loro che tipo di piantina stanno maneggiando con tanta cura, per sapere quando finiranno quel bel lavoro. Nessuno si soffermerà sul perché quei piccoli giardinieri sono lì, sul paese da cui provengono, cosa fanno il resto della giornata o cosa faranno quest’inverno, quando le aiuole dormiranno coperte da caldi strati di cellophane. Tutti vedremo solo le belle siepi, i boccioli variopinti, gli alberelli rinnovati, l’erba profumata, le margherite e gli iris. Molti penseranno solo “ma che bel mestiere fare il giardiniere”, senza farsi troppe altre domande. Soddisfatti. E’ così, a ognuno il suo. C’est la vie.

L’OPINIONE
Candidature che vengono e vanno…

Aldo Modonesi ritira la sua candidatura. E’ l’ultima puntata di una nervosa, confusa e ipocrita telenovela stucchevole. Ad aprire le danze ci aveva pensato il livello regionale. Patrizio Bianchi, prima si presenta polemico contro i giochini di vertice, poi si ritira dopo… un incontro di vertice. Richetti si ritira per un avviso di garanzia. Bonaccini rimane anche se interessato da un medesimo avviso. L’unico che ha mantenuto una posizione chiara e serena è stato Balzani.
Spostiamoci ora a Ferrara. Non discuto le varie auto candidature, tutte legittime. Non capisco, invece, la performance di Modonesi. E’ evidente che la sua candidatura avrebbe reso le primarie una gara vera. Questo dava forse fastidio a qualcuno che vuole vincere facile? Resta il fatto che dopo la strigliata del sindaco, Modonesi si ritira. Il richiamo di Tagliani è stato duro. Provo a tradurlo in poche parole: “Ragazzi, datevi una calmata! Ho appena formato una squadra e c’è già chi vuole giocare in un’altra…”. Piccola postilla a questo comprensibile sfogo. Forse, caro sindaco, il modello di questo modo di fare politica viene dall’alto. Ricordi il cinico: “Enrico stai sereno!”? Resta il fatto che la ‘famiglia (dirigente) renziana’ è litigiosa. Basta leggere lo scambio avvelenato di battute tra Marattin e la Zappaterra avvenuto nella riunione della Direzione.
Ma torniamo al ritiro di Modonesi. E’ riferito a lui il termine ipocrisia. Dice Modonesi: “Ringrazio il sindaco per il riconoscimento che la questione che ho sollevato era di natura politica e non personale”. Ma, caro Modonesi, potevi sollevare la legittima questione del caos che si era creato a livello regionale con i candidati inquisiti senza il bisogno di candidarti a tua volta. O no? E allora, perché il ritiro? Sei così ingenuo, o ci ritieni così sempliciotti da non immaginare che sarebbe arrivato un contentino (per ora) dialettico pur di farti ritirare dalla corsa? Infine un’annotazione che non c’entra con le primarie, ma molto con l’identità e la natura del Pd renziano. Si legge e si dice che Girolamo Calò, anch’egli appena eletto presidente del consiglio comunale, scalpiti perché vorrebbe fare l’assessore. Forse per competenze ingiustamente non riconosciute? Può darsi. Un commentatore autorevole ha però scritto, senza essere smentito, che Calò ha gettato sul tavolo le sue 806 preferenze per far pesare la sua richiesta. Insomma, la politica ridotta ad una sala da gioco da Casinò, e i voti usati come fiches personali…Evviva la nuova politica!

Che cosa succederebbe al Regno Unito se la Scozia
diventasse indipendente?

da: Ilary Bottini, Agenzia Noir sur Blanc

5 domande a Roy Batchelor, Professore di Finanza presso la Cass Business School di Londra

Dopo anni di dibattito, come è cambiata la situazione? Pensa che alla fine la Scozia si separerà dal Regno Unito?

Sono scozzese, ma vivo in Inghilterra quindi non andrò a votare.
L’anno scorso sembrava vi fosse qualche possibilità che una maggioranza delle persone che vivono in Scozia avrebbero votato sì all’indipendenza.
Tuttavia, il vantaggio si è ridotto rapidamente negli ultimi tre mesi, e i sondaggi d’opinione indicano che vi sarà solo una lieve maggioranza che voterà per il no, cioè affinché la Scozia rimanga nel Regno Unito.
Questa è la mia previsione: la Scozia continuerà a far parte del Regno Unito.

Il crescente sostegno a favore dell’indipendenza non riflette alcuna nuova argomentazione persuasiva da parte della campagna del sì.
Al contrario, recenti dibattiti in TV e sulla stampa hanno rivelato che i sostenitori dell’indipendenza non hanno valutato attentamente politiche su problematiche chiave come la politica valutaria e di bilancio.
La campagna del sì ha ottenuto nuovi consensi da parte delle persone che hanno sofferto durante la recente recessione e sono pronte a concedere una possibilità nella speranza di un cambiamento in positivo con un nuovo governo.
Questa convinzione è stata incoraggiata dalla campagna del sì, che promette un sostanziale aumento delle spese in prestazioni sociali sotto un eventuale governo scozzese (senza specificare esattamente dove si troveranno i fondi).

Che cosa succederebbe al Regno Unito se la Scozia diventasse indipendente? (anche alla luce del recente crollo della sterlina)

Si dice che l’attuale crollo della sterlina sia dovuto alla valutazione da parte degli investitori del rischio che la Scozia si separi dal Regno Unito.
Il calo di questa settimana non è stato particolarmente importante (di recente, la sterlina era a valori elevati e la strada è lunga prima di arrivare al tetto di 1,50 dollari raggiunto lo scorso anno) e una moderata svalutazione contribuirà al proseguimento della ripresa nel Regno Unito.

Se la Scozia voterà per l’indipendenza, seguiranno anni di incertezza e trattative ostili su come verranno suddivise le attività e le passività del Regno Unito.
Lo Scottish National Party ha già dichiarato che non accetterà alcuna porzione del debito nazionale del Regno Unito, cosa che ha già portato al minimo i tassi di interesse a più lungo termine dei titoli di stato di Londra.
Incertezze come queste significano che è improbabile che quest’anno la Bank of England aumenti i tassi a breve termine (come era stato previsto in precedenza). Ciò significa anche che la Scozia avrebbe una bassa affidabilità creditizia internazionale e si troverebbe ad affrontare elevati costi di prestito.
Le banche che al momento hanno sede in Scozia dovrebbero trasferirsi in altre zone del Regno Unito per poter beneficiare dei regolamenti e delle politiche sui “prestiti di ultima istanza” della Bank of England.
Molte aziende in Scozia hanno già dichiarato di voler emigrare, ma questo è molto meno certo.

L’attuale politica del Regno Unito è sufficiente a dissuadere la Scozia dall’indipendenza?

La Scozia beneficia già di un maggior decentramento dei poteri rispetto alle altre regioni del regno Unito, e le sono state promesse altre agevolazioni se vinceranno i no.
La politica del Regno Unito non è una considerazione decisiva per chi voterà sì, dal momento che queste persone nutrono già scarsa fiducia nel governo di Londra (e in particolare nell’attuale coalizione tra laburisti e conservatori, visto che la maggior parte degli scozzesi sostengono i laburisti).
Viceversa, il riconoscimento di un potere sempre più ampio alla Scozia ha generato un notevole risentimento nelle altre regioni del Regno Unito, che non capiscono perché questa regione debba godere di tali privilegi.
È probabile che, qualunque sia il risultato del referendum sull’indipendenza, il governo di Londra dovrà riconoscere una maggior indipendenza politica alle altre regioni del Regno Unito, per garantire coerenza ed equità.
L’intero processo lascerà uno strascico di amarezza, da parte degli scozzesi pro-indipendenza nei confronti del governo di Londra e da parte delle regioni non privilegiate del Regno Unito verso la super-privilegiata Scozia.

Qual è l’opinione degli altri paesi europei su questo argomento?

Il giudizio dell’Europa è neutro o ostile. Molti paesi europei, in particolare la Spagna, ma anche il Belgio, hanno movimenti politici regionali espliciti, talvolta violenti (in Catalogna e nei Paesi Baschi) e non gradirebbero la riuscita di una secessione in un altro stato membro dell’UE.

La Scozia potrebbe adottare l’Euro se diventasse indipendente?

Questo aspetto è stato discusso qualche anno fa, ma non è adesso il momento della prima, o della seconda scelta, dei sostenitori dell’indipendenza.
Il Regno Unito è il principale partner commerciale della Scozia, perciò l’adozione di una valuta che fluttuasse a fronte della sterlina aumenterebbe i rischi finanziari per tutte le imprese.
Le recenti sottoprestazioni dei paesi minori dell’Eurozona (Irlanda, Portogallo, ecc.) hanno messo in luce i pericoli di questo programma.
Se la Scozia soddisfacesse i criteri di appartenenza, tecnicamente sarebbe possibile adottare l’Euro.
Tali criteri includerebbero la dimostrazione di una comprovata responsabilità monetaria e di bilancio, cosa che non può accadere in tempi brevi.

Ciclo-biga all’ombra del Colosseo, Roma sceglie le due ruote

In via dei Fori Imperiali dopo la pedonalizzazione ecco la pacifica ed ecologica invasione delle due ruote. E nel week end, concerto di Simone Cristicchi, poeta cantautore che si esibirà a bordo di un open bus ecologico.

L’European Mobility Week è la settimana per la mobilità sostenibile, una campagna promossa dall’Unione Europea per sensibilizzare i cittadini, che vede un susseguirsi di eventi e iniziative in tutte le città europee che aderiscono.

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Manifesto dell’iniziativa

A Roma fino al 22 settembre, in via dei Fori Imperiali, tra le varie performance, ci sarà una ciclo-officina su un autobus della linea Atac, insieme ad una mostra mercato di opere di riciclo creativo sotto il cappello di Riscarti, il festival internazionale del riciclo creativo.
Per tutta la settimana Cicló, la bottega artigiana per ciclisti ispirati, e 16bici della cooperativa Il Grande Carro, offriranno un servizio di riparazioni, ciclo-restauri e usato-garantito. Sull’autobus viaggeranno, insieme ai passeggeri che si lasceranno guidare verso una società più equa, più attenta e sensibile alla questione dei rifiuti, le opere d’arte e d’ingegno fatte con materiali di scarto degli Artisti Green di Riscarti: Cristiano Muti autore di due “Totem” o “Menhir” in ferro come un manifesto spirituale contro lo spreco; Dorotea Prehn con l’istallazione “L’altra faccia della spazzatura” visibile solo se si pedala su una vecchia cyclette; il vestito fatto con le cinture di sicurezza di Anamarija Pirc; la Super-Atac di Alessandro Ciafardini un connubio di funzionalità e creatività.
Così Marlene Scalise, presidente di Riscarti, presenta lo spirito dell’iniziativa: “Vogliamo parlare di città smart e sostenibili, a misura di cittadino, più verdi, in sintonia con l’ambiente e con gli stili di vita virtuosi. Vogliamo incoraggiare l’autoproduzione e l’autoriparazione, l’uso dei mezzi pubblici e delle biciclette”. “Molti preziosi scarti ai quali l’Atac ci ha dato accesso“ – aggiunge – “ci sono serviti per costruire tavoli, armadietti e nuove sedute, in sintonia con una nuova sensibilità crescente, anche nello stile, di beni durevoli e non standardizzati”.
Domenica 21 alle ore 11.30, l’Acciaieria insieme a Riscarti presenteranno la ciclo-biga, un mezzo di trasporto ecologico e simbolo della civiltà romana, che permetterà di sentire per le vie della urbs il piacere a cui gli Aurighi, e a volte l’imperatore stesso, non potevano rinunciare: il fruscio delle ruote sui san pietrini, la piacevole fatica della corsa, l’emozione della partenza, i palazzi a vista avvolti nella bellezza… un’emozione slow per godere del viaggio, a cavallo tra saper fare, memoria e sensibilità ecologica, proiettati nel futuro delle nuove tecnologie.
Infine, sull’open bus a due piani l’Atac svolgerà attività di promozione con distribuzione di gadget e vendita di biglietti da collezione, mentre gli operatori del car sharing (Rsm, Car2Go, Enjoy) proporranno carnet con offerte e le giornate.
Ad animare le giornate, performance di street art e, nel week end, il concerto di Simone Cristicchi sull’open bus Atac accompagnato dalla perfomance artistica “Rottamiamo gli autobus” di Lorenzo Gubinelli e Studio Sotteraneo.

LA STORIA
Tu, ragazza dell’Europa:
“Dimenticare è più facile che imparare”.
Diario di un’estate ferrarese

La stazione, si sa, è un crocevia: arrivi e partenze, che siano di piacere o lavoro. Così, a metà luglio, è iniziato anche lo stage di Milica Vlajin, giovanissima studentessa di lingue serba, arrivata a Ferrara per otto settimane di volontariato a Ibo, associazione che opera per promuovere fra i giovani il senso di responsabilità verso gli altri e la consapevolezza di ciò che è bene comune. Ciò è stato possibile grazie alla rinnovata collaborazione tra Ibo ed Aiesec che, per il secondo anno consecutivo, ha portato nella città emiliana una ventata di internazionalità. I ragazzi del comitato locale di Aiesec, l’associazione di studenti più grande del mondo, hanno aiutato la stagista a muovere i primi passi (e le prime biciclettate) tra la sua nuova casa e il centro, dove, in via Montebello, ha sede Ibo.
La ragazza ha lavorato in ufficio, nel periodo precedente il  Buskers festival. E poi si è prodigata con i volontari impegnati durante la manifestazione nell’accoglienza del pubblico. Milica ha sorpreso tutti con un’ottima padronanza dell’italiano, tanto da impiegarlo con sapienza non solo nella stesura dei comunicati stampa e dei volantini che sponsorizzavano le attività del Grande Cappello, ma perfino per fare ironia e scherzare. E non solo. C’è stato per lei anche modo di esprimere pensieri, impressioni e riflessioni su questa avventura appena terminata.

“È necessario allinearsi ed entrare in sintonia con il posto in cui ci si trova, abituarsi e, nel caso, anche adattarsi”, afferma a consuntivo della sua ‘prima volta’ lontana da casa per un lungo periodo: Come l’hai affrontata?, domandiamo. E’ nata un’altra Milica?
Forse. Credo che quando si parte per l’estero è come se si avesse l’opportunità di modellare sulla propria persona un’identità completamente diversa; certo, a ventun anni si è persone già abbastanza formate, però ho notato che ci sono aspetti della mia personalità che hanno rilevanza diversa a seconda di dove sono. Per esempio, a Belgrado conoscono lati di me che a Ferrara non c’è stato modo di ritrovare, e viceversa: gli altri non pensano che io possa essere anche diversa da come mi vedono. Inserendosi in un dato contesto, tra persone che hanno abitudini diverse, il proprio io cambia prendendo consuetudini che non gli appartengono, forse migliorando.
Ecco, dunque: come ti sei trovata immersa in un ambiente per te completamente nuovo?
Non parlo perfettamente l’italiano, però ero talmente presa da questa nuova esperienza da cominciare a dimenticare alcune parole in serbo già dopo una quindicina di giorni. Gli effetti di un nuovo contesto sono potenti: ti abitui rapidamente al fatto che i dialoghi quotidiani sono in una lingua diversa da quella che ti è familiare. Il risultato è che ora, dopo quasi due mesi, devo addirittura concentrarmi per trovare le parole serbe più ovvie. Pertanto, ammiro e mi complimento con chi riesce a combinare due o più culture o lingue, senza perdere parti di una o dell’altra. Dimenticare è quasi più facile che imparare.
C’è qualcosa che vorresti cambiare di queste otto settimane?
Mi dispiace di non aver sentito la mia famiglia e i miei amici tanto quanto avevo inizialmente immaginato; Skype, Whatsapp, Facebook… pensavo che li avrei aggiornati costantemente. Non ero, però, una turista: quando sei in vacanza non vedi l’ora di condividere tutte le novità che vedi, che siano persone, luoghi o cose particolari. Invece, quando vivi stabilmente in un posto, già dopo due o tre settimane la tua vita è là, non hai niente di nuovo da raccontare. Le abitudini si sono radicate pur in un tempo così breve: e ciò che fai normalmente (lavoro, amici, uscite), non è niente di eclatante, specie per chi non è presente fisicamente con te e non è parte di questa “altra vita” e quindi risulta difficile da raccontare, perché appare banale. Ovviamente nessuno mi vorrà rinfacciare questa scarsa comunicazione, però a me dispiace. Questo nuovo ritmo di vita mi ha completamente preso e coinvolto, mi ci sono totalmente dedicata, avevo degli obblighi nei confronti del mio nuovo ambiente, e meno verso il mio a Belgrado, così questo è passato in secondo piano, ma solo per forze di causa maggiore. È naturale che ci lasciamo prendere da ciò che ci circonda, è così che si impara anche una lingua.
C’è qualcosa che, se potessi, vorresti portare a casa a Belgrado?
Hmmm… Tutta Ferrara! Scherzi a parte, vorrei ovviamente portare a Belgrado i miei nuovi amici, ma anche lo spirito di Ferrara, che mi mancherà molto: è uno spirito che in una grande città non si sente. Le iniziative sociali e culturali, il volontariato sono presenti a Belgrado, ma il loro riscontro ha un peso e un impatto minori, poiché le persone sono meno collegate tra di loro. Inoltre, mi piacerebbe poter ‘esportare’ anche questo stile di vita più lento e rilassato. A Belgrado si tiene meno conto delle piccolezze, dei dettagli, si è sempre di fretta: in Italia, in generale, mi sembra che si abbia un livello di qualità della vita più alto, a partire dall’alimentazione. Gli italiani non mangiano per il mero fatto di nutrirsi, gustano il cibo e lo apprezzano, quando noi dedichiamo poca attenzione e tempo ai pasti. Poi, naturalmente, porterei con me la mia bici, a cui mi ero affezionata, e lo spritz, o almeno la consuetudine dell’aperitivo in generale. Al momento, però, posso solo portare con me dei ricordi meravigliosi e la soddisfazione di aver scelto di trascorrere la mia estate in questa affascinante città estense.

Sfortunatamente, a differenza nostra, il tempo non si perde, e arriva purtroppo l’ora dei saluti e della partenza: di nuovo in stazione, con la promessa di Milica di un ritorno a Ferrara, magari l’estate prossima.

IL FATTO
Giochi politici estremi.
Ferrara fa scuola con l’intesa extra-large

Tutti dentro. Con l’ardita alleanza per la Provincia, che mette insieme Pd, Forza Italia, Movimento 5 stelle e Lega, a Ferrara si è realizzato qualcosa di mai visto prima. L’inedito cubo di Rubrick politico, che nessuno finora era riuscito a comporre, è valso ai suoi ingegneri copiose citazione sulle prime pagine dei giornali nazionali. ‘Repubblica’ parla di “strani patti”, di “intese larghissime” e adotta la formula della “politica del cappellaccio”, citata anche da ‘Libero’ il quale però, sarcasticamente, dà ragione ai difensori dell’accordo ferrarese e riconosce che è sbagliato parlare di “larghe intese”, ma solo perché in questo caso “inciucio rende meglio l’idea”. Sulla prima del ‘Messaggero’, Genova e Ferrara sono segnalate come capofila di una scuola politica ecumenica. Si parla di “strana alleanza”, mentre quello di Ferrara viene definito “super accordo”. ‘Italia oggi’ spiega come “le Province abolite siano più vispe e costose di prima”, parla di “grande bluff”, punta l’indice su Ferrara e racconta in che modo i partiti si stiano organizzando per “spartirsi le neo Province e vivere felici e contenti”.
Sulla strada dell’intesa destra-sinistra, non senza resistenze, sembrano dirigersi anche Genova, Torino, Taranto, Brindisi e Vibo Valentia. Ma Ferrara stravince su tutte, perché è l’unica che non solo ha già siglato l’alleanza, ma è riuscita a tirare dentro alla rete stesa da Pd e Forza Italia anche Lega e Cinque stelle.
Il messaggio che filtra è pericoloso: ancora una volta implicitamente si afferma che non serve la politica (la visione), ma basta l’amministrazione (la gestione).

Il “tutti insieme appassionatamente” fa parlare e fa discutere. Grillo tuona contro questa deriva, ma non smuove il sindaco pentastellato Fabbri, che spiega come suo dovere sia tutelare la sua città, Comacchio, che ha bisogno di essere rappresentata. Il sindaco Tagliani, a chi accusa la ditta di essere un poltronificio, replica piccato che non di poltrone bensì di “sedie elettriche” trattasi. Evidentemente la scossa piace ai novelli masochisti della politica.
E così, a proposito di… nuovo che avanza, alle soglie di una fantomatica Terza Repubblica (la Seconda sta per andare in archivio senza neppure che se ne sia percepita la sostanza) torna attuale nel vocabolario politico l’espressione “due forni”, coniata da Giulio Andreotti per dire che la Dc aveva agio di cercare intese alternativamente con Psi e Pci sulla base della maggior convenienza.
Artefice di questa giravolta e moderno alfiere dei ‘due forni’ è oggi Silvio Berlusconi che, recise le radici craxiane, ora sposa la paludata “saggezza” democristiana. Si ritaglia così una nuova centralità e si destreggia scegliendo alleanze variabili secondo comodo suo. Morale, le Repubbliche passano, i vizi restano. E il Gattopardo se la ride.

L’INTERVISTA
Diego Marani, l’europeista:
“Per l’Italia, ultimo treno.
Ferrara? Sempre più bella
e sempre più vuota”

Alla Commissione europea dove lavora, si occupa di politica del multilinguismo. Per gioco ha inventato una lingua, l’europanto, puzzle dei differenti idiomi: e in europanto ha tenuto rubriche su vari giornali del continente. La “Nuova grammatica finlandese”, suo apprezzatissimo romanzo, gli è valsa nel 2000 il premio Grinzane Cavour e la notorietà. Nell’ultimo, “Il cane di Dio”, Diego Marani racconta di un’Italia divenuta teocrazia… Quest’anno ha pubblicato “Lavorare manca”, una riflessione sui nostri tempi, condita da note autobiografiche. ‘Ragazzo’ dell’Europa, di strada ne ha fatta tanta da quando ha lasciato la campagna ferrarese per trasferirsi a Bruxelles. Ma resta legato alle proprie origini, e qualche anno fa per Bompiani, il suo editore di sempre, ha pubblicato l'”Enciclopedia tresigallese”, godibilissimo campionario di tipi umani.

Filtrata con la sensibilità di un italo-europeo (le attribuisco questa categoria), qual è la percezione che si ha dell’Italia nel cuore del continente?
L’Italia è un paese dalla reputazione intramontabile, malgrado talvolta sembri che noi facciamo di tutto per danneggiarla. Gli altri ci ammirano, ci invidiano, ci vedono come un gigante di cultura, tradizione e sapere. Perfino quando ci prendono in giro, sotto, sotto lasciano trapelare la loro soggezione. In fin dei conti ci riconoscono sempre la nostra innegabile capacità di adattarci, di trovare nuove vie, di fare la sintesi fra passato e futuro, di essere comunque, anche se disordinatamente, moderni.

Lei crede alla scommessa di Renzi?
Credo alla ventata di nuovo che ora soffia sull’Italia e che può innescare un circolo virtuoso. Renzi è stato capace di suscitarla e ora di incanalarla verso obiettivi concreti. Ma nulla attecchirà se la società intera non si rende conto che deve cambiare e rinnovarsi.

L’Europa vista dall’Italia è per molti una cappa opprimente. E l’Europa vista dall’Europa, invece, com’è?
L’Europa non è assolutamente una cappa opprimente. Semmai è l’Italia che è diventata come quegli acquari dove non si cambia mai l’acqua e i pesci soffocano. Qui si sperimenta il nuovo, ogni giorno. Basti pensare al processo in corso di nomina della nuova Commissione. E’ un intero esecutivo che ogni cinque anni si ripensa e si trasforma sulla base di nuove prospettive. Quale amministrazione pubblica dei nostri paesi è capace di tanto? L’Europa è il solo futuro che abbiamo. Prima i cittadini europei se ne renderanno conto, meglio sarà. Ogni nostro Paese da solo non può che andare allo sbaraglio. Per non parlare delle varie padanie..

L’Europa avrà mai un Europanto come lingua condivisa?
L’Europa ha già l’inglese, che non è più lingua soltanto degli inglesi. Ma l’inglese non basta a fare l’Europa. Come l’Italia è pur fatta anche dei suoi dialetti e delle sue lingue regionali che tutti tanto amiamo, così l’Europa ha bisogno delle sue lingue. Ogni regione della nostra Unione ha le sue e il futuro è la condivisione delle lingue nelle zone di frontiera, che poi sono sempre state l’anima dell’Europa, i luoghi dove è nato il nuovo, il miscuglio, il progresso. Non sarà pensabile in futuro vivere ad esempio in Alsazia senza parlare francese e tedesco o in Friuli senza sapere italiano e sloveno. L’inglese si aggiungerà a questi binomi essenziali. Del resto, è un processo già in corso. La gente ci è arrivata prima dei governi e ormai cerca sempre più spesso un’istruzione bilingue.

In Italia si punta tutto sulle riforme. Nel Paese del trasformismo non c’è il rischio che ancora una volta tutto cambi per restare tutto come prima?
Ancora una volta dipenderà da noi. Ma forse stavolta è più semplice: se non cambiamo davvero, verremo spazzati via.

Cosa rimpiange dell’Italia e cosa invece non le manca per nulla?
Rimpiango cose che purtroppo sono diventate rare nella stessa Italia. Rimpiango il Paese che conoscevo quando sono partito, solare, dinamico, coraggioso, intraprendente. Rimpiango la cordialità, la sensibilità, l’umanità degli italiani. Rimpiango le relazioni umane che malgrado tutto gli italiani sanno ancora tessere e che malgrado il generale incattivimento della società, malgrado la devastante perdita di senso civico, in qualche posto ancora esistono e sono alla base del vivere. Non mi manca l’ottusità e la paura di cambiare, il vittimismo e la rinuncia, il dare sempre la colpa agli altri per i propri problemi, la corruzione e il clientelismo, l’attendismo e soprattutto, forse più di ogni altra cosa, la dilagante maleducazione e aggressività, il disprezzo dell’autorità e delle istituzioni.

In questi ultimi anni ha visto Ferrara migliorare a peggiorare?
Ferrara è sempre più bella e sempre più vuota. Sempre più museo e sempre meno città viva.

Su quali fattori propulsivi punterebbe?
Non sono un’economista, ma sono convinto che il turismo potrebbe essere una via. Siamo appunto un gioiello di città, un museo all’aperto di valore unico. Dovremmo rendere più vivo questo patrimonio, creare itinerari, percorsi di visita ma anche laboratori di arte nuova, di creazione moderna che si ispiri alla nostra tradizione. Dovremmo aprirci di più a quello che ci sta attorno. Dovremmo guardare anche oltre l’Adriatico, che ora è una frontiera interna dell’UE. Dovremmo estendere la nostra agricoltura e non limitarci solo a essere grandi produttori dell’agroindustriale. Il futuro è nella ricerca scientifica: sementi, biochimica, nuove colture, riduzione dei pesticidi, acquacoltura. Non possiamo continuare a saccheggiare il nostro territorio, dobbiamo sviluppare colture meno invasive, investire nella ricerca. Abbiamo una tradizione di chimica in città. Perché non recuperarla. E anche il nostro Po deve essere recuperato come risorsa, non solo turistica. Per non parlare del litorale, che potrebbe essere un meraviglioso parco turistico e archeologico.

Ha mai pensato a un suo impegno politico o civico? Ed è vero che in gioventù è stato consigliere comunale a Tresigallo?
Non sono mai stato un politico, non ho mai avuto incarichi politici, neanche a Tresigallo. La mia attività politica si riduce a un anno di iscrizione alla Fgci. Credo fosse il 1974-75. Avevo 16 anni. Abbiamo fatto due stagioni di cineforum e poi ci siamo stancati. E’ molto disarmante cercare di convincere qualcuno di che cosa sia il suo bene se lui stesso non lo vuole vedere. In fondo la politica è questo. Per questo credo che la politica non faccia per me. Ammiro i politici, quelli veri, non quelli che usano la politica per fini personali, ma quelli che ogni giorno amministrano il bene pubblico, i veri statisti che sono capaci appunto di pensare in una prospettiva di Stato e operare di conseguenza, a qualunque livello essi si trovino, dal sindaco al ministro. Ma io sono sempre stato poco propenso alla disciplina e all’inquadramento che esige la militanza politica. Credo di poter dare un migliore contributo alla mia comunità con la mia creatività di scrittore, con il mio pensiero di intellettuale e con la mia competenza tecnica in campo culturale. Nutro l’illusione di aver portato a Ferrara un po’ della mia visione europea, almeno un soffio del grande respiro che si sente palpitare qui a Bruxelles. Questo in fondo dovrebbe essere il ruolo di chi parte: portare a chi resta l’esperienza del viaggio.

Nella ‘Nuova grammatica finlandese’ il tema della memoria è centrale. È però anche un grande vulnus di questi nostri tempi…
La memoria è la nostra spina dorsale. Non ci reggiamo in piedi senza. Ma non dobbiamo usarla per chiuderci nel passato e barricarci. Ci deve servire come fondamenta, ci deve dare consapevolezza di chi siamo, delle nostre radici e della nostra identità. Solo così possiamo andare incontro al diverso da noi con solidità e apertura, senza paura di perderci, di dover rinunciare a quel che siamo, ma pronti e capaci a cambiare senza snaturarci.

A quali progetti letterari sta lavorando?
Adesso non sto scrivendo. Ma ho quaderni pieni di appunti di storie che scriverò un giorno. Devono maturare, serve tempo. Certe si seccano, altre crescono. E poi non riesco ad essere in permanenza creativo. Creare, scrivere è alla lunga spossante e estraniante. Ora ho bisogno e desiderio di sguazzare nella realtà, di agire nel reale. E’ anche questo vento di novità che mi ispira. Dopo tanti anni bui per il nostro paese, dopo anni in cui qui a Bruxelles mi sono talvolta vergognato di essere italiano, vedo infine prospettive vere di cambiamento per il nostro paese e voglio dare il mio contributo a questa riscossa.

Le capita ogni tanto sentire ancora Prodi?
Ogni tanto, per email. Gli mando sempre i miei libri.

Prodi secondo lei potrebbe essere il prossimo presidente della Repubblica o vincerà… il Nazareno?
Ecco che mi spinge a fare politica… Il Nazareno per me è solo uno e dovremmo ricordarci più spesso cosa disse. Quanto a Prodi ha tutte le carte in regola per essere il prossimo Presidente della Repubblica. Ha anche una medaglia di bottoni colorati confezionata da me che gli è stata conferita dall’Associazione Emilia-Romagna di Bruxelles di cui era membro quando stava qui e che gli ho appuntato io sulla giacca, dopo averlo salutato con un discorso in Europanto.

L’OPINIONE
Ripartiamo dal capitale sociale
e dalla nostra vulnerabilità

I principali elementi che contraddistinguono l’attuale fase storica sono: la velocità con la quale si mettono in atto i cambiamenti, velocità che genera negli individui e nelle comunità un elevato grado di insicurezza; l’aumento di conoscenze da parte delle masse; la perdita di fiducia verso le Istituzioni e la continua messa in discussione dei poteri: dalla politica, alla Stato. Nel dettaglio, in questi ultimi anni siamo entrati in quella che oggi definiamo crisi economica anche se siamo di fronte ad una parallela crisi sociale e relazionale. Tutto ciò ha generato un ripensamento da parte del “settore pubblico”, e in particolar modo degli Enti Locali, sull’erogazioni dei servizi. La corsa al risparmio degli Enti genera nelle comunità locali un ulteriore grado di sfiducia, che quasi si autoalimenta a causa delle minori risorse e maggiori pressioni da parte degli utenti.

La povertà purtroppo non è più un problema lontano dalla nostra società. Fino a poco tempo fa lo abbiano considerato una situazione propria dei Paesi in via di sviluppo; al contrario sta diventando una emergenza grave anche nei cosiddetti Paesi industrializzati. Il mercato sempre più difficile e le crisi di settore sono nel tempo state sopraffatte da una crisi globale di maggiori dimensioni che sta rendendo molto critico l’intero sistema economico e sociale. In questo periodo è cambiata la composizione della povertà ed è cresciuta la disuguaglianza sia a livello generale nella trasformazione economica della società sia nei risvolti quotidiani della vita.
Gli approfondimenti socio-demografici ed i riscontri di indicatori di disagio rilevano come cresca la crisi e la condizione di nuova povertà si manifesta con preoccupazione in diversi contesti.

Si è passati da una visione tradizionale in cui il livello del reddito rappresentava il principale indicatore ad una moltiplicazione delle cause ed una pluralità di segnali che rendo molto più articolato e complesso il problema; si approda ad una concezione della povertà che coinvolge moltissime famiglie in atteggiamenti spesso contraddittori in cui si squilibrano i bisogni e le necessità in un confuso contesto di costumi sociali. In sintesi si può dire che lo stato di povero oggi deve essere messo in relazione allo standard di vita medio della comunità, che determina quali sono i bisogni sociali essenziali e dunque il concetto di povertà assume un ruolo più complesso.

Non solo i fattori appena descritti generano povertà ma il cambiamento strutturale della nostra società ha evidenziato come più correttamente si possa parlare di vulnerabilità sociale oltre che di povertà. Infatti, mentre negli anni in cui non esisteva il concetto di protezione sociale, era facile individuare chi poteva (o avrebbe potuto) avere problemi economici nella propria vita, ad esempio perché apparteneva a una famiglia disagiata o aveva una bassa scolarità ecc, oggi non è più così ovvio; infatti nel corso della vita di una persona basta un modesto cambiamento a generare crisi di povertà, ad esempio per l’improvviso venir meno di reti sociali.

Per vulnerabilità si vuole qui intendere “una situazione di vita in cui l’autonomia e la capacità di autodeterminazione dei soggetti sono permanentemente minacciate da un inserimento instabile dentro i principali sistemi di integrazione sociale e di distribuzione delle risorse”. Al fine di individuare le principali articolazioni del processo di vulnerabilità, soprattutto della sua componente che si riferisce alle trasformazioni del lavoro.
Siamo ad un passaggio delicato tra comunità e società, tra sociologia e soggettività. Per alcuni siamo in una fase storica in cui la vita sociale si rivolge maggiormente all’interesse e al piacere dell’individuo e si riduce la coscienza del collettivo.
Negli ultimi anni infatti è diventata ricorrente nel discorso pubblico – oltre che nella riflessione delle scienze sociali – la nozione di capitale sociale; il capitale sociale viene richiamato sia in relazione ai problemi dello sviluppo economico, sia riguardo ai diversi aspetti “immateriali” attinenti alla qualità della vita e delle relazioni dei cittadini con gli altri, con le istituzioni e con l’ambiente.

Da un importante studio svolto dall’Istituto Cattaneo alcuni anni fa, emergeva che i differenti tratti della comunità civica si possono riassumere in:
– l’impegno civico, che consiste «nell’interesse per le questioni riguardanti la vita pubblica e la partecipazione ai problemi della comunità»;
– solidarietà, fiducia reciproca e tolleranza per le opinioni altrui;
– le libere associazioni della partecipazione come fondamento della democrazia.

Considerare i valori come materia prima del costrutto del capitale sociale è l’unico modo per uscire dal paradosso dell’azione collettiva. Gli individui entrano in relazioni cooperative quando si riconoscono reciprocamente come fini e non come mezzi. Questo non implica in alcun modo una visione romantica e idealizzata, né evoca eroismo o vocazione al sacrificio.
Il senso civico diventa un beneficio piuttosto che un costo proprio perché il singolo individuo è inserito in un orizzonte di moralità che trasfigura gli altri come valori.
Si intende, infatti, l’espressione «capitale sociale» come risorsa collettiva, indivisibile, dunque come bene pubblico: ognuno ne può beneficiare, senza per questo ridurne la disponibilità per gli altri. Il capitale sociale determina in definitiva il grado di coesione sociale, l’ampiezza e profondità dei legami e la natura delle relazioni con le istituzioni. In breve, l’espressione designa un insieme di caratteristiche che attestano la qualità della società civile.

Cresce infatti una nuova povertà che non è solo carenza di risorse economiche, ma anche perdita di ruolo (e di dignità), mancanza di riferimenti sociale, isolamento, il sentirsi inutile.
Questa nuova povertà sta crescendo molto nella società e sta causando molti disagi e molti problemi. Cresce il numero di persone che hanno perso il lavoro, che non l’hanno trovato, che sono in cassa integrazione, che si sentono inutili e che vivono tensioni sociali e disagi personali; anche questo indica livelli preoccupanti di nuova povertà.
Talvolta la mancanza di denaro è meno grave della mancanza di dignità.

Cresce anche i numero di anziani e di pensionati che vivono questo senso di abbandono e di esclusione dalla vita quotidiana sociale. Bisogna preoccuparsi in modo maggiore di questa tendenza e cercare di contrastarla con capacità reattiva e responsabilità solidale.
Aumenta lo squilibrio tra produzione interna lorda e benessere (qual è la percezione del benessere in stato di povertà?); per questo bisogna cercare di ricreare il benessere anche in situazione di crisi economica (senza ricchezza). Bisogna stare molto attenti al mercato dei prodotti che superano i bisogno dei servizi e che ci propongo il nuovo concetto di marketing del “consumatore difettoso”.

La crisi di una dimensione di politica sociale aumenta la povertà relativa; dalla storia solida si entra nella modernità liquida (come la definisce il sociologo Bauman).

L’avanzata del gambero

Che la nostra scuola avesse abdicato al suo ruolo di ascensore sociale, lo sapevamo ormai da tempo. Ma i dati del rapporto OCSE 2014 sullo stato dell’istruzione nel nostro Paese disegnano un sistema scolastico di figli e figliastri, un sistema scolastico gruviera che perde soprattutto i più deboli.
Dal 2008 al 2012 la popolazione NEET, vale a dire le persone tra i 15 e i 29 anni che sono disoccupate e che non sono inserite in un percorso di istruzione o formazione professionale è cresciuta di cinque punti, dal 19,2% al 24,6%, collocandoci al terzultimo posto, prima solo della Spagna e della Turchia, nell’area OCSE.
Gli abbandoni scolastici nella fascia 15-19 sono ancora in crescita, seppure lieve. Nel 2012 solo l’86% dei 17enni era ancora iscritto nel sistema scolastico, una delle percentuali più basse dei Paesi dell’OCSE. Sempre meno giovani accedono all’università, perché essenzialmente scoraggiati dalle prospettive occupazionali.
Come è possibile in un paese da sempre all’avanguardia dell’integrazione scolastica, con un’iscrizione alla scuola dell’infanzia quasi universale, il 93% delle bambine e dei bambini di tre anni, 96% per quelli di quattro anni, contro la media OCSE del 70%, se è vero che frequentare la scuola dell’infanzia è una premessa fondamentale al successo formativo?
La nostra scuola è come una macchina che perde benzina, ma quando si lasciano per strada ragazze e ragazzi il codice non può che essere rosso, perché gli abbiamo rubato i sogni, la fiducia in se stessi, la possibilità di realizzarsi, abbiamo tolto futuro a loro, ma anche a tutti noi, a tutto il Paese.
E allora sforziamoci di capire meglio, addentriamoci in questo Education at a Glance 2014, sguardo sull’istruzione, che a leggerlo pare tutto un ossimoro nel suo susseguirsi di dati tra loro contrastanti.
Sì, perché, se complessivamente il livello di istruzione è aumentato, specie per le donne, i giovani italiani hanno comunque livelli di istruzione inferiori ai loro coetanei della maggior parte degli altri Paesi.
Sostanzialmente si frequenta la scuola più a lungo, ma si impara di meno. Gli anni di studio non compensano la qualità. È come dire che c’è un furto del tempo di vita che i nostri giovani investono sui banchi di scuola e nelle aule universitarie, una responsabilità pesante di chi in tutti questi anni si è riempito la bocca con vuote riforme, della necessità di tagli alla spesa per l’istruzione, senza mai presentare al Paese uno straccio di bilancio sociale su un’istruzione pubblica sempre più ridotta in stato comatoso.
«La qualità dell’istruzione di base sta migliorando costantemente» è l’ossimoro più preoccupante del rapporto OCSE, perché la conclusione dopo una ventina di righe è che «Nonostante i recenti miglioramenti registrati, il livello medio di competenze in comprensione dei testi scritti (lettura) e matematiche in Italia resta basso rispetto ad altri Paesi».
C’è da vantarsi? Solo degli irresponsabili possono pensare che la scuola italiana migliora, come i titoli montati da stampa e televisione in questi giorni ci vorrebbero far credere. Chi non si interroga sui ritardi accumulati e sulla distanza che ci separa dagli altri paesi. Solo chi non considera che a pagare il prezzo di questa situazione sono come sempre le fasce sociali più deboli, il pesante costo che un Paese irresponsabile fa pagare ai suoi figli.
C’è da chiedersi cosa è successo nella patria di Maria Montessori, di Lorenzo Milani, di Loris Malaguzzi, (Don Bosco lasciamolo da parte, per cortesia), chiamati ad essere gli ispiratori della “buona scuola”, perché se non si comprende questo è come evocarli in una seduta spiritica.
Forse è successo che questo Paese viene da decenni in cui l’interesse a fornire a tutti i suoi cittadini una scuola ben fatta è stato pressoché nullo, tanto chi può sa come provvedere.
Forse è successo che, nello smantellamento dello stato sociale, le prime conquiste da colpire erano proprio quelle compiute sul terreno del diritto all’istruzione negli anni ’70 e ’80.
Il nostro paese era all’avanguardia nel mondo per i suoi asili, per le scuole a tempo pieno e per la sua scuola primaria. La riforma della scuola elementare nel 1985 portava la firma del ministro Falcucci. La Falcucci non era proprio una rivoluzionaria, tutt’altro, ma era donna di scuola, capace di dialogare con chi ogni giorno si forma nel rumore d’aula.
Sono bastati due ministri, la Moratti e la Gelmini, per distruggere quella riforma e tornare, per una scelta tutta ideologica, al maestro unico. Ed ora, ecco i risultati!
Tra il 2008 e il 2011, dicastero Gelmini, la spesa per studente, dalle elementari alle superiori è scesa del 12%, collocandoci al penultimo posto dell’area OCSE, dopo di noi solo l’Ungheria.
Sostanzialmente l’Italia mostra uno dei profili più piatti nelle uscite dedicate al percorso di studi dei suoi studenti, tanto che l’esborso per la scuola dell’infanzia e primaria e spesa per l’istruzione universitaria pressoché si equivalgono. Nel 2012, la spesa per studente delle scuole elementari è in linea con la media dell’OCSE. Ma la spesa per studente della secondaria di primo grado è inferiore del 7% rispetto alla media dell’OCSE, mentre per le superiori la differenza è ancora maggiore, al di sotto del 28%, sempre rispetto alla media dell’OCSE.
L’Italia è il solo Paese che registra una diminuzione della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche tra il 2000 e il 2011, ed è il Paese con la riduzione più marcata (5%) del volume degli investimenti pubblici tra il 2000 e il 2011.
Come si è potuti andare avanti? Ce lo dice il rapporto OCSE, informandoci asetticamente che in questi anni a pareggiare i conti è stato l’aumento dei contributi privati.
La percentuale del finanziamento totale per le scuole e le università che proviene da fonti private è quasi raddoppiata tra il 2000 e il 2011. In termini relativi, nel 2000, il 94% del finanziamento per le istituzioni proveniva da fonti pubbliche. Entro il 2011, il finanziamento pubblico è stato ridimensionato al 89%.
Poiché noi sappiamo bene che il nostro è un paese dove non c’è l’otto per mille da devolvere alle scuole, non ci sono fondazioni che finanzino l’istruzione e neppure la detassazione per questo tipo di elargizioni, le conclusioni sono presto tratte. A pagare di più sono state le famiglie. Elementare, direbbe Holmes.
Aumento delle tasse universitarie, i vituperati, dai ministri responsabili dei tagli, contributi volontari dei genitori alle scuole frequentate dai loro figli, ricordate le squallide polemiche sulla carta igienica portata da casa?
Allora complimentiamoci dei nostri risultati, per la scuola dei nostri figli che avanza come i gamberi.

LA STORIA
Via Carlo Mayr a Ferrara:
la capitale dell’incontro

Ferrara a settembre, la sera. Potrebbe bastare. Ma la cena di quartiere in via Mayr è davvero il giusto giro di giostra.
Sono tornati i lavoratori che vengono da fuori. Sono tornati gli studenti. Si mescolano agli altri. Sono cinque anni ormai.
Si chiude la strada. Si prepara del cibo. Lo si condivide. Il resto accade un po’ per gioco, un po’ per caso.
Non ho il tempo di cercare i ragazzi di Rigenerazione Urbana, quelli di Basso Profilo, le altre forze che si uniscono a questo sforzo comune.

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L’informatico di Ceglie, Messapica

Mi si para davanti l’informatico di Ceglie Messapica, vuole che beva il suo vino. Riconosco l’accento ma non rispondo. Il suono della terra dei trulli, la murgia pugliese, li porto dentro. Lì risiede il mio amico Pasquale. Allora lui chiede -: Ma sei italiano? Intanto scatto la foto e catturo la sua minuta inquietudine, la sua aria perplessa. Si schiarirà in un cenno d’intesa. Il giro continua. Il mio nuovo amico si lancia in un selfie estremo.

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Il selfie estremo

Vengo attirato da una studentessa in medicina. Lei è tarantina. Li raggiungo al tavolo e li trovo seduti sul loro sorriso. Studiano all’università. Condividono la cena con dei ragazzi di Rovigo.

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Seduti su un sorriso

E’ una serata tra vecchi e nuovi amici, quella della cena di quartiere. Riccardo mi regala una delle sue espressioni ironiche. Poi incontro Piero, maestro di chitarra e musica in Toscana, però lui è un vecchio lupo cosentino che ha studiato in città. Non lo vedevo da anni. Anche questo potrebbe bastare.

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L’insegnante Riccardo, di Castrovillari
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A volte ritornano, Il chitarrista Piero e l’attore Vincenzo

Lui abbraccia Vincenzo, fratello-attore con la vocazione d’insegnante.

C’è ancora il tempo per una sconosciuta, per la sua espressione plastica, un volto a cui purtroppo non sono riuscito a dare un nome. Penso lo meritasse. Può darsi che accada in futuro, anche questo è il bello di Ferrara. Non ci si incontra mai più, oppure ci si vede sempre.

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La sconosciuta

Ferrara non è l’Emilia e non è la Romagna. E’ un posto in mezzo ai campi. Poco lontano dal mare, da Bologna, dalle montagne. Abbastanza distante dal resto, da consentirle un’anima sua. Piccola. A volte ordinaria, altre stravagante.

Ritorno al tavolo. Trovo i miei volti. La gioia di Giovanni e Stefano, quella dei poco più di tre anni. Quella che ritorna, ma sarà sempre diversa. Non ci si abbraccerà più così spesso da grandi. Non si perdona così facilmente nel mondo degli adulti.

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Tavoli
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Giovanni e Stefano, la loro gioia, i loro tre anni

Così finisce una piccola serata senza pretese. Con un abbraccio sincero in via Carlo Mayr. Sotto il cielo mite di Ferrara a settembre. Storie che si intrecciano. Finiscono nel vuoto. Riempiono le strade di qualcosa che ci ostiniamo a chiamare vita. Qualcosa che non è per sempre. Non risponde ai pazzi, ai poeti, a quelli che in questo momento, sulle mura cittadine, magari abbracciati guardano le stelle, osservano la luna. Non risponde ma, a volte, come in questa sera, aderisce. Ti aiuta a dimenticare tutte le domande a cui non trovi risposta. E’ come se dicesse che tanto… non importa.

Così continua il nostro infimo miracolo quotidiano.

Le prossime Regionali
e i temi dell’ambiente

La decisione di chi sarà a governare nei prossimi anni credo sia molto importante per la regione Emilia Romagna. La scelta che ci apprestiamo a fare non avrà dunque solo un alto valore politico, ma anche verso uno sviluppo ecologico sostenibile e per questo richiede attenzione e impegno.
Il problema infatti non è la discontinuità delle persone, ma dei progetti; bisogna allora partire dai programmi e non solo dai giornali.
Tra le priorità di Roberto Balzani, che si misura contro una larga adesione politica verso Bonaccini, leggo della riduzione dei consumi dei nostri suoli e l’incremento delle tecnologie sul risparmio energetico (subito dunque due questioni ambientali) e poi il ridisegno delle funzioni delle amministrazioni pubbliche, la questione del rapporto con Università e ricerca universitaria, il rinnovamento del sistema socio-sanitario. Tutte questioni pratiche e concrete. A partire dall’ambiente che non è “il green di cui parla la politica, quello del campo da golf”, così dichiara Balzani affermando nel merito alcuni principi da attuare in tempi brevi:
– approvazione di un piano regionale di gestione dei rifiuti, che preveda una quota minima di materiale residuale da inviare a incenerimento;
– approvazione di una legge regionale, che sostenga attraverso la fiscalità ambientale, gli obiettivi del piano: riduzione dei rifiuti ed aumento della raccolta differenziata di qualità;
– incentivi alla realizzazione di sistemi di raccolta rifiuti basati sulla tariffazione puntuale, dove si paga in base alla quantità di rifiuti indifferenziati prodotti;
– incentivi alla realizzazione di piattaforme di selezione, di impianti di recupero materiali, e di impianti di trattamento del rifiuto urbano residuo;
– riordino del sistema Conai, al fine di lasciare alla pianificazione pubblica e non al sistema dei produttori di imballaggi le scelte strategiche per i contributi ambientali;
– revisione normativa servizi pubblici locali, al fine di definire in maniera precisa il ruolo delle amministrazioni pubbliche. In particolare, si auspica una distinzione di ruoli in cui “gli asset” ambientali (reti e impianti) siano di proprietà interamente pubblica. Analogamente, la pianificazione e concessione degli investimenti dovrà essere di competenza interamente pubblica”.

Naturalmente sono andato a vedere le posizioni espresse sull’ambiente per deformazione professionale e soprattutto perché lo ritengo prioritario. Come la penso in proposito lo si può leggere sui miei articoli inseriti nella rubrica “ecologicamente” su questo stesso giornale online.
Ho però anche cercato cosa sul tema dice Bonaccini e devo dire non ho trovato la stessa chiarezza. Certo lui, in quanto segretario regionale del Pd, rappresenta quanto la regione ha fatto fino a ora. Per molto tempo la regione è stata un punto di riferimento nazionale, ma da qualche anno sono aumentati i punti di debolezza, da Comuni con bassi livelli di raccolta differenziata, a tante piccole discariche, a troppa polverizzazione e troppi inceneritori. Fortunatamente comunque molti punti di eccellenza ci sono ancora. Serve però una nuova capacità di regolazione, speriamo avvenga.
Intanto ascoltiamo cosa ci dice Roberto Balzani, mercoledì a Ferrara alle 18 a palazzo Scrofa (via Terranuova 25) e poi cercheremo di capire meglio anche Bonaccini, prima di votare.

Il coordinatore Ue Brinkhorst a Ferrara per il progetto Idrovia

da: ufficio stampa Provincia di Ferrara

Laurens Jan Brinkhorst è uno dei nove coordinatori comunitari per le reti di trasporto Ue, e suo è il compito di seguire passo dopo passo il Corridoio (Ten-T) Mediterraneo.
È in Italia per prendere parte a Milano, nei prossimi giorni, ad un forum dei ministri europei per i Trasporti e a Ferrara ha fatto tappa per vedere coi suoi stessi occhi come procedono i lavori dell’Idrovia Ferrarese. In particolare, come sono spesi i quattro milioni coi quali Bruxelles ha finanziato il cantiere che in tutto ne costa 40 e che comprende la realizzazione del nuovo ponte di Ostellato.
Per questo la Provincia estense ha organizzato un incontro istituzionale per fare il punto della situazione con il commissario europeo. Incontro al quale hanno preso parte il presidente della Provincia di Mantova, Alessandro Pastacci, con interventi di Alfeo Brognara (dirigente Navigazione Interna della Regione Emilia-Romagna), Giancarlo Leoni (dirigente Porti e Navigazione della Provincia di Mantova), Marcello Moretti (responsabile area tecnica Aipo), Marco d’Elia (dirigente Navigazione Interna della Regione Veneto), Marco Farinatti (Direzione tecnica dell’Autorità portuale di Ravenna) e della presidente della Provincia di Ferrara, Marcella Zappaterra.
Un summit di area vasta perché il sistema idroviario Padano-Veneto, come viene chiamata la grande rete d’acqua destinata a collegare Cremona direttamente con l’Adriatico, si snoda lungo il corso del Po interessando quattro regioni, 13 province e 183 comuni, come ricordato dalla presidente della Provincia di Ferrara, Marcella Zappaterra.
Le ha fatto eco il collega di Mantova Pastacci: “La presenza di Jan Brinkhorst è la prova che siamo sulla strada giusta e che la realizzazione di questa infrastruttura significa unire in un unico percosso fluviale i territori di Ferrara, Rovigo e Mantova, in una delle sfide più importanti che la stessa Europa ci sta chiedendo”.
Per quanto riguarda il tratto ferrarese, Idrovia significa una via d’acqua di 70 chilometri lungo il braccio del Po di Volano, dalla conca di Pontelagoscuro fino a Porto Garibaldi; e significa un progetto della Regione Emilia-Romagna coordinato dalla Provincia di Ferrara, con un finanziamento di 145 milioni più i 4 recentemente concessi dall’Ue.
“Un progetto – ha continuato Marcella Zappaterra – destinato a cambiare la cultura del trasporto commerciale, ma anche a ridurre le emissioni di gas serra, a diminuire i costi del trasporto merci, a rendere più sicure le strade con meno incidenti e a valorizzare un paesaggio che ha meritato le attenzioni dell’Unesco”.
Se poi si vuole ragionare più in grande, basta rifarsi alle parole di Brinkhorst per capire che questa infrastruttura fluviale rientra in una cultura della mobilità che l’Europa vuole più intermodale e lungo le due grandi direttrici continentali nord-sud ed ovest-est.
Dentro questo disegno sta la via d’acqua Padano-Veneta e Laurens Jan Brinkhorst è il nome e cognome dell’interlocutore Ue incaricato di seguire la realizzazione di questo corridoio infrastrutturale, giudicato strategico e ben oltre il solo respiro locale.
“Per valutare il grado di attenzione che Bruxelles sta dedicando alla realizzazione di questo disegno – ha detto Brinkhorst – basti pensare che per il prossimo periodo di programmazione 2014-2020 l’Ue ha triplicato i fondi a disposizione per portare a termine i corridoi Ten – T”.
Tutto è ora demandato alla capacità dei singoli territori di presentare in fretta progetti e idee per avere accesso ai finanziamenti, ha in sostanza concluso, ed evitare che i soldi vadano a finanziare opere in altri paesi.
“Tanto per fare un esempio – ha precisato – i ritardi per la realizzazione della Torino-Lione in Val di Susa sono già costati 400 milioni di euro, finiti altrove”.
“Una sfida che intendiamo raccogliere – hanno precisato i presidenti Zappaterra e Pastacci – perché quello che già ora si sta realizzando è l’espressione di un territorio che, in questo senso, intende progettare e realizzare la propria crescita in modo unitario e non diviso tra Regioni, Province e singoli Comuni”.

LA STORIA
Quando la street art è donna

Donna, francese, giovane che gira spesso con baffetti neri dipinti sul volto, questo personaggio conosciuto per puro caso nelle mie scorribande sul web e sulle riviste, alla ricerca di nuovi volti nel mondo della street art (che adoro e seguo da anni) sa davvero dell’incredibile.
I baffetti poi sono proprio geniali e vogliono sottolineare, polemicamente ma simpaticamente, l’assurdità vincolante del make up tradizionale femminile, preciso e codificato (due linee nere simmetriche come eyeliner sono assolutamente accettate mentre le stesse linee, più in basso, sulla stessa faccia, non lo sono…). Quello che è certo è che gli artisti di questo mondo sono alquanto innovativi, per non dire alternativi, ma Kashink ci piace davvero. Perché così si chiama questa nostra nuova scoperta, una delle donne che ormai iniziano a popolare sempre di più i muri del mondo. Parigina, cresciuta nelle periferie sud della capitale francese (le banlieues), dipinge personaggi proteiformi con quattro occhi, molto colorati e allegri, lontano dallo stile tradizionale dei graffiti cosiddetto “girly”, ossia femminile, leggero e lezioso.

street-art-donnastreet-art-donnaIl suo nome, “Kashink”, è una parola onomatopeica che deriva dai fumetti che leggeva da bambina, un suono d’azione. Come lei, donna d’azione. Adora i fumetti e, in effetti, i suoi disegni potrebbero facilmente rientrare in vere e proprie strisce. Il suo lavoro, che s’ispira sia alle sue origini slave e spagnole (una grande ispirazione le è arrivata da Frida Khalo e da Keith Haring) che alla Pop Art, oltre che all’illustrazione narrativa, si trova oggi sia nelle strade (le è stato chiesto di dipingere sui muri di Londra, Vienna, Bristol, Madrid, Berlino e Parigi) che nelle gallerie dove espone sempre più spesso (richiesta in crescita da Canada, Stati uniti ed Europa).

street-art-donnastreet-art-donnaSi definisce un’artista impegnata (e “ragazzo mancato”), perché dipingere per strada permette di far passare i messaggi su larga scala. Fra i soggetti che più le stanno a cuore, troviamo l’uguaglianza uomo-donna, la religione, l’omosessualità. Su questo tema, attivista piena di energia e d’idee, nel 2011, ha organizzato il “Gayfitti” alla Biennale d’arte contemporanea di Le Havre. Per questo progetto ha lavorato con “Act Up”, un’organizzazione no-profit attiva per la tutela dei diritti dei gay; supporta associazioni come “la Voix de l’Enfant” ed “Emmaüs”.

street-art-donnastreet-art-donnaSempre a favore dei diritti degli omosessuali, ha realizzato la simpatica iniziativa “50 Cakes of Gay”: Kashink pensa che sia utile usare simboli forti che tutti possano capire e che ispirino ricordi positivi. Tutti amano le torte, e le cinquanta iniziali sono diventate oltre 200 in ben 9 diversi Paesi del mondo. Un entusiasmo che ha contagiato e contagia.

street-art-donnastreet-art-donnaColori e muri sono bellissimi, per tutti. I disegni sono divertenti, originali, simpatici, pieni di energia e di fantasia. Viene da sorridere sicuramente, passandoci vicino, trasmettono allegria e voglia di disegnare anche a chi non lo sappia fare. La vita è arte e l’arte è vita, qui più che altrove. Ognuno resta libero di interpretare questi tratti come crede, come più gli piace.
Quest’arte è vera condivisione, si presenta come un nostro alter ego che ci spinge a pensare, a rivedere molte cose e persone, a darci un altro nome, a capire cosa sia davvero importante.

street-art-donnaTutto questo colore divertente e sbarazzino ci invoglia a ricominciare a riflettere e ad agire…
E allora, ragazze, al lavoro!

Foto e immagini © Kashink
Per ulteriori informazioni visitare il sito di Kashnink [vedi], la pagina Facebook [vedi] e Flickr [vedi]

L’INTERVISTA
L’assessore Felletti:
“La scuola è il futuro.
Il Festival dell’Apprendimento?
Ottima idea, facciamolo insieme”

Incontro Annalisa Felletti, assessore all’Istruzione, nel suo ufficio in Residenza municipale. Un gioiello di arredo decò che meriterebbe gli onori dell’Expo milanese. Un incontro atteso, da entrambi, che immediatamente induce alla confidenza e al tu reciproco. Come non chiederle subito, avendo sollecitato, io, dalle pagine del nostro quotidiano il ritorno dell’assessorato all’Istruzione, «che cosa ha indotto il sindaco a cambiare idea?». «Il contesto non è quello di prima», osserva Annalisa, «le innovazioni forti che hanno caratterizzato la politica dei servizi e del sistema integrato nella passata legislatura, che il sindaco ha voluto monitorare direttamente, ormai sono consolidate. Nello stesso tempo con le riforme istituzionali, a partire dal superamento della Provincia, crescono i compiti del sindaco, ma l’impegno a tenere alta la gestione e la qualità dei servizi non può venire meno, di qui la necessità di attribuire la delega ad un assessore.» Alla domanda «i progetti del tuo mandato?», “valorizzare, essere punto di riferimento, fare rete”, sono le parole chiave dell’assessore. «In un recente incontro a Formia, città gemellata con noi, ho potuto toccare con mano come l’esperienza e il patrimonio dei nostri servizi educativi non sia solo una grande ricchezza per la città, ma un punto di riferimento per tanti oltre le nostre mura. Questo capitale, dunque, deve essere sempre più valorizzato, occorre inoltre che l’assessorato si ponga come punto di riferimento di tutta la scuola ferrarese, in fine bisogna fare rete: Comune, Stato, Privati. Per scendere più in concreto ho delle idee, cerco di sintetizzarle: acquaticità, che vuol dire nuoto fin dal nido, cyberbullismo, lotta all’omofobia, educazione alimentare e ambientale, promozione della conoscenza del territorio tra i nostri studenti, dalla città al Delta, coinvolgimento nelle istituzioni dei bambini e dei giovani». Le risorse. In tempi di spending review, mi viene spontaneo chiedere «Su quante e quali risorse pensi di contare?» «In un quadro generale di risorse che calano, il nostro impegno è di mantenerle inalterate, senza tagli sostanziali, tantomeno tagli lineari. Faremo tutti gli sforzi possibili per continuare a investire sulle risorse umane, in particolare sul personale insegnante, sul suo aggiornamento, sulla sua formazione. L’obiettivo è quello di un grande investimento sul capitale umano. Bene. E allora parliamo della “buona scuola”. «Il governo Renzi lancia come strategico il rapporto scuola territorio. Da questo punto di vista, se ti chiedessi luci e ombre della scuola ferrarese? «È un po’ presto. Sto ancora approfondendo. Con una battuta potrei dire che al momento vedo molte luci, per la qualità e la varietà dei servizi che offriamo» «Sì. Questo per le scuole comunali. Ma io mi riferivo alla scuola statale…» «Beh, lì qualche difficoltà sicuramente in più…» Elenco: edilizia scolastica, scuole aperte, educazione musicale, rapporto con il Conservatorio e le scuole a indirizzo musicale, educazione motoria, strutture e associazioni del territorio, educazione permanente, il futuro del Cpia (Centro provinciale istruzione degli adulti), scuola lavoro… «Per ognuna mi bastano delle risposte sintetiche, delle parole chiave». «In tanto lunedì inauguriamo, dopo il terremoto, la scuola Mosti. Per il resto investimenti continui, soprattutto sul fronte della sicurezza. Per le scuole aperte è fondamentale la sussidiarietà, in particolare il rapporto con i comitati dei genitori nei diversi istituti. In un territorio come il nostro dove le note musicali sono nate deve essere assolutamente realizzato un grande investimento, anche progettuale, sull’educazione musicale. Dell’educazione motoria ho già parlato a proposito dell’acquaticità, ma ti voglio dare un’anteprima, il 2 ottobre l’assessorato allo sport presenterà alla città la “Consulta dello sport”, noi ne saremo parte, per lavorare in sinergia. Il tema della dell’educazione permanente va rilanciato. La questione del Cpia è complessa. Ma c’è l’impegno dell’ente locale affinché a settembre del prossimo anno anche a Ferrara il Cipia possa partire. Infine scuola e lavoro. Qui si tratta di aggiornare il sistema alle nuove esigenze. Ma tutto dipende dalle decisioni nazionali. Per cui al momento stiamo alla finestra, per capire quali sono i canali su cui investire». Nella rubrica “La città della conoscenza” da tempo ho proposto di realizzare a Ferrara, come in altre parti del mondo, il Festival dell’Apprendimento che coinvolga dai piccoli agli adulti, dalle scuole alle istituzioni culturali. Allora chiedo ad Annalisa «Cosa ne pensa?». «Io rilancio. Sono molto seria. È un’ottima idea. Anzi, propongo a ferraraitalia di essere partner di questa cosa, come la rivista Internazionale lo è di Internazionale Ferrara. È una cosa a cui credo molto senza riserve». «Per concludere, lunedì 15 riapre la scuola. Cosa vuoi dire agli studenti, a chi lavora nella scuola, alle famiglie?» «La scuola più che mai è il futuro di questo Paese. Tutto dipende dall’istruzione, per cui la scuola non può essere un tema per i soli addetti ai lavori, ma riguarda tutta la società. Senza fiducia nella scuola non c’è fiducia nel futuro. Auguro a tutti quanti un proficuo anno scolastico».

L’INCHIESTA
Moreno Po: “Idrovia in stallo?
Nessuno sembra crederci.
Si guardi a Venezia e Mantova”

SEGUE – La storia è lunga, complicata e costellata di polemiche. Il tratto ferrarese dell’idrovia “quattr e mez”, come l’hanno soprannominata per la retromarcia che oggi la vede maggiormente votata al turismo di nicchia piuttosto che al trasporto delle merci, finalità per cui è stata pensata, resta un punto interrogativo nello sviluppo della città e della sua provincia. Quale futuro? Quali gli intoppi e la destinazione dei finanziamenti? E ancora, il denaro, 140 milioni di euro pubblici, sono rimasti vincolati agli obiettivi dell’opera così come deve essere? Ne abbiamo parlato con Moreno Po, dirigente del settore Pianificazione territoriale, turismo, programmazione strategica e progetti speciali della Provincia dismessa.

Come è nata la scelta di fare passare l’idrovia per la città?
La decisione finale arriva dal finanziamento del ministero delle Infrastrutture e Trasporti. Il progetto risale agli anni ’70; rispetto a quello iniziale, con cui si prevedeva un canale di collegamento a est per raggiungere Ravenna (il costo preventivato inizialmente era di 4.200 miliardi di vecchie lire, ndr) è stato modificato. Il sentimento comune ha portato alla rinuncia di attraversare le valli in virtù del loro valore ambientale. Accantonato il canale, utile tra l’altro per la regimentazione idraulica, si è deciso di arrivare a Ravenna tramite Porto Garibaldi. In quell’occasione è stato siglato un accordo dall’assessore uscente alla Mobilità, logistica e trasporti Alfredo Peri con cui si sono allargate le competenze del porto di Ravenna affinché gestisse il traffico delle merci e investisse risorse su Porto Garibaldi. Esiste tuttora un tavolo di lavoro aperto. E’ però la politica a doversi concentrare sul ruolo ravennate di piattaforma logistica, fermo restando che è lecito anche cambiare idea e adattare il progetto a nuove esigenze. Mi piacerebbe che la Regione si decidesse a riflettere, valutando anche orizzonti esterni ai propri confini.

L’idrovia, come dicono in tanti, è stata declassata?
Io lavoro per la classe quinta, il progetto è sempre stato e resta questo. Per quanto riguarda le merci come ovvio si penserà a uno scalo legato alla parte industriale della città, al di là di questa considerazione, mi sento di dire che manca l’impegno di cercare nuovo denaro utile a un’opera ancora molto arretrata e sulla quale si ragiona poco e male.
I finanziamenti, arrivati dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, restano dunque vincolati alla propria natura, nulla a che vedere con il turismo; anche se, oggi, l’Europa comincia a pensare di sostenerlo, cosa finora non prevista.

Quanto è stato speso finora?
Abbiamo chiuso alcuni cantieri e utilizzato metà del denaro, restano 70 milioni da spendere tra Pontelagoscuro e il canale Boicelli, la via obbligata per la navigabilità prevista. Ora la domanda è: quale futuro si vuole per questa parte di città, come ci si approccia al fiume? In quale direzione vogliamo andare? Le questioni tecniche, come l’innalzamento di un ponte, si risolvono, resta però indispensabile la pianificazione. Si deve tenere conto di un’area industriale di 300 ettari, per questo ritengo importante avere una visione pluridirezionale e usare i fondi in base degli obiettivi precisi che ne permettano il rendimento. Guardiamo anche verso Venezia e Mantova.
E’ mai possibile che manchi un progetto? Le operazioni non decollano perché nessuno sembra crederci. Per fare un esempio torno al ruolo ravennate, al porto, alla sua capacità di movimentazione e organizzazione logistica che sono limitate. Il rafforzamento del nodo ferroviario utile a dare forza e competitività all’economia portuale è rimasto lettera morta

Le regioni interessate all’idrovia padano veneta, inclusa l’Emilia-Romagna, hanno speso cifre a più zeri (solo l’Emilia-Romagna 500 mila euro) per studi di fattibilità sulla possibile bacinizzazione del Po, cosa ne pensa la giunta provinciale uscente?
L’abbiamo sempre vista con poco entusiasmo, la navigazione non ha bisogno di bacinizzazioni, è evidente che gli effetti negativi si ripercuoterebbero sul Delta, per noi rallentare l’acqua significherebbe limitare un’effettiva risorsa, tra l’altro parliamo di acqua che compriamo e paghiamo. Non si capisce il motivo per cui l’agricoltura di Ferrara, Modena e Mantova non sia intervenuta a gamba tesa su un argomento di peso come questo.
In conclusione l’idrovia è un’incompiuta dall’anima commerciale. Il suo utilizzo in chiave turistica è praticabile e non rappresenta certamente una novità, ma appare una soluzione di ripiego che prospetta numeri di scarso interesse. Le imbarcazioni fluviomarittime non possono navigare lungo il fiume e Porto Garibaldi non è quel porto marittimo integrato a Ravenna, che avrebbe dovuto diventare, secondo le indicazioni del protocollo d’accordo siglato nel 2001 da Regione, istituzioni ravennati e ferraresi.
Ravenna, da appena qualche anno ha depennato dal proprio futuro il canale di collegamento con il Po. Per raggiungere Mantova con le imbarcazioni “importanti” entra nel grande fiume da Porto Levante, infischiandosene dell’idrovia e, conseguentemente, dei patti ufficiali presi in passato. A riprova del disimpegno romagnolo sono arrivate un paio di anni fa anche le parole dell’autorità portuale di Ravenna che, durante un pubblico incontro organizzato dalla Camera di Commercio di Ferrara, ricordò l’impossibilità della convivenza di due porti marittimi nell’arco di 30 chilometri. A soccombere, ovvio, Porto Garibaldi. Come sempre tutto e il contrario di tutto in perfetto stile italiano.
Detto questo, la domanda sul tavolo è sempre la stessa: il ministero sa o ignora (vuole ignorare) l’inconsistenza dell’idrovia di V classe? O pensa di potersi trincerare dietro il classico “work in progress”?

3. FINE

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IL FATTO
RemTech, salone delle bonifiche ambientali: centomila ettari
e seimila aree inquinate.
Allarme salute ed ecomafie

RemTech Expo, l’evento più specializzato in Italia sulle bonifiche dei siti contaminati e la riqualificazione del territorio, si tiene da mercoledì a venerdì, alla Fiera di Ferrara. E’ una buona occasione per approfondire temi importanti. Ha già otto edizioni alle spalle ed è diventata la più importante fiera ambientale del settore assieme ad H2O che nel frattempo, per dimensione e importanza, è passata a Bologna.
RemTech vi sarà anche la Coast Esonda Expo 2014, la quinta edizione del Salone sulla gestione e la tutela della costa e del mare, il dissesto idrogeologico e la manutenzione del territorio a rischio (è l’evento italiano clou nel settore) e RemTech Training School (seconda edizione) sulle tecnologie innovative di bonifica, inaugurata con ottimi riscontri nel 2013, propone anche quest’anno temi e casi di grande interesse e attualità.

Questi temi così delicati e importanti hanno bisogno di essere discussi e affrontati con crescente capacità e professionalità. Significativo da questo punto di vista il recente dossier presentato da Legambiente dal titolo“Bonifiche dei siti inquinati: chimera o realta’”; in sintesi ci dice che ci sono centomila ettari inquinati in 39 siti di interesse nazionale e seimila aree di interesse regionale, in attesa di bonifica.  Da Taranto a Crotone, da Gela e Priolo a Marghera, passando per la Terra dei fuochi: un business da 30 miliardi di euro tra ritardi, inchieste giudiziarie e commissariamenti . La storia del risanamento in Italia sembra ferma a dieci anni fa nonostante i drammatici effetti sulla salute e il rischio della diffusione di ecomafie e criminalità in tutta Italia: dal 2002 concluse 19 indagini, emesse 150 ordinanze di custodia cautelare, denunciate 550 persone e coinvolte 105 aziende
Vorrei ricordare che il sito contaminato si riferisce a tutte quelle aree nelle quali, in seguito ad attività umane svolte o in corso, è stata accertata un’alterazione delle caratteristiche qualitative dei terreni, delle acque superficiali e sotterranee, le cui concentrazioni superano quelle imposte dalla normativa (a cui si rimanda per la attività di caratterizzazione dei siti, alle tecnologie di bonifica e alle analisi di rischio). E’ ormai risaputo che le attività di bonifica dei siti contaminati hanno un costo sociale dieci volte maggiore della prevenzione. Le bonifiche sono diventate in campo ambientale l’area di maggiore sviluppo e spesa.

L’analisi di rischio sanitario-ambientale è attualmente lo strumento più avanzato di supporto alle decisioni nella gestione dei siti contaminati che consente di valutare, in via quantitativa, i rischi per la salute umana connessi alla presenza di inquinanti nelle matrici ambientali. Per questo il programma di Remtech segue un percorso mirato che parte dalla normativa e da una verifica del suo stato dell’arte, al rischio/danno ambientale/tutela della salute, alle tecnologie/innovazione/casi applicativi, alla sostenibilità, a temi dedicati di grande importanza quali amianto, discariche, terre e rocce da scavo e molto altro.
Un vasto programma di iniziative convegnistiche e seminariali a partire dal Convegno di apertura – Benchmarking sulle bonifiche in Italia, in Europa, nel mondo, poi seminari su temi di grande attualità quali ‘Impatti ambientali di un intervento di bonifica: caratterizzazione, progettazione, costruzione, monitoraggio, applicazione di metodologie di bonifica di matrici contaminate tramite biotecnologie integrate da processi chimico-fisici, Il danno ambientale’. ‘Cos’è: rischi e oneri delle imprese‘, ‘Come si gestisce: quali i rimedi, politiche europee sui temi: bonifiche, protezione delle coste, prevenzione del rischio e dissesto idrogeologico, materiali inerti’, ‘Le aree urbane dismesse: approcci integrati per la bonifica e la rigenerazione’, ‘Recupero di materia da discariche esaurite: il landfill mining’, ‘L’ottimizzazione delle bonifiche: esperienze, strumenti e incentivi per la riqualificazione e la riconversione‘, ‘Gestione rischio amianto negli edifici pubblici e privati’. ‘Gli obblighi di legge nazionali e regionali dei proprietari e/o dei responsabili delle attività’.

Il grave errore che spesso si commette è quello di considerare questi temi solo per addetti ai lavori, a carattere tecnico, non pensando che invece si tratta di argomenti importati per tutti noi perché rappresentano un fattore determinante nella qualità ambientale. Sarebbe bello che i cittadini, come da tempo hanno fatto sugli impianti di smaltimento dei rifiuti e sulle raccolte differenziate, decidessero di capirci di più e interagissero con il sistema pubblico e privato. E’ cresciuta la consapevolezza della corretta informazione e il cittadino-cliente si aspetta di essere informato perchè attraverso il consenso e la legittimazione aumenta il suo coinvolgimento. Si sente il bisogno di trasparenza e di fiducia. Spesso invece si avverte una pregiudiziale diffidenza. Tra le cause vi è la mancanza di dialogo, la scarsa informazione, le scarse competenze, ma anche gli interessi economici, l’iniqua distribuzione di svantaggi per pochi che sono costretti a subire; il bisogno di qualità, di sicurezza, di rispetto ambientale, la coscienza civica come valore fondamentale, la richiesta crescente di certificazione, e tanto altro ancora.
Anche per questo Remtech è una buona occasione da visitare. L’evento si rivolge infatti ad aziende, amministrazioni, associazioni, istituzioni, professionisti, università, industria, comparto petrolifero e settore immobiliare. Si caratterizza per un’area espositiva altamente qualificata, una sessione congressuale tecnico-scientifica di elevato livello, corsi di formazione permanenti per operatori, autorità e decision maker.
Per questo mentre a parole tutte le Regioni e le istituzioni pubbliche dicono di fare tutto il possibile, questa è una importante opportunità per valutare il loro lavoro e riflettere su cosa si possa fare per arginare questo grave problema che produce danni ambientali insostenibili. Possiamo pensare all’equilibrio tra ciò che ci serve e ciò che preleviamo; il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere le possibilità future. La capacità di mantenere attivo un processo ecologico di sviluppo sostenibile.

L’OPINIONE
Tutti pazzi per Renzi,
il mutante genetico

Il “renzismo” viene ormai spacciato come un fenomeno politico inarrestabile. O ti adegui allo stil novo (tortellini, gelato e docce comprese) o sei un residuato. Demodè. Si va affermando sulla scia del nuovo granduca di Toscana un nuovo ceto politico fiero ed orgoglioso di non avere nessun punto di riferimento con il passato. Né storico, né culturale.
Insofferente al richiamo ad affrontare senza pressapochismo e superficialità i temi istituzionali e le complessità sociali proprie di una modernità che ora più che mai deve fondarsi su valori ed idealità proprie storicamente dei movimenti progressisti. Il dato di fatto è invece che nell’accezione comune la distinzione tra destra-sinistra si va annullando. Il renzismo sta completando una mutazione genetica della sinistra che è di merito, di sostanza e persino simbolica. Un melting pot politico ed ideale che lascia interdetti.
“Cambierò l’Italia” ripete ossessivamente il premier. E per il cambiamento si appoggia a Berlusconi e le ventilate riforme hanno un che di ambiguo che fa temere pasticci. Vedi giustizia, jobs act, lotta alla corruzione, eccetera. Renzi ha pescato con il voto alle europee anche a destra e sopratutto in quella zona “grigia” che gli ha affidato speranze e voglie che con il cambiamento hanno poco a che fare. Lotta all’evasione fiscale? Non esageriamo. I sindacati? Vanno ridimensionati. I diritti dei lavoratori? Sono troppi. Le regole? Me le faccio io. La corruzione? Un male necessario. I partiti e la politica? Se ne può fare a meno. Ed altro ancora che ripropone quel qualunquismo italico origine di tanti mali.
Nell’azione di questo governo non c’è nessun tentativo di alzare l’asticella morale ed etica di costoro. Il senso di cittadinanza che prevede diritti ma anche doveri. Li si blandisce scendendo pericolosamente sul loro terreno. Di qui un voto ambiguo che assegna alle mitiche riforme significati diversi e contrastanti. Il “popolo” (quale?) ci chiede le riforme, urla l’allegra brigata renziana distruggendo Marx e le classi sociali e sempre più convinta di essere unta dal Signore con quel 40,8% ottenuto alle europee.

In molti si arrovellano sull’enigma Renzi. Chi è davvero Renzi? Un innovatore? Un furbo di tre cotte? Un uomo che ambisce solo al potere? E’ figlio di Berlusconi? E’ un novello Craxi? Le analisi si sprecano e “Matteo” fa di tutto per rendersi inclassificabile.
Probabilmente siamo di fronte ad un “ircocervo” (Togliatti) politico: un uomo contraddittorio, senza solide radici culturali – e quindi politiche – che vuole tenere insieme più cose. Cresciuto all’insegna dell’Italia “da bere” e dell’edonismo berlusconiano. Da questi ha ereditato la spregiudicatezza, l’affabulazione ammaliatrice, il gusto per le gag, le capacità manovriere. Da Craxi una certa arroganza e sicumera che si esprime contro i detrattori, “gufi e rosiconi” (tutti quelli che non condividono il suo operato), che fa il paio con la puntigliosità e scientificità con cui premia amici e adulatori. Il tratto che li accomuna è l’ambizione, l’autostima smisurata, la ricerca del potere.
Di certo Renzi dimostra che da Berlinguer non ha ereditato e non vuole ereditare niente. Moriremo dunque renziani? Non credo. Il 40,8% per cento colpisce e frastorna. Ma la realtà e più dura della propaganda. Il nuovo vate ha ottenuto di fatto meno del 20% del corpo elettorale complessivo. Due italiani su dieci. L’ottanta per cento – includendo quel 50% che non vota – sceglie altrimenti. Ormai la quasi totalità dei sindaci viene eletta con larga minoranza elettorale e quindi scarsa rappresentatività. La disaffezione e la sfiducia dilagano. Un dato che allarma e da cui partire per un vero cambiamento che esalti democrazia e partecipazione, giustizia sociale e rigore morale. Su questi valori si formò la sinistra scrivendo nobili pagine di storia che Renzi ed i renziani farebbero bene a non ignorare.

La ‘buona scuola’ dei bambini

Sistemando il materiale per l’inizio dell’anno scolastico ho ritrovato una serie di cartoncini colorati sui quali i bambini della classe dove insegno avevano scritto che cosa è per loro una “buona scuola“. Risalgono al febbraio scorso, quindi in tempi non sospetti o meglio in un periodo in cui lo slogan “La buona scuola. Facciamo crescere il Paese” non era stato ancora coniato dall’attuale presidente del Consiglio.
Li propongo all’attenzione degli interessati per evidenziare come per i bambini, insieme all’aspetto strutturale e a quello degli apprendimenti, una “buona scuola” debba essere molto attenta all’aspetto relazionale. Comunque crediate che in una classe, oltre all’insegnante, anche lo studente si aspetti di essere ascoltato, buona lettura dei loro pensieri.

Una buona scuola è:
– un luogo dove si impara e ci si vuole bene;
– una struttura dove si mandano i bambini che da “insapienti” diventano sapienti;
– un parco che nelle ore di lezione diventa “struttura”;
– formata da alunni ordinati e concentrati e da insegnanti gentili;
– una bellissima sgridata dei maestri;
– dove ti diverti e impari cose nuove:
– dove stai con gli amici;
– dove aiuti gli altri;
– dove i maestri sono gentili, ti fanno divertire e ogni tanto ti fanno rilassare;
– dove i bagni sono puliti;
– dove si mangia bene;
– dove si fa qualche gita per approfondire gli argomenti;
– quando ha tutto l’occorrente che può servire;
– un posto dove studi e impari ma ci deve essere anche del tempo per divertirsi, fare amicizia e giocare;
– dove i maestri sono buoni ma severi;
– un luogo dove c’è l’amore dei maestri;
– dove si impara e ci si riposa;
– dove ci si diverte e si trovano gli amici;
– un posto dove i maestri ti insegnando le cose divertendoti;
– quando è super grande;
– dove viene tanta gente a spiegare cose diverse;
– dove i maestri stanno sempre attenti a quello che gli alunni fanno;
– dove si studia tutti insieme, in compagnia;
– dove tutti vanno d’accordo con tutti;
– un posto pieno di disegni e colori;
– dove i maestri ti aiutano a imparare bene;
– dove ci si deve divertire in tutte le materie;
– dove tutti i bambini devono essere amici;
– dove si diventa amici;
– dove si impara divertendosi.

Test-imonianze intelligenti

Un paio di mesi fa gli alunni della Barrowford Primary School, una scuola elementare inglese nella contea di Lancashire, hanno ricevuto una lettera, firmata dal dirigente scolastico: Rachel Tomlinson, e dal responsabile del sesto anno: Amy Birkett.
Lo scopo non era solo quello di comunicare l’esito di alcuni test, ma soprattutto quello di ricordare ai bambini e alle loro famiglie che ci sono molti modi per essere intelligenti.
Credo sia un bel modo per far capire alla comunità cosa è davvero una “buona scuola”.
Il fatto che una lettera simile fosse già circolata negli Stati Uniti l’anno precedente non toglie niente all’importanza della comunicazione fra scuola e famiglia, sottolineata e sottoscritta in tal modo dai responsabili scolastici di questa scuola inglese.
Questa è la traduzione della lettera:

Caro Charlie,
ti allego i risultati del tuo Test Ks2 di fine anno.
Siamo molto orgogliosi dell’enorme impegno che hai dimostrato e durante questa settimana faticosa hai fatto del tuo meglio.
Tuttavia siamo anche preoccupati di come questi test non sempre valutino quello che vi rende speciali ed unici.
Le persone che creano questi test e che li correggono non vi conoscono, non come vi conoscono i vostri insegnanti, non come spero di conoscervi io, e certamente non come vi conoscono le vostre famiglie.
Loro non sanno che molti di voi parlano due lingue.
Loro non sanno che suonate uno strumento musicale o che danzate o che dipingete.
Loro non sanno che i vostri amici contano su di voi o che la vostra risata fa brillare i giorni più anonimi.
Loro non sanno che scrivete poesie o canzoni, che praticate sport, che sognate sul futuro o che a volte vi prendete cura del vostro fratellino o sorellina dopo la scuola.
Loro non sanno che avete viaggiato in un luogo meraviglioso o che conoscete il modo di raccontare storie fantastiche o che vi piace trascorrere il tempo con persone speciali, in famiglia o tra gli amici.
Loro non sanno che siete affidabili, gentili e premurosi e che ogni giorno fate davvero del vostro meglio…
I punteggi vi diranno qualcosa ma non vi diranno tutto.
Quindi, gioite dei vostri risultati e siatene orgogliosi, ma ricordate che ci sono molti modi di essere intelligenti.

Con le bonifiche degli anni ’70
si completa la grande opera

STORIA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE FERRARESE (SECONDA PARTE)

Nel frattempo, anche i possidenti del Consorzio del II Circondario Polesine di San Giorgio intrapresero varie opere di prosciugamento. Però in questo caso non si ritenne opportuno concentrare in un solo impianto di sollevamento tutte le acque di scolo ma, piuttosto, di creare diversi bacini autonomi muniti ciascuno di una propria macchina sollevatrice. Nacquero così nove piccole bonifiche: i bacini di Denore, Tersallo, Bevilacqua, Martinella, Trava, Benvignante, Sabbiosola, Montesanto e Campocieco. «L’impresa di maggior rilievo nel II circondario fu però la bonifica meccanica della grande Valle Gallare, un bacino di 12.500 ettari, i cui lavori erano iniziati nel 1873. In questo comprensorio si era formata una grande azienda capitalistica, l’Azienda Valgallare, ad opera di un intraprendente pioniere e progettista di bonifiche, l’ingegnere milanese Girolamo Chizzolini»*.
Ai primi del Novecento incominciarono i lavori della bonifica di Burana: un territorio vastissimo (oltre 100.000 ettari), esteso sulle tre province di Ferrara, Modena e Mantova, ad opera diretta dello Stato. A partire dagli anni Venti si convertì in terra coltivabile anche il fondo delle valli di Comacchio: le valli Pega, Rillo, Zavelea, Ponti e altre minori vennero messe all’asciutto e trasformate in terreni produttivi. Più tardi, nel secondo dopoguerra, furono avviate nuove opere di bonifica da parte dell’Ente Delta Padano nei territori di Mesola e Goro. E intorno alla metà degli anni Sessanta venne sottoposta a prosciugamento e a riconversione agraria la grande Valle del Mezzano, un bacino esteso oltre 20.000 ettari fino ad allora utilizzato solo come valle da pesca.

__________
*F. Cazzola, La bonifica, in F. Bocchi (a cura di), La Storia di Ferrara, Poligrafici Editoriale, Bologna 1995.

‘Le scelte che non hai fatto’, testamento letterario
di Maria Perosino

Mentre lei scriveva “grazie vita”, la salute le si spegneva, mentre il suo libro usciva a giugno sugli scaffali delle librerie, lei se ne andava per sempre.
Le scelte che non hai fatto di Maria Perosino (Einaudi, 2014) bisognerebbe leggerlo dalla fine, dall’ultima riga che va oltre l’ultima pagina e chiude una storia, anzi una vita, e sbarazza il solito abito triste che si indossa per guardare le scelte non fatte. Le scelte che non hai fatto fa alzare lo sguardo, tendenzialmente basso e mesto quando è rivolto al passato non vissuto, e chiede dove sta scritto che le scelte non attuate sarebbero state migliori di quelle fatte e vissute. Forse è solo una questione di mistero, di fascino per il non raggiunto, di scarto che, chissà, se era da buttare davvero.
Ma non lo sapremo mai, sappiamo solo cosa è successo e solo questo possiamo mettere in fila.
Maria Perosino, con quel suo elucubrare lieve e profondo, ti accompagna nella passeggiata dei pensieri, ti porta a spasso, con lei ci provi, prima timidamente e poi con più coraggio (è lei a dartelo) a girarti indietro e a guardarti quando eri a un bivio. Le vedi tutte lì davanti, nitide, le cose che non hai fatto, l’altra metà di ciascuna scelta che non è mai stata un piano B di scorta perchè l’hai lasciata per abbracciare altro che è diventato, amore, lavoro, amici, ricordi, storia personale.
Beati i risoluti, quelli che riescono a scegliere senza fremiti, senza ritrarre anche un solo istante la mano prima di lanciare quel sasso. Per Maria Perosino, invece, le scelte, “le due opzioni non sono mai vestite una di bianco e una di nero, sono due nuances di grigio. E si finisce per scegliere quella che convince di più non noi stessi per intero, ma, appunto, il 51% di noi”.
Indietro resta il 49%, minoritario e perdente, ma pur sempre di un certo peso se ci ha tenuti in ballo fino all’ultimo, spesso pronto a bussare alle porte della memoria per ricordare che sarebbe potuto essere qualcosa.
In questo ultimo libro di Maria Perosino c’è tanta vita vissuta, anche quella degli altri che le sono passati vicino o vicinissimo e che lei osserva al punto da riflettere se le persone, nel loro percorso, vadano avanti progredendo e infilando la vita oppure espandendosi in chissà quanti inizi. Maria si classifica fra questi, più inizi che finali, una che considerava il futuro “sinonimo di felicità”.
Nel futuro ci stanno anche i sogni che diventano per lei materia quasi plastica, bisogna averli davanti agli occhi per capire quando è meglio abbandonarli o crederci davvero: “c’è un punto, nella vita, in cui s’infrangono i sogni? O di colpo si avverano?”.
Forse nè l’uno nè l’altro, alcuni sogni si scolorano col tempo, di altri, invece, ci si accorge che sono già realtà. Ancora una volta, vita.

Le baruffe della politica cancellano il convegno
sulla cultura ebraica

La battuta forse più cattiva ma più intelligente sulla situazione politica italiana l’ho letta ieri sulla “Stampa” nel commento della Jena: “L’orsa Daniza è morta nel sonno, come la sinistra italiana”.
Un commento che ben si attaglia alle peripezie e giravolte della sinistra (?), del suo partito più importante, il Pd, e del suo conduttore Matteo Renzi da Firenze. Il twitteraggio e la posta informatica sta in queste ore raggiungendo vertici insperati per la gioia di chi lo usa e sfrutta, producendo quel pensiero confuso che Umberto Eco denuncia su “La Repubblica” nel suo pezzo titolato “Com’è facile non capirsi al tempo delle mail”. Se trasmettere, commenta il grande semiologo, significa alla fine trasportare “si ha trasporto quando trasferisco una mia idea nella mente di qualcun altro e trasporto quando si trasferisce un pacco postale da Milano a Roma”. Ma questo assioma sembra perdersi nella comunicazione odierna. L’influsso dell’accelerazione porta uno scompenso nella risposta dovuto alla forza dell’inconscio e alla reazione che esso comporta tanto che si produce un impatto che non permette la distaccata e meditata risposta.

Ecco allora che la formula della comunicazione immediata crea problemi di incomprensioni visibilissimi nella storia delle candidature alla guida della Regione Emilia Romagna tra rinunce e no delle presentazioni e al caos che sembra prodursi, mentre disperatamente e apparentemente impassibile il capo del governa twitteggia improbabilissimi “fate vobis”.

E a “Ferara”? Qui la situazione a vederla dall’esterno e da chi osserva senza implicazioni di sorta sembra un sciogliete le righe e pensate a voi stessi. Un po’ alla maniera di Razzi interpretato da Crozza. Modonesi entra in campo e bacchetta Calvano, Zaghini risponde proclamando amicizia fraterna all’Aldo poi lancia la frecciatina sulla autocandidatura del Modonesi arrivata in ritardo. Nel frattempo scende in campo Roberto Balzani e infuria su facebook il tentativo di scoprire i segreti pensieri di Ilaria Baraldi. Si favoleggia di andate bolognesi: Maisto? Di rimpastini e rimpastoni di giunta mentre sui giornali locali si lanciano strali, pungiglioni, accuse e difese.
Non è un bel vedere né un bel sentire. Specie per chi osserva dal suo piccolo angolo della cultura offerte che dimostrano un affannoso tentativo di produrre dati positivi che legittimino scelte e tagli. E vai con i Buskers e i Balloons e le Sagre, promettendo poi di rifarsi con Internazionale e i programmi teatrali (entrambe ottime e serie iniziative). Ma di quella cultura – ammetto – anche un po’ noiosa ristretta agli specialisti, eppure fondamentale perché non venga dilapidato il grande patrimonio scientifico e storico del territorio che ne è?

In vena di macabri scherzi si legge che un importante critico ferrarese si propone come mediatore per trasferire, se la Popolare di Vicenza mettesse sul tavolo la proposta di acquisizione della Cassa di Risparmio, alcuni pezzi veneti importanti delle collezioni di Carife e della sua Fondazione da trasferire a Palazzo Thiene di Vicenza, sede delle collezioni della Popolare. Basta leggere la risposta composta ed equilibrata della nuova direttrice della Pinacoteca Nazionale dei Diamanti, Anna Stanzani, per capire l’infondatezza (si spera) di quelle pretese. Ma dalle istituzioni c’è stata una presa di posizione? Non mi pare. Certo! Talvolta è sbagliato inseguire sulla stampa gossip, verità, e supposizioni che Eco denuncia nell’articolo di “Repubblica”, ma sembra purtroppo che in questo triste periodo pronunciare la parola “cultura” senza aggiungervi altre spiegazioni (ricavi, turismo, commercio) sia più che un peccato un’esibizione di una superiorità che non deve esistere. O la cultura produce o se ne stia buona nell’angolino delle punizioni. E naturalmente parlo di quella elitaria, per pochi sfrontati che non capiscono né vogliono capire. I “professoroni” insomma.

Un’ultima considerazione. Ieri i giornali locali, tutti, davano notizia della giornata europea della cultura ebraica di cui Ferrara sarà la capofila. Si è parlato di tante iniziative, teatro, mostre performances, presentazioni con ministri e politici. Si è detto di tutto. Non una parola sull’aspetto scientifico della giornata che si terrà alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea domenica 14 settembre alle 16,15: il convegno di studi sulla figura femminile nella cultura ebraica e nella società, con interventi di altissimo livello: da Elena Loewenthal ad Anna Dolfi, da Gianfranco Di Segni a Luciano Meir Caro e con gli apporti di Elisabetta Traniello ed Elisabetta Gnignera.

E’ il mood di “Ferara” o è il segno di una rinuncia che esce fuori dalle mura e investe l’intera nazione?