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Nel contesto attuale lo statuto e il ruolo delle imprese all’interno della società diventa sempre più frequentemente oggetto di riflessione, discussione e polemica. L’importanza delle imprese ci viene ricordata ogni giorno da un discorso economico invasivo e dalla frequenza con cui nel linguaggio comune e massmediatico ricorrono termini come consumatore, imprenditore, manager, investitore, cliente.
Il capitalismo neoliberista che ha imperato negli ultimi decenni ha imposto una nuova antropologia nella quale proprio la funzione di ‘consumatore’ ha sostituito quella di ‘cittadino’.
Accanto a questa rivoluzione concettuale, la globalizzazione ha aumentato, in misura mai conosciuta prima, la distanza tra azione e conseguenze ultime dell’azione stessa: in tale contesto, l’impresa (in particolare la grande impresa multinazionale), rischia seriamente di diventare (e in molti casi è diventata) uno strumento per la cancellazione della responsabilità.
Questa insidiosa deriva si fonda su una certa filosofia che ha promosso come unico scopo dell’impresa la massimizzazione del valore per la proprietà nel breve periodo. L’idea che l’impresa sia una macchina per produrre utili per gli azionisti si regge, secondo i suoi sostenitori, su almeno tre considerazioni:
– esiste una netta distinzione tra mercato (luogo della produzione e dello scambio efficiente) e Stato, agente della redistribuzione della ricchezza generata;
– c’è una netta separazione temporale tra produzione e redistribuzione che rappresentano momenti diversi e indipendenti tra loro (prima si produce, poi si distribuisce);
– il mercato è una istituzione che, contrariamente allo Stato, si autolegittima: l’impresa che di questa istituzione è l’asse portante si autolegittima anche essa in quanto produttrice di quella ricchezza che sarà in parte incassata e ridistribuita dallo Stato.
Per i fautori di questa dottrina l’agire economico dell’impresa risulterebbe di per sé orientato al bene in quanto finalizzato a produrre direttamente e indirettamente valore: esso si collocherebbe cioè in una sfera di neutralità protetta rispetto alle istanze critiche emergenti dalla società.

Questa posizione viene messa in discussione da molti, in particolare da quanti sostengono l’importanza della responsabilità sociale (e non solo economica) dell’impresa. Ad oggi non esiste una definizione unica e condivisa di tale nozione: vi sono piuttosto diversi livelli concettuali che rimandando a qualche tipo differente di legittimazione etica:
– ad un primo livello l’impresa ha l’obbligo ovvio di agire nel rispetto di leggi, norme e regolamenti vigenti: un fatto tutt’altro che scontato come illustra ampiamente la cronaca;
– ad un secondo livello l’impresa ha la necessità di agire tenendo conto del contesto in cui opera, ovvero del settore e del mercato di riferimento; è innanzitutto in quest’ambito che essa gioca le proprie strategie per convincere i consumatori, persuadere i finanziatori e conquistare la propria fetta di mercato;
– la responsabilità sociale dell’impresa inizia però a manifestarsi pienamente solo quando esiste la disponibilità a tener conto e a rispondere degli esiti prevedibili delle scelte e delle azioni, degli effetti che l’agire economico produce per tutti coloro che hanno una posta in gioco, ovvero qualcosa da guadagnare o da perdere rispetto all’esistenza stessa dell’impresa. Vi è responsabilità sociale quando il management non chiude gli occhi davanti agli effetti perversi, alle esternalità negative, che troppo spesso sono socializzate e ricadono sui gruppi meno tutelati, sull’ambiente, sulle generazioni future,
– infine, un’impresa genuinamente responsabile dovrebbe garantire e promuovere lo sviluppo di quelle virtù civiche che sono indispensabili al buon funzionamento del mercato e, più in generale, della società entro cui opera; dovrebbe generare fiducia, promuovere la coesione delle comunità e contribuire alla tutela dell’ambiente, alimentare il sapere e la cultura, rafforzare il principio di reciprocità.

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Adriano Olivetti

A molti tutto questo apparirà come un’utopia: ma proprio in Italia abbiamo un precedente illustre che ha dimostrato in tempi più difficili dei nostri la praticabilità di questo percorso: si tratta dell’esperienza straordinaria dell’imprenditore Adriano Olivetti. Oggi, diversamente da allora, siamo noi, ovvero è proprio il consumatore, che attraverso le proprie scelte di acquisto può contribuire a premiare le imprese responsabili, orientando nel lungo periodo l’intero sistema produttivo verso la sostenibilità economica, sociale ed ambientale: ma per far questo servono cittadini preparati ed attivi, persone dotate di un robusto senso civico; servono esseri umani consapevoli e non consumatori passivi manipolati dal marketing.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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