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Porto Ferrara: una rivista non provinciale

di Pier Luigi Guerrini

Nel 1982, quando esce in edicola, a Ferrara si erano spente da tre anni le note musicali in fm di Radio Ferrara Centrale, dalla Torre dell’Orologio sulla piazza principale. Il Pci aveva traslocato da poco tempo da Via Carlo Mayr al “botteghino” di Via Porta Mare.
Fin dal primo numero, il mensile Arci dedica una forte attenzione al fattore culturale, la “mission” per eccellenza, dando spazio a ciò che si produceva sia dentro le Istituzioni, nel “palazzo”, sia nel tessuto associativo diffuso. Nelle due pagine centrali del numero d’esordio, Franco Farina (scomparso di recente), allora Direttore del Palazzo dei Diamanti e delle Gallerie d’Arte moderna e Musei, rispondendo alle domande pungenti di Stefano Tassinari, esprimeva con chiarezza il suo amore per Ferrara, presentava alcuni progetti in corso d’opera o in nuce, non nascondendosi però le difficoltà di rapporto col carattere dei ferraresi, generosi ma mai contenti di ciò che si proponeva.
Con un esempio paradossale, un po’ ruvido, Farina diceva “che se scomparisse il castello la gente se ne accorgerebbe soltanto perché verrebbe a mancare l’ombra durante le passeggiate in Corso Martiri. Si avverte molto la mentalità borghese del ‘cittadino’, quello che magari non si sente mai appagato dalle iniziative culturali, ma che se fosse proprietario del giardino situato dietro Palazzo dei Diamanti, penserebbe a costruirci un condominio”.
In ogni numero, ci sono rubriche fisse che danno conto puntualmente di avvenimenti, mostre, incontri attinenti l’ambito della poesia. I curatori di queste rubriche sono: Roberto Pazzi, che non disdegna di sviluppare piccoli bellissimi racconti tra fantasia, storia locale e attualità; Massimo Cavallina, di Ricerche inter/media (poesia fonetica e spettacol-azioni visive) che aveva sede presso la famosa agenzia libraria Einaudi gestita da Roberto Niceforo; Maurizio Camerani (mail art, biennali di arti visive e recensioni librarie).
Nel numero quattro si dà ampio spazio al ‘1° premio nazionale di poesia Castello Estense‘, promosso dalla rivista Poeticamente. Vengono riprodotte tre liriche di alcuni finalisti tra cui un’opera di poesia visiva di Romolina Trentini. Purtroppo, come spesso accade, alla prima edizione di un premio nazionale manca il seguito di una seconda edizione… Le responsabilità erano, a mio parere, da ricercare sia nel passo un po’ avventato degli organizzatori (che andavano comunque incoraggiati) e sia nelle Istituzioni che erano (sono?) ancora “ammalate” di un dirigismo culturale che decretava chi doveva essere sostenuto e chi, invece, no. Un esempio, una conferma di quanto abbiamo appena fermato sul foglio, lo troviamo nel numero successivo di ‘Porto Ferrara’ (il numero cinque). Si parla dell’organizzazione della manifestazione culturale di respiro nazionale ‘La nuova poesia’, curata dall’Assessorato alle Istituzioni Culturali del Comune di Ferrara. Viene annunciato l’arrivo a Ferrara (alla Sala Polivalente) di numerosi poeti e critici da tutta Italia. Tra i poeti attesi, in gran parte nati attorno al 1945, si citano Bianca Maria Frabotta, Alfonso Berardinelli, Vivian Lamarque, Sandra Petrignani, Adriano Spatola, Franco Cordelli, Valerio Magrelli, Giuliano Gramigna e Roberto Pazzi. Nel numero doppio (sei/sette) successivo, un ampio resoconto di Stefano Tassinari, dal titolo ‘La Polivalente in versi‘, analizzava senza sconti l’esito della manifestazione sulla “nuova poesia”. Accanto ad alcune, poche, valorizzazioni ovviamente soggettive (Magrelli e Pazzi), Stefano Tassinari descriveva la delusione, del folto pubblico accorso all’evento, per l’assenza di gran parte degli autori annunciati. Un’iniziativa lodevole, concludeva Tassinari, ma che “per attecchire deve mettere radici con un dipartimento specifico di cui facciano parte operatori artistici, persone in grado di dare continuità e profondità ad una ricerca”. Una proposta molto interessante che non sappiamo se sia stata presa positivamente in considerazione e l’eventuale durata nel tempo. Nel numero seguente, l’informazione è sul Convegno dedicato alla ‘Editoria femminista‘, organizzato dal Centro Documentazione Donna di Ferrara e coordinato da Luciana Tufani. Nel numero di dicembre (11/1982), Daniela Rossi, nell’articolo ‘Una rivista al femminile’, fa un resoconto critico di questa due giorni sulla stampa e l’editoria femminista. Il focus dell’articolo è sulla rivista Dwf (Donna Woman Femme). La direttrice Annarita Buttafuoco evidenzia il tema del rapporto sempre più difficile tra la sfera dell’ambito personale e la connessione col politico. Un politico che, anche e soprattutto, tra le donne appare sempre più frammentato. Col numero di gennaio 1983, la rivista chiude la propria breve storia. Una fine precoce, forse dovuta a difficoltà economiche del committente Arci.

La paura e la (falsa) coscienza della Sinistra: anatomia di un tracollo

A giudicare dall’analisi post voto fatta dal Pd e da molti commentatori (alcuni non sospetti di simpatie del partito di Renzi), sembra che la vittoria delle cosiddette forze populiste e xenofobe sia il risultato di un’invasione aliena. Oppure, il frutto dell’imbecillimento di un popolo bue che si è lasciato infinocchiare dalle fake news. Nessuna autocritica da parte di chi ha governato e ha perso la tornata elettorale. Ma neppure da parte di quella sinistra di testimonianza divenuta più borghese e snob persino della componente renziana del Pd.
Prendiamo il fenomeno migratorio su cui molto si è giocato e che molto ha inciso sull’esito elettorale. Proprio su questo fenomeno il Pd, in tutte le sue ramificazioni, non ha saputo proporre un punto di vista, non dico di sinistra (che sarebbe troppo), non dico progressista (anche qui si rischia di esagerare), ma nemmeno liberal-democratico per governare il fenomeno mettendo al centro i diritti delle persone. Si è osannato Minniti per aver fatto un accordo con una banda armata di criminali libici ai quali abbiamo affidato (dietro lauto compenso) il lavoro sporco di controllare i porti da cui salpavano i barconi, disinteressandosi completamente di quanto poi accade nei lager (perché tali sono) in Libia dove gli stupri, le torture e sicuramente anche le uccisioni sono all’ordine del giorno. Ma come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Ci si è bellamente voltati dall’altra parte gongolandoci nei complimenti dei partners europei che così hanno visto ridursi un po’ la pressione migratoria. Ma anche a quelli che sono riusciti a sbarcare sulle nostre coste, tutto ciò che si è saputo offrire loro sono stati due anni di reclusione (perché tanto durano in media le pratiche per il riconoscimento dello status di rifugiato) nei centri di accoglienza a scontare una pena che nessun giudice ha stabilito. Un obbrobrio giuridico in piena regola. E quando qualcuno riesce ad uscire da lì, oppure da lì riesce a non passare dandosi alla macchia prima, tutto ciò che li aspetta è vivere di elemosina davanti ai negozi delle città (Ferrara compresa) o in alternativa accettare una condizione da semi schiavi nelle campagne del sud in condizioni inumane. Per non parlare di quelli che finiscono nelle braccia della criminalità organizzata come manovalanza per lo spaccio. Pochi sono quelli che trovano una vera occupazione, nessuno tra quelli senza permesso di soggiorno. A chi fa comodo questo esercito di manodopera di riserva? Sicuramente alla criminalità organizzata. Sicuramente ad alcuni settori tecnologicamente arretrati della nostra economia (agricoltura ed edilizia) e spesso tra i due settori (economia e criminalità) c’è una saldatura in cui la linea di confine tra proprietari terrieri, caporali e criminalità organizzata, praticamente non esiste, come l’assassinio del sindacalista Soumayla Sacko, il 29enne del Mali, in Calabria ancora una volta sta dimostrando. Su questo gravissimo episodio che avrebbe dovuto rimandare le coscienze alla storia di questo paese quando i sindacalisti dei braccianti venivano assassinati dalla mafia, si sarebbe dovuto levare un coro assordante di condanna. Invece, nulla o quasi. E quindi, di cosa meravigliarsi se i Salvini (che non è nemmeno il peggiore, nel senso che declinato su un sedicesimo su scala locale poi si arriva ad un Naomo, esponente ferrarese della Lega) poi vincono le elezioni? Ma non è tutto, perché questo esercito di manodopera di riserva serve ad abbassare pericolosamente il livello dei diritti dei lavoratori in generale in una guerra tra poveri senza tregua ed è ciò che non ha capito la sinistra o non ha voluto ammettere esplicitamente perché confliggeva con la falsa morale dell’accoglienza. Ed è qui che la xenofobia fa presa sui sentimenti di paura e di esclusione dalla possibilità di avere una vita ed un lavoro dignitosi. E dunque, come non pensare che questi flussi migratori siano, in fin dei conti, funzionali a questo sistema di produzione capitalistico onnivoro che ha continuamente bisogno di forze fresche, giovani, vigorose, ma soprattutto a basso costo e a bassi diritti perché facilmente ricattabili? Perché non pensare che questi flussi siano il prodotto di una lotta di classe del capitale che vuole assestare il colpo di grazia definitivo ai diritti dei lavoratori in quei paesi dove più questi diritti sono avanzati? Forze fresche funzionali soprattutto in un’economia come la nostra a basso tasso di innovazione tecnologica dove i picchi di produttività sono dati soprattutto dal fattore umano.
La sinistra tutta, dal Pd in giù, non ha saputo riappropriarsi di un concetto cardine che storicamente le è stato proprio: la difesa della dignità umana. Un concetto che unisce i lavoratori e le persone di tutti i colori e potrebbe essere un cardine programmatico per il rilancio di un pensiero di sinistra. Dove sta la difesa della dignità delle persone quando le si costringe a chiedere l’elemosina? Dove sta la difesa della loro dignità quando le si costringe a vivere in condizioni inumane? Li abbiamo salvati dal mare, e poi? Li abbiamo abbandonati a se stessi. Nessun progetto di inserimento serio. Nessun percorso di alfabetizzazione obbligatorio, che non vuol dire solo alfabetizzazione alla lingua italiana, ma anche ai nostri usi costumi norme e alla nostra Costituzione. Molte di queste persone vengono da paesi in cui non sanno nemmeno cosa sia una Costituzione, né tanto meno sanno quanto ci è costato conquistare la nostra (per la verità sono in buona compagnia con molti nostri connazionali italiani doc). Questo sì che è un problema serio per la “tenuta democratica del nostro paese”, per usare le parole dell’ex ministro Minniti.
La risposta al fenomeno migratorio non può essere principalmente di tipo sicuritario, anche se la pena per chi delinque e la persecuzione dei reati devono essere certi, immediati e senza sconti. Ma non è con questi strumenti che si fa integrazione e si combattono le sacche di marginalità che sfociano nella delinquenza. Resto convinto che lo strumento principale sia il presidio del territorio attraverso la cultura, portando le iniziative culturali in tutti i quartieri e le frazioni, soprattutto in quelli più problematici, aprendo una biblioteca per ogni quartiere che diventi centro di aggregazione per i cittadini di tutte le età e polo culturale a tutti gli effetti in cui discutere e confrontarsi sui temi scottanti della nostra epoca in una sorta di moderna agorà della polis greca. Si tratta, insomma, di immaginare pensare costruire città policentriche e non centro-centriche dove tutte le iniziative culturali e di intrattenimento si tengono nei salotti buoni dei centri storici.
La nostra falsa coscienza intrisa da una cultura cattolica ipocrita che apre le porte a tutti, gonfia il nostro narcisismo di italiani brava gggente, ma nasconde le brutture sotto il tappeto. Tanto la nostra accoglienza ha funzionato, si dice. E ci si continua a raccontare questa favola anche ora a tre mesi dalle elezioni che hanno, invece, dimostrato che gli italiani alle favole non credono più. Dimostrazione che la lezione non è servita a chi ha perso le elezioni. Ha un bel daffare Papa Francesco a spazzare via l’ipocrisia dei cattolici, dei molti sepolcri imbiancati che si aggirano anche nelle istituzioni. Credo sia consapevole di quanta fatica e forza ci voglia per un’opera simile se ogni domenica, al termine dell’Angelus, invoca per sé la preghiera dei fedeli.
Vogliamo parlare, poi, dei giovani che prima di trovare un lavoro stabile devono passare per le forche caudine degli stage, dei tirocini, dell’apprendistato, del contratto a termine e poi, forse, della stabilizzazione? Contratti capestro, senza diritti o con pochi diritti, sottopagati per fare un lavoro pieno e vero a tutti gli effetti, come se questi nostri giovani debbano dimostrare costantemente al mondo il proprio valore prima di raggiungere un meritato posto al sole. Sappiamo tutti che questi contratti sono stati pensati per spremere dalla forza giovane risorse a basso costo, quaranta ore settimanali a 450 euro al mese in tirocinio. E allora ha fatto bene Di Maio, come primo atto, ad incontrare i riders in sciopero per le loro precarie condizioni di lavoro, senza tutela e a cottimo. Si dice che in politica i simboli contano e il gesto di Di Maio è un simbolo che pesa. Vedremo se avrà continuità o se sarà stata solo la propaggine di una campagna elettorale che stenta a chiudersi. Resta il fatto che nessun esponente del Pd ha sentito l’esigenza di fare altrettanto, né prima quando erano al governo e c’è stata una sentenza del tribunale di Torino che non ha riconosciuto loro la tipologia di lavoro dipendente, né dopo. Del resto sono impegnati in una lotta intestina che prosciuga le forze. Avanti così con il metodo Tafazzi!

L’immaginario poetico di Silvia Belcastro “Nella città di formiche di luce”

di Loredana Bondi

Ho assistito recentemente alla presentazione del libro di poesie di Silvia Belcastro ”Nella città di formiche di luce” (Kolibris edizioni) presso il caffè letterario di Via Ripagrande a Ferrara.
Davvero una bella esperienza: una giovane donna che affronta il mondo della poesia nei suoi meandri più impervi, fantasiosi e reali insieme, traducendo sensazioni, esperienze e ricordi che aleggiano in un clima di sopravvivenza, nella continua lotta fra la triste verità e la bellezza del vivere.
In effetti, il tempo che passa mi fa sempre più sentire quanto la poesia sia un compendio di musica, di suono, di parola e movimento che s’innescano in uno strano e magnifico preludio di bellezza, amore e di senso della vita…basta ascoltare ogni suo suono che muove i sentimenti fin giù nell’anima.
Ecco la sensazione che succede leggendo, ma soprattutto ascoltando la poesia di Silvia… Nella città di formiche di luce… questa donna sa penetrare in fondo all’anima lasciando intatti la bellezza, le immagini e suoni dei luoghi come la sua Ferrara, dei luoghi di vita e di sogno, dove frammenti di luce “…sconosciuta, scintilla d’acqua e fuoco insieme” appaiono come il vero mistero della vita pieno di attese e di speranze, che aspettiamo, senza che mai si annunci…
In “Nella città di formiche di luce” è rappresentata una trilogia di passaggi: dalla dolorosa scoperta dell’io sommerso, della diversità, della chiusura verso ciò che sta fuori e la fatica quasi eroica di fuggire per cantare, come dice Orlando un canto… di ricordi come ferite… poi vi porrò un seme, lama tagliente, da cui prenderanno il volo mille colombe, ad un volo per la prima volta, verso la città. Qui si aspetta… un riflesso di luce sconosciuta…una scintilla d’acqua e fuoco insieme, quel mistero egoista che si rimpinza di attesa e di speranze, senza annunciarsi mai… Pare addirittura l’evocazione di una vita vissuta mille e mille anni che tenta di scoprire il significato del proprio esistere. Un epilogo di questo cammino sta tra il rosso del corallo che richiama la speranza e quello… straccetto logoro di felicità che il tempo le ha lasciato.
In questa città delle formiche di luce, in fondo, c’è la storia di un’umanità che cerca di comprendere il non senso dell’immane dolore che ci circonda, per trovare qualche frammento di luce in tanti piccoli segni e cantarne la bellezza, scoprendo le voci, i suoni e colori che stanno nell’aria e provare a vivere.
Davvero un percorso poetico che vale la pena scoprire.

Donne e montagna

“Le montagne sono le grandi cattedrali della terra, con i loro portali di roccia, i mosaici di nubi, i cori dei torrenti, gli altari di neve, le volte di porpora scintillanti di stelle” sosteneva lo scrittore, pittore e critico d’arte John Ruskin e non si può che essere d’accordo. Un tacito riconoscimento a quella parte del nostro Paese che vive tra le montagne e da esse tra linfa vitale. E in questo contesto il rapporto tra le donne e la montagna ha sempre avuto connotazioni speciali, un legame fortissimo intessuto di fatica, dedizione, coraggio, grande spirito di adattamento, rispetto e quella profonda conoscenza del territorio dettata dalla necessità di trarne benefici e sussistenza. Le donne sono sempre state le depositarie di quel sapere specifico che consentiva di interpretare e tradurre i segnali della natura, sfruttarne le risorse, mantenerne attentamente l’equilibrio e le caratteristiche, grate di tutto ciò che si poteva ricevere da un ambiente a volte magnificente, altre impervio e ostile.

Le icone della donna di montagna sono presenti in numerosi dipinti di Giovanni Segantini (Arco 1858, Svizzera 1899) che ci avvicinano a figure femminili che compaiono nell’habitat montano in tutto il loro impatto emotivo. Donne che trascinano faticosamente nella neve una slitta carica di legna, che lavorano serenamente a maglia mentre badano al pascolo del bestiame, si dissetano avidamente a una fontana di paese o reggono sulle spalle pesanti recipienti d’acqua, oppure ancora conducono una coppia di cavalli reggendoli energicamente per il morso. Altre immagini si soffermano su donne intente a raccogliere il fieno, scrutare l’orizzonte da un’altura con la voglia negli occhi di raggiungere casa, dopo una giornata di fatica massacrante. Ma la scena che dà il senso più completo e profondo dell’essere donna di montagna è quel capolavoro che rappresenta le due madri: una donna che alla luce fioca di una lanterna, nel tepore della stalla, tiene tra le braccia il proprio figlio, accanto alla mucca che veglia sul suo vitello, in un muto, complice legame tra mondo umano e mondo animale privo di mediazioni e considerazioni superflue.
La montagna ha sempre accolto una strana società e cultura al femminile in maniera più significativa che altrove per ragioni ben precise, le cui fondamenta storiche trovano giustificazione nell’emigrazione degli uomini in molte epoche e nelle guerre che allontanavano mariti, figli, fratelli, fidanzati; in molti casi anche le donne lasciavano le valli e paesi per lavorare lontano, ma dove sono rimaste, la montagna è uscita dalla marginalità, potenziando la propria cultura, conservata gelosamente, senza rinunciare all’innovazione e alla modernità che i tempi hanno via via richiesto. Le donne sono state da sempre le custodi della memoria, facendosi carico dei vivi e dei morti mantenendo attivi i legami col passato e col presente, imparando ad andare avanti da sole dove ce ne fossero state le condizioni. La presenza femminile è essenziale e preziosa per l’esistenza, la vita e la crescita culturale in tutti i suoi aspetti delle comunità alpine, anche se per molto tempo questa consapevolezza è stata soffocata dalla chiusura dell’ambiente che impediva un giusto riconoscimento: un clima sociale che imponeva ruoli rigidi e controllati, un senso del dovere intransigente che non lasciava spazio a legittime aspirazioni, paura della critica e della stigmatizzazione, conseguenti disagi nella salute fisica e nello spirito che derivavano dalla solitudine come persona ancor prima che come donna.
Oggi, la cultura di montagna ha lo stesso bisogno della componente sociale femminile e ne riconosce il valore. La donna è all’avanguardia nelle attività innovative di un’economia identitaria legata alle risorse del territorio: produzioni di qualità, turismo sostenibile, capacità comunicativa con l’esterno, visione e anticipazione. Molte donne hanno trovato spazi e collocazione con creatività ed energico entusiasmo in quegli esempi vincenti di microeconomia che a volte diventano anche eccellenza, dando un valore aggiunto a scenari naturali che sono già di per se stessi un miracolo di bellezza e fascino. La comunità ha imparato, nel tempo, a restituire alle donne quello spazio che nei vecchi stereotipi educativi era stato negato o sottratto, accordando loro più rispetto e fiducia. Sicuramente non siamo ancora arrivati ad un equilibrio ideale e i fatti di cronaca ci riferiscono ancora e purtroppo di drammi consumati spesso in famiglia ai danni delle donne a cui qualcuno si ostina a negare dignità. Il percorso è ancora da completare ma le donne di montagna non si fermano perché, come qualcuno ha fatto notare sorridendo un po’, “le donne non hanno vita facile; le donne di montagna ancora meno perché devono camminare in salita”.

Primo giorno del governo Salvini: Conte e Di Maio che fine hanno fatto?

Il giorno della festa della Repubblica e della Costituzione è stato anche il primo giorno del nuovo governo Giallo-Verde. Un solo giorno è bastato per capire chi è il vero premier, non Conte e nemmeno Di Maio, ma l’ipercinetico Matteo Salvini. In Sicilia ha licenziato le Ong umanitarie e minacciato i migranti. Tutti d’accordo? No, a Roma gli ha risposto la Cei a nome del papa e dei vescovi italiani, mentre a Ferrara Massimo Maisto ha difeso i diritti delle coppie arcobaleno e la scelta dell’accoglienza diffusa.

Il 2 giugno non è stato solo la festa della Repubblica – folla, battimani e applausi per il mega-tricolore sceso dal cielo – è stato anche il primo giorno del nuovo governo che aveva appena giurato davanti a Mattarella, la mano sul testo costituzionale.
Ora, diranno i più fiduciosi, che si può combinare in 24 ore? Mica si può ribaltare l’Italia dalla sera alla mattina? Anche Di Maio l’aveva detto: “Dateci un po’ di tempo, non giudicateci prima ancora di cominciare”. Giusto, ragionevole, aspettiamo pure. Però la giornata e le “sparate governative” del 2 giugno vanno raccontate. E meditate.
Il ministro della famiglia Lorenzo Fontana (lo ricordo in un recentissimo ‘Porta a porta’: gongolante, ma con evidenti problemi di sintassi) ha dichiarato, testuale: “Le famiglie arcobaleno non esistono per la legge”. Intanto, Matteo Salvini si è precipitato in Sicilia, nella doppia veste di Capopopolo e di Vicepremier: qualche comizio infuocato, ma anche l’incontro con i prefetti. Salvini ha stoppato Fontana (veronese e un po’ troppo Liga Veneta), ha detto che la legge sulle unioni civili non si tocca, ma ha aperto il suo cuore agli astanti: “Per me una famiglia deve avere un papà e una mamma”. Tanto per chiarire il concetto.
Matteo Salvini – per chi non l’avesse capito è lui il dominus del governo, altro che Di Maio o l’avvocato Conte – non è però persona ordinaria; la sua tempra, il suo vitalismo, il suo portentoso eloquio sono noti al pubblico. Lui può fare il capopopolo e contemporaneamente il ministro dell’interno. Può sparare sul quartier generale e, dal medesimo quartier generale, buttare olio bollente sugli assalitori. Può recitare molte parti in commedia: dategli ‘Sei personaggi in cerca d’autore’ e lui li interpreta tutti e sei.
Così Matteo (quello nuovo che le elezioni ci hanno dato in sorte) dall’estremo lembo della penisola lancia due proclami, anzi avvertimenti, anzi minacce. “Stop agli sbarchi” e quindi stop alle Ong che salvano i migranti in mare. Ci era riuscito, in parte, Minniti e lui vuol portare a termine il lavoro (sporco). Proprio in quelle ore arrivavano le notizie di due nuovi naufragi, davanti alla Turchia e alla Libia: decine di morti, adulti e bambini. Quanti morti conteremo quando Salvini farà piazza pulita delle ultime barche umanitarie rimaste a solcare il Mediterraneo?
Salvini ha un’altra promessa elettorale da mantenere. “I migranti regolari non hanno nulla da temere, i loro figli sono come i miei figli, ma per i clandestini è finita la pacchia: si preparino a fare le valigie!” Non dice che per avere un permesso di soggiorno in Italia passano anche due anni. Non dice che quelli che chiama clandestini, sono i cosiddetti “migranti economici”. Quelli che scappano dalla fame e che rappresentano più del 90% del totale. Non racconta che la vita di un migrante non è propriamente una pacchia.
Insomma, sono bastate 24 ore per mettere in chiaro cosa dobbiamo aspettarci dal governo “a trazione leghista”, nonostante qualche irrilevante obiezione avanzata da un paio di ministri pentastellati. Matteo Salvini ha già allargato le spalle. Detta la direzione di marcia. E il povero avvocato Conte? Beh, per ora sembra che abbia fatto una telefonata ad Angela Merkel.

E’ giusto registrare due reazioni, una nazionale e una locale. Due prese di posizione nette contro questa deriva: morale e ideale prima ancora che politica.
Su tutti i media il segretario della Cei (Conferenza Episcopale Italia), rilancia l’impegno inderogabile a salvare vite umane e all’accoglienza dei disperati che arrivano sulle nostre coste. La Chiesa di Papa Francesco si schiera apertamente contro l’intolleranza e i respingimenti e propone la via concreta del dialogo interculturale, della solidarietà, dell’integrazione sociale. Non si tratta solo di una lodevole posizione umanitaria, ma di una visione alternativa che propone un piano antitetico rispetto alla propaganda sovranista e identitaria. L’unica strada che possiamo percorrere se vogliamo affrontare seriamente i problemi dell’oggi e costruire un’Italia unita e solidale.
A Ferrara il dibattito e lo scontro fra queste due visioni – respingere e negare il confronto con la realtà, oppure affrontare i problemi e accogliere e integrare i nuovi arrivati – si ripropone nei medesimi termini. Ecco allora ‘Il Resto del Carlino’, ormai programmaticamente deciso a dar voce alla pancia del Paese, sempre più allineato alla Destra più ignorante e retriva, che dedica nella sua edizione cittadina due pagine al Gad che “spera in Salvini” per liberarsi dal disagio portato dai neri. Per fortuna non tutti sono convinti delle virtù taumaturgiche di San Matteo Salvini e del suo ruspante referente in loco Naomo Lodi. Occorrerà lavorare in profondità per far rinascere una quartiere e i suoi residenti da troppo tempo lasciati a se stessi. Da questo punto di vista la prima autocritica dovrebbe partire dai rappresentanti del governo locale.
La seconda reazione ferrarese – questa volta lodevole – al primo giorno del ministro dell’interno, sta nella dichiarazione rilasciata da Massimo Maisto, vicesindaco, assessore alla cultura e alle pari Opportunità. Con parole nette Maisto ha difeso la “scelta dell’accoglienza diffusa” fatta al Comune di Ferrara, che ha dato in effetti risultati importanti anche se necessariamente non definitivi. Poi, in veste di assessore alle pari opportunità, si è opposto all’attacco del ministro Fontana alle famiglie arcobaleno. Vorremmo che Maisto proseguisse su questa strada. Magari che fosse lui stesso a lanciare l’idea di una sorta di Piano Marshall – sociale, economico, culturale – per la zona Gad.

Ci aspettano momenti difficili, in cui l’ideologia della chiusura, del rifiuto, addirittura della difesa della razza alzerà sempre più la testa, rimbalzando sui media e nelle piazze. L’ultima polemica Salvini-Saviano ne è la più recente riprova. E’ questo il momento – prima che sia troppo tardi – in cui è importante avere il coraggio di opporsi a questo pericoloso piano inclinato e invertire la marcia. E non sarà sufficiente acclamare Mattarella, sventolare le coccarde tricolori, celebrare la festa della Repubblica e i settant’anni della nostra Costituzione. Servono parole e azioni, molto lavoro e molto impegno, buone pratiche e buona volontà.

L’afflizione e l’orgoglio. Confessioni di un cinquantenne innamorato e tradito dalla politica

Lo confesso, sono preoccupato per la nascita di questo governo che porta in pancia il razzismo e il qualunquismo della Lega e insieme il semplificazionismo, il populismo e l’ingenuità di una larga parte del Movimento 5 Stelle. Ma sono anche curioso. Curioso di vedere cosa questo strano governo riuscirà a combinare. Di certo non farà più guai di quanti ne abbiano generati tanti dei governi che lo hanno preceduto (Berlusconi e non solo), ai quali tuttavia siamo sopravvissuti, perché gli uomini, specie nelle condizioni più drammatiche, trovano in sé risorse che neppure immaginano di avere.
Non potranno fare troppi guai, i nuovi governanti, anche perché le istituzioni hanno un solido sistema di pesi e contrappesi e una serie di vincoli che spesso frenano il cambiamento ma in questi frangenti risultano salvifici poiché preservano la loro stessa integrità.
Certo, vedere Salvini ministro dell’Interno mi inquieta. Ma, ben più di questo, mi inquieta e mi fa arrabbiare non avere una sinistra degna della propria storia e all’altezza dei propri ideali. Non è merito di Salvini e Di Maio se ora stanno al governo e non è colpa loro se la sinistra si è rinsecchita sino a diventare un fossile. La responsabilità è tutta nostra, che per decenni ci siamo incartati in sterili e capziose discussioni, mentre lasciavamo filtrare nei nostri animi – sino ad esserne soggiogati – il fascino tutt’altro che discreto del capitalismo e della borghesia che ne è espressione, sino a scimmiottarne i modi, assorbirne la forma mentis e le ambizioni, sino a modificare il nostro dna. Non abbiamo saputo adeguare le nostre analisi al mutare della realtà, né superare le vane contrapposizioni interne spesso dettate più dalla vanità che dalla ragione; siamo rimasti ancorati a vecchi schemi, incapaci di discernere fra formalismi e sostanza. Intanto il mondo è andato avanti ed è cambiato e noi non ce ne siamo accorti. O abbiamo finto di non capire.
Anzi, non “noi”, per dirla presuntuosamente e provocatoriamente alla Nanni Moretti: “voi”. Voi vi siete parlati addosso, voi vi siete scannati per le vostre poltroncine, voi vi siete polarizzati fra dogmatici e “miglioristi”, voi avete giocato a fare i politici moderni e voi siete imbruttiti. Noi siamo “splendidi quarantenni”.
Noi stavamo dalla parte del torto, come sempre. Derisi. Commiserati con quella bonaria sufficienza che si riserva a chi, poverino, è troppo ingenuo per capire… E allora ci siamo sottratti. Non perché non ci abbiate voluto, non perché non ci fosse un posto apparecchiato a tavola, ma perché a quella tavola abbiamo scelto di non esserci, perché continuiamo ostinatamente a pensare che un mondo diverso sia davvero possibile, che il capitalismo non sia l’unica forma di organizzazione praticabile, che per questo nostro mondo esista un altro modello, un’altra via. Ma non per questo siamo nostalgici. Arrabbiati e delusi, questo sì.
Oggi manca il progetto, la visione. Un orizzonte verso il quale muovere il passo, un traguardo che giustifichi il nostro impegno e i nostri sacrifici.
Personalmente non rimpiango certo il tempo in cui il mondo era diviso in blocchi: i gulag di Stalin erano specchio dei campi di sterminio nazisti. E il pensiero unico dell’Urss non poteva rappresentare un’alternativa alla tracotanza imperialista dell’America. I fondamentalismi non sono buoni o cattivi a seconda del colore della loro bandiera. Lo spirito egualitario che sta a fondamento del comunismo non ha mai trovato albergo nelle umane intraprese statuali e nelle sue espressioni comunitarie. Né l’evangelica fratellanza predicata da Cristo e da Francesco ha mutato le ambizioni o l’agire dei potenti. Qua e là c’è traccia solamente di piccole riserve indiane di resistenti.
Ma insisto: il rispetto, l’autentica tolleranza, la solidarietà, l’equità, l’onestà sono i valori da praticare (e non solo da professare e strillare nei comizi). Appartengo a quella minoranza di persone che cercano di fare di questi ideali il loro stile di vita. E non siamo poi così pochi. Se lo sembriamo è forse perché non gridiamo, perché non battiamo i pugni sul tavolo, perché non scalpitiamo per affermare noi stessi e pretendere il posto a tavola. Però ci siamo. E osserviamo questo spettacolo – del quale pure siamo partecipi, sebbene spesso con disgusto – respingendo il demone della rassegnazione. Resistiamo
Volgendo lo sguardo fra le macerie della nostra civiltà cerchiamo ancora uno spiraglio di luce e il conforto di solide mani per tentar di ricostruire ciò che si può. Siamo resilienti. E dall’esperienza abbiamo imparato a diffidare degli apocalittici annunci che accompagnano ogni nuova temperie. No, non sarà neppure stavolta la fine del mondo. Siamo ancora qui. E se serve, ci faremo trovare pronti a riprendere la marcia: scarpe rotte eppur bisogna andare. Come sempre.

La memoria corta tedesca

di Gianfranco Marzola

Sono un promotore finanziario e leggo tutte le mattine il Sole 24 Ore per dare un’occhiata ai mercati e a notizie che possano essere utili alla mia professione. Così l’altro giorno, spulciando le pagine online del quotidiano, mi capita sotto gli occhi un interessante articolo di qualche anno fa firmato da Riccardo Barlaam che parla di Germania e dell’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, che nel suo libro appena pubblicato aveva scritto: “E’ sorprendente che la Germania abbia dimenticato la storica Conferenza di Londra del 1953, quando l’Europa le cancellò buona parte dei debiti di guerra. Senza quel regalo non avremmo riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati. La Germania non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miracolo economico.”
Fischer rincarava la dose spiegando che, col pretesto del risanamento economico, la coppia Merkel-Schaeuble ha imposto un regime di austerità usando lo spauracchio dei debiti contratti dai paesi area euro. Ha imposto un rigore che ha provocato una deflazione dei salari e dei prezzi che ha di fatto impedito a questi paesi di sviluppare la propria economia per uscire dalla crisi, un ossimoro economico che lo stesso ex ministro definì devastante, finendo per accusare la coalizione tedesca di euroegoismo e di dimenticare con troppa disinvoltura la storia della Germania dal dopoguerra ad oggi. Per Fischer, una posizione, quella tedesca, certamente di comodo. “Se la Bce non avesse seguito le decisioni di Draghi ma le obiezioni dei tedeschi a quest’ora l’euro non esisterebbe più. Il più grande pericolo per l’Europa – scriveva Fischer – attualmente è proprio la Germania.
Passiamo ai fatti storici che Barlaam, nel suo vecchio articolo, ci riassume: alla Conferenza di Londra del 1953, la Germania, attuale portabandiera europeo di stabilità e rigore che durante lo scorso secolo ha rischiato il default due volte, cioè nel 1923 e nel secondo dopoguerra, con un animo del tutto estraneo all’attuale atteggiamento di rigore assoluto, chiese ed ottenne d’essere aiutata a ripartire proprio attraverso il condono del proprio debito. Poiché è noto che i debiti tedeschi di due guerre mondiali, provocate e perse entrambe, le avrebbero reso impossibile la ripresa economica.
E, leggendo l’articolo, non mi sorprende più di tanto apprendere che tra i paesi che in quella conferenza internazionale decisero di non esigere il conto vi fossero anche l’Italia di De Gasperi, padre fondatore dell’Europa e la Grecia, paese che aveva subito per mano dell’esercito tedesco danni immensi a impianti produttivi, infrastrutture stradali e portuali che ne hanno minato l’economia per sempre (senza dimenticare il pesante tributo di vite umane e di inestimabili opere artistiche) e che in questi anni è uscita con le ossa a pezzi nella missione impossibile di allinearsi ai parametri stabiliti e imposti proprio dalla Germania.
Dopo il 1945 la Germania aveva un debito colossale (23 miliardi di dollari di allora) che, tenendo conto del loro prodotto interno lordo (circa la stessa cifra), senza il generoso intervento del 24 agosto 1953 in cui ventuno paesi (Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito, Francia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Sudafrica e Jugoslavia) le avevano consentito di dimezzarne l’ammontare e dilazionarlo in trent’anni, non avrebbe mai potuto pagare.
Di tutto ciò rimane traccia di questa buona disposizione d’animo nella storia recente degli smemorati tedeschi?
Come ricorda sempre Barlaam, l’altro 50% doveva essere restituito dopo l’eventuale riunificazione delle due Germanie ma, a riunificazione avvenuta, nel 1990 il cancelliere Helmut Kohl evitò il terzo collasso tedesco semplicemente opponendosi alla rinegoziazione del debito. E ovviamente Grecia e Italia accettarono di buon grado, consentendo ai tedeschi di “regolarizzare” con 69,9 milioni di euro quanto stabilito dallo sciagurato (per tutti i paesi area euro), e pur ottimo (per i Tedeschi), accordo di Londra, senza il quale avrebbero avuto debiti da rimborsare per altri cinquant’anni.

Per leggere l’articolo di Riccardo Barlaam sul Sole 24 Ore del 15 ottobre 2014:
La Merkel ha dimenticato quando l’Europa dimezzò i debiti di guerra alla Germania

La crisi, la vecchia politica, il nuovo governo Conte: che brutta pagella

Tutto quello che non avreste mai pensato possibile e che invece è realmente successo. Ecco la storia della crisi di governo più lunga della Repubblica italiana raccontata punto per punto, con tanto di voto ai protagonisti e alle loro imprese.

Avvertenza ai lettori: nell’ultima settimana ho cominciato e cancellato questo articolo cinque o sei volte. Colpa dei continui corteggiamenti, dichiarazioni, posizionamenti, svolte, incontri, scontri, contratti, prime bozze, ultime bozze, ultimissime bozze, appelli alla piazza e voltafaccia che hanno punteggiato la più lunga crisi di governo della nostra Repubblica. Scrivevo una cosa al mattino e a mezzogiorno era già carta straccia.
Ho deciso di riprovarci, dopo che Cottarelli ha salutato (e tutti a fargli i complimenti: “Ma che signore, che stile quel Cottarelli con lo zainetto sulle spalle”), dopo che l’avvocato Conte con voce un po’ malferma (ma era emozionato o semplicemente atterrito dall’arduo compito?) ha letto/annunciato la lunga lista dei ministri del Primo Governo Giallo-Verde: potevo finalmente mettermi a scrivere. Intendiamoci, non qualcosa di duraturo, di definitivo – ché nelle prossime settimane e mesi ne vedremo di belle e di brutte, di cotte e di crude – ma insomma, almeno dal 1 giugno qualcuno bene o male proverà governarci.

Seconda avvertenza ai lettori: questo che segue non è propriamente un ponderato commento politico. Lo stile? Un strano tentativo, un incrocio tra un editoriale domenicale di Eugenio Scalfari e le pagelle sportive di Gianni Mura. Un elenco, ovviamente incompleto, di temi e protagonisti, con a fianco il voto raggiunto. E, visto che stiamo entrando in tempi di esami, vedrete che siamo assai lontani dalla sufficienza e dalla promozione.

Terza Repubblica: voto 4. Perché questa storia ce l’hanno detta e ripetuta di continuo durante 87 giorni (e sicuramente continueranno), ma abbiamo capito benissimo che quella che andava in scena era l’identica trama della Prima Repubblica. Le stesse furbizie, gli stessi avvertimenti trasversali, il dire Bianco al mattino e giurare Nero alla sera, gli stessi identici forni (aperti, chiusi, riaperti, richiusi) tipici della ingloriosa era democristiana. Per ora siamo fermi alla Prima Repubblica. Con una sola variante: la perdita della riservatezza (di un minimo di mestiere e spesso della decenza), cioè l’avvento dell’impero veloce e volgare di twitter, di facebook, degli hashtag applicati alla lotta politica.

Contratto di governo: voto 4. Stiamo parlando della “grande novità”. Molte bozze, aggiunte, cancellature, ingenuità, sparate, ritirate, e nessun numero concreto (le coperture di spesa, le grandi assenti) per arrivare a 42 pagine controfirmate in calce: un contratto privatistico tra i due leader di Lega e 5 Stelle. “Un ottimo lavoro” a detta loro. Salvini: “Dentro il Contratto ci sono tutti i nostri obiettivi”. Di Maio: “Abbiamo portato al governo il nostro programma elettorale”. Naturalmente non è proprio così. Il contratto, invece di costituire una mediazione, è una sommatoria confusa di impostazioni e promesse spesso divergenti. E tanta vaghezza sui punti dolenti: Europa, Euro, Deficit, Grandi Opere, Immigrazione, Superamento Legge Fornero.
Insomma, più che un piano di governo, il contratto è un mix confuso dei due rispettivi programmi elettorali. I due garanti (Salvini e Di Maio), non a caso Vicepresidenti del Consiglio, hanno apparecchiato e imbandito il la tavola (tanta roba!) e l’hanno messa in tasca all’avvocato Conte. Saranno loro i padroni del “governo del cambiamento”, non il Presidente del Consiglio come vuole la Costituzione. E se i due galli non si troveranno d’accordo? Si rivolgeranno al garante previsto dal contratto? Beh, in ogni caso ce lo comunicheranno con due righe di twitter.

Governo di cambiamento: voto 4. Uno slogan, niente di più. Al principio, appena dopo le elezioni del 4 di marzo, faceva un certo effetto, suonava bene. Ma alla fine, quando al Quirinale Conte ha presentato l’elenco dei ministri, non se l’è sentita di ripetere la formuletta. Del resto, i “nuovi politici” non sono sembrati diversi dalla produzione in serie della classe politica italiana. Dediti all’eterna propaganda, sicuramente più chiacchieroni dei predecessori (anche se Matteo Renzi era un bel campione), più ingenui e inesperti (Di Maio), o più tattici e comizianti (Salvini), ma perfettamente in linea con il peggior costume politico del Belpaese. Ricordate? “Il mio interesse è solo il bene degli italiani”, “Sono disposto a fare un passo indietro”, “Bisogna che (un altro naturalmente) faccia un passo a lato”, “Non ci interessano le poltrone, vengono prima i contenuti”.
Governo del cambiamento? Forse il voto giusto sarebbe N.S. (non classificato). Governo rimandato a dopo l’estate, ma con poca speranza di passare l’esame di riparazione.

Di Maio: voto 3. Dilettante allo sbaraglio, è in assoluto quello che le ha sparate più grosse. E ha rischiato grosso. Designato dominus del Movimento, lo ha trasformato in pochi mesi nel suo “partito personale” (superando il fondatore e Kingmaker, ma inaugurando uno stile compito, perennemente in giacca e cravatta). Dopo una campagna elettorale passata a corteggiare e blandire “i padroni dell’Europa e dei mercati”, la sbornia di voti ricevuti il 4 marzo lo ha portato dritto dritto al delirio di onnipotenza. “Il Presidente del Consiglio? O io o nessuno!” ha ripetuto tutti i santi giorni. “E’ un momento storico!”. Intanto ha tentato di svaligiare tutti i forni a disposizione (trovandoli chiusi o senza pagnotte). Non pago, ha cercato di scavalcare a destra il suo alleato: più sovranista della Lega, più anti-euro di Salvini.
Infine, il suo capolavoro: un tentato (e quasi riuscito) suicidio politico: la richiesta (senza basi giuridiche, senza nessuno sbocco) di messa in stato d’accusa del presidente Mattarella. In calo nei sondaggi, criticato apertamente dai suoi colleghi parlamentari, sommerso dai mugugni via twitter e facebook (chi di spada colpisce…) ha fatto una improvvisa inversione a U. Per salvare la pelle è andato a Canossa dal Presidente della Repubblica. Ha ritirato fuori dal congelatore Conte. Ha implorato il permesso a Salvini per spostare dall’Economia lo scomodo Savona. In cambio la Lega si è preso la maggioranza dei ministeri di peso e la guida di fatto del governo.

Salvini: voto 90. Ho messo quel numero perché “la paura fa Novanta”. Parlo della mia paura, e quella di tanti (spero siano tanti) italiani. Non a caso a Salvini gli elogi più sperticati, anche in queste ultime settimane, gli sono arrivati da Marine Le Pen e Nigel Farage. E’ Lui il padrone di casa, non solo del cruciale e muscolare Ministero dell’Interno, ma di tutto il governo. Il vero conte del castello governativo è Salvini, mentre l’avvocato Conte farà più o meno il maggiordomo.
Ovvio, come politico, come tattico, comunicatore, comiziante, arringatore e capopopolo Matteo Salvini si è dimostrato un cavallo di razza e si merita invece un 10 con lode . Lo hanno capito tutti. E lo ha capito anche lui. Sarà lui a dare la linea, e se qualcuno gli metterà il bastone tra le ruote, farà crollare tutto il castello. Darà la colpa a Di Maio, ai Poteri Forti, all’Europa e andrà alle elezioni a cuor leggero visto che i sondaggi arrivano a stimare la Lega sopra il 30%. Ha forse un unico problema – e la parabola di Matteo Renzi dovrebbe insegnargli qualcosa – che l’eccesso di esposizione mediatica può stancare il pubblico.
Chi sceglierà Matteo Salvini come alleato del futuro? L’usato sicuro Berlusconi e quindi il Centro Destra oppure Il Movimento Pentastellato, novello partner di governo? Salvini non ha fretta di scegliere. Intanto il vento gonfia le sue vele.
Se però la Lega alla fine decidesse per la seconda opzione, la mia paura sale. Si impenna come lo spread. Penso a Ferrara, alle elezioni della primavera 2019, a un governo locale stanco e a una sinistra senza un progetto e ripiegata su se stessa. Ma il fosco orizzonte cittadino merita un approfondimento a parte.

L’avvocato e Premier Giuseppe Conte: voto 5. Un assoluto Carneade, un vaso di coccio in mezzo a due vasi di piombo, trovate voi l’immagine più calzante. La sua colpa non è quella di aver taroccato il curriculum – in questo anzi fa tenerezza, mi sembra “un italiano vero” – ma aver accettato (forse per troppa ambizione, ha confessato suo padre) una mission impossible. Come diavolo fai a guidare una macchina se al posto di guida c’è seduto un altro? No, nessuno ce la farebbe, nemmeno l’unico, autentico avvocato Conte, nemmeno quel genio di Paolo Conte.

Mattarella: voto 5. Perché è vero che ha avuto tanta ma tanta pazienza. E secondo il dettato costituzionale, “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e su proposta di quest’ultimo gli altri ministri”, ha quindi voce in capitolo e può chiedere (molto sottovoce) e ottenere dal premier incaricato che venga cambiato o spostato un ministro indegno o inadatto (l’hanno fatto diversi suoi predecessori), ma Mattarella ha fatto qualcosa di più, di diverso e di grave. E’ entrato a gamba tesa, ha motivato il suo rifiuto al professor Savona con una motivazione tutta politica: i mercati, l’adesione all’Europa, la difesa dell’euro, il pericolo per i risparmi e i mutui degli italiani.
Un arbitro non può entrare in campo, pena l’appannamento del suo ruolo. Certo, Mattarella non è un traditore della Repubblica (infondata, ridicola e risibile la richiesta di impeachment), ma ha comunque esorbitato dalle sue funzioni. Senza contare che – ma sempre in via riservata, a tu per tu con il presidente incaricato – Mattarella avrebbe fatto meglio a opporsi aquello che è stato il vero strappo costituzionale, quello cioè di un governo diretto (e governato) dall’esterno, da due leader politici e dal contratto da loro siglato, non da un Presidente del Consiglio in piena autonomia.

Partito Democratico: voto 4 meno meno. Un voto meritato in campagna elettorale e confermato nei tre mesi successivi. Diviso, rissoso, opaco o addirittura oscuro, alieno ad ogni analisi autocritica, incapace di parlare ai suoi iscritti e agli italiani. Con un ex segretario ancora padrone dei gruppi parlamentari e della maggioranza della Assemblea e della Direzione. Con un reggente che campa alla giornata, in attesa di essere silurato. Con tanti capi e capetti con poco coraggio e pochissime idee. Ma di che parlerà il congresso?
Il partito trova prima l’unità sull’opposizione dura e senza paura. Poi sul voto a favore del governo tecnico di Cottarelli. Poi sull’astensione a Cottarelli: giusto per non rimanere ancora più soli e abbandonati. Poi per fortuna arriva il governo Conte e si può tornare all’opposizione. La base del partito? “Percossa e attonita” mi verrebbe da dire.
E’ brutto ammetterlo, ma il PD sembra vivere uno stallo infinito. Non è solo fuori dai giochi, da ogni gioco, ma è incapace di scegliere a quale gioco giocare, quale idea di Italia e di Futuro promuovere
.
Carlo Calenda; voto 2. Potrei dare i voti a tanti altri esponenti del Centrosinistra, tutti ampiamente sotto la sufficienza; un bel 3 a Renzi, un 3 all’ex giovane turco Orfini, un 3 ½ al fido Guerrini, un 3 anche al democristiano Franceschini, un 4 al timido Orlando, un 4 ½ a Del Rio ma solo perché sembra una brava persona.. Un 4 a Grasso, Un 4 anche alla Boldrini, un 3 a D’Alema. E Gentiloni? Diamogli un 5+, solo per la fatica degli ultimi 15 mesi.
Basta, non vi annoio oltre, voglio concentrarmi su Calenda. Sarebbe lui, l’ex Ministro per lo Sviluppo Economico, il nome nuovo, l’astro nascente, il prossimo jolly da giocare in parlamento e nel risiko elettorale. Nel partito non tutti credono in Calenda. Ma non è importante: è lui che ci crede fermissimamente e tanto basta al suo ego. Per questo Calenda lo incontri ovunque e a ogni ora del giorno e della notte: cinguetta sui social, partecipa a convegni ed eventi, rilascia interviste a raffica ai giornali, appare su tutti i canali dell’orbe televisivo. Ha solo un’idea da comunicare (lui la trova strepitosa): smontare il partito (a cui si è iscritto il mese scorso) e fare il “Fronte Repubblicano”, europeista e neoliberista. Il Fronte Repubblicano è la meravigliosa macchina da guerra (sappiamo com’è finita), il grande motore per rianimare il fronte degli sconfitti. Qualcuno dovrebbe dire a Calenda che la sua idea è vecchia e perdente, che non si può confondere il 2018 con il 1948.
Ma Calenda insiste – per questo merita un bel 2 – continua a sognare “un fronte ampio” (altra idea nuovissima!), una destra in doppiopetto che si contrapponga alla destra in jeans, felpa e megafono dei neopopulisti. Qualcuno dovrà spiegarglielo: con una formazione e un mister del genere non c’è partita, si perde di goleada.
N.B. Per motivi di spazio e di tempo l’autore si scusa con i lettori e con i leader rimasti senza pagella.

La politica italiana del dopo Moro: un presente senza domani

Il 9 maggio di quarant’anni fa fu trovato il corpo senza vita di Aldo Moro, riverso nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani a Roma.
In questi tempi di commemorazioni abbiamo sentito e risentito la telefonata di Valerio Morucci a Franco Tritto, quel 9 maggio 1978, per indicare il luogo di quello spietato epilogo.
Le indagini condotte dalla commissione parlamentare, presieduta da Giuseppe Fioroni, e le considerazioni più volte espresse da Miguel Gotor, Gero Grassi e dallo stesso Fioroni, portano ad avere seri dubbi su come siano andate realmente le cose. Sintomatiche le parole di Grassi, secondo il quale la mattina del rapimento, 55 giorni prima della sua uccisione, in via Fani “c’erano anche le Br”.
Non è la prima volta che verità storica e giudiziaria non coincidono. È successo anche, per esempio, con l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, del quale restano famose le parole secondo le quali sappiamo chi ha messo le bombe nella lunga e insanguinata storia stragista italiana, “ma non abbiamo le prove”.

Bello e intenso è stato il ricordo di Moro andato in onda su Rai Uno martedì 8 maggio con letture di Luca Zingaretti e un’interpretazione del presidente della Dc di Sergio Castellitto da levarsi il cappello.
Per inciso, un’operazione che ha ascoltato le voci dei suoi studenti universitari di allora e di chi ha seriamente lavorato sulle carte, a differenza di altri programmi televisivi che hanno invece ossessivamente acceso il microfono davanti alle bocche (reticenti, smemorate?) dei brigatisti, grandemente ignari del prezzo che tuttora l’Italia sta pagando a causa di quel colossale errore.
Tutto per sentire Valerio Morucci ammettere davanti alla telecamera che invece del veleggiare trionfante della barca rivoluzionaria sopra un fiume di sangue, il risultato è stato il suo affondamento.
Ma che scoperta!

Al netto di quello che si sa, di quello che non si sa e di ciò che si può solo supporre, col senno di poi si può dire che ad Aldo Moro l’Italia ha preferito la Dc di Giulio Andreotti.
Sulla politica di respiro e disegno, di prospettiva e inclusione democratica, ha prevalso quella del tirare a campare. Lo stesso Andreotti disse una volta di Moro: “La differenza è che lui parla con Dio, io parlo con i preti”.
Così quel tragico e sanguinoso 1978 partorì la Democrazia cristiana del Preambolo e poi gli esecutivi del Caf (Craxi, Andreotti e Forlani), trascinando formule e schemi di governo in evidente stato di decomposizione. Il risultato è stato che il tirare a campare si è tradotto in un acido corrosivo delle fondamenta istituzionali e culturali della Repubblica. Un lento e agonico tirare le cuoia, pertanto, sospinto da una corruzione istituzionale a livelli di metastasi; da una criminalità organizzata con la quale, così pare, si sono fatti accordi inconfessabili per allentare misure detentive e per scopi elettorali; dal sovrapporsi nella politica di destini e interessi personali a quelli generali, col risultato di una classe dirigente perfettamente sintonizzata su quest’orizzonte e incurante delle conseguenze.

Una cieca esaltazione del presente senza domani e uno sfrenato spendere le risorse anche di chi verrà dopo, che ha portato diritto a Tangentopoli e alla fine, impropria, della prima Repubblica. Impropria, perché una seconda non è mai nata, visto che l’asfittico spazio politico italiano non è mai riuscito a dare respiro e gambe a un necessario e ancora urgentissimo processo riformatore costituzionale e istituzionale.

Troppo è stato il tempo perso a contare inutilmente il numero di Repubbliche a Costituzione invariata (articolo più, articolo meno), mentre l’unico ideale sublimato ad alta carica dello Stato è diventato l’interesse personale. “Se diventa ricco lui, lo diventiamo tutti”, si ammetteva spudoratamente plaudendo alla discesa in campo di Silvio Berlusconi, illusoria traduzione in politica del principio dei vasi comunicanti.
Ne è seguita una lunga caimanizzazione della politica, d’altronde già resa una canna al vento dopo gli urti della ‘Milano da bere’ e del ‘così fan tutti’.
Lo capì fin dal primo momento Indro Montanelli.
Una sorta di Adamo Smith in stile Pulcinella, secondo l’antico automatismo: “L’interesse del macellaio finisce per procurarci la bistecca”.
L’unico automatismo prodotto, nei fatti, è una politica senza classe dirigente, perdutamente distante dalla realtà. Basti pensare che nell’agenda di ogni governo da anni a questa parte c’è il problema della legge elettorale.
Ora, oltre al distacco dalla realtà c’è chi rileva quello dalle istituzioni. E ciò che abbiamo visto dal giorno dopo delle elezioni dello scorso 4 marzo ne è la disinvolta messa in scena.

In questo deserto non è esente la sinistra, con l’ultima sua creatura: il Pd.
Dalla sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale del 4 dicembre 2016, pallida copia del tentativo già ulivista per una democrazia competitiva e governante, è stato un susseguirsi di rovesci.
Impietoso, in proposito il giudizio di Gianfranco Brunelli (‘Il Regno’, 6/2018): “Nessuno è stato all’altezza del proprio ruolo e del proprio compito”.
Non il gruppo ex-comunista che, fin dall’Ulivo, ha sistematicamente rifiutato ogni trasformazione del modello partito e mai accettato la messa in discussione della propria leadership interna, col risultato di non salvare nulla della propria storia.
Non Matteo Renzi, che ha preteso di piegare a un ego incontenibile e impaziente un cruciale tornante di modernizzazione costituzionale e istituzionale, che andava ben altrimenti oggettivato e condiviso.
Diversi dicono e scrivono che questo scenario sconfortante non è il prodotto di questi tempi, ma ha origini lontane.
Alcune di queste risalgono a quel tragico 9 maggio 1978.

GIARDINI ESTENSI
Passeggiata letteraria dal Giardino di Bassani a quelli inglesi e giapponesi

Una passeggiata immaginaria tra i giardini letterari e i loro riferimenti reali quella fatta domenica (6 maggio 2018) all’interno della bella manifestazione ‘Giardini estensi’ con l’intervento di Giorgia Mazzotti e Simonetta Sandri, che hanno parlato di ‘Natura tra letteratura e realtà: dal Giardino dei Finzi-Contini alla siepe leopardiana’.

Giardini Estensi 2018 a Parco Massari di Ferrara

L’incontro sotto il gazebo al centro di Parco Massari di Ferrara è seguito a quello di sabato con lo scrittore Tiziano Fratus intervistato da Mimma Pallavicini e a quello, nella prima mattina di domenica, con il maestro giardiniere Carlo Pagani.

Tiziano Fratus con Mimma Pallavicini (foto GiardiniEstensi 2018)
Il maestro giardiniere Carlo Pagani (foto Valerio Pazzi)
Pubblico all’incontro sui “Giardini letterari” a Parco Massari di Ferrara

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“A Ferrara – ha raccontato Giorgia Mazzotti – quello dei Finzi-Contini è il giardino per eccellenza, che tutti cercano o hanno cercato. Questa ricerca fa spaziare tra diversi luoghi verdi della città e finisce per condurre più lontano, fuori anche dai confini regionali”. Da questo riferimento letterario si è quindi avviata la ricerca attraverso gli spazi verdi di ispirazione dello scrittore, partendo dalla casa natale della famiglia di Giorgio Bassani, in via Cisterna del follo 1 a Ferrara, non visitabile né visibile dall’esterno, ma documentata dalle fotografie storiche di Paolo Zappaterra, con il suo cortile interno dominato dalla magnolia, celebrata anche in una delle poesie dell’autore.

L’albero di magnolia nel giardino di casa Bassani fotografato da Paolo Zappaterra

Si prosegue con il giardino della casa della famiglia dei (Finzi)-Magrini [per conoscere la loro storia clicca qui], che tanti elementi biografici ha in comune con i protagonisti romanzeschi, anche se poi completamente ridisegnata nella trama letteraria. Il giardino, tra l’altro, è quello che sarà visitabile in via Mascheraio 14 a Ferrara all’interno della manifestazione ‘Interno Verde’ sabato 12 e domenica 13 maggio 2018.

Altra tappa fondamentale quella del giardino di Palazzo Prosperi-Sacrati, in corso Ercole I d’Este 23, dirimpetto a Palazzo dei Diamanti, dove grazie alle visite organizzate dall’associazione Arch’è presieduta da Silvana Onofri si ritrova il riferimento alla dimora immaginata dal romanzo. Il palazzo, infatti, si può identificare con quello descritto da Bassani come “grande, singolare edificio, assai danneggiato da un bombardamento del ’44, è occupato ancora adesso da una cinquantina di famiglie di sfollati”. A documentarlo durante le belle visite al Giardino del Quadrivio [clicca qui per leggere l’articolo sulla visita] c’è stata anche la testimonianza di Valerio Trevisan, che – durante le occasioni di apertura al pubblico – ha raccontato la sua esperienza di bambino che negli anni ’50 abitava con la famiglia in quel palazzo trasformato in alloggi comunitari, fonte di avventurose scorribande per lui e gli altri numerosi giovanissimi abitanti.

Cimitero ebraico di Ferrara affacciato sulla Mura degli Angeli

Da non dimenticare, infine, l’analogia tra il giardino romanzesco e il cimitero ebraico di via delle Vigne 12, così verde e piacevolmente alberato in maniera quasi selvaggia. Quale altro “intrico selvoso dei tronchi, dei rami, e del fogliame” si vede infatti se non questo, quando si cammina sulla “cima della Mura degli Angeli”? Una distesa verde e boscosa che rimanda proprio a quella indicata sulle pagine romanzesche come “imminente al parco” della dimora dei protagonisti.

Il dialogo, partito da questo riferimento ferrarese, si è quindi allargato a giardini letterari di altri luoghi del mondo attraverso le letture illustrate da Simonetta Sandri anche con l’ausilio delle proiezioni fotografiche, purtroppo impallidite sullo schermo a causa della luminosità circostante. Ecco allora la ricerca de ‘Il giardino segreto’ di Francis Hodgson Burnett di cui si possono ritrovare riferimenti nei parchi di tre differenti castelli inglesi: quello a cui lei fa riferimento nella narrazione che è Misselthwaite Manor nello Yorkshire; quello della dimora natale dove materialmente scrive il libro (Great Maytham Hall nel Kent) e quello usato come location per una delle principali trasposizioni cinematografiche (Highclere Castle nello Hampshire).

Allerton Castle, nello Yorkshire, luogo di ambientazione romanzesca
Great Maytham Hall a Rolvenden in Kent, dove la Burnett scrive “Il giardino segreto”
Highclere Castle nello Hampshire che fa da set al film

Dall’armonico avvicendamento di elementi naturali del giardino anglosassone, si passa in Iran con ‘Il giardino persiano’ raccontato da Chiara Mezzalama e, infine, in Giappone con quello narrato da Banana Yoshimoto ne “Il giardino segreto” con tutta la simbologia dello spazio orientale.

“Giardino segreto” di Francis Hodgson Burnett illustrato da Inga Moore, 2008
Cancello del castello nello Hampshire, set del romanzo

Modi diversi di raccontare giardini, con diverse sfumature di significato metaforico e letterario e riferimenti a spazi verdi che si possono rintracciare nella realtà. Non sono mancati i riferimenti al giardino come luogo di privilegio e protezione, che nel romanzo dei Finzi Contini si pone in contrapposizione con l’Italia fascista che sta fuori, un esterno da dove la tragedia è pronta a irrompere, ma anche nel giardino persiano che nella storia della Mezzalama isola e protegge dall’esterno dove la tragedia è in atto.

Modello di giardino persiano tradizionale
Sede dell’ambasciata italiana a Teheran raccontata nel “Giardino persiano” (foto Chiara Mezzalama)

Perché “Il giardino persiano” è ambientato a Teheran nell’estate 1981, stravolto dalla rivoluzione islamica dell’Ayatollah Khomeini, dalla crisi degli ostaggi americani, da un buio terrore, dalla povertà e dalla guerra con l’Iraq.

Giardini Estensi 2018 – pubblico a incontro con Giardini letterari per Giorgia Mazzotti e Simonetta Sandri (foto Valerio Pazzi)

Parlando di giardino come luogo lontano da tutto, fonte di protezione e ispirazione, si è quindi arrivati a Villa Ninfa, lo spettacolare parco dove Bassani fisicamente scrive il suo romanzo, uscito nel 1962. In un’intervista pubblicata solo nel 2016, ma realizzata dal giornalista Carlo Figari all’epoca della sua laurea in lettere nel 1979, Bassani ha infatti rivelato che quel luogo rappresenta la vera fonte di ispirazione per descrivere il suo “Giardino”. “I Finzi Contini – confessò Bassani al futuro giornalista – in verità derivano da una famiglia aristocratica romana, i Caetani di Sermoneta, e i luoghi che mi hanno ispirato l’ambientazione del romanzo sono il parco che questi nobili possiedono a Ninfa, vicino a Latina, e l’orto botanico di Palazzo Corsi, dietro le logge di Raffaello a Trastevere”. Il riferimento all’orto botanico e alle frequenti e attente visite fatte con il padre è stato in diverse occasioni riportato anche dalla figlia dello scrittore, Paola Bassani.

Giardini letterari raccontati da Simonetta Sandri e Giorgia Mazzotti (foto Valerio Pazzi)
Pubblico all’incontro di Giardini Estensi 2018 (foto Valerio Pazzi)
Pubblico a Giardini Estensi 2018 (foto Valerio Pazzi)

Da notare che l’incontro si è realizzato all’interno del bel (e pubblico) Parco Massari di Ferrara, che nella trasposizione cinematografica de “Il Giardino dei Finzi Contini”  identifica la collocazione dell’ingresso alla dimora nel suo cancello laterale, accessibile da corso Ercole I d’Este 40, riprodotto anche nelle locandine del film dove fa da sfondo al gruppo di Micòl e dei suoi amici.

Locandina del film “Il Giardino dei Finzi Contini” col cancello d’ingresso a Parco Massari
Cancello d’ingresso a Parco Massari di Ferrara nella realtà (foto GM)

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Dalle calotte a una nuova gestione pubblica del ciclo dei rifiuti

Da organizzatori

Continua con successo la petizione popolare: al sabato e alla domenica si può firmare in piazza presso i banchetti.

Continua con successo la raccolta di 500 firme per richiedere al Consiglio Comunale di Ferrara di discutere e deliberare la realizzazione di uno studio di fattibilità per la ri-pubblicizzazione del servizio di raccolta dei rifiuti. L’iniziativa, lanciata appena dieci giorni fa dalla Associazione Politico Culturale ferraraincomune e dal Comitato Mi rifiuto, ha raggiunto e superato il giro boa, hanno infatti già firmato oltre 250 cittadini ferraresi.
Com’è noto, nel dicembre scorso è scaduta la concessione ad Hera, la stessa Hera che in accordo con il Comune di Ferrara aveva avviato appena pochi mesi prima la discussa e discutibile “operazione calotte”, limitandosi a informare la cittadinanza, senza cioè richiederne democraticamente il parere. Scaduta la concessione siamo quindi in regime di proroga, c’è quindi ancora il tempo di “fare le cose per bene”, cioè di valutare attentamente le varie opzioni per la futura gestione, scegliendo la soluzione più economica (e quindi meno onerosa per gli utenti), la più ecologica ed efficace, la più aderente ai bisogni dei cittadini residenti.
L’opzione di una gestione pubblica partecipata, piuttosto che istruire una nuova gara per la concessione del servizio ad una azienda privata, a noi sembra la strada giusta da percorrere. La stessa strada che altri Comuni, in Veneto Lombardia ed Emilia, hanno già intrapreso con buoni risultati.
La raccolta di firme impegnerà Il Consiglio Comunale a valutare questa opzione, e in ogni caso ad approfondire il tema, valutare attentamente le varie esperienze e i vari modelli esistenti, avviare cioè un serio studio di fattibilità. I risultati – così noi intendiamo la democrazia partecipata – dovranno poi essere presentati e discussi nelle assemblee di quartiere con tutti i cittadini, raccogliendo pareri, obiezioni, suggerimenti.
Aderire all’iniziativa è molto semplice. Tutti i residenti del Comune di Ferrara possono recarsi nei giorni festivi e prefestivi presso i nostri banchetti in piazza: per avere una più completa informazione, esprimere la propria opinione e firmare la petizione popolare. Sabato 4 maggio e domenica 5 maggio, il banchetto è in Piazza Castello (lato Duca D’Este) dalle 10,00 alle 13,00 e dalle 16,00 alle 19,00. Vi aspettiamo.
Associazione ferraraincomune Comitato Mi rifiuto

DIARIO IN PUBBLICO
La città del fiore ovvero la sconfitta della cultura

E dopo alcuni mesi ritorno a F. – effe puntato – non la città indicata da Giorgio Bassani con questo monogramma, Ferrara, ma a quella ideale, in cui ho passato esattamente metà della mia vita (1954-2017), Firenze.
Già all’uscita dalla stazione (avevo chiuso gli occhi per non vedere e non ricordare le dolci colline di Castello che il treno sfiorava) sono accolto dalla completa distruzione di uno dei luoghi più noti dell’architettura novecentesca, cioè la stazione di Santa Maria Novella, ormai Gotham City, dove il cataclisma provocato dai mostri non ha un Batman che la salvi. Percorro via Cerretani tra tripudi di scarpe e borse. I vecchi ristoranti hanno ceduto il posto a esoteriche gelaterie e uno di essi porta l’insegna di un luogo dove ho studiato per anni: “la Dantesca”! Fendo folle sudaticce e non certo odoranti di mughetto, il fiore di maggio; ascolto scalpiccii di piedi che sortono dalle più impensabili “scarp da tennis” direbbe Jannacci. Come in un ritratto ricordo vecchi alberghi, negozi raffinati che s’accalcavano attorno alla svolta per via Tornabuoni e poi e poi la marea vociante si confonde in un unico balenare di teste e di selfie attorno al Battistero irriconoscibile.

In questo confuso accavallarsi di arte, ‘magnate’, compere si rispecchia non a caso la confusa situazione della politica italiana che non riesce e non vuole organizzarsi in un serio progetto di salvezza nazionale. Il panciuto e affannato mister s’adopera a condurre le sue greggi nei luoghi sacri dell’arte: chissà se ancora potrà risuonare attuale l’invito alla salvezza del mondo proposto da Giotto o da Brunelleschi o dal ‘Devid’, che sovranamente indifferente spalanca l’occhio a guardare con aria perplessa le folle adoranti che gli scrutano i cabasisi per valutarne la virile qualità non capacitandosi della loro piccolezza.
L’arte viene dunque mangiata. A morsi. A bocconi. Come una pizza d’asporto senza nemmeno più il decoro di un buon ristorante. E se si fa giustamente un caso della perdita di un dito nello spostamento della Santa Bibiana del Bernini che dire dei fiati, degli umori, dei vapori comprese le puzzette (una fragorosa mi riporta all’oggi transitando in Piazza della Repubblica) che lentamente come le fibre dell’eternit mangiano il nostro patrimonio artistico? Firenze è dunque sulla via del non ritorno? Penso proprio di sì. E l’ombra di questa minacciosa lebbra sta invadendo poco a poco anche le città di provincia, come la nostra. Le mostre inutili, gli ‘eventi’ che servono ormai a diffondere la sbrigativa consapevolezza che un nome di un artista può produrre economia. L’arte a tutti, per tutti, di tutti e senza difese cancella l’arte. Che fare? Ritirarsi sull’Aventino e attendere? Oppure denunciare, riflettere, organizzarsi? Gli amici fiorentini preoccupatissimi assistono allo sgretolarsi dell’influenza dell’associazionismo culturale che pur combattendo perde sempre più terreno.
Del nostro ferrarese non sono più al corrente.

Mi siedo all’antico caffè in piazza del Battistero, che per decenni zuccherava il mio spleen con pasterelle deliziose. L’espresso sbattuto lì con malagrazia da un cameriere nervoso (a Firenze una condizione immutata nel tempo) è un’acqua tinta – direbbe Dante – mentre il conto ovviamente è all’altezza del luogo. M’intenerisce una coppia non giovanissima, forse della mia stessa età. Lei si china sul quadernuccio e annota le sue riflessioni: un raggio di sole nel caos infernale di una piazza degna del Paradiso.
Passo da Seeber, ormai Ibs-Libraccio, e mi rifugio per un attimo tra i bambini-libri mentre attorno e di lontano lo strascinamento dei piedi fa da coro muto (o quasi) al lento sfaldarsi della bellezza.
E’ un atteggiamento da radical-chic? Forse. Ma è pur vero che la denuncia può e deve essere l’ultima difesa contro l’immagine del degrado. Nel suo bellissimo libro Chaim Potok, ‘Il mio nome è Asher Lev’, l’artista che insegna il senso della pittura al ragazzino Asher afferma: “ La pittura di un uomo riflette la sua cultura o è un commento ad essa, oppure è semplice decorazione o una fotografia.” Ecco. In questo mondo infelice è necessario indicare di nuovo come meta ultima la connessione dell’arte con il suo contesto. Oppure contentarci di vivere nel mondo irreale dei social.
Vedo in tv la nipote della mia dea: Laura Morante. E’ spronata dalla Gruber a dire qualcosa sulla politica del Pd. La dice col suo bellissimo e mobile viso. Si vede che è tesa; infatti nella trasmissione sarà annunciata l’uscita del suo primo libro di racconti.
Questo è sì vero coraggio. Non temere l’inevitabile confronto con lei nonostante sia inevitabile. E dopo due bruttissime biografie uscite in questo mesi sulla Morante, una francese di René de Ceccatty, l’altra italiana di Anna Folli, la sfida o l’amore per la parola e nella parola riporta di nuovo un filo di speranza a contrastare l’Altro Mondo: quello della bruttezza e del caos.
Salviamo Firenze, salviamo Venezia e pure Roma se potrà essere possibile.

LA FOTONOTIZIA
Ferrara LiberA

Anche quest’anno, come è ormai tradizione, nel pomeriggio del 25 aprile 2018 il centro di Ferrara rivive la propria ‘LiberAzione’, grazie un’azione teatrale che quest’anno ha visto coinvolti diversi soggetti accomunati dal riconoscersi nei valori della Resistenza e dalla convinzione che l’arte possa essere un valido strumento per tramandare la memoria.

Oltre al sostegno dell’ANPI Ferrara e del Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara, e con il patrocinio del Comune di Ferrara, la compagnia teatrale A_ctuar, l’orchestra della scuola di musica Musi Jam, il Coro delle Mondine di Porporana, il gruppo di lavoro nato all’interno del Centro Sociale La Resistenza di Ferrara ed un gruppo di cittadini di Pontelagoscuro provenienti dalla precedente esperienza del Teatro Comunitario.

Lo spettacolo itinerante ricorda il 24 aprile 1945, giorno dell’entrata in città delle truppe inglesi che sancì il definitivo ritorno alla pace e alla libertà anche per Ferrara.
‘LiberAzione’ perché al centro della scena c’è la ricostruzione attiva e comunitaria della memoria da parte di una comunità.
Una liber-azione per ricordare quanto la libertà sia un bene comune che si difende con la partecip-azione.

Il racconto fotografico dell’azione teatrale è di Valerio Pazzi.
Clicca sulle immagini per ingrandirle.

‘LiberAzione’ messa in scena mercoledì 25 aprile (foto Valerio Pazzi)
Accompagnamento musicale a ‘LiberAzione’ (foto Valerio Pazzi)
Un momento della messa in scena nel centro di Ferrara (foto Valerio Pazzi)
Gruppo di attori (foto Valerio Pazzi)
‘LiberAzione’ (foto Valerio Pazzi)
La ‘LiberAzione’ rivive in piazza (foto Valerio Pazzi)
Un momento della rievocazione del 25 aprile (foto Valerio Pazzi)
Le mondine (foto Valerio Pazzi)
I musicisti e il coro (foto Valerio Pazzi)
Rievocazione di ‘LiberAzione’ (foto Valerio Pazzi)
Scene nel centro storico di Ferrara (foto Valerio Pazzi)
‘LiberAzione’ (foto Valerio Pazzi)

TEATRO
Avvocati e manager in scena per una commedia esilarante

Nella vita sono impiegati, manager, avvocati. Poi salgono sul palco e sono comici, istrionici, sorprendentemente coinvolgenti. Sono gli attori della compagnia Teatro21 di Ferrara che sabato sera (21 aprile 2018) hanno portato in scena in sala Estense la loro versione della commedia francese “La cena dei cretini”.

Paolo Garbini nei panni del protagonista con la moglie (Daniela Patroncini) e il medico (Alessandro De Luigi) – foto Valerio Pazzi

La commedia è basata su un’opera teatrale portata in scena per tre anni a Parigi dal regista francese Francis Veber e poi approdata al cinema nel 1998, con il film scritto e diretto dallo stesso Veber che diventa un successo internazionale. Un’ironia basata su una serie di equivoci e di gaffe che si succedono con un ritmo incalzante portato avanti con dialoghi brillanti.

Paolo Garbini nei pani dell’editore protagonista con Alessandro De Luigi nei pani del medico (foto Valerio Pazzi)

Protagonista è l’editore di successo Pierre Brochard, interpretato dal bravo e poliedrico Paolo Garbini. Ogni mercoledì sera il professionista della borghesia parigina organizza una cena con un gruppo di amici, dove ognuno degli invitati deve presentarsi accompagnato da una persona che può essere definita “un perfetto cretino”. E qui entra in scena l’attore Francesco Cositore,  applauditissimo nel ruolo davvero esilarante di ‘cretino’, che via via trascina nel disastro tutte le situazioni e le relazioni che vengono a intrecciarsi nel salotto del fascinoso e sicuro di sè padrone di casa.

Francesco Cositore nei pani del ‘cretino’ con Daniela Patroncini (foto Valerio Pazzi)

La comicità sta proprio in questa inversione sottile dei ruoli, che va espandendosi fino alla nemesi finale, dove il burlato finisce per far piazza pulita di tutte le burle, trascinando in difficoltà ognuno dei personaggi più scaltri e sgamati con una sorta di candore catastrofico.

“Cena dei cretini”: Paolo Garbini con Francesco Cositore e Nicola Ferro (foto Valerio Pazzi)

Pierre ha infatti individuato la sua vittima in François Pignon, interpretato da Cositore, nel ruolo di contabile del ministero delle Finanze con la passione di realizzare modellini di monumenti famosi con i fiammiferi. Un inconveniente blocca in casa Pierre proprio la sera della cena e da lì inizia la sequela di incontri tra amici e familiari di passaggio nel suo salotto, che in una notte rivoluzionano tutti gli equilibri presenti, passati e futuri. Teatro stracolmo in sala Estense, con il pubblico che ha partecipato con grande coinvolgimento e applausi a tutto lo spettacolo. La messa in scena è documentata dalle belle fotografie di Valerio Pazzi. La regia è di Catia Gianisella, aiuto regia Alessandra Alberti, audio Alessandro De Luigi, scenografia di Valentino Guzzinati. (gio.m)

Alessandra Alberti a cui è affidato il commento canoro della “Cena dei cretini” ala sala Estense di Ferrara (foto Valerio Pazzi)
La scena del vino da offrire all’ispettore del fisco col padrone di casa Pierre-Paolo Garbini e l’amico Juste-Nicola Ferro (foto Valerio Pazzi)
L’ispettore del fisco (Giovanni Ricci) accolto dal contabile (Francesco Cositore), Pierre-Paolo Garbini e Juste-Nicola Ferro (foto Valerio Pazzi)
Cena dei cretini – sala Estense, Ferrara: Paolo Garbini, Francesco Cositore e Nicola Ferro (foto Valerio Pazzi)
Sabrina Bordin irrompe nella scena nel ruolo dell’amante scatenata. Alle spalle Francesco Cositore, Nicola Ferro, Paolo Garbini e Giovanni Ricci (foto Valerio Pazzi)
Il cast applauditissimo della “Cena dei cretini” messa in scena dalla compagnia del Teatro21 a Ferrara (foto Valerio Pazzi)

La domenica ‘per la pace’ di Ferrara

Varie sono state le reazioni al raid targato Usa-Francia-Gran Bretagna della notte tra venerdì 13 e sabato 14 aprile. Anche Ferrara ha visto qualcuno muoversi nella direzione della condanna. Così domenica 15 aprile, alle ore 16, ero lì in piazza municipale a seguire le dichiarazioni di chi si è schierato contro quest’azione.

Piccola premessa. Non posso approfondire qui, in poche righe, tutta la situazione siriana, ma due cose devono essere chiare: sì, sono state usate armi chimiche a Douma e no, non abbiamo la certezza che sia stato Assad, ma molte prove indirizzerebbero a lui la colpa, nonostante la strenua difesa da parte del governo russo. Altra cosa che sappiamo: la guerra in Siria è complessa, ci sono molti attori e sicuramente quello di venerdì non può essere chiamato un ‘bombardamento’ per tante ragioni. Se aggiungiamo che la Francia ha 4000 uomini impegnati in Mali e non ha quasi munizioni a disposizione, mentre la Gran Bretagna dopo la guerra in Iraq non ha fondi per iniziare qualsivoglia conflitto, capiamo che non è cominciata nessuna nuova guerra. Né, probabilmente, comincerà, perché non è negli interessi degli ‘attori’. La guerra civile siriana, infine, dura da ben sette anni e questo non è stato il primo bombardamento di forze occidentali in Siria, e nemmeno la prima volta che si sono usate armi chimiche. La prima volta sono state usate nel 2013: fu bombardata Damasco proprio da Assad, ma nessuno fece nulla.

Ma, lo ripeto, non voglio entrare nella questione siriana. Restiamo a Ferrara.
Domenica alcune sigle, tra le quali Potere al Popolo, Rifondazione Comunista, Partito Comunista Italiano, Usb, Comitato per l’Acqua pubblica, Emergency, Arcigay, Arcilesbiche e Anpi, hanno manifestato per dire il loro no alla guerra. Un’analisi delle parole dette non sarebbe giusta. Forse sono io a pretendere troppo da una discussione, forse il luogo non consono, ma limitare a degli slogan una situazione complessa come la Siria non credo sia corretto.
Avrei voluto sentir parlare un po’ di più dei motivi reali della guerra. Avrei voluto sentire parlare di ‘Pipeline’, ma anche di come il governo di Assad non sia tra i migliori al mondo e di quali prove a riguardo si abbiano. Avrei voluto sentire, al fianco alle critiche verso gli Usa, delle critiche altrettanto severe verso la Russia, la Turchia e lo stesso Iran. Avrei voluto che, visto che si condannava la guerra e si parlava di “movimento pacifista”, la discussione si fosse allargata a tutto il Medio Oriente. Avrei voluto sentir parlare delle armi italiane usate dai sauditi nello Yemen, della peggior crisi umanitaria secondo l’Onu in quest’ultimo paese. Avrei voluto sentire di come questa guerra nello Yemen sia stata fatta per punire l’Iran, di come sia cambiata la linea proprio sull’Iran con l’inserimento di Pompeo a segretario di Stato negli Stati Uniti.

Avrei voluto sentir parlare di commercio in nero di petrolio e del perché questo ‘bombardamento’ sia stato fatto di venerdì: forse proprio per non far avere crolli sul mercato azionario, soprattutto del greggio, e lasciare tre giorni per far ‘rielaborare’ la notizia e far aprire le borse senza sbalzi il lunedì successivo.

Avrei voluto, infine, sentire qualche voce condannare non solo la guerra, ma anche la disinformazione che rischia di trasformarci in tifosi di questa o quella fazione. Avrei voluto sentir parlare di Afrin e di come forse non ci sia stata la denunciata “pulizia etnica”. Avrei voluto, e qui la smetto, sentir parlare qualche siriano, o almeno qualcuno che in Siria, ultimamente, ci sia stato.

Oltre a sentire avrei voluto anche vedere. Vedere più gente. Avrei voluto vedere un pubblico più numeroso, partecipe, coinvolto. Avrei voluto tante, forse troppe cose, da una manifestazione che voleva solo, in fin dei conti, dire che la guerra è uno schifo e che alla fine, a pagarne le conseguenze, sono sempre le popolazioni civili inermi e indifese. E credo che una volta sentito questo, non ci sia stato più bisogno di nulla.

Grafica come arte: mostra di Claudio Gualandi al Dosso Dossi di Ferrara

Disegni stilizzati e puliti, architetture riconoscibili, un’impaginazione dove il vuoto dello spazio bianco rende arioso il pieno di una folla di personaggi indaffarati, che a guardarli nel dettaglio rivelano mestieri, tic, abitudini e in molti casi anche precise identità di persone realmente esistenti o esistite, spaziando dall’umarèl al geometra locale per arrivare fino ad Ariosto e al compianto architetto Carlo Bassi.

Mostra di Claudio Gualandi a Ferrara, 7-22 aprile 2018 (foto Luca Pasqualini)

Nelle opere artistiche e grafiche di Claudio Gualandi – un’attività decennale alle spalle per dare bellezza, eleganza e significato ad allestimenti, accessori di moda, prodotti commerciali, ma anche edifici cittadini che sotto i suoi teloni disegnati sono diventati temporanee sculture giganti – vale il principio contrario a quello del romanzo, dove di solito si garantisce che “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale”. Gualandi i fatti li osserva, le persone le conosce e le cose le studia per poi trasporle con il tratto delle sue matite fini e appuntite di ironia e giocosità, come il guizzo ridente del suo sguardo.

Mostra di Claudio Gualandi negli spazi in centro della galleria del liceo artistico di Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Ora nelle sale in pieno centro storico ferrarese della galleria del liceo artistico Dosso Dossi (via Bersaglieri del Po 25, Ferrara) con il titolo ‘Claudio Gualandi, la mia Ferrara’ è in mostra un ampio campionario delle sue opere, illustrazioni e prodotti di comunicazione.

Pannello descrittivo di oggetti di Claudio Gualandi in mostra (foto Luca Pasqualini)

Nella presentazione di sabato scorso (7 aprile 2018) il critico d’arte Lucio Scardino ha sottolineato come “in questa sua mostra Gualandi non presenta solo i ‘quadri in libertà’ ambientati a Ferrara o vari luoghi d’Italia, dalla Lombardia alla Sicilia, ma anche le illustrazioni su commissione. Ci sono i teli parlanti per il restauro di edifici novecenteschi come è successo per la palazzina dell’ex Mof in corso Isonzo a Ferrara, pannelli e bozzetti che raccontano storie di aziende di alto artigianato, celebrazione di anniversari, promozione di attività di grande distribuzione e commercio”.

Lucio Scardino presenta la mostra di Claudio Gualandi, Ferrara 7 aprile 2018 (foto Luca Pasqualini)

Un omaggio tutto particolare è riservato poi ai ragazzi che stanno studiando in quella scuola come, all’epoca, aveva scelto di fare lui trasgredendo le aspettative del padre che sperava di averlo come successore alle redini dell’azienda di famiglia. Dedicato a quelli che come lui l’arte la praticano, è la scelta di esporre insieme ad opere finite – come la borsa a secchiello di Felisi degna di una influencer a passeggio per le giornate della moda milanese – anche bozzetti ancora allo stadio progettuale.

La borsa a secchiello con il popolo di cittadini in un raffinato bianco e nero di Claudio Gualandi (foto Luca Pasqualini)

Così avviene per il bellissimo, colorato e lungo pannello orizzontale, che crea come un grandangolo dilatato sulla città di Ferrara partendo dal ponte di ferro sul Po di Pontelagoscuro per percorrere le mura ed arrivare al parco urbano Bassani, alla distesa verde di piazza Ariostea e poi a Palazzo dei Diamanti, al Castello estense, al Duomo qui libero nella sua bellezza marmorea con in cielo tutto un popolo di volatili, aquiloni e mongolfiere e, in terra, di ciclisti, sbandieratori e turisti. Il collage di disegni, fotografie e fotocopie di cartoline ritagliate sono il regalo di chi fa il mestiere di comporre le immagini a quelli che a questo stanno dedicando i loro studi e le loro realizzazioni. “Perché non tutto si realizza al computer – racconta Linda Mazzoni, sua compagna di vita e di lavoro – ma nella maggior parte dei casi l’idea prende forma ancora in modo manuale”. (gio.m)

Il pannello di Claudio Gualandi che racconta Ferrara attraverso palazzi e personaggi (foto Luca Pasqualini)

Nel fotoreportage di Luca Pasqualini una carrellata delle opere in mostra.

‘Claudio Gualandi, la mia Ferrara’, galleria del liceo artistico Dosso Dossi, via Bersaglieri del Po 25, Ferrara. Visitabile tutti i giorni ore 10.30-12.30 e 16-19 con ingresso libero.

Sul lavoro di Claudio Gualandi leggi anche
Il mondo in un disegno: la grafica di Gualandi

RIAPERTURE
Francesco Zizola: Ecco perché posso fare foto buone, non belle

Vincitore per sette volte del World Press Photo, uno dei più prestigiosi concorsi di fotogiornalismo mondiale organizzato con cadenza annuale dalla omonima fondazione che ha sede ad Amsterdam, Francesco Zizola è considerato uno dei maggiori fotoreporter contemporanei. Ospite del festival di fotografia ‘Riaperture’ (leggi QUI), in corso a Ferrara durante lo scorso fine settimana e in quello in arrivo, Zizola è stato protagonista domenica scorsa (8 aprile 2018) di un incontro pubblico sul palco dello spazio Grisù, in via Poledrelli a Ferrara, dove ha parlato del suo lavoro, sollecitato dalle domande del giornalista Stefano Lolli. A chiarire l’approccio che contraddistingue la fotografia di Zizola, ci riesce subito la considerazione di Lolli:

Io ti ho detto che le tue sono foto belle, ma tu mi hai corretto dicendo che non sono affatto belle, semmai buone.
“La foto bella – sottolinea Zizola – è quella che compiace il pubblico, ammicca a una realtà lontana e ne costruisce un’altra. Potrebbe essere bella la fotografia che dà corpo alla fantasia, all’immaginazione e alle capacità visionarie di un mondo interiore con poca attinenza coi fatti. Una foto, invece, che funziona da un punto di vista informativo, può essere buona, non bella; attraverso gli elementi che stanno dentro a questo rettangolo bidimensionale crea una sintesi tra la visione del fotografo e un primo grado di notizia. È buona una foto che riesci a leggere e la lettura di questo tipo di foto suggerisce il secondo grado di notizia, quello che trascende i fatti e ne fa un’icona di situazioni che gli esseri umani hanno vissuto e possono vivere. Questo credo che sia un buon servizio a un buon giornalismo.

Francesco Zizola, mostra ‘In the same boat’ per festival Riaperture 2018 all’ex Bazzi – Ferrrara (foto GM)

Cosa serve per essere un buon fotografo?
La capacità di fare una buona fotografia non è scontata, perché riguarda anche lo spessore umano. Il giornalismo esiste perché, sin dagli albori, gli esseri umani avevano la necessità di sapere cose che andavano oltre a ciò che potevano raggiungere con i loro sensi. È un bisogno dettato essenzialmente dalla paura. I graffiti, nelle caverne degli uomini primitivi, erano istruzioni precise trasmesse ad altri esseri umani. Spiegavano cose pratiche – da dove arrivavano i bisonti e come si inclinava l’erba in una certa direzione – fornendo informazioni essenziali per la sopravvivenza. Non è la macchina fotografica che fa il fotografo, ma il contrario; è chi c’è dietro all’obiettivo a fare la differenza. Alcune delle foto che ho fatto e che sono anche in mostra sono fatte con il telefonino. E quando lo dico vedo che le persone sussultano.

Il fotografo Francesco Zizola con Stefano Lolli e Giacomo Brini a Ferrara per il festival di fotografia Riaperture (foto GM)

L’uso del cellulare ha cambiato la fotografia?
Nei quasi 175 anni che sono passati dacché la fotografia è stata inventata noi, il mondo occidentale, siamo stati gli unici a usare le foto per auto-celebrarci, per raccontarci. Di recente, con quell’aggeggio lì, hanno iniziato a farlo anche in tante altre parti del mondo. Oggi, finalmente, la fotografia è usata, letta e prodotta dalla stragrande maggioranza degli esseri umani. In certi villaggi africani che non hanno nemmeno l’elettricità ho visto che ciascuno di loro andava in giro con al collo un sacchetto di cuoio con dentro una schedina Sim chiusa nel cellophane. Il cellulare, lì, ce l’aveva solo una persona, ma le donne grazie a quello e alla Sim potevano spedire la fotografia con le ceste di pomodori prima di mettersi in cammino per venderle a chilometri di distanza. Mandavano la foto e col cellulare qualcuno dall’altra parte dicevano loro se, di ceste di pomodori, ne servivano di più o di meno. L’uso del cellulare con dentro la lente fotografica sta cambiando molte realtà.

Francesco Zizola, mostra “In the same boat” per festival Riaperture 2018, spazio ex Bazzi – Ferrara (foto GM)

Internet e gli smartphone cambiano anche l’approccio all’informazione.
Due anni fa ho fatto una presentazione al ‘National Washington’, negli Stati Uniti, e loro mi dicevano che stanno cercando di capire come fare. Gli abbonamenti e le vendite del giornale stanno crollando. I lettori, per quanto interessati, non comprano più la carta. Io stesso mi rendo conto che leggo la maggior parte delle notizie online. Manca un ricambio generazionale e i vecchi abbonati non sono rimpiazzati da quelli nuovi. Le persone, poi, non si accontentano più della stessa pappa pronta. C’è anche un’esigenza narrativa. La formula che andava prima non basta più. Si è molto più liberi di esplorare la realtà usando più media. Se non ci fosse stato questo cambiamento tecnologico, non avrei portato quelle immagini con movimento e suoni che sono esposte nella mia mostra. Il nuovo pubblico vuole avere più dettagli e in un flusso continuo, in cui è il fruitore, non l’editore o il caporedattore, che decide in quale ordine prendere le notizie. Il mondo è complesso, le persone ne sono consapevoli, e questa complessità va trasmessa.

Francesco Zizola a Ferrara con Francesco Lolli e Giacomo Brini per il festival di fotografia Riaperture (foto GM)

La tecnologia è sempre più sofisticata, ma di foto come quelle di Zizola è difficile trovarne.
Di fotografi bravi ce ne sono tanti. Uno dei miei maestri di riferimento, Henri Cartier-Bresson, diceva che fotografare vuol dire porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore in una frazioni di secondi. Da dire è semplicissimo, per farlo servono l’intelligenza, le cose che leggi, i film che vedi. Bisogna riempirsi ed elaborare; sentire, provare, arrabbiarsi. Senza tutto questo la fotografia non viene fuori. Cioè, la fotografia viene fuori, ma non c’è tutto l’aspetto interiore. Senza questo allenamento, senza questa sensibilità, le cose non le vedi nemmeno se ti passano davanti. La mia disciplina è quella di affinare una visione. Questo non è semplice, e affinare questa dote spesso è causa di grandi sofferenze, soprattutto se hai a che fare con persone che soffrono.

C’è chi dice – fa notare Lolli – che un fatto di cronaca parla da sé, che sia un incidente o una notizia eclatante.
A volte mi capita di fare workshop. Di recente, a uno di questi a Roma, c’era un ragazzo che aveva fatto foto durante una manifestazione dove c’erano stati scontri con la polizia. Era molto coinvolto e orgoglioso di mostrarmi quelle immagini e, mentre me le faceva vedere, mi raccontava le sensazioni che aveva provato: i gas lacrimogeni che gli bruciavano negli occhi mentre scattava, la concitazione. Ma lui stesso, credo, mano a mano che faceva scorrere davanti a me quelle immagini si deve essere reso conto che tutte quelle sensazioni, lì, non c’erano. Ti può succedere di tutto, davanti agli occhi. Ma bisogna saperlo tradurre in una visione più complessa; più complessa è la visione che trasmetti, più l’immagine è buona.

Francesco Zizola con Stefano Lolli a Ferrara per il festival di fotografia Riaperture (foto GM)

Ma di fotografie brutte, tu, non ne fai mai?
La maggior parte delle fotografie sono brutte. Serve un po’ di fortuna, ma per averla, di biglietti della lotteria ne devi comperare tanti. Ci deve essere una costanza nel porsi nel posto giusto al momento giusto. Costanza nel sapere anticipare un movimento, un evento. Perché sai che quella cosa potrebbe succedere. C’è una similitudine tra chi fa fotografia e il cacciatore. Chi caccia conosce le abitudini della sua preda, si predispone controvento nel posto giusto, nella stagione giusta, per poterla catturare con il minore sforzo possibile.

La mostra con le tue fotografie che è allestita nello spazio dell’ex drogheria Bazzi, in piazza Municipio a Ferrara, è dedicata ai migranti.
Girando per il mondo ho potuto vivere le tantissime differenze di trattamento degli esseri umani (documentando dalla fine degli anni Ottanta in particolare le condizioni dell’infanzia in diversi luoghi del mondo, dai figli delle guerre in Iraq, ai piccoli lavoratori dell’Indonesia, ai bambini di Los Angeles, ndr). E ho riflettuto sulla necessità di migrare da parte delle persone per cercare situazioni di vita migliori. Persone che provengono da luoghi molto remoti, rispetto alla nostra presunta centralità sia sociale sia politica. È stato un percorso di condivisione ed empatia.

Una delle foto di Francesco Zizola della mostra “In the same boat” all’ex Bazzi – Ferrara (foto GM)

Nelle fotografie esposte a Ferrara e nel video installato lì, si vedono le persone che salgono senza soluzione di continuità a bordo di una barca.
Sì, sono stato per tre giorni a bordo delle navi di salvataggio di ‘Medici senza frontiere’ e ho partecipato con loro alle operazione di recupero dei natanti in difficoltà, che l’associazione ha ottenuto di poter fare nell’agosto 2015. Negli anni precedenti questo non si faceva: quando le navi venivano avvistate, si metteva la prua in direzione opposta e questi natanti di solito affondavano con a bordo il loro carico di uomini, donne e bambini. Poi c’è stata la grande tragedia del naufragio di quella caretta strabordante di persone (il 18 aprile 2015 un peschereccio con oltre 700 migranti a bordo affonda al largo della costa della Libia, ndr). Così, in quel momento l’organizzazione di soccorso sanitario ottiene di poter operare sia nei salvataggi sia in veste di testimone degli interventi delle navi militari, affinché non potessero più dirigere le prue di questi barconi nella direzione contraria. Adesso hanno deciso che questo non si faccia più, e quindi in decine di migliaia riprenderanno a morire. Ma in quei giorni io ho potuto stare a bordo con loro. Ho visto salvare circa tremila persone. Il video filma un’operazione di salvataggio di un battello da pesca abilitato per portare 30 persone, che si trovava in mare con a bordo oltre 150 persone. Ho fatto video, foto, filmati per cercare di ampliare più che potevo il tentativo di racconto.

Foto di Francesco Zizola esposta negli spazi dell’ex drogheria Bazzi per festival Riaperture – Ferrara, aprile 2018

Come ti ponevi con le persone che avevi intorno e che fotografavi?
Nei momenti più salienti loro pensavano a tutt’altro che a me e io stesso ho dedicato molte ore non a fotografare, ma ad aiutare i volontari nell’assistenza, a distribuire le sostanze energetiche, a scartare coperte, a darle alle persone che salivano. Poi ci sono stati momenti in cui ho raccolto storie, ho fatto ritratti. Se loro non volevano, ho rispettato la loro volontà. Per questo motivo, ad esempio, si vedono così poche donne. Perché la loro religione vieta di essere riprese ed esposte.

Il fotogiornalismo implica che non ci sia manipolazione dell’immagine. Tu che tipo di post-produzione fai?
Fotografare è di per sé un processo manipolativo. C’è una trasformazione dell’energia, che è la luce, in un segnale luminoso. La necessità è quella di mantenere credibilità. E questo fattore non dipende dalla tecnologia, ma dalla cultura delle persone; è un elemento che passa attraverso l’etica. Io uso quella scala che va dal bianco al nero, eliminando tutti i colori. Il fotogiornalismo si distingue all’interno della fotografia per l’introduzione di alcune regole, che sono prima di tutto quelle di non manipolare la realtà; se arrivo che un fatto è già avvenuto, non posso chiedere ai protagonisti di riproporre una scena. Poi non posso con un software eliminare un pezzo di fotografia che non è funzionale e nemmeno aggiungere qualcosa che ho in un’altra immagine. Detto ciò, capita che l’intervento avvenga anche nelle redazioni e all’insaputa del fotografo. Come successe dopo l’attentato di Nassiriya a L’Espresso. Perché, oltre ai fotografi, ci sono anche i foto-editor. Ma in Italia chi manipola e mente spesso viene premiato, perché ha la fiducia di direttori e caporedattori. All’estero, invece, quando ciò viene fuori, l’editore licenzia tutti, dal direttore in giù, per far sì che il suo giornale sia credibile. Perché si ritiene che sia la credibilità a fare la differenza, a rendere un giornale degno di essere letto, cercato, creduto.

Riaperture Photofestival torna a Ferrara da venerdì 13 a domenica 15 aprile 2018, ore 10-19, con 15 mostre in 8 spazi tra chiese dismesse, palazzi in ristrutturazione e negozi chiusi aperti appositamente per l’occasione.

La mostra ‘In the same boat’ di Francesco Zizola è visitabile negli spazi dell’ex drogheria Bazzi, piazza Municipio 18-22, Ferrara. Aperta 6-7-8 e 13-14-15 aprile 2018, ore 10-19

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La lunga marcia contro le discriminazioni di genere, razziali e generazionali

di Roberta Trucco

“Questa è una lotta tra una generazione giovane, diversa, femminista, contro una minoranza maschile, bianca, vecchia, disperata, che si aggrappa al potere”. E’ l’incipit di un articolo molto interessante scritto da Jessica Valenti sul Guardian dal titolo ‘Il dibattito sulle armi è una guerra culturale. E i giovani la vinceranno’.
La tesi, molto ben argomentata, è che oggi le contraddizioni di un patriarcato esacerbato dalle impellenze capitaliste stanno deflagrando. Non sfugge più agli occhi di molti, in particolare dei giovani nativi digitali che hanno accesso a molte informazioni provenienti da diverse fonti, l’arroganza di pochi, maschi, bianchi appartenenti a certe élite.
Alla marcia “in difesa della nostra vita” del 24 marzo scorso, organizzata da un movimento di giovanissimi, promossa per rivendicare il diritto a una regolamentazione dell’uso delle armi dopo la terribile strage di adolescenti nella scuola a Parkland in Florida, spiccavano slogan del tipo “Dovrei scrivere il mio saggio universitario, non le mie ultima volontà”, “Le pistole hanno più diritti della mia vagina”, “L’abbigliamento delle ragazze a scuola è più regolamentato delle armi in America”.
Nell’articolo la giornalista riporta che “solo il 3% degli americani possiede metà delle armi che si trovano in America”. E quel 3% non sono chiunque. Secondo uno studio fatto ad Harvard pubblicato su ‘Scientific American’ di questo mese, la persona che con maggiore probabilità accumulerebbe armi negli Usa è un anziano, maschio, bianco proveniente da un’area rurale conservatrice. “Una ricerca allarmante mostra che sono motivati ​​dall’ansia della razza e dalla paura di perdere la loro mascolinità”, continua Valenti e aggiunge: “Uno studio della Baylor University del 2017, ad esempio, ha scoperto che l’attaccamento degli uomini alle armi da fuoco deriva spesso da guai economici e dalla paura di perdere lo status di “capofamiglia” tradizionale”.

C’è un filo ormai, neanche più tanto invisibile, che lega il dibattito sulle armi alle questioni di discriminazioni di genere, razziali e generazionali. Il secondo emendamento della Carta Costituzionale degli Stati Uniti d’America dice che: “Essendo una milizia ben organizzata necessaria alla sicurezza di uno Stato libero, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”. Sembra, alla luce delle tragiche stragi nelle scuole americane degli ultimi 15 anni, contraddire il senso stesso di Stato Libero. Libero per chi?
I cambiamenti delle nostre società ci obbligano a una riflessione profonda. È sempre più evidente che le carte costituzionali su cui sono scritti i fondamenti per una sana convivenza tra le persone che vivono in una stessa comunità non tengono conto della spaventosa accelerazione nel cambiamento sociale. Le leggi, il cui punto di riferimento è sempre la carta costituzionale, oggi sembrano fatte esclusivamente a beneficio di una minoranza di pochi, per lo più maschi bianchi, a scapito di una maggioranza fatta di giovani, bianchi e neri, di femministe/i, la cui diversità di estrazioni culturali diventano un collante e un punto di forza e non più una debolezza. La libertà solo teorica, vessillo del capitalismo, si rivela in tutta la sua fallacia e la democrazia che si fonda su un concetto ideologico di libertà e autodeterminazione, vacilla. Ma questo è un fenomeno solo americano o la contraddizione potente e innegabile della strenua difesa di un concetto di libertà individuale, astratta, neutra e non calata nella realtà di tutti i giorni riguarda tutte e tutti noi e tutte le democrazie occidentali?

RIAPERTURE
Parla Letizia Battaglia, fotografa combattente

Fotografare, per me, non è stata un’operazione artistica: è stato vivere, una specie di resistenza a quello che stava accadendo nella mia città, a Palermo. Quando fai le foto per la cronaca nera di un quotidiano hai pochi secondi per scattare prima che arrivino calci e pugni. Attimi che servono a mettere a posto cervello e obiettivo. Non si trattava di fare opere d’arte, ma di raccontare che noi stavamo soffrendo, che un governo italiano permetteva questo”. Letizia Battaglia, 83 anni compiuti il mese scorso, ha la vivacità anticonformista di una ventenne, i capelli color verde turchese, dritti a caschetto sotto la frangia che incornicia quel viso che si può vedere nelle foto delle schede biografiche, di solito in bianco e nero. Sabato pomeriggio, invece, nel cortile dell’ex caserma dei vigili del fuoco, a Ferrara in via Poledrelli, la “fotografa della mafia” è apparsa in tutta la sua colorata vivacità, combattiva e tenace con la disarmante sfacciataggine di chi è abituato a scendere in strada, ad andare dritto al punto senza girarci tanto attorno.

Il merito di averla portata in città va agli organizzatori del festival di fotografia ‘Riaperture’, che nel fine settimana appena concluso e anche il prossimo continuerà a invadere Ferrara con quindici mostre allestite aprendo temporaneamente sontuosi palazzi storici accerchiati dalle impalcature, spalancando porte chiuse da decenni e alzando serrande abbassate di negozi. A presentare la fotografa palermitana insieme con il direttore del festival Giacomo Brini è stata la giornalista Daniela Modonesi che l’ha intervistata sul palco allestito nell’area all’aperto di Spazio Grisù.

Letizia Battaglia con Daniela Modonesi e Giacomo Brini a Ferrara per festival di fotografia Riaperture 2018 (foto Giorgia Mazzotti)

Come inizia la professione fotografica di Letizia Battaglia?
“A 40 anni – ha raccontato la fotografa – dopo aver fatto fino ad allora la madre e la moglie, sono andata a Milano, ero inquieta, ho iniziato a fotografare senza saperne molto. Poi a ‘L’Ora’ di Palermo mi hanno chiesto di gestire l’organizzazione fotografica del giornale e sono andata con entusiasmo nella mia città. Lì però ho scoperto la violenza, i corleonesi, la droga, tanti ragazzi che per quella sono morti, gli uomini migliori (giudici, poliziotti) che sono stati ammazzati. Falcone e Borsellino sono stati solo gli ultimi di una lunga fila di eroi. C’è collusione e spesso i poliziotti sono stati uccisi a causa del tradimento di altri poliziotti. Non è vero che c’è un codice d’onore. Tutto sta nei soldi e nel potere, e non importa se per averli c’era da ammazzare donne e bambini. Veniva ammazzato chiunque si avvicinasse alla loro droga, alle loro rapinerie”.

La mostra con le fotografie di Letizia Battaglia – Palazzina Cavalieri di Malta, Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Quali sono i segni che il tuo lavoro ha lasciato in te? Hai detto del sogno in cui bruciavi tutti i negativi delle foto.
“Vivendo quelle cose, mi è venuto da pensare che quelle foto non le volevo più vedere. È chiaro che non posso e non devo distruggere quelle foto. Però la rabbia per ciò che c’era mi ha fatto pensare di bruciare i negativi e ho fatto il video dove in realtà bruciavo le foto. Ma con quelle foto ho raccontato fatti, non menate intellettuali. Palermo non è una città normale, è una città simbolo dove è bello combattere. Quando con il mio compagno di allora, Franco Zecchin, decidemmo di fare una mostra contro la mafia che ancora stava sparando, nessun altro volle partecipare. Siamo andati a Corleone con i pannelli con sopra le foto dei mafiosi corleonesi arrestati e ammazzati. La piazza era piena di gente che si godeva il giorno di festa. Tutt’a un tratto la piazza si è svuotata; siamo rimasti solo noi con le nostre foto. Tutti hanno fotografato quello che ho fotografato io. Dove sono gli altri? Il punto è che i giornali non le chiedono più, quelle foto. Ora, non lo sapete, ma a Palermo c’è un grande processo. Il giudice Nino Di Matteo sta facendo un processo contro lo Stato, perché c’è stato un patto affinché la mafia non uccidesse più. Ma la mafia c’è ancora, c’è ancora il pizzo e c’è la droga. Circola non solo a causa dei nostri mafiosi, ma perché gli italiani fanno un affare con gli spacciatori. Eppure la mafia non è più fotografabile. Sono tutte persone pseudo perbene che dirigono banche, business, non sono più i cafonazzi che sono in galera. La mafia c’è ancora, c’è anche qui, anche se voi non ve ne accorgete”.

Letizia Battaglia sul palco (foto GM)

I programmi di Letizia adesso?
“Il prossimo anno farò una grandissima mostra a Venezia con foto mai viste. Il bianco e nero era una scelta per me, l’ho mantenuto come una necessità anche dopo che è arrivato il colore. Il rosso, il sangue, non me li volevo permettere. Un giorno avevo messo il colore e sono dovuta andare dove c’era un morto ammazzato e poi un altro, che era un bambino: il figlio di quello che avevano ammazzato, ucciso perché aveva visto i killer. La pellicola che avevo era a colori, ma la foto l’ho messa in bianco e nero; per me era più pudica. Nella mostra che farò ci saranno le mie foto che non si sono mai viste e che non si vedono più. L’unica a colori, grande grande, sarà quella di quel bambino. Perché quando si dice che la mafia non tocca i bambini non è vero. Come Giuseppe Di Matteo: fu rapito (23 novembre 1993, ndr) che era un bambino e l’hanno tenuto mesi e mesi sotto terra, poi l’hanno strangolato e bruciato perché suo padre si era pentito”.

L’esposizione di “Fotografie” di Letizia Battaglia, nella palazzina di corso Porta Mare 7, a Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Su Facebook vengono censurate foto come quelle della bambina che scappa nuda dal Napalm, in Vietnam.
“Io spero che Facebook o qualcuno di loro vada in carcere. Chi pensa di censurare una bambina in quella situazione perché è nuda, deve avere la testa malata. Come quando hanno detto che non si doveva mostrare il bambino siriano, Aylan, morto annegato sulla spiaggia. La fotografa (la giornalista Nilufer Demir dell’agenzia di stampa turca Dogan, il 2 settembre 2015, ndr) ha fatto bene a scattarla. Quelle foto raccontano più di tanti libri. È importante fare vedere quello che accade. Come nel caso di Andreotti. Non è vero che è stato assolto, come a volte si legge sui giornali: questa è una gran balla. Lui andò in prescrizione, ma la polizia ha cercato nel mio archivio e ha trovato la sua foto insieme con i mafiosi e con Salvo, e io nemmeno sapevo di averla, quell’immagine. Le foto possono servire, anche dopo tanti anni, per raccontare qualcosa. Peccato che non ci sia un archivio, in Italia, dove i fotografi possano depositare i loro lavori”.

Pubblico ad ascoltare Letizia Battaglia, a Ferrara per festival di fotografia Riaperture 2018 (foto GM)

L’attività di Letizia Battaglia adesso.
“A Palermo, le foto, io le sto raccogliendo. Ho fondato il Centro internazionale di fotografia dentro un edificio bellissimo, fatto da un’architetta donna e vecchia come me. Vorrei che fosse una specie di roccaforte di difesa (o forse di attacco). Per fortuna al Comune la mafia non entra, abbiamo il sindaco Orlando. È una città dove avvengono tutte le cose brutte e tutte le cose belle”.

Unica donna – ha commentato Daniela Modonesi – in mezzo a scene di delitti tra poliziotti, magistrati, giornalisti. Cosa ha significato?
“Per diciannove anni, sono stata molto orgogliosa di essere una fotoreporter, fotografa donna, l’unica in quegli anni a fare questo lavoro per un quotidiano. Essere donna, però, con i capelli che non erano verdi, ma sempre un po’ colorati, all’inizio mi ha creato qualche problema. Ricordo ancora con molta rabbia che sulle scene del delitto già transennate facevano passare tutti tranne me. Allora a un certo punto ho iniziato a gridare, come una cretina. Mi ha aiutato molto Boris Giuliani, il capo della polizia, che disse ai suoi che questa signora stava lavorando e andava fatta passare. Il giornale mi pagava per un servizio che doveva essere migliore di quello della concorrenza e io sentivo forte questo senso del dovere”.

“La bambina col pallone” di Letizia Battaglia, Palermo 1980

La Palermo che hai fotografato – ha ricordato l’intervistatrice – è anche quella delle donne e delle bambine. Qual è la situazione a cui sei più legata?
“C’è quella foto lì, della bambina, che poi è diventata la mia foto più famosa. Per spiegarla devo tornare a quando io avevo dieci anni. Fino ad allora ero vissuta a Trieste, perché mio padre era un marittimo, lui girava e noi, la famiglia, lo seguivamo. A Palermo ci sono arrivata che avevo, appunto, dieci anni. Una volta uscii e un uomo si esibì. Mi spaventai e tornai a casa piangendo. Mio padre decise che era meglio che rimanessi chiusa in casa. Allora divenni un po’ matta, una bambina ribelle. A 16 anni volli sposarmi. La bambina che cerco in ogni dove, magra, con le occhiaie scure – l’ho capito dopo molto tempo – sono io. Perché è quell’età che non sei ancora donna e non sei più bambina. È un momento intenso, bellissimo della vita, quando nascono i primi desideri, pensieri. La volta che ho fatto quella foto, trentotto anni fa, avevo incontrato in strada un gruppo di bambini normalissimi che giocavano, non avevano nessun fascino particolare. Poi ho visto la bambina, l’ho fatta andare verso quella porta chiusa, lei ha alzato il braccio col pallone, clic. E quella è diventata la foto per la quale tutti mi conoscono. Mi sono resa conto che ogni volta che incontravo delle bambine così, era come se ritrovassi la pace, la bellezza. Ora vorrei fare un libretto, una cosa a parte, con tutte le mie bambine”.

Letizia Battaglia sul palco a Spazio Grisù sabato 7 aprile 2018 (foto GM)

Oltre alla fotografia c’è l’impegno politico.
“Era il 1985 quando Lanfranco Colombo della galleria Diaframma Canon ha pensato di spedire le mie foto al Premio Eugene Smith, a New York. Io non lo sapevo nemmeno. Poi ricevo il telegramma che sono tra le finaliste. E alla fine vinco, ex aequo, insieme a un’altra donna (l’americana Donna Ferrato). È stata un’emozione enorme! Così ho capito che volevo fare di più. Allora c’erano i Verdi, che difendevano l’ambiente, le piante, erano il nuovo. Mi piacevano molto e con loro entro in Consiglio Comunale. Orlando, nel frattempo, lascia la Democrazia Cristiana e fa una giunta insieme con i Verdi e io divento assessore. Non sapete cosa ha significato per una fotografa con gli zoccoli ai piedi come me! Sono stati gli anni più belli in assoluto. Perché avevo come un potere: di fare, di levare le pietre brutte, aggiustare le strade, mettere le panchine, salvare una ragazza madre, pretendere il rispetto per la gente che era in carcere. Quattro anni importanti, in cui ho fatto cose piccole piccole, ma così importanti per me. Poi fui candidata a deputata e fu un errore. Avevo uno stipendio grandissimo, ma non potevo fare niente. Non ho fatto neanche fotografia. Il fatto è che non sono né una fotografa né una politica, ma una persona che ha cercato di fare il meglio, di mettercela tutta, con questa passione, e ora sono anche contenta di essere bisnonna di tre bambini meravigliosi. È tutto un circolo… Poi leggo che sono la ‘fotografa della mafia’. Ma che cos’è questa storia?! In italiano vuol dire che sei assoldato dalla mafia. Ma ho il mio Centro di fotografia a Palermo, è un periodo bello, ogni giorno dalle 4 alle 6 e un quarto sono là. Insieme con altre persone, tutte giovani, ho già fatto sei mostre. Non è facile, voi di ‘Riaperture’ lo sapete. C’è il sindaco qui? Sindaco, dagli i soldi a loro di ‘Riaperture’, per fare mostre e organizzare cose. Ci vogliono i soldi anche quando tu lavori gratis, perché servono le cornici, i microfoni, le assicurazioni. Questo rende viva la città. Ciao!”.

Grazie, ciao.

‘Fotografie’ di Letizia Battaglia in mostra per Riaperture Photofestival a Palazzina Cavalieri di Malta, corso Porta Mare 9 – Ferrara. Visitabile venerdì 6, sabato 7, domenica 8 e venerdì 13, sabato 14, domenica 15 aprile 2018, ore 10-19.

Info sul Riaperture Photofestival cliccando qui su CronacaComune del 3 aprile 2018

Deficit: spesa o investimento sul futuro?

Quanti di noi ritengono onorevole contrarre dei prestiti per far studiare i propri figli? Negli Stati Uniti il prestito per poter frequentare l’università è una prassi e ci si indebita di molte migliaia di dollari sapendo che in futuro bisognerà restituirli a rate e per decenni. Quindi si spende oggi più di quello che si possiede, ci si indebita per assicurarsi un futuro da ingegnere oppure da avvocato o addirittura da astronauta e scienziato.
A nessuno verrebbe di imporre al buon padre di famiglia di non contrarre un prestito per migliorare le aspettative sul futuro di suo figlio o addirittura di punire quest’ultimo quando lo si scoprisse a varcare la soglia del college.
Agli Stati invece viene imposto il controllo del deficit di bilancio sui conti pubblici facendolo passare per una cosa logica, auspicabile, di buon senso; e si impiega addirittura l’anno solare come termine per rientrare del proprio investimento come se questo possa convergere con l’anno economico.

Un investimento va visto in termini di ciclo economico: il prestito o deficit fatto per lo studio è un investimento che si calcola su un’intera vita umana, un ciclo economico che solitamente dura dall’iscrizione all’Università, passa per la ricerca di un lavoro, fino al miglioramento delle proprie condizioni di vita sociale. Una durata anche di venti o trent’anni.
Una spesa a defict per un investimento in ricerca sul cancro significa aspettarsi un ritorno, in termini di miglioramento delle condizioni di salute, per le prossime generazioni. Spendo quindi oggi e indebito l’attuale generazione – in termini di moneta, cioè nella realtà in termini macroeconomici e di Stati: “non indebito” – per lasciare una vita più lunga e più sana ai miei figli e nipoti. Tito Boeri eventuale ministro delle Finanze forse calcolerebbe la cosa in maniera diversa: vedrebbe la spesa di oggi come un peso per le future generazioni in termini di soldi, perciò raccomanderebbe di non spenderli oggi per lasciarli ai malati di cancro di domani, i quali, ovviamente, sarebbero molto contenti della scelta ed esulterebbero di essere più ricchi finanziariamente anche se malati di cancro.
Anche in termini politici esiste una differenza tra l’anno solare e l’anno politico, che rimarca la differenza di visione tra lo ‘statista’ e il ‘politico’. In Italia viene comunemente attribuita ad Alcide de Gasperi la frase: “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione”.

Del resto queste sono le ricette economiche e le politiche consigliate dal Fondo monetario internazionale, che prima di concedere prestiti si assicura che i soldi prestati non vengano spesi in investimenti improduttivi, come la salute o l’istruzione, ma solo che si possa essere in grado di restituirli con gli interessi. Immaginatevi se tutte le casalinghe cominciassero a ridurre la spesa giornaliera e quindi mettessero a tavola ogni giorno meno pane, pasta, vino e smettessero anche di comprare biscotti e brioches per la colazione. Mangiare di meno, spendere di meno, produrre di meno, lavorare di meno, tutto di meno compreso ovviamente i deficit. A quel punto di più avremmo solo la disoccupazione, i poveri, il numero delle aziende costrette a chiudere.
In realtà l’unica differenza tra la politica economica involontaria e immaginaria della casalinga di Vogh(i)era e quella reale e volontaria del Fmi è la cattiveria di fondo: l’una lo farebbe pensando di far del bene, mentre l’altro per i propri interessi e quelli dei creditori finanziari, che mai coincidono con gli interessi del popolo. La politica, concorde nel guardare all’anno solare, all’elezione prossima e alla punta del naso, legifera per l’occasione spaventando e utilizzando i mostri da tutti temuti: shrek, la notte fonda, la Cina, l’inflazione e l’immancabile debito pubblico.

L’errore quindi, o uno degli errori, nel giudicare la bontà di un investimento, è il lasso di tempo che gli si mette a disposizione per la verifica degli effetti e davvero risulta complicato, se non assurdo, immaginare che la spesa di uno Stato possa essere verificata di anno in anno. Uno Stato spende per sanità, ricerca, benessere dei suoi cittadini e persino quando elargisce pensioni o stipendi non fa altro che aumentare la possibilità di spesa e di richiesta di beni, quindi espande la sua economia piuttosto che contrarla. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi di come possano essere creati beni e servizi da comprare con i soldi, non se mettere o meno questi ultimi a disposizione della cittadinanza.
La spesa dello Stato è uno degli strumenti a disposizione per governare l’economia piuttosto che subirla, per controllare e modificare i cicli economici ed evitare boom e crisi, per assicurare un futuro alle prossime generazioni senza distruggere quelle attuali.

Come dice l’economista americano Mark Blyth, “sarebbe difficile pensare che oggi avremmo avuto internet, il we, e lo smartphone senza gli investimenti del governo federale partiti negli anni Sessanta”.
Gli effetti delle politiche e degli investimenti macroeconomici degli Stati, come quelli delle famiglie per i figli, si vedono nel tempo. Chi non investe e non spende rimane al punto di partenza e le generazioni future non raccolgono i frutti dell’impegno e della visione di quella precedente.
A cosa ci hanno portato i valori del controllo del deficit, del debito pubblico, del pareggio di bilancio? Bisogna ricordare che sono valori perseguiti e ottenuti non da oggi, ma dall’inizio degli anni Novanta e che proprio questi hanno portato ai disastri attuali, come la svendita del patrimonio pubblico, la mercificazione dei valori di condivisione, partecipazione e cooperazione. Hanno portato ad avere un popolo che lavora, suda e soffre da solo con sempre meno Stato su cui poter contare e sempre più mercato a cui pagare interessi.

Due grafici per sintetizzare. Il primo del Ministero dell’economia e delle finanze, dove si evidenziano i continui surplus di bilancio dello Stato italiano, maggiori dei suoi competitor europei e realizzati per poter pagare gli interessi sul debito togliendo risorse ai cittadini.

Il secondo, invece, mostra dove vanno a finire sangue e sudore della gente comune (fonte:Oxfam).

Oltre la bufera: il film su don Minzoni fra storia e poesia

“Attendo la bufera”, scrisse don Minzoni poco prima di essere ucciso, consapevole che la sua opposizione al fascismo gli sarebbe costata cara. Ma il sacerdote di Argenta aveva una convinzione profonda: “Spendere la vita per un ideale non è morire, è vivere”. E così è stato.

Da sinistra: Stefano Muroni, Marco Cassini e Valeria Luzi

L’esistenza di don Giovanni Minzoni non è finita il 23 agosto del 1923: quasi un secolo ci allontana da quell’omicidio efferato, don Giovanni Minzoni torna a vivere, a far sentire la sua voce nel film ‘Oltre la bufera’. Ideato da Stefano Muroni, scritto da Marco Cassini in collaborazione con Valeria Luzi e Stefano Muroni, il lungometraggio sarà girato ad aprile in quindici location del territorio ferrarese: a Mesola, al Centro etnografico di documentazione del mondo agricolo ferrarese di San Bartolomeo in Bosco, al teatro Concordia di Portomaggiore, alla pieve di san Vito a Ostellato, a Palazzo Crema a Ferrara. Un film ambientato tra il 1919 e il 1923, con costumi e oggetti scenici originali curati da Luigi Bonanno, il costumista di Giuseppe Tornatore. È la prima grande sfida di Controluce, la società di produzione fondata nel 2017 da Cassini, Luzi e Muroni.
La regia di ‘Oltre la bufera’ è affidata a Marco Cassini, che già ha diretto ‘La notte non fa più paura’ e ‘La porta sul buio’: “Titoli scuri – spiega il regista – perché cercano di analizzare l’animo umano alle prese col buio”.

Perché è importante un film dedicato a Don Minzoni per Ferrara e Provincia? A risponderci è Massimo Maisto, vicesindaco e assessore alla cultura di Ferrara: “Questo film è significativo per tre aspetti. In primis è un film dedicato a una persona che è stata ammazzata perché voleva proporre un’idea di educazione alternativa; non è solo un capitolo della storia, ma un tema ancora molto attuale. In secondo luogo, tra i nostri obiettivi c’è quello di valorizzare la creatività giovanile: conosco da qualche anno Stefano Muroni per la sua attività di fondatore e di formatore del Cpa (Centro preformazione attoriale) e ritengo sia importante sostenere e aiutare i giovani talenti. Infine – insieme a Emilia Romagna Film Commission – stiamo facendo un lavoro per promuovere e attirare produzioni cinematografiche a Ferrara e provincia, come già è avvenuto con Pupi Avati, che ha scelto il nostro territorio per girare una nuova serie televisiva. L’obiettivo è valorizzare le risorse professionali, culturali e ambientali del territorio, per garantirne una maggiore visibilità”.

Quali aspetti della storia mette in luce la personalità di Don Minzoni?
La parola questa volta va ad Anna Maria Quarzi, direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, riferimento per la consulenza storica, grazie ai preziosi materiali custoditi nell’archivio dell’Istituto, tra i quali il famoso ‘Diario’: “Don Minzoni è una figura chiave della nostra storia. Ho trovato molto interessante la proposta di Stefano Muroni, in questo film, di analizzare e mettere al centro la figura dell’educatore, piuttosto di insistere sull’omicidio, che insieme al delitto Matteotti, segna la storia del fascismo. Perché viene ucciso don Minzoni? È proprio la sua opera di educatore che lo rende insopportabile al fascismo. L’educazione dei giovani italiani era uno dei pilastri del regime totalitario di Mussolini: dalla culla ai campi sportivi, poi le divise nere dei Balilla con le esercitazioni ginniche e le grandi manifestazioni. Si trattava di un lavoro capillare sulla popolazione, dalla nascita all’età adulta, per plasmare una mentalità, per formare il ‘fascista perfetto’. Il fatto che ci fosse un sacerdote con un forte ascendente sui giovani – che proponeva cose diverse, come il movimento Scout – era inaccettabile per il regime. Inoltre don Minzoni era un giovane, si interessava alle persone, era riuscito ad organizzare una ‘cooperativa’ bianca dove le donne potevano cucire e lavorare. Gli interessava rendere consapevoli i cittadini. Educava alla libertà”.

Don Giovanni Minzoni

Generosità, impegno, coraggio, tenacia: erano i tratti di un uomo dal grande carisma. Don Giovanni – nella sua parrocchia come in guerra – seppe conquistarsi affetto e riconoscimenti, fra cui la medaglia d’argento al valore militare.
“Conoscevo la storia di don Giovanni Minzoni da quando ero bambino. Non ricordo chi me l’avesse raccontata. Ma sentivo l’esigenza, un giorno, di narrarla, per non perderne la memoria, per non farla svanire nel vento”, osserva Muroni, che vestirà i panni di don Minzoni. “Personalmente non ho mai creduto che possano esistere storie di destra o storie di sinistra. Per me, per noi piccoli cantastorie della bassa, esistono solo storie belle o storie meno belle. Da quando ho iniziato questa avventura ho sempre cercato di raccontare storie belle, che potessero commuovere ed emozionare, e che potessero dare un esempio alle future generazioni. La bellezza, dunque, di cui ne abbiamo tanto bisogno. L’armonia nella drammaticità. La favola che supera la storia”.
E quella di don Minzoni è appunto una “storia bella” che Stefano Muroni ha scelto di narrare per immagini. Chiediamo a lui – ideatore, sceneggiatore e attore protagonista – di raccontarci qualche particolare di ‘Oltre la bufera’, le cui riprese sono iniziate proprio in questi giorni di aprile.

Dove ha trovato l’ispirazione per questo film?
Nessuna ispirazione. Le storie soffiano nel vento. Basta solo mettersi in ascolto. Sono loro che scelgono te. Tu hai solo il dovere e la responsabilità di raccontarle. Mi è successo sempre così, fin da bambino. Così sto facendo, con passione ed entusiasmo.

Da quanto tempo ci state lavorando?
Da due anni, se considero il progetto iniziale, poi la scrittura del soggetto e la ricerca finanziamenti. Personalmente da quasi 29 anni: nulla arriva per caso, ma tutto è il risultato delle proprie esperienze, della propria esistenza su questa Terra.

Perché per lei questo film è importante?
Perché parla di noi, del nostro presente, del nostro vicino futuro. Tratta di un uomo, prima che di un prete, che torna dalla trincea con l’anima mutilata, e cerca di portare gioia e coraggio tra la sua gente attraverso l’educazione dei giovani, con la consapevolezza che sarebbe stato ucciso. Ieri come oggi ci sono persone che scambiano l’educazione per strategia politica. Don Minzoni ebbe il coraggio di dire no a questo sistema violento e denigratorio. Pagando con la vita.
Il coraggio di dire no. Ecco perché è importante questo film, questa storia. Per ricordarci che a volte bisogna dire no, costi quel che costi.

Che cosa può insegnare don Minzoni alle giovani generazioni?
Quella di don Minzoni era una generazione che non possedeva nulla: non aveva soldi per comprarsi le scarpe o una camicia. C’era gente che non vedeva un pasto al giorno. Alcuni avevano perso il marito, o il fratello, o il padre in guerra. Non avevano nulla se non gli ideali. Sia da una parte che dall’altra. Ideali giusti o sbagliati. Ma lottavano per qualcosa. Ecco l’esempio di don Minzoni che ci parla ancora oggi, l’enigma eterno da risolvere: vivere per niente o morire per qualcosa.

Che cosa rappresenta un film come questo per Ferrara?
Intanto un tempo e uno spazio di riflessione sul presente. Ricordarsi che gli estremismi portano inevitabilmente a scontri spesso violenti. E la storia a volte si ripete. Forse non insegna, purtroppo, ma si ripete ancora oggi. Ce lo dice l’attualità. E poi ritorna il cinema a Ferrara, nel ferrarese, fatto da ferraresi, dopo ‘La notte non fa più paura’. Voglio dimostrare che anche qui, nella mia terra, è possibile fare cinema di alta qualità, con la professionalità di gente del posto. E che ‘La notte’ non è stato solo un caso, ma può diventare la regola.

Come vi siete documentati per ricostruire la vicenda storica?
Leggendo tutti i libri storici presenti, i diari, andando al museo di Argenta dedicato a don Giovanni, parlando con Anna Maria Quarzi, con lo storico Giuseppe Muroni, ma anche respirando l’aria dei posti dove ha vissuto il nostro protagonista.

Qual è il rapporto tra storia e finzione? Tra fatti documentati e poesia?
La biografia di alcuni personaggi realmente esistiti non era suffragata dalla sufficiente documentazione, così abbiamo cercato di immaginare alcune loro azioni, rendendo il tutto molto verosimile. La poesia? Ce ne sarà molta, nonostante sia un film anche molto violento. Ma non dico ancora nulla.

Qual è la frase più bella della vostra sceneggiatura?
Secondo me quella che pronuncia don Minzoni al ricreatorio, davanti al popolo argentano: “D’ora in avanti, abbiate il coraggio di dire no!”

Che cosa la spaventa e che cosa la attrae di questa sua nuova avventura professionale?
Non nascondo che la produzione di questo film sia estremamente complessa, ed è la prima volta che mi trovo a ‘maneggiare’ un progetto così importante, sia a livello produttivo che a livello artistico. Senza contare che è un film d’epoca, girato in costume. Ma è questo ciò che mi attrae: la complessità. Se portiamo al cinema un bel lavoro, mi sentirò per la prima volta un ‘adulto del settore’. Per adesso mi sento ancora un ragazzo di cinema.

Una dedica particolare per questo film?
Alla mia famiglia. A Valeria, mia futura moglie. A Marco Cassini. A chi mi ha messo i bastoni fra le ruote, ma non ce l’ha fatta. A chi ha creduto in me e al progetto.
E, soprattutto, alla memoria di Folco Quilici.

“La verità dei fatti” fra condizionamenti e fake news. Paolo Pagliaro venerdì a Unife

“La verità dei fatti”: a parlarne sarà Paolo Pagliaro, ora coautore ed editorialista di “Otto e mezzo” (in onda ogni sera su La7), e in precedenza caporedattore di Repubblica, vicedirettore dell’Espresso e direttore di vari quotidiani locali. L’occasione è il secondo seminario del ciclo “l’Etica in pratica 2018” organizzato a integrazione del corso di Etica della comunicazione e dell’informazione tenuto a Unife dal professor Sergio Gessi. Partecipazione libera per tutti (anche per i non iscritti all’Università). Gli incontri hanno lo scopo di favorire il confronto e la conoscenza, presupposti alla consapevolezza e condizione per un responsabile e attivo esercizio dei diritti di cittadinanza.

Nel dettaglio ecco il calendario completo di EtInPra’18 – Gli incontri si tengono nell’aula magna Drigo del dipartimento di Studi umanistici, in via Paradiso, 12 a Ferrara fra le 10,15 e le 12:

23 marzo – Prologo: Etica, comunità, solidarietà
“Sotto lo stesso cielo”
relatore: Gaetano Sateriale, sindacalista (ex sindaco di Ferrara)

6 aprile – Etica e comunicazione giornalistica
“La verità dei fatti”
relatore: Paolo Pagliaro, giornalista, direttore dell’agenzia Nove colonne, editorialista di La7

13 aprile – Etica e comunicazione ambientale
“Che brutto ambiente! La comunicazione sostenibile tra etica e cinismo”
relatore: Andrea Cirelli, coordinatore scientifico di AccaDueO

20 aprile – Etica e impresa
“Fra cooperazione e vincoli di mercato”
relatore: Andrea Benini, presidente Legacoop Estense

27 aprile – Etica e medicina
“Avere cura”
relatore: Giancarlo Rasconi, medico, direttore sanitario poliambulatorio Caritas

4 maggio – Etica e marketing
“Parole dolci come biscotti”
relatrice: Valentina Preti, copywriter di Alce Nero

11 maggio – Etica e culture
“L’altro”
relatore: Raffaele Rinaldi, direttore associazione Viale K

23 maggio (mercoledì, ore 8,30-10) – Etica e sport
“Vittoria morale: il calcio fra ansia di affermazione e rispetto”
relatore: Luca Mora, calciatore Spezia

25 maggio – Convenzioni e riti fra palco e quotidianità
“La vita in scena”
relatore: Marco Sgarbi, attore-regista, fondatore Teatro Off

Don Piero Tollini “Tra profezia e cambiamento”

Da ufficio stampa Istituto Gramsci Ferrara

Il Centro di Documentazione di Santa Francesca Romana e l’Istituto Gramsci presentano Lunedi 26 Marzo ore 16,30 presso la Sala del Centro di Documentazione di Santa Francesca Romana via XX settembre 47 Romana, il volume “ DON PIERO TOLLINI – TRA PROFEZIA E CAMBIAMENTO” realizzato con i contributi di Camilla Ghedini, Miriam Turrini, Don Andrea Zerbini. Parteciperà Mons. Gian Carlo Perego Arcivescovo di Ferrara-Comacchio. Coordina l’incontro Roberto Cassoli .

Don Piero Tollini nacque a Besozzo, in provincia di Varese il 12 aprile del 1921. Dopo il diploma dell’istituto Tecnico Commerciale del capoluogo, lavorò per un breve periodo a “La Prealpina” . Su suggerimento di Don Primo Mazzolari, che reggeva la Chiesa di Bozzolo, frequentò il Seminario di Ferrara, ai tempi in cui Vescovo era Monsignor Ruggero Bovelli. Venne ordinato sacerdote il 20 maggio 1952, e successivamente inviato come cappellano nella Parrocchia della Sacra Famiglia e San Martino dal 1954 al 1971 e successivamente parroco a Montalbano dal 1971 al 1988, per poi passare nella nuova parrocchia di Santa Maria del Perpetuo Soccorso a Borgo Punta fino al 1998 . Nel 1998 si ritirò in un appartamento messo a disposizione dalla Diocesi di Ferrara. Tra i suoi maestri riconobbe sempre don Bosco, don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci e padre David Maria Turoldo.

Un libro è stato scritto a più mani, con Camilla Ghedini, Andrea Zerbini e Mirian Turrini. Nel libro si raccolgono i ricordi degli amici, dei suoi parrocchiani e nel contempo è una riflessione sul sua vita, sulla sua esperienza sacerdotale letta nel contesto storico in cui è vissuto, nell’ambito di un difficile periodo storico attraversato da profondi cambiamenti, da qui il titolo “UN PRETE NEL CAMBIAMENTO”.

“Amica geniale”-mania: a Ferrara sulle tracce di Elena Ferrante

La città di Ferrara fa capolino tra le pagine di uno dei libri più coinvolgenti di questi anni. In ‘Storia della bambina perduta’ – quarto e ultimo volume della quadrilogia de ‘L’amica geniale’ di Elena Ferrante – a un certo punto la protagonista Elena-Lenù fa riferimento al suo viaggio nella città emiliana per presentare un libro. L’episodio è raccontato nella parte iniziale del romanzo che conclude la serie di quattro.

Presentazione libro nella sala Agnelli della Biblioteca Ariostea, Palazzo Paradiso di Ferrara

Al pagina 77 di ‘Storia della bambina perduta’ si legge: “I tempi avevano quell’andamento. Andò male anche a me, una sera, a Ferrara. Il cadavere di Moro era stato ritrovato da poco più di un mese quando mi scappò di definire assassini i suoi sequestratori. Con le parole era difficile sempre, il mio pubblico esigeva che sapessi calibrarle secondo gli usi correnti della sinistra estrema, e io stavo attentissima. Ma spesso finivo per accendermi e allora pronunciavo frasi senza filtro. Assassini non andò bene a nessuno dei presenti – assassini sono i fascisti – e fui attaccata, criticata, sbeffeggiata. Ammutolii. Quanto soffrivo nei casi in cui all’improvviso mi veniva tolto il consenso. […] Se si ammazza qualcuno, non si è assassini? La serata finì male, Nino fu sul punto di fare a botte con un tale in fondo alla saletta. Ma anche in quel caso contò solo tornare a noi due”.

La misteriosa Ferrante ha quindi probabilmente messo piede a Ferrara, ha avuto modo in quegli anni di frequentarne almeno un po’ le strade, i luoghi d’incontro. Non ci sarebbe stato motivo di citare Ferrara al posto di un’altra città, se non forse per la sua collocazione ideologica ben schierata a sinistra, significativa in effetti per descrivere l’atmosfera che si respirava negli anni di piombo. Il momento storico, nel romanzo, è identificato e circoscritto in modo preciso. Aldo Moro fu sequestrato il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, e il suo corpo senza vita fu ritrovato il 9 maggio successivo in via Caetani. Quindi la visita ferrarese raccontata nel romanzo va collocata intorno alla metà di giugno del 1978. Ma se davvero c’è venuta, in quale veste si è presentata a Ferrara l’autrice che con tanta cura ha sempre tenuto nascosta la sua vera identità? All’epoca poteva avere sui 25 anni, neo laureata, forse scriveva articoli, saggi, o poteva essere impegnata per qualche ricerca. Non può certo esserci stata per presentare un libro firmato come Elena Ferrante, perché questo non l’ha mai fatto, di mostrare il volto associato a quel nome. E, inoltre, il primo libro firmato così risale ad anni molto successivi: è ‘L’amore molesto’ che esce nel 1992.

Articolo del “Sole 24Ore” su Elena Ferrante, 2 ottobre 2016

Le ricerche fatte dal ‘Sole 24Ore’ per dare un’identità reale all’autrice hanno portato a identificarla nella traduttrice dal tedesco all’italiano della casa editrice E/O, che è poi l’editore che ha anche pubblicato tutti i volumi firmati Ferrante dal 1992 a oggi. Così infatti emerge dall’articolo “Ecco la vera identità di Elena Ferrante” di Claudio Gatti uscito sul quotidiano economico-finanziario italiano del 2 ottobre 2016 , che attraverso un’indagine sui flussi di denaro tra chi pubblica e chi scrive attribuisce ad Anita Raja, traduttrice dal tedesco di molte opere in catalogo, la paternità (ma in questo caso sarebbe meglio dire maternità) de ‘L’amica geniale’ e di tutto ciò che è stato stampato a nome di Elena Ferrante. Il primo indizio è comunque una conferma: la casa editrice E/O, così strettamente legata all’autrice, nasce proprio a cavallo di quegli anni di grande tensione del Paese, fondata a Roma nel 1979 dall’ex militante di Lotta continua Sandro Ferri insieme alla moglie Sandra Ozzola, esperta di letteratura russa. A tracciare un identikit di Anita Raja ci pensa invece, senza malizia e prima che vengano fatti questi collegamenti-scoop, l’organizzazione del Festivaletteratura di Mantova, che invita la traduttrice all’edizione del 2014 della manifestazione letteraria e la inserisce tra le schede degli ospiti come “Nata a Napoli nel 1953, si è laureata in Lettere e vive a Roma. Ha tradotto dal tedesco gran parte dell’opera di Christa Wolf. […] Ha altresì tradotto per antologie e riviste testi di Ingeborg Bachmann, Hermann Hesse, Ilse Aichinger, Irmtraud Morgner, Sarah Kirsch, Christoph Hein, Hanz Magnus Enzensberger, Veit Heinechen e Bertolt Brecht, sia di prosa che di poesia. Ha pubblicato innumerevoli articoli e saggi sulla letteratura italiana e tedesca e sui problemi relativi alla traduzione”. Presentandola al pubblico in un incontro del 6 settembre 2014, una delle organizzatrici del festival Annarosa Buttarelli la definisce come “direttrice della biblioteca europea di Roma” nonché “traduttrice senza tradimento della vita di una scrittrice famosa come Christa Wolf”. E la Raja – nell’incontro registrato nell’archivio del sito di Festivaletteratura – parla della traduzione come di una pratica basata su “una forte empatia”, sul “rapporto non tra due persone ma tra due lingue, dove chi traduce deve lasciarsi invadere e pervadere dalla lingua dell’altra, un atto che espande la tua lingua” e che poi nel caso di lei e della Wolf è diventata anche “un’esperienza unica e irripetibile” basata su un rapporto personale, con la frequenza della sua casa di Berlino e di quella natale del Magdeburgo, vedendola “nella sua normalità, vedendo come preparava una torta o come stendeva i panni, così come sbrigava la corrispondenza o lavorava nel suo studio”.  “Christa Wolf – dice la Raja – vuole raccontare il versante quotidiano della storia, anche quando ha scritto i suoi romanzi di argomento mitico, come Cassandra e Medea, c’è un forte legame con l’esperienza biografica”, “ha sviluppato un’ossessione per il racconto della quotidianità, per fermare la vita quotidiana, usando una forte alternanza tra discorso alto e basso, citazioni letterarie molto colte e tanto linguaggio orale e modi di dire” con “un’estrema attenzione per il sessismo della lingua”.

Anita Raja prima a sinistra a Festivaletteratura di Mantova (foto Gazzetta di Mantova, 7 settembre 2014)

Potrebbe essere in veste di collaboratrice della casa editrice E/O che la Ferrante è venuta a Ferrara alla fine degli anni Settanta? Improbabile: il nome della Raja compare per la prima volta su opere del catalogo E/O solo quattro anni dopo il rapimento Moro, nel 1982, nel ruolo di autrice 29enne della traduzione dal tedesco e delle note a corredo della pubblicazione di ‘Nozze a Costantinopoli’ di Irmtraud Morgner, poi nel 1984 per la prima traduzione di opere di Christa Wolf (‘Cassandra’ e ‘Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto’). Da lì in poi è lei che firma tutta la versione italiana dell’opera della Wolf, fatta conoscere qui proprio grazie a questa casa editrice e alle sue traduzioni.

Nel frattempo, però, nel catalogo della casa editrice fa la sua comparsa pure il nome dell’autrice Elena Ferrante, al debutto nel 1992 con ‘L’amore molesto’. La pubblicazione coincide con l’avvio della collana di ‘narrativa italiana’ all’interno di un catalogo fondato inizialmente con l’obiettivo di “far conoscere la letteratura contemporanea dei paesi dell’Est”, e allargato in seguito – come spiegano gli stessi editori nella presentazione online – ad altre letterature. Il nome della Ferrante riappare in catalogo nel 1996 per la seconda edizione de ‘L’amore molesto’ ridato alle stampe dopo l’uscita del film di Mario Martone nel 1995. Del 2002 ‘I giorni dell’abbandono’, seconda opera letteraria firmata Ferrante, poi nel 2003 ‘La frantumaglia’ che è invece un resoconto della sua esperienza di scrittrice, nel 2005 la versione inglese del secondo romanzo intitolato ‘The Days of Abandonment’ per i tipi di Europa Editions (consorella americana fondata dagli stessi proprietari della E/O, ma con sede a New York), nel 2006 il romanzo ‘La figlia oscura’, nel 2007 il racconto per bambini ‘La spiaggia di notte’, nel 2011 il primo capitolo de ‘L’Amica geniale’, seguito nel 2012 dal secondo ‘Storia del nuovo cognome’, nel 2013 dal terzo ‘Storia di chi fugge e di chi resta’ e nel 2014 dal quarto e ultimo ‘Storia della bambina perduta’.

Ormai entrata nel turbine del coinvolgimento, la possibilità di un passaggio a Ferrara della Ferrante riesce ad accalorare me, così come accalora l’amica di letture con cui ho percorso uno dopo l’altro i suoi romanzi in una rete di collaborazione che ci ha fatto mettere insieme i quattro volumi tra regali, acquisti e prestiti.

I quattro volumi della serie ‘L’Amica geniale’ (foto Giorgia Mazzotti)

Quello sperimentato in prima persona da chi è rimasto conquistato dalle vicende de ‘L’Amica geniale’ è l’effetto a cui gli americani hanno dato il nome di ‘Ferrante fever’, una sorta di slogan e hashtag lanciato da una piccola libreria degli Stati Uniti e poi reso ufficiale con la produzione del film-documentario che ha questo stesso titolo, diretto da Giacomo Durzi, uscito nelle sale nell’autunno 2017 e ancora visibile sui canali di Sky. Il film dà voce alle testimonianze entusiastiche raccolte soprattutto negli Stati Uniti anche da parte di noti scrittori americani e fa sentire meno soli nel proprio entusiasmo che invece qui – nella ristretta cerchia delle persone che frequento – ha finora avuto esiti alterni. Tra i sei amici e familiari che conosco che hanno letto ‘L’amica geniale’ sono solo tre (inclusa me) e l’hanno amata così tanto, mentre altrettanti (inclusa mia madre) ne sono stati quasi urtati, trovandola troppo avvezza a rovistare nel torbido dei sentimenti interiori e nella realtà cruda che circonda i personaggi di una Napoli piena di ombre dal sapore neo realista.

Una delle foto di Giuseppe Di Vaio su The Guardian sulle tracce dei luoghi de ‘L’Amica geniale’ di Elena Ferrante

Diventa allora quasi commovente scoprire quanto si siano appassionati i nostri compagni di lettura statunitensi. Un interesse testimoniato anche attraverso le recensioni pubblicate da autorevoli testate giornalistiche. Su ‘The Guardian’ la rubrica ‘The Little Library café’ firmata da Kate Young si è adoperata persino per rintracciare e realizzare le ricette di alcuni dolci citati nel primo e nel terzo volume della serie (i dolci napoletani al pistacchio nell’articolo pubblicato il 22 ottobre 2015 e le frittelle fiorentine in quello del 21 gennaio 2016). Per non dire dell’interesse turistico-geografico con una sorta di guida ai luoghi in cui la storia è ambientata. Il New York Times prima (14 gennaio 2016) e lo stesso The Guardian poi (7 novembre 2017) si prendono la briga di dar corpo alle immagini napoletane evocate nei libri con tanto di mappa geografica del rione e delle vie della città frequentate dai personaggi romanzeschi. The Guardian affida al fotografo partenopeo Giuseppe Di Vaio un intero reportage in giro per i quartieri di Napoli a immortalare i luoghi che possono corrispondere a quelli narrati: il tanto nominato “stradone” del rione Luzzati, la scuola elementare che potrebbe essere quella frequentata da Lila e Lenù, una pasticceria e un bar che danno forma e colore a quelli descritti sulle pagine, persino il famigerato tunnel di via Gianturco che le due amiche nel primo romanzo imboccano di nascosto da sole per andare nel centro di Napoli.

‘The Guardian’: la ricetta delle frittelle ispirata da ‘L’Amica geniale’, 21 gennaio 2016

A Ferrara che mappa di ipotetico passaggio potremmo tracciare? Tra gli anni Ottanta e Novanta c’erano Spazio Libri come libreria impegnata, il Centro documentazione donna-Cdd tra i centri donna italiani di più lunga tradizione (nato nel 1980 e ancora più che mai attivo), le sale delle biblioteche comunali, Feltrinelli che però apre la libreria ferrarese soltanto nel 1994, e poi diversi circoli. Potrebbe essere venuta in uno di questi posti l’autrice ancora sconosciuta per parlare dei libri che traduceva?

Il più accreditato potrebbe essere il Centro documentazione donna, da sempre attento a scrittrici di nicchia e sicuramente in linea con i temi e l’approccio letterario di un’autrice come la Wolf. La pista, però, va esclusa. La presidente del Cdd ferrarese Luciana Tufani racconta: “Gli editori della E/O hanno partecipato a nostre iniziative, ma non abbiamo mai avuto ospite Christa Wolf o la sua traduttrice, mentre ebbi occasione di incontrarle entrambe andando appositamente a Torino in occasione del Salone del libro (nel 1997, ndr)”. La sala Agnelli della Biblioteca Ariostea, in via Scienze 17 a Ferrara, potrebbe invece essere benissimo la famosa “saletta” a cui si fa riferimento nel romanzo, luogo possibile di presentazione e dibattito riservato perlopiù a incontri con gli autori e le autrici; ma non risulta che siano passate di qui Wolf o Raja. Durante il festival Internazionale a Ferrara (organizzato in anni recenti, dal 2007 ad oggi) la sala di Palazzo Paradiso è stata più volte riservata a momenti di riflessione sul tema della traduzione dei testi. Raja-Ferrante potrebbe esserci venuta anche solo come partecipante, professionalmente interessata all’argomento, e – al momento di scrivere il romanzo – la visita può averle dato lo spunto per citare il passaggio ferrarese, ambientandolo a quel punto in tutt’altra epoca. Il mistero rimane. Ma a ben vedere è il ventaglio di possibilità che intriga il lettore, già conquistato dai testi coinvolgenti, introspettivi e impudicamente intimi di questa scrittrice. E l’incognita – come è accaduto per l’identità misteriosa dell’autore – facilita l’elucubrazione, induce a far spaziare a tutto campo la mente in virtù di quell’intimità così forte che si crea nel corso delle oltre 1.700 pagine de ‘L’Amica geniale’.

Prima noi!

Prima gli Italiani. Dal quattro di marzo populisti e sovranisti sono la nuova religione, oltre il cinquanta per cento del paese.
Il credo nell’Io e Mio assoluti, Qui e Ora e in ogni luogo dello stivale, il popolo di santi, poeti e navigatori, il culto del popolo sovrano, del cittadino primus inter pares è la nuova confessione a cui tutti si dovranno convertire.
Se mai abbiamo temuto uno Stato confessionale, ora è giunto il suo momento, è la stagione della nuova religione che celebra il popolo sovrano, il popolo che comanda, la religione che deve pervadere di sé ogni angolo del paese, ogni sinapsi dei cervelli di questa nazione.
Gli Unti dal Signore hanno ceduto la scena agli Untori, se non sei un fedele del nuovo culto, sei un paria, un reprobo, un nemico del popolo.
Un popolo di cittadini molto post millesettecentottantanove che va all’assalto delle casse dello Stato per rivendicare il diritto naturale al reddito di nascita, passando così dai vitalizi della casta ai vitalizi dei cittadini, perché l’uomo in natura nasce pagato, poi è la politica che lo corrompe, fregandogli il suo malloppo guadagnato per diritto di nascita.
È sempre la solita storia di Giangiacomo, che si nasce buoni in natura, e poi è la società che ci corrompe, non c’è società che si salva, ma si può sempre recuperare la purezza se si è sovrani a casa sua.
Ci aspettiamo la nazionalizzazione delle banche e l’esproprio di tutti i ricchi, una società senza classi, tutti cittadini a reddito o rendita di nascita.
Fuori tutti gli altri, a partire dall’Europa che è solo un accidente geografico e pertanto non può vantare pretese. Per la moneta non c’è bisogno dell’euro, se ci sono i bitcoin che promettono rendite favolose, ci potrà anche essere l’Italo, la moneta fai da te, perché il ritorno alla lira sarebbe un deja vu, Italo è più creativo e fa più sovranità popolare.
Noi poi in quanto ad autarchia e a sovranità popolari abbiamo a nostra disposizione la memoria di un glorioso ventennio di fasti littori da cui attingere e c’è già chi è pronto a dare una mano.
Il lavoro non ci sarà più non perché ci siamo liberati dalla condanna biblica del lavoro, ma perché è il lavoro che si è liberato di noi, di noi non ne ha più bisogno.
Non è che il lavoro è un vecchio arnese destinato a scomparire, che ha finito di sfruttare uomini e donne, semplicemente ha trovato come sfruttarli meglio di prima, con il lavoro sottopagato, con il lavoro in nero, schiavizzando la mano d’opera degli immigrati.
Allora, mettiamoci in salvo almeno noi con il nostro reddito di nascita, chiudendo le frontiere, circondando di filo spinato ad alta tensione le nostre coste, così in casa nostra non ci sarà più nessuno da sfruttare. Non è chiudere gli occhi, e solo allontanare per non vedere. Cosa c’è di male?
Deglobalizziamoci in nome della localizzazione estrema, l’Italia agli Italiani e tutti gli altri fuori.
Gli immigrati a casa loro, a casa loro li possiamo anche aiutare, così loro, da casa loro, in cambio ci pagano il reddito di nascita. Mica vorranno venire a fare le colonie qui da noi, che la colonia la facciano là da dove sono venuti.
Perché combattere il sistema? Roba di cinquant’anni fa! Facciamoci piuttosto il capitalismo di casa nostra, ognuno per sé tutti per uno.
Destra, sinistra, antifascismo litanie d’altri tempi. L’economia oggi corre sul digitale, nell’accumulo delle ricchezze non ce n’è per tutti. Ma non preoccuparti perché se anche nella corsa resterai ultimo per tutta la vita, l’importante è che resti nel tuo guscio con il tuo reddito di nascita garantito. Non pretenderai mica una vita di realizzazione? Non pretenderai mica di correre, se le gambe per correre non ce le hai! E poi, diciamocelo, la felicità, la felicità vera è decrescita. La felicità è non desiderare, la felicità è non avere bisogno, desiderio e bisogno il reddito di cittadinanza li sconfigge alla nascita.
La felicità è qui, lontani da ogni invasione, da ogni cultura che non sia il tuo rassicurante, conosciuto folk. Vuoi scherzare? La parola d’ordine d’ogni novax che si rispetti è “no contaminazione”!

Aldo Moro e Serjei Skripal: prima e dopo il Muro

Il 16 marzo ritornano vecchie ferite che, purtroppo, fanno sempre meno male. Quanto ha inciso la dicotomia Est-Ovest nel caso del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro? Il libro di Giovanni Fasanella ‘Il puzzle Moro’ ne indaga le oscurità nei giorni in cui si ricordano i 40 anni del triste evento che è rimasto nella memoria dei più anziani, mentre è completamente oscuro ai più giovani. Un momento della nostra storia relegato all’oblio e molte volte raccontato, incredibilmente, dai protagonisti della parte sbagliata che come in tanti altri casi, nel nostro Paese, contribuiscono a tenere alta la cortina di fumo.
Un libro che oggi mi piace mettere in relazione a un altro di qualche anno fa: ‘La sfida totale: equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali’ di Daniele Scalea, perché tratta di geopolitica e quindi proprio dell’eterno conflitto tra Est e Ovest. Un conflitto che spiega, costruisce e mantiene gli equilibri mondiali, giustifica le azioni, le uccisioni, le guerre e anche le condizioni della pace.

Gli assetti geopolitici mondiali non cambiano mai. Qualche nemico occasionale durante la strada del tempo si aggiunge, ma i protagonisti sono sempre gli stessi e, visto dalla nostra parte, il nemico è sempre l’Unione Sovietica che, seppur scomparsa da qualche decennio, viene tenuta in vita nell’immaginario occidentale proprio perché garantisca sia il conflitto sia la pace.
La Russia (nella continuazione dell’Unione Sovietica) deve contrapporsi all’idea della libertà occidentale, essere a tratti l’impero del male, la sobillatrice dei conflitti europei, la distributrice di gas nervino e di attacchi informatici tendenti al sovvertimento della pax americana post seconda guerra mondiale.
Certo, guardando sulle mappe aggiornate, l’Unione Sovietica non esiste più ma il mondo occidentale continua a ragionare come se invece esistesse ancora. Lo capiamo in Siria, quando si fatica a trovare un accordo che indirizzi tutti alla pace, ma ancor meglio lo vediamo nelle trame delle spie russe su suolo britannico, laddove la premier May è pronta a ricevere pieno appoggio da parte degli Usa, della Germania, della Francia e ovviamente dell’Italia. Trame per le quali non è consentito avere prove che gli stessi russi chiedono, ma che dovrebbero essere rese chiare agli ‘alleati’ occidentali e magari anche alla gente comune, soprattutto dopo che gli stessi inglesi hanno giurato di avere prove inconfutabili trascinandoci nella guerra all’Iraq che, tra le altre cose, ci ha regalato anni di guerra ai fanatici dell’Isis.
Le scuse di Blair, in ogni caso, sono state ampiamente accettate dal mondo, digerite e dimenticate mentre ci si appresta, magari, a ricevere un giorno quelle della May dopo che ci avrà condotto, chissà, ad una guerra nucleare.
Putin continua a essere presentato all’immaginario collettivo come il successore di Stalin e come se la sua politica estera fosse impregnata di quel Niet tipico dell’epoca delle spie venute dal freddo. Certo non possono esserci dubbi sulle sue colpevolezze visto che è al potere da 17 anni, mentre la Merkel solo dal 2005, e non giova sapere che non è stato lui ad affamare la Grecia e distruggere le economie dei paesi del sud Europa. Lui è l’Est e noi l’Ovest, il resto sono congetture e filosofie del terrore.

E’ un fatto, comunque e fuor di metafora, che non riusciamo a uscire da quel circolo vizioso per cui è da una parte necessario vivere con la sindrome della contrapposizione Est/Ovest e dall’altra accettare che la Russia sia semplicemente un partner commerciale. Magari un Paese con una cultura millenaria, anello di congiunzione, piuttosto che motivo di contrapposizione, tra Oriente e Occidente. Un Paese intento molte volte a difendersi e a fare i suoi interessi politici, economici e strategici, come in fondo fanno tutti e quindi nell’alveo delle cose possibili.

Nel caso agli onori della cronaca di questi giorni la Gran Bretagna, come dicevamo, offre prove inconfutabili della colpevolezza russa o sovietica, insomma dell’Est. Più o meno come le cople attribuite a Gheddafi, quando anche noi Italia ci siamo precipitati a seguire la Francia, pur contro i nostri stessi interessi, che ci hanno poi regalato il disastro Libia. Il tutto consegnato serenamente alla storia anche dopo aver scoperto che dietro quei bombardamenti c’erano gli interessi petroliferi e geopolitici di Francia e Inghilterra. E per gli stessi interessi, forse e magari non nostri ma dell’Occidente tutto (dicono), abbiamo appoggiato la Turchia che diceva di bombardare l’Isis ma intanto gli comprava il petrolio e bombardava i Curdi oppure, più vicino temporalmente, abbiamo condiviso la missione francese in Mali.

Moro e la Siria, Mattei e la Libia. Giochi di geopolitica non più alle nostre spalle, ma alla luce del sole, verità inconfutabili senza prove da mostrare al mondo, ma con scuse successive, brigatisti che raccontano le loro verità in conferenze pubbliche e istituzioni che garantiscono libertà di espressione e interessi. Di chi?

Gli Stati Uniti sono in guerra un po’ in tutto il mondo, arrivano da terra e da cielo, ma soprattutto da televisione e giornali come una volta l’Inghilterra delle regine arrivava dai mari. Quando arrivano lasciano basi militari a difesa del loro interesse vitale: la supremazia del dollaro, che deve rimanere moneta di riferimento internazionale in quanto alla base della sua sopravvivenza. Da qui la necessità di intervenire e di controllare che la Russia (che pensa o dice ancora essere Urss) non si allarghi e che l’Europa non capisca o pensi di potersi sottrarre all’ombrello americano.

I due libri, di Farinella e Scalea, si incrociano e dettano le trame, letti di seguito potrebbero dare delle risposte, se mai le volessimo e ci ritenessimo capaci di gestirle.
Nel frattempo c’è una guerra perenne per mantenere gli equilibri, una corsa alle armi mai sopita e che dà linfa anche alle nostre esportazioni, quasi 8 miliardi nel 2015 e 14,6 miliardi nel 2016, a dimostrazione che la strategia funziona. Per chi e fino a quando?

Una guerra fredda continua, nonostante il crollo simbolico del muro di Berlino, alimentata da annunci, rivoluzioni colorate mal riuscite e persino soldati occidentali mandati nei Paesi Baltici in esercitazioni al limite della paranoia. Risposte vecchie a scenari nuovi!
E dunque adesso, a ridosso della commemorazione di un nostro lutto nazionale che pretenderebbe verità e che affonda le sue radici, forse e chissà, anche nelle assurde contrapposizioni tenute (ancora) in vita da interessi indegni, siamo costretti a rispolverare l’agente 007 e i piani anti-invasione della Russia. Di cui, del resto, è chiara l’ingerenza nei nostri affari nazionali. Siamo sovrastati dalle loro basi sul nostro territorio, alzano i dazi contro di noi, attentano alle nostre istituzioni repubblicane e il Kgb non ci lascia in pace come invece fanno Cia e Fbi. Per finire, i nostri partiti politici sono ancora costretti, per essere accreditati al mondo civile, a presentarsi al Cremlino per rassicurare il tiranno sulle loro intenzioni.

Dai giovani, dalle donne e dall’ambiente parte la rivoluzione del terzo millennio

di Roberta Trucco

Ci rifiutiamo di imparare nella paura, ci rifiutiamo di vedere trasformate le nostre scuole in delle prigioni. Non accetteremo nulla che non sia la comprensione che è necessario agire per il controllo delle armi e se sarà necessario faremo vergognare i nostri politici nazionali per non essere in grado di proteggerci”. Non si arrendono questi giovani, il grado di consapevolezza che hanno raggiunto è straordinario, sono davvero bravi!
Vedono bene, non sono più ingannabili e anche noi vediamo meglio, grazie alle loro parole. “Non è una questione partigiana, non c’è nulla di partigiano sui grandi temi della vita o della morte, tutto ciò riguarda le armi e la moralità di questo paese. Quando i nostri capi ci dicono che la soluzione è nell’avere ancora più armi allora abbiamo un problema morale nella Casa Bianca. Quando i nostri politici tengono in conto il denaro sporco dell’Nra più della vita dei nostri bambini allora abbiamo un problema morale dentro al nostro Congresso. […] Quando derubrichiamo le morti dei ragazzi a effetti collaterali allora abbiamo un problema morale nel nostro paese!”, ha proseguito uno di loro parlando alla folla radunata per la marcia del 14 marzo davanti alla Casa Bianca. Che coraggio e che determinazione!

Esattamente il giorno dopo la marcia degli studenti negli Stati Uniti, il 15 marzo da noi in Italia, ancora il 14 in Sud America, in Brasile viene freddata con cinque colpi di pistola Marielle Franco, consigliera municipale di Rio De Janeiro. Donna, lesbica, attivista politica, nera, paladina dei poveri e dei diversi e in migliaia scendono per strada. Una delle più imponenti manifestazioni spontanee di questi ultimi anni. L’infame assassinio di Marielle viene definito un’esecuzione, si vocifera la responsabilità sia della polizia militare che aveva incarico di mantenere la sicurezza nella favelas e che proprio Marielle il giorno prima aveva accusato di essere responsabile di violenze inaccettabili. (Leggi QUI l’articolo di Valerio Petrano)
Lo stesso giorno viene assassinato un noto ambientalista in Amazzonia, Paul Sergiò, che si batteva per i diritti delle popolazioni indigene. Il suo avvocato ha accusato gli agenti locali della Polizia Federale di essere coinvolti, forse loro stessi gli assassini.

Come spesso accade in questi casi i leader politici assicurano che si farà giustizia, che ci sarà un’indagine, che si accerteranno i responsabili, ma queste parole non convincono più. Non basta perseguire i responsabili materiali di queste morti, non sono si possono derubricare a morti collaterali, non sono morti per mani di pochi cattivi.
Qui c’è un intero sistema che è malato e coloro che occupano posizioni di potere e decisionali, democraticamente eletti, se non sapranno sottrarsi alla dittatura del sistema potrebbero essere considerati collusi e corresponsabili.
La velocità della circolazione delle notizie ci sta permettendo di mettere insieme fatti che apparentemente non sembrano avere una radice comune che invece hanno: l’enorme ricchezza concentrata nelle mani di pochissimi (studio Oxfam: 1% dei più ricchi possiede più del 99%), per lo più maschi bianchi attempati, e l’ insopportabile e ingiusta disuguaglianza sulla quale si fonda questa ricchezza. È globale la presa di coscienza.

Gli adulti ci hanno deluso”, conclude il giovane dal palco “tutto questo ora è nelle nostre mani e se gli eletti ci ostacoleranno sulla via del cambiamento, li cacceremo e li rimpiazzeremo noi stessi. Enough is enough!”
Oggi ho un grande speranza: questa generazione non arretrerà e noi donne con loro.
Roberta Trucco

Chi siamo
Il gruppo Molecole è un momento di ricerca e di lavoro sul bene, per creare e conoscere, scoprire e dialogare con altre molecole positive e provare a porsi come elementi catalizzatori del cambiamento. Nasce agli inizi del 2016 a Casanova Staffora, dall’esigenza di supportare le persone nell’esplicazione delle proprie potenzialità e successivamente costruire processi di associazione e interazione, poiché ogni molecola, aggregandosi, potrebbe generare un corpo finito ed operante, una parte viva e attiva della società, diventando elemento di speranza e di pressione.
Il gruppo si riunisce ogni due mesi presso la sede di Ce.L.I.T. a Santa Margherita di Staffora (provincia di Pavia) ed è aperto a contributi e collegamenti con altre esperienze analoghe.