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Presentata la nuova stagione del Teatro Comunale di Occhiobello

Da: Teatro Comunale di Occhiobello

Si è svolta venerdì mattina, alla presenzadel SindacoDaniele Chiarioni, dell’Assessore alla Cultura del Comune di Occhiobello Silvia Fuso edel Direttore Artistico del Teatro Comunale Marco Sgarbi,la presentazione della stagione teatrale 2018/2019, giunta quest’anno alla diciottesima edizione.
L’Assessore ha sottolineato l’importanza che la programmazione riveste nel panorama culturale del territorioche,per il secondo anno consecutivo, prevede anche una stagione dedicata ai ragazzi grazie al progetto Next Generation sostenuto da Funder35, bando nazionale vinto dall’associazione Arkadiis nel 2016. “ L’aspetto più innovativo di questa edizione – ha detto l’Assessore – è il contributo economico che la regione del Veneto ha stanziato a favore della manifestazione. Abbiamo sempre creduto in questa programmazione e sapere che ci sono altre istituzioni che hanno deciso di investire parte delle loro risorse, per noi fondamentali, a favore del nostro territorio, ci rende orgogliosi. Importante è stato anche l’intervento degli sponsor Wavin Italia, Selecta e Unaway Hotel.”
“È il diciottesimo anno che si svolge la stagione teatrale – ha detto il Sindaco Daniele Chiarioni – siamo partiti nel 2001, con una rappresentazione ideata dallo stesso Marco Sgarbi sull’alluvione del ’51. L’esperienza di direzione è iniziata come esperienza solitariapoi cresciuta; attorno a Sgarbi è nata l’associazione, Arkadiis, fatta da tanti giovani che hanno collaborato con lui in questi anni. Se c’è un rammarico personale che ho, è che in questi anni l’amministrazione comunale non è riuscita a costruire un vero e proprio luogo dedicato esclusivamente al teatro, ma la sede attuale è rimasta una sala utile a tante altre attività. Spero che le prossime amministrazioni si pogano l’obiettivo di realizzare una vera sede teatrale, che questo territorio merita”.
La parola è passata poi al Direttore Artistico Marco Sgarbi che ha presentato i vari appuntamenti in cartellone, a partire dallo spettacolo fuori abbonamento andato in scena venerdì sera, ‘Stabat Mater’ con Maria Paiato, che ha riscosso grande successo e apprezzamento da parte del numeroso pubblico presente in teatro.
Si è poi entrati nel vivo della programmazione in abbonamento, che inizierà il 14 dicembre con il ritorno di Davide Enia, attore, drammaturgo che porterà in scena ‘L’Abisso’,spettacolo che tratta i temi scottanti dell’immigrazione, vissuti da Enia insieme al padredurante il loro viaggio sull’isola di Lampedusa.
Uno spettacolo che tratterà temi analoghi, ma attraverso un altro punto di vista, sarà ‘Albania Casa Mia’,con AleksandrosMemetajin scena il 18 Gennaio. Il protagonista,29 annidi origine albanese, arrivò in Italia all’età di sei mesi,nel 1991, su un barcone. Insieme alla sua famiglia si trasferì in Veneto, in un contesto sociale allora intriso di paura verso tutti coloro che provenivano dall’altra parte dell’Adriatico.
L’1 febbraio sarà la volta del Teatro dei Gordi che porterà in scena uno spettacolo singolare: maschere contemporanee di cartapesta, figure familiari che racconteranno, senza parole, i loro ultimi istanti, le occasioni mancate, gli addii;storie semplici con ironia ‘Sulla morte senza esagerare’.Il 15 Febbraio Gaetano Colella, attore pugliese,porterà inscena ‘Icaro Caduto’ per la regia di Enrico Messina. La storia ripercorre le vicende di Icaro che precipita in mare dopo essere fuggito col padre Dedalo dal mitologico labirinto di Minosse. Lo spettacolo racconta ciò che accadde a Icaro dopo la caduta, nella travagliata ricerca della madre e del padre.
L’1 marzo, torna a Occhiobello una grande interprete:Anna della Rosa andrà in scena con un monologo,tratto dal romanzo di da Michela Murgia,‘L’Accabadora’; storia di una ragazzina cresciuta accanto all’antica figura sarda che accudisce le persone nel fine vita,accompagnandolealla morte.La stagione si chiuderàil 15 marzo con Eugenio Allegri, attore che per il venticinquesimo anno consecutivo porta in scena‘Novecento’,esordio teatrale che consacrò Alessandro Baricco, che nel 1994 scrisse appositamente il monologo per il regista Gabriele Vacise lo stesso Allegri.
Prosegue anche quest’anno‘Next Generation’,la programmazione dedicata alle suole dell’Istituto Comprensivo di Occhiobello. Cinque gli spettacoli in cartellone, quattro organizzati da Arkadiis e uno dalla compagnia il Baule Volante che da anni lavora con le scuole del territorio. Una stagione ricca di appuntamenti che a tutti gli effetti rappresentano un’offerta di teatro contemporaneo unica all’interno del panorama culturale della provincia, una scelta che da anni caratterizza questa programmazione.“Abbiamo deciso di parlare della difficoltà del cambiamento nel quale tutti noi siamo immersi” – ha concluso Marco Sgarbi – “stupisce e affascina che il luogo della finzione per antonomasiasia diventato nel tempo un avamposto della verità. Proprio questa apparente contraddizione ci offre lo spunto per riflettere ancora una volta sulla nostra condizione umana”.
Abbonamenti disponibili fino al 30 novembre. Prevendita singoli spettacoli dall’1 dicembre.Per informazioni 349.8464714 – 0425.76611www.teatrocomunaleocchiobello.it

Rassegna della storica e nuova canzone d’autore: musica come impegno ed emozione

Storie che ti portano in viaggio nel tempo e nello spazio attraverso parole e musica: sono quelle che entrano nella testa e nel cuore con la Rassegna della storica canzone d’autore, a Ferrara per la sua settima edizione, andata in scena nella sala Estense di Ferrara nelle serate di venerdì 2 e sabato 3 novembre 2018. E non poteva essere altrimenti per questa carrellata di concerti all’insegna di uno dei cantanti più impegnati nella musica d’autore come Claudio Lolli e il suo album ‘Aspettando Godot’ che dà il titolo all’associazione che, per il settimo anno, è riuscita a organizzare queste serate musicali ferraresi con grandi nomi che negli anni sono diventati meno presenti sulle scene e anche con nomi di talenti emergenti.

I Cranchi  in sala Estense a Ferrara, venerdì 2 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Ad aprire le due serate il gruppo dei Cranchi composto da musicisti trentenni che vivono tra Mantova e Ferrara. Tra gli altri, i Cranchi hanno presentato un brano originale intitolato proprio “Ferrara” [clicca sul titolo del brano per ascoltarlo], dove ci si immerge tra la Darsena e corso d’Este, Savonarola ed Ariosto.

Beatrice Campisi con i suoi musicisti sul palco della Rassegna ferrarese, venerdì 2 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Capace di conquistare cuore e orecchie del pubblico Beatrice Campisi, cantautrice di origini siciliane che dà il meglio di sé nell’esecuzione di un brano tutto in dialetto siciliano, come “Luna Lunedda” [clicca sul titolo del brano per ascoltarlo].

Beatrice Campisi (foto Luca Pasqualini)

Una piccola riscoperta Max Manfredi, apprezzato anche da Fabrizio De Andrè, che con le sue canzoni spazia dal porto di Atene alla stazione ferroviaria di Asti facendo ironia sulle strane suggestioni che possono uscire da un inceppamento del tele-indicatore a palette. Così l’errore finisce per indicare come destinazione del viaggio un surreale ed esotico “Kukuvok” che magari era solo un domestico Sanremo.

Max Manfredi (foto Luca Pasqualini)

Travolgente, infine, Francesco Baccini, che rivela non solo le note capacità trainanti e pop, ma anche un risvolto critico e impegnato.

Francesco Baccini – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, venerdì 2 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Proprio la verve dissacrante di Baccini, si capisce così, ha contribuito a renderlo una voce inaspettatamente scomoda e quindi sempre meno presente sulle scene, dal momento in cui – come ha raccontato con la consueta ironia – ha fatto un album dove faceva letteralmente nomi e cognomi (da “Giulio Andreotti” a “Renato Curcio”).

Francesco Baccini (foto Luca Pasqualini)

La seconda serata della Rassegna – sabato 3 novembre 2018 – si è aperta con il cantante-mattatore Leonardo Veronesi.

Leonardo Veronesi (foto Luca Pasqualini)

Ad accompagnare sul palco Veronesi due ottimi musicisti e la coppia di performer usciti dalla scuola di danza di Silvia Bottoni, a commentare visivamente i brani dell’album “Non hai tenuto conto degli Zombie”.

Leonardo Veronesi in scena – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Occhi e orecchie sono così appagati dallo spettacolo con Silvia Marcenaro concentrata al violino ed Eugenio Cabitta alla chitarra.

Leonardo Veronesi in scena – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Di grande impatto il duo che si presenta in scena come Canzoni da Marciapiede, formato dalla cantante Valentina Pira e dal pianista Andrea Belmonte.

Duo Canzoni da Marciapiede – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Il duo ha fatto ascoltare in particolare un brano composto proprio a Ferrara, “16 luglio 1809” [clicca sul titolo del brano per ascoltarlo], dedicato all’insurrezione dei contadini negli anni della dominazione francese. Con ritmi epici e impegno sociale, la canzone riporta in auge la forza e il coraggio dell’impegno di chi decide di opporsi all’oppressione a costo della sua stessa vita: seimila persone che marciano dalla campagna verso la città, provati dalla carestia e decisi a protestare contro le tasse che li affamano e li schiacciano, come è il caso della terribile tassa sul macinato.

Duo Canzoni da Marciapiede (foto Luca Pasqualini)

Un capitolo a sé Giorgio Conte, musicista e cantante con quella voce roca e accento piemontese, capace di fare un’autoironia esilarante sul fatto che ogni volta la sua fama sia ricondotta a quella del noto fratello Paolo Conte, con errori o aggiunte buffe, tipo quando la titolare di un bed&breakfast si raccomanda di salutare da parte suo anche l’assonante Carlo Conti.

Giorgio Conte – 7.a Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Molto coinvolgente – oltre ai testi – l’accompagnamento musicale dei fenomenali Alberto Parone alla batteria e al basso vocale, Bati Bertolio alla fisarmonica e alle tastiere a fiato e Alessandro Nidi al piano.

Giorgio Conte – 7.a Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Anche testi semplici come quello di “Stringimi forte, abbracciami/Stringimi un po’ di più” [clicca sul titolo del brano per ascoltarlo] finiscono per diventare davvero un abbraccio che avvolge tutto il pubblico in un’emozione collettiva grazie alla musica travolgente e alla capacità di coinvolgere il pubblico a fare da sostegno canoro.

Giorgio Conte con i suoi bravissimi musicisti a Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Musica che diventa narrazione poetica, infine, quella di Mario Castelnuovo, che in occasione di questa tappa ferrarese ha presentato anche il suo secondo romanzo “La mappa del buio” in un’affollata e attenta sala della caffetteria del Castello Estense.

Mario Castelnuovo con i suoi musicisti – Rassegna storica e nuova canzone d’autore – Ferrara, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

“Stella del Nord” di Goran Kuzminac la canzone con cui Castelnuovo ha aperto il suo concerto ferrarese  [clicca per ascoltarlo], per chiudere con il lungo racconto “Michel” del cantautore recentemente scomparso Claudio Lolli, a cui appunto è stata dedicata la rassegna. In scena al suo fianco Giovanna Famulari al violoncello e Stefano Zaccagnini alla chitarra.

Mario Castelnuovo sul palco della Sala Estense, sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)

Pubblico partecipe in un’atmosfera che sa sempre sorprendere con brani noti e piccole rivelazioni inaspettate per una Rassegna che sarebbe bello potesse continuare a portare a Ferrara cantanti da riscoprire e un impegno a cui non bisognerebbe mai rinunciare né sul piano degli interessi del tempo libero né su quello della vita di ogni giorno.

Foto-servizio è di Luca Pasqualini. Clicca sulle singole foto per ingrandirle

Pubblico sabato 3 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)
Serata di venerdì 2 novembre 2018 (foto Luca Pasqualini)
Beatrice Campisi coi suoi musicisti (foto Luca Pasqualini)
Max Manfredi dietro le quinte (foto Luca Pasqualini)

 

 

Ferraraitalia al Lucca Comics & Games

E’ calato il sipario sul Lucca Comics & Games 2018, forse la massima kermesse europea del settore, che è arrivata quest’anno alla sua cinquantesima edizione.

Tantissimi gli ospiti di caratura internazionale che hanno contribuito a decretare anche quest’anno il successo della manifestazione che dal 31 ottobre a l 4 novembre ha invaso le strade di Lucca. Il nome che spicca su tutti è sicuramente quello di Leiji Matsumoto, papà di Capitan Harlock, Yellow Kid Maestro del Fumetto 2018, a cui Lucca ha dedicato una mostra, con suoi disegni originali, e che ha posato le impronte nella Walk of Fame di Lucca Comics & Games.

251 mila le presenze registrate nei cinque giorni di kermesse, superando il dato del 2017, con oltre 2.000 eventi, più di 700 espositori e 102 location.
Ecco il fotoreportage del nostro Valerio Pazzi

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Destra e sinistra, dall’analogico al digitale e ritorno

In questa società liquida, magistralmente descritta da Bauman nei suoi libri, anche i partiti le cui origini risalgono al secolo scorso sono diventati liquidi, almeno quelli del campo progressista. In questa liquidità sociale la destra, invece, resta ancorata alla solidità della presenza sul campo, alla vicinanza fisica alle persone, al presidio del territorio. Hanno ascoltato gli umori delle persone e li hanno tradotti secondo la loro impostazione ideologica.
Mentre i partiti liquidi si ritiravano dal campo, loro sono rimasti, da qui il crescente consenso della destra. Insomma, è un po’ come nel passaggio dall’analogico al digitale: la sinistra è passata al digitale, la destra è rimasta all’analogico. Sembra, dunque, che in questo mondo liquido e digitale ci sia ancora molto bisogno di solidità, di presenza fisica, di vicinanza, di analogico. La destra lo ha capito e ha capitalizzato il consenso.
Diverso il discorso sul M5S. Nasce digitale, riempie prima le piazze virtuali del web, poi quelle reali delle città e torna nel mondo virtuale rivolgendosi prevalentemente ad un elettorato giovane, appunto la generazione digitale. Ogni tanto Beppe Grillo ha bisogno di radunare il popolo del web nelle piazze reali perché questo serve al movimento per tenere il polso al suo elettorato. E così via in un’andata e ritorno dal digitale all’analogico.

Il Pd e gli altri satelliti di sinistra, invece, hanno smobilitato sia nell’analogico che nel digitale. Ora, dopo la sconfitta, sembrano tentare di recuperare nell’uno e nell’altro campo, ma il ritardo accumulato nella conoscenza dei meccanismi di funzionamento digitale e l’essersi disabituati alla presenza in quello analogico sul terreno reale li fa essere in affanno, persino invisibili. Il massimo che riescono a fare e organizzare, male, flash mob, confondendo il flash con l’improvvisazione. Molto meglio quelli organizzati dal M5S che li ha inventati. E così si espongono ad un costante flash… flop che gratifica solo gli organizzatori. Tutto ciò, a mio parere, è il risultato di una chiusura nei palazzi del potere, soprattutto da parte del Pd partito di governo, con la convinzione di avere come missione prioritaria quella di stare all’interno delle compatibilità imposte dall’Europa sposando una logica più finanziaria che attenta allo stato sociale su cui l’Europa unita è nata per garantire pace e stabilità. Se si smantella lo stato sociale; non si fa una politica occupazionale seria, ma anzi si aboliscono le garanzie per un lavoro stabile; non si prevede una politica economia e industriale di lungo periodo; si smantella il sistema previdenziale allungando l’età pensionabile e quindi impedendo l’ingresso di forze giovani nel mondo del lavoro; si approva una legge Costituzionale sull’obbligo del pareggio di bilancio, come espressione lampante di una scelta di campo precisa dalla parte dei conti economici più che delle persone in carne ed ossa, è evidente che si è alzato un muro tra sé e la vita reale delle persone. Per lo meno della maggioranza delle persone. Perché tutto ciò a Confindustria e alle banche, invece, andava benissimo.

La conferma la si trova nelle nostre città. Basta fare un esperimento per rendersene conto: girate per le città e fate un censimento di quante sezioni dei partiti di sinistra trovate e quante di queste sono aperte come luogo di socialità. Una volta le sezioni di partito erano aperte tutti i giorni, soprattutto quelle dei partiti più grossi, Pci in testa. I compagni si ritrovavano a giocare a carte, a discutere, incontravano i dirigenti, scambiavano opinioni. Oggi non è più così. È più facile che troviate aperta una sezione della Lega, o che vi imbattiate, per quanto non possa piacervi, in gruppi di cittadini che cercano di presidiare il loro territorio contro il degrado (non chiamatele ronde, anche se la sinistra preferisce le etichette alla comprensione dei fenomeni) piuttosto che una sezione di uno qualsiasi dei partiti di sinistra, Pd in testa che in teoria dovrebbe essere quello con più risorse economiche da potersi permettere qualche sezione.

Disastri naturali campanello d’allarme per un’umanità che non ascolta

Il rumore del torrente che diventa rombo, un’anomala aria calda, pesante, umida che porta l’odore intenso di terra smossa, una pioggia battente che insiste senza tregua. E il livello di quell’acqua che sale, sale rapidamente a vista d’occhio mentre il fluire assume una potenza furiosa e travolge tutto ciò che trova sul suo percorso, precipitando a valle, assumendo sempre più velocità e portata. Erode argini, ruba spazio ai prati e ai campi, si innalza in onde spaventose che qualche passante guarda affascinato come fosse uno spettacolo allestito per quella sera.
Poi cominciano a passare gli alberi divelti con le zolle in cui erano ben piantati e i tronchi che galleggiano seguono la furia dell’acqua sembrando tante navi fantasma su quella superficie liquida che ormai non conosce limiti. E dopo la notte insonne a fissare il livello che non smette di salire, arrivano i conti del day after, come in quei film post apocalittici dove il paesaggio non è più lo stesso e non sarà mai come prima.
La montagna che si vedeva e respirava aprendo le finestre la mattina, appare tristemente spelacchiata dopo lo schianto di moltissime piante, perdendo la sua identità e disorientando chi si riconosceva in essa; frane sulle arterie di comunicazione, allagamenti e crolli di tetti e caseggiati più vetusti, cumuli di detriti depositati sulle strade, cambiano anche l’aspetto urbano. Mentre squadre di operatori e volontari danno il meglio del volto umano, di quella solidarietà e partecipazione fattiva di cui c’è estremo bisogno, instancabili, presenti, rassicuranti. Ma questo non è un film e la realtà supera per certi versi di gran lunga la fantasia. E se non si parla della montagna, è il mare il protagonista di altrettanti cataclismi con maremoti, tsunami e tempeste che invadono e colpiscono coste e litorali lasciando dietro di sé relitti e devastazione.

Alluvioni, terremoti, eruzioni, ondate di calore, drastici cambi climatici: non siamo mai completamente pronti ad affrontare questi eventi perché, come scriveva Seneca, “Nessuna cosa privata e pubblica è stabile: il destino corre veloce e imprevisto per gli uomini e per le città. Proprio mentre tutto è calmo e placido sorge il terrore […]. Quante volte le città dell’Asia, le città dell’Acaia crollarono per un solo tremito della terra? E quanti paesi in Siria e in Macedonia furono inghiottiti dal suolo? […] E non soltanto cadono le opere innalzate dall’ingegno dell’uomo: si disgregano giogaie di montagne, si abbassano intere regioni, si trovano esposte alle onde terre che prima erano lontane anche al cospetto del mare e del fiume […]. Un qualsiasi accidente può togliere te alla patria o la patria a te, può gettarti nella solitudine di un deserto e fare il deserto in un luogo dove ora c’è la folla”.
L’Italia è un Paese fragile, esposto per sua conformazione – e troppo spesso per l’errato intervento umano – a terremoti e disastri idrogeologici e altre situazioni di rischio, per il 77% conseguenza diretta dei cambiamenti climatici, come ci ricordano i dati Unisdr, l’agenzia delle Nazioni Unite per la riduzione dei rischi catastrofe, la quale rileva anche come le catastrofi naturali siano triplicate negli ultimi 30 anni. Nessuno può negare che i segni di rapidi cambiamenti in atto siano ormai evidenti e se teniamo conto delle recenti dichiarazioni dell’Economist, condivise dagli scienziati, le prospettive diventano ancora più catastrofiche. Il Mediterraneo, scrive la prestigiosa testata, scomparirà riducendosi a una pozzanghera d’acqua. Nascerà un solo continente abnorme, l’Eurafrica, una massa di terre emerse. In alternativa al corrugamento della crosta terrestre – e sarà ancora più spaventoso – nascerà una catena montuosa alta come l’Himalaya e le Alpi non saranno che minuscoli contrafforti. Un mondo che emerge dagli studi geologici del movimento delle placche terrestri. Altre ipotesi portano a considerare una frattura asiatica che spaccherà in corrispondenza di India e Pakistan oppure finiremo tutti a Nord, a ricreare un maxicontinente dove ora regnano solo iceberg. Se consideriamo proiezioni possibili riferite all’Italia, Luca Mercalli, presidente della Società Meteorologica Italiana, lancia un grido d’allarme: il nostro Paese è a rischio desertificazione nell’arco di un secolo, con la Pianura Padana come il Pakistan e la Sicilia deserto africano.

Questo lo scenario, se non applicheremo subito gli impegni dell’accordo di Parigi sul clima. Nel frattempo, le coste del Mediterraneo si stanno avvicinando l’una all’altra di due centimetri all’anno, i cataclismi diventano frequenti, irrompono nella nostra vita quotidiana e richiedono sempre più preparazione nella gestione dell’emergenza. I nuovi obiettivi tassativi del millennio e dello sviluppo sostenibile evidenziati dall’Unisdr devono indurre tutti gli Stati e la comunità internazionale a collaborare a uno sviluppo in funzione dei rischi, affrontando seriamente le tematiche della comprensione dei rischi di disastro, il potenziamento della governance dei rischi stessi, l’investimento per la riduzione del rischio ai fini della resilienza, il miglioramento nella preparazione alle catastrofi, la capacità di dare risposte efficaci e realizzare pratiche di ‘Build Back Better’ nelle fasi di recupero, ripristino e ricostruzione.

Nota Stampa Insorgenti Ferrara – 27 ottobre 2018

Da: Articolo 1 – MPD Ferrara

Oggi nella nostra città un gruppo di cittadini sedicenti Insorgenti, accompagnati da striscioni raffiguranti guerrieri in armatura e figure banditesche, ha manifestato contro l’Arcivescovo Perego, a difesa di una inesistente e incontaminata ferraresità. Ci preoccupa che posizioni di tale natura, razziste, xenofobe, violente, antiscientifiche e di chiaro stampo fascista, possano ottenere qualche diffusione, complici la continua propaganda che grida all’invasione e l’immotivato sentimento di insicurezza che ne deriva.

Le parole pronunciate da alcuni partecipanti, “abbiamo già respinto orde di barbari” o “dovremmo riallestire i forni”, risuonano come un allarme che non può più essere ignorato dalla parte democratica, solidale e pacifica, che vogliamo credere prevalente nella nostra realtà comunale. Opporsi a queste aberrazioni risolutamente e in forme unitarie è un dovere civile.

Fortunatamente anche in questa triste occasione si è visto un gruppo di oppositori, che ricordando che il cosiddetto meticciato è già presente in ognuno di noi, ha dimostrato che un’altra Ferrara è ancora possibile.

Tuttavia affinché tale prospettiva si affermi occorrerà presidiare ogni frazione, ogni quartiere, recuperando un rapporto sentimentale con chi ha paura o vive serie difficoltà e per questo è maggiormente esposto a mistificazioni di tale pericolosità. Non esiste alcuna specificità biologica da custodire, bensì una città da salvare da chi la vorrebbe deprivare della vivacità culturale, della gentilezza e dell’accoglienza che sinora ha saputo garantire.

Delibera rifiuti. Alcune necessarie precisazioni da Ferraraincomune.

Da: Associazione Ferraraincomune

Ci tocca tornare sulle vicende relative alla delibera in tema di studio di fattibilità volto alla ripubblicizzazione del servizio rifiuti approvata lunedì in Consiglio comunale e sulle polemiche che ne sono seguite. Lo facciamo perchè ci sembra utile rimettere al centro il merito della questione, che si rischia di perdere quando prende il sopravvento la politica “urlata”, che sembra andare molto di moda in questi tempi, fatta più di insulti, demonizzazione dell’interlocutore e giudizi sommari piuttosto che di valutazioni precise.
La delibera approvata lunedì sera con gli emendamenti “pesanti” introdotti dal PD è distante e non corrisponde al senso profondo della delibera di iniziativa popolare su cui abbiamo raccolto 955 firme. Infatti, pur notando che l’oggetto dello studio di fattibilità volto alla ripubblicizzazione del servizio rifiuti, va almeno parzialmente nella direzione indicata da noi, il fatto di assegnare lo studio ad Atersir significa svuotare l’effettiva possibilità di partecipazione dei vari soggetti presenti nel territorio all’impostazione dello studio di fattibilità. In questo quadro, il tavolo partecipativo si riduce ad essere un puro elemento di contorno e di commento da quanto prodotto da Atersir. In più, la scelta di far svolgere ad Atersir lo studio di fattibilità si scontra con il dato che Atersir non è propriamente un soggetto terzo ed autonomo nei confronti di Hera e delle scelte di privatizzazione del servizio dei rifiuti. Infine, non possiamo sottacere che l’ipotesi di affidare lo studio di fattibilità ad Atersir non è mai stata avanzata nel corso dei due confronti avvenuti tra noi e il Gruppo consiliare PD, prima della seduta del Consiglio comunale ed è apparsa solo in quella sede. Nè possiamo non rilevare l’atteggiamento dell’opposizione che, nei fatti, si è dimostrata impreparata e conseguentemente poco disposta a sostenere la nostra proposta di delibera di iniziativa popolare.
In quanto alle prese di posizioni di Paolo Pennini, non solo non concordate con noi, ma inviate alla stampa senza tener conto di quanto avevamo convenuto tra la nostra associazione e il comitato Mi rifiuto nell’esprimere un giudizio di merito e privo di polemiche e attacchi di carattere personalistico, dobbiamo necessariamente prenderne le distanze, non riconoscendoci nei toni e nelle modalità di discussione. La nostra concezione della politica, anche nei momenti di contrapposizione più aspri, non prescinde dal rispetto delle persone e delle opinioni avverse alle nostre.
Per quanto ci riguarda, continueremo la nostra battaglia per arrivare alla ripubblicizzazione della gestione del servizio dei rifiuti e degli altri servizi pubblici, che hanno a che fare con i beni comuni, a partire dall’acqua. E continueremo a farlo con una modalità che appartiene alla “buona politica”, quella interessata alle scelte di merito che riguardano la nostra comunità locale e non ai toni urlati e che non sono utili per svolgere una discussione produttiva.

Giardini rubati negli scatti di Paolo Zappaterra per una Ferrara lunare e nascosta

“Giorgio Bassani non era simpatico, come non lo sono io; era un originalissimo, un anticonformista, quando io l’ho letto mi sono detto ‘qua ci siamo’”. Non ti annoi mai quando parla Paolo Zappaterra. Ti spiazza e ti accorgi che hai teso i muscoli e stai in guardia, come sul tappeto davanti al maestro di Ju-Jitsu. Forse è per ciò che intorno a questo fotografo coi baffi e i capelli bianchi ci sono sempre tanti giovani. Così è avvenuto martedì sera per la serata intitolata ‘Giardini trasparenti’, dedicata alla visione dei suoi scatti realizzati a partire dagli anni Settanta e conservati su diapositive mai presentate in pubblico. Organizzata dai ragazzi dell’associazione IlTurco, l’iniziativa fa parte del festival ‘Itacà migranti e viaggiatori’, manifestazione unica a livello nazionale, che da dieci anni si dedica al turismo responsabile e che per il terzo anno approda anche a Ferrara (da martedì 23 a sabato 27 ottobre 2018).

Serata col fotografo Paolo Zappaterra all’associazione IlTurco e in alto il pubblico che guarda le sue diapositive (foto Luca Pasqualini)

Tra gli eventi in programma c’era appunto la visione di queste immagini realizzate da Zappaterra “infilandosi nei portoni lasciati aperti, citofonando agli sconosciuti, cercando i balconi giusti su cui salire per catturare in un’immagine l’anima verde di una città solo apparentemente rossa di muri e mattoni”.
Cosa sono queste foto di giardini proiettate sul foglio bianco appeso nel cortile dell’associazione IlTurco, nella viuzza omonima dentro al cuore vecchio e scrostato di Ferrara? Le guardi e stringi gli occhi per capire, cercando di mettere a fuoco quello che lui cerca di stanare, quello che c’è e quello che manca. L’atmosfera è quasi carbonara nel cortile chiuso da muri di mattoni a vista, con la grande luna velata di foschia che fa da spot a questo un evento notturno e pieno di suggestione. Spiega il fotografo: “Sono voluto andare a fondo, cercare Ferrara oltre lo stereotipo del duomo e del castello, ho voluto aprire le porte che erano chiuse. È un atto d’amore per la mia città”.

Il fotografo Paolo Zappaterra (foto Luca Pasqualini)

Parlando con Paolo Zappaterra ho sempre l’impressione che la sua visione del mondo si basi sull’essere ferraresi o non esserlo. Un’idea che trova conferma mentre il video su Bassani non parte subito e la colpa viene data al giovane assistente teutonicamente biondo “che ha un nome stranissimo sctrinzantzag che non riesco a pronunciare”. Poi quando la padrona di casa Licia Vignotto presenta l’iniziativa, Zappaterra le chiede se può cercare di tramutare la sua nordica erre moscia in una esce e magari in una grassa elle ferrarese.

Pubblico per Zappaterra (foto Giorgia Mazzotti)

Alcuni non possono fare a meno si invocare il nome di dio, lui evoca sempre quello di Ferrara: nelle parole, negli spazi, nelle inquadrature, come se non potesse avere altro io di questa città. Incalzato, chiedendogli del suo rapporto con Ferrara – però – prende le distanze pure da questo, dicendo che lui ha origini romagnole.

Diapositive in esposizione (foto Giorgia Mazzotti)



Dopo la proiezione del video con la sequenza di foto tutte dedicate ai luoghi ferraresi legati a Bassani e alle sue poesie, Zappaterra chiede: “Lo conoscete Bassani, ragazzi?”. E davanti al silenzio della platea allarga le spalle: “Allora non è poi così famoso”. Poi spiega: “La curiosità è importante da matti, non basta trovarsi tutti le sere a bere e chiacchierare. Fanno i film e dentro ci mettono Berlusconi. Che ce ne frega di Berlusconi a noi?! La democrazia si regge sulla partecipazione, non si può accettare tutto quello che ci propongono. Noi siamo nati unici, non possiamo seguire quei percorsi che altri hanno deciso per noi, perché questo porta alla farmacia, agli psicofarmaci. Non dovete lasciare che vi incanalino”.

Tra il pubblico l’attore Giulio Costa del teatro Ferrara Off (foto Giorgia Mazzotti)

Pungente ma poi pieno di slanci, come nelle sue riprese fotografiche a caccia di dettagli sfuggiti, Zappaterra si lascia alla fine andare. E al pubblico, che ha un po’ provocato e strattonato, confessa: “Con voi giovani io faccio benzina tutti i giorni; più uno è giovane, più dentro ha speranza, ha il fuoco”. E i ragazzi che evidentemente lo conoscono e apprezzano, gli rispondono con i loro diversi accenti di studenti fuori sede, ammaliati dalla sua dialettica volutamente provocatoria come da questa città lunare e inafferrabile che rimbalza dai suoi “Giardini trasparenti” per cercare di raccontare quello che sfugge, quello che si rifugia negli angoli, nell’ombra.

Serata col fotografo Paolo Zappaterra nel cortile di via del Turco a Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Un’altra occasione per guardare Ferrara da un punto di vista inedito la offrirà l’iniziativa MigranTour Experience Ferrara: una visita nel centro della città estense con il ruolo di guida affidato ai cittadini stranieri che ci vivono e che la mostreranno secondo i loro punti di riferimento. I migranti-ciceroni saranno affiancati da una guida ferrarese, che potrà inquadrare i luoghi indicati anche da un punto di vista storico-artistico. L’appuntamento, in programma nella mattinata di sabato 27 ottobre 2018 alle 11, è gratuito ma solo su prenotazione (con email all’indirizzo camelot@coopcamelot.org) per la giornata finale della tappa ferrarese del festival ‘Itacà – migranti e viaggiatori’.

Sprofondo nord: anche sul Trentino si abbatte la valanga leghista

Terremoto politico in Trentino Alto Adige, dove si è votato per il rinnovo del governo delle due province autonome di Trento e Bolzano. In Trentino la destabilizzazione, rispetto lo status quo che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni, preceduti da una lunga fase presidiata dall’inamovibile feudo di potere democristiano, è stata totale: la Lega ha fatto man bassa di consensi e il suo leader, il deputato e attuale sottosegretario della Sanità, Maurizio Fugatti, ha raccolto il 46.7% delle preferenze correndo con ben 9 liste di sostegno, lasciando alle spalle Giorgio Tonini (25,4), candidato Presidente del Pd e più volte parlamentare, con un abissale margine di distacco. Regge bene il Patt, partito autonomista, anche se la sua corsa solitaria non è stata d’aiuto. Il Trentino vira a destra (o verso il centro-destra, dice qualcuno per edulcorare la pillola). Il dato emerso dalle urne resta significativo non solo in termini di leadership politica, quanto come indice di cambiamento epocale socioculturale da valutare attentamente e monitorare nel tempo.
Uno scossone c’è stato anche in Alto Adige, dove la solidissima Sudtiroler Volkspartei, tradizionale forza trainante locale perde due consiglieri e non raggiunge il 40%, pur rimanendo primo partito. Sfonda invece, in modo del tutto inatteso, la lista guidata dall’ex pentastellato imprenditore Paul Koellensperger, con una civica costituita quasi in sordina solo un mese fa e lontana, nelle previsioni, all’exploit che ha colto tutti di sorpresa. Qui la Lega è terzo partito e fa il suo ingresso nel bolzanino con un buon risultato. Un segnale di ‘italianizzazionedel voto in un territorio che storicamente si è sempre orientato verso modelli nordeuropei a matrice austriaca e tedesca perché il senso di identificazione ha sempre portato a questo.

Per molti è storia di una morte annunciata. Le cause: litigiosità, frammentarietà, poca lungimiranza delle forze alleate di sinistra, affermano gli elettori delusi. Ma la conclamata nettezza dei risultati dei due blocchi a confronto lascia lo sbigottimento in un Trentino che si risveglia il giorno dopo toccato nel profondo, stravolto nel suo percorso lineare e perciò rassicurante, messo in discussione negli indirizzi strategici che riguardano ogni aspetto della sua lunga vita di terra di centrosinistra.

Voto di pancia sulle ali dell’acrimonia, la protesta, l’insoddisfazione? Voto che costituisce il riflesso della lunga onda delle elezioni politiche nazionali? La storia di questa regione è lunga e non scevra da profonde tribolazioni, come tutte le terre di confine, con le influenze, le peculiarità culturali e le responsabilità che investono le ‘terre di mezzo’. Una terra autonoma a statuto speciale, sospesa tra il mondo mediterraneo e il Nordeuropa, importante snodo tra Italia e Mitteleuropa, che ha sempre viaggiato su binari propri perché le è stata storicamente riconosciuta e conferita la proprietà di legiferare nella specificità del territorio, e lo ha sempre fatto bene.
Gente di montagna, abituata all’accoglienza, alla solidarietà, all’aggregazione, alla cooperazione perché la vita nella valli non era facile, l’ambiente impervio e le risorse da utilizzare in comune, perché ‘insieme era meglio’. Questi tratti sono rimasti nel tessuto sociale, perché non è facile sbarazzarsi della propria storia, del proprio passato e delle intime vocazioni di una popolazione, anche se atrofizzati, spesso inespressi, fuorviati e contaminati dalle ondate esterne di ostilità e chiusura verso ciò che si teme, nascosti per la vergogna di dover ammettere di essere controtendenza, manifestati con circospezione e cautela. Voglio credere che l’orgoglio dei trentini non venga accantonato e che quello che inizialmente era un ‘canto delle sirene’ o il timido soffio del ‘pifferaio magico’, trasformatosi ora in un forte vento travolgente generale, non affossi definitivamente quei valori e quelle azioni che hanno sempre accompagnato la gente comune, in buonafede, desiderosa di promuovere benessere e giusto progresso per le comunità. “E ora espugniamo la Toscana”, ha dichiarato subito tra il serio e il faceto Matteo Salvini, in una delle sue battute, neanche tanto battute, dopo il voto trentino. Spero nessuno si stia sentendo terra di conquista…

Le bravate leghiste nella Ferrara distratta

Ho dedicato all’osservazione e alla decifrazione di Ferrara ben quattro lunghi anni di scrittura e documentazione fotografica. Ne è venuto fuori un reportage strampalato, d’accordo, ma quello che ho appreso, in questi anni, è quanto, al di là delle continue e meritevoli occasioni di dialogo offerte dalla città, sia lo spazio pubblico a parlarci delle nostre condizioni odierne. Ed è in grado di farlo con una sincerità che abita tra le maglie, che va scrutata nei gesti, nell’apparenza, per essere poi tradotta, con abnegazione e fatica.

Ebbene, questa volta l’occasione per interrogarci sulla città viene da una serie di filmati che girano in rete dal 16 ottobre scorso. Ritraggono alcuni leghisti ferraresi, i quali strumentalmente radunano clochard nel centro storico, li prendono in via Beretta convincendoli, con vaghe promesse d’aiuto, a seguirli davanti alla sede dell’arcivescovado.
Le persone in questione sono in evidente difficoltà psico-fisica e il chiaro intento dei leghisti è usarli per attaccare il vescovo Perego, l’amministrazione, e strizzare l’occhio all’elettorato di questa città in qualità di partito d’ordine, del ‘fare’ a favore esclusivo e indistinto degli ‘italiani’.
Se si osservano i filmati con cura, si capisce che il raid dei leghisti è un’operazione elettorale a sfondo razzistico e discriminatorio, fondata cioè sulla dicotomia italiano-straniero. E non c’è dubbio che l’operazione si annidi negli interstizi lasciati aperti da una politica per troppo tempo realmente distante dai problemi della gente comune.
Tuttavia la scena finale, proprio lì, sul corso intitolato ai martiri della libertà, è squallida e umiliante per tutti. E parla di noi.

“Questa gente continua a dormire nel centro di Ferrara e nessuno muove un dito”, dice il leghista rubicondo e tarchiatello, protagonista dei filmati. Ma al di là dei proclami, si intuisce che il problema vero è la visibilità dei clochard, il fatto che siano nel salotto buono e deturpino, con la loro presenza, il decoro dei luoghi cittadini.
Il vero consenso, beninteso, verrà dalla semplice cacciata dei barboni: si tratta della politica di breve raggio a cui i leghisti ci hanno abituato, quella di allontanare i problemi, non certo di risolverli con dignità.
La preoccupazione per le sorti dei ‘senza tetto’, poi, non è che mera finzione scenica al punto che, in un attimo di lucidità sospettosa, uno dei protagonisti, il clochard-panettiere, colto da dubbi, si arresta, lancia le sue coperte sul marciapiede e chiede: “Aspetta, perché io non capisco, questa è una tua cosa che ci tieni veramente o la fate per…”. In un altra ripresa lo stesso clochard-panettiere dirà: “Sai cosa mi fa incazzare: che stiamo dando spettacolo!”. Oppure sempre più consapevole della strumentalizzazione: “Vi siete divertiti stasera? Avete passato una serata differente?”.

Insomma, i filmati sono in rete e ognuno ne potrà trarre le proprie conclusioni.

Quello che vorrei fare qui, dicevo in principio, è isolarne lo sfondo. E sullo sfondo di questi filmati, nello spazio in cui la pagliacciata prende forma, si scopre una città distratta.
Mi interessa, dell’accaduto, la città gremita di gente del mercoledì sera, mi interessano i passanti, la folla vociante della movida a pochi passi. Si tratta di una città svagata e impolitica come il resto del Paese, che magari osserva incuriosita la scena e procede con una disarmante indifferenza. Nessuna attenzione, nessun coinvolgimento, a parte una donna che chiede se sono autorizzati a filmare delle persone in evidente difficoltà e viene per questo zittita dai leghisti con slogan preparati ad arte.
Anzi, ad aggiungere amarezza all’immagine, c’è lo schieramento di forze dell’ordine, il quale a sua volta manda un messaggio chiaro. Già, quella presenza sproporzionata, dispiegata grazie alle telefonate fatte in diretta video dal tozzo e rubicondo leghista, ci dice che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che lo Stato è lì con ‘loro’, col raid xenofobo e strumentale, di ordine e pulizia cittadina. L’igiene è salva.

Forse allora è da questo sfondo notturno che occorre ripartire. Sì perché qualsiasi spazio pubblico vissuto da semplici estranei può trasformarsi in uno spazio privato, in uno spazio chiuso, ideale per la sospensione dei diritti e per i soprusi. E oggi a Ferrara i leghisti si muovono negli spazi pubblici come fossero a casa loro. La disinvoltura, l’uso di strumenti istituzionali e mediatici, lo sprezzo ostentato, non possono che esser generati dalla certezza di non essere mai massicciamente contestati nei loro arbìtri da chi li circonda.

Da qui l’invito a tutti quelli che hanno a cuore la città, a lavorare per costruire una città fieramente antifascista in ogni sua piega, in ogni piazza e vicolo. Questo potrebbe essere il proposito più importante dei prossimi decenni. Fare di Ferrara una città aperta, in cui lo spazio pubblico sia tutelato anche attraverso l’attenzione e il coinvolgimento di ogni singolo cittadino.
Fare politiche per radicare le persone, affinché il corpo della città sia quanto di più simile a un unico luogo di cura reciproca, di partecipazione e relazione, perché la vera sicurezza è sapere di non essere soli tra estranei, ma circondati da con-cittadini. Questo aiuta e facilita enormemente, benché gravemente sottodimensionate, anche il lavoro delle forze dell’ordine.
Se il tempo delle deleghe è concluso e direi fallito del tutto, e se il pericoloso allineamento tra pratiche di repressione e rigurgiti fascisti in Italia non è mai stato così vergognosamente ostentato, allora la prima difesa della città viene dal civismo diffuso, dalla coesione sociale, che costringe alla trasparenza, spegne la violenza e assicura diritti.

Vigliacchi

Il foro nel vetro
Il pallino rinvenuto in casa
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Raffaele Rinaldi, direttore dell’associazione Viale K

Questa notte qualcuno ha sparato un piombino contro una delle finestre dell’abitazione di Raffaele Rinaldi, direttore dell’associazione Viale K, attiva da anni nell’accoglienza dei senzatetto e dei migranti. E’ un evidente atto di intimidazione che impone una risposta forte, chiara e immediata dalla città (non avvezza a questo genere di barbarie), dalle sue componenti associative, dalle istituzioni che la rappresentano.
Se qualcuno pensa di trasformare Ferrara in un Far West sappia che troverà questo giornale in prima fila a contrastarlo
A Raffaele, con un fortissimo ideale abbraccio, esprimiamo la nostra piena e totale solidarietà. Siamo con te

DIARIO IN PUBBLICO
Ma i comunisti han sempre fame di bambini

Non inganni la seriosità con cui ho svolto il ‘tema’ della Storia nell’ultima puntata di ‘Diario in pubblico’. Il tempo che viviamo e non certo il ‘disio d’onore’ mi hanno indotto a qualche nota accademica necessaria di fronte alla minaccia dell’abolizione all’esame di maturità della traccia di Storia. Pericolo rientrato? Non so. In questi tempi agitati dai Dioscuri gialloverdi escono continui proclami e immediate ritrattazioni, mentre caterve di bene informati tendono a spiegarci ciò che forse loro stessi non hanno ben chiaro o non hanno capito; come del resto gli stessi Dioscuri.

Cominciamo tuttavia con una immagine consolatoria apparsa su un quotidiano cittadino. Una coppia scende dallo Scalone di Palazzo Comunale, dopo essersi sposata, accompagnata non solo da parenti e amici, ma dai loro fidi pelosi. Lo trovo confortante e amicale.
L’amicizia tra umani e pelosi è un segno di civiltà.
Altrettanto se non più confortante la splendida iniziativa di Monumenti Aperti, la presentazione di diciotto monumenti, novecenteschi in gran parte, spiegati da ragazzi e bambini che, ottimamente preparati dai loro insegnanti, hanno fatto da guide a un flusso ininterrotto di visitatori che hanno affollato quei luoghi. Ho assistito alle presentazioni fatte a Casa Minerbi. Solo qui, in due giorni, 1150 visitatori, e 100 rimandati per eccessivo affollamento, sono stati intrattenuti da piccoli Giorgio Bassani e Giuseppe Dessì che si sono alternati mostrando ottima preparazione e capacità di spiegazione, ma soprattutto assimilazione di ciò che gli insegnanti hanno loro comunicato.
Poteva mancare la polemica? No certo! In questo caso innescata dal portavoce di Fdl Mauro Malaguti che così scrive su un quotidiano cittadino:
“Sabato e domenica scorsi, c’è stata l’iniziativa ‘Monumenti aperti’ in cui si potevano visitare palazzi del ‘900 solitamente chiusi al pubblico. Una iniziativa che mirava a riscoprire un patrimonio architettonico poco conosciuto, con l’opera divulgativa assicurata dagli studenti delle scuole elementari e secondarie di primo grado, che dovevano guidare il pubblico in un percorso di valorizzazione dal punto di vista turistico del nostro patrimonio architettonico e culturale del Novecento, in un programma che prevedeva di approfondire l’evoluzione e la nascita delle correnti artistiche […] Eppure, in tale ‘programma’ i ragazzini di 8-10 anni si sono prodigati, evidentemente ben istruiti, nel recitare anche le aberrazioni della dittatura fascista che, credo, poco abbiano a che vedere con arte e tecniche architettoniche. Per altro, proprio il 16 ottobre ricorre il giorno del rastrellamento nel ghetto ebraico di Roma, ed è sacrosanto ricordarlo, magari nelle opportune sedi e non per bocca di bambini di 8 anni. […] Ennesimo episodio, evidentemente, in cui la sinistra non perde l’occasione per infarcire una iniziativa di stampo culturale con i richiami storici che più gli sono congeniali, evitando accuratamente ogni riferimento contestuale gli sia sgradito […]”.

Non mi sarei permesso di riportare questa sgradevole protesta se l’evidente faziosità con cui è stata scritta non m’inducesse a controbattere come del resto ha fatto un lettore sulla ‘Nuova Ferrara’. Ma davvero si può pensare che i giovani protagonisti di questa ottima iniziativa siano stati indottrinati dai cattivi comunisti che mangiano i bambini? O che gli insegnanti diretti dal Minculpop ferrarese avessero così ben indottrinato i poverini, inducendoli a pericolose dichiarazioni politiche e ad altrettante dimenticanze ‘dell’altra parte’. Ormai la disconnessione tra parole e pensiero induce a sostenere affermazioni che se non avessero un risvolto etico potrebbero apparire ridicole. Proprio sicuro il signor Malaguti che ai bambini di 8 anni (in realtà le guide quasi tutte erano di 12-13 anni) non si possa spiegare la Storia? E che non abbiano diritto di sapere che nelle carceri di Ferrara, ora sede del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah venisse rinchiuso Giorgio Bassani perché ebreo? E che a Ferrara, se ci fossero stati reperti sulle foibe e sulle atrocità commesse dai titini, gli insegnanti non avessero compiuto con eguale competenza e serietà il compito che si erano ripromessi di fare? Fossi in loro, a qualsiasi credo politico appartenessi, mi risentirei della nota del solerte politico.

Altrettanto significativo della piega politica a cui ormai rivolgiamo ogni pensiero, compreso quello delicatissimo e assai complesso della nozione di cultura in una città che si fregia del titolo di ‘città della cultura’, il fondo apparso in un quotidiano cittadino. Leggo infatti l’editoriale del ‘Resto del Carlino’, Cronaca di Ferrara del 14 ottobre 2018. Una piccata protesta per l’accoglienza riservata alla mostra in Castello della collezione Cavallini-Sgarbi; protesta che, secondo l’estensore, “smaschera, al di là delle positive intenzioni di Tagliani, la reale ostilità del mondo culturale ferrarese ufficiale non solo per gli Sgarbi – visti come un corpo estraneo – ma anche per quella straordinaria mostra, a mala pena tollerata. Insomma, una figura un po’ da provinciali nei confronti di due personaggi, magari ingombranti e sopra le righe rispetto allo standard ferrarese, ma protagonisti assoluti della scena culturale, artistica, politica e mediatica italiana”. Non esprimo giudizi sulla mostra – non è qui né il caso né l’intenzione, ma resto assai stupito che l’estensore della nota poco ricordi (o conosca) dello “standard ferrarese” culturale. Forse sarebbe ingeneroso ricordargli le strepitose mostre organizzate da Farina ai Diamanti che portavano a Ferrara le più audaci proposte del mondo contemporaneo o le compagnie più all’avanguardia nel rinnovato teatro comunale poi dedicato ad una delle figure più importante del Novecento culturale: il maestro Abbado. Quindi non sarei così sicuro che lo standard ferrarese sia così provinciale come si vorrebbe far intendere. Un pochino di conoscenza da parte dell’editorialista della storia culturale ferrarese avrebbe evitato un imbarazzante – per lui – giudizio.

Attendo la macchina che mi porterà a Mantova per presentare il bellissimo volume scritto da Andrea Emiliani su Canova ambasciatore del Papa che si reca nel 1815 a Parigi a recuperare le opere d’arte trafugate da Napoleone. Accanto a casa arrivano gli studenti per prendere il bus. Ogni parola è condita col termine forse più diffuso oggi in Italia: c…o, disinvoltamente usata da ragazzi maschi, ma soprattutto femmine che, intendo le ragazze, lo intercalano con la frase “non rompermi i c…i”, quasi un’invidia freudiana per l’organo sessuale maschile. Del loro organo non c’è traccia tra un battere il cinque e abbracciarsi come fanno i giocatori. Mi spiace che vivendo al Nord non venga usato il termine più gentile ‘minchia’ forse sconosciuto a questa eroica gioventù.
Giungiamo a Mantova dopo un’avventurosissima traversata perdendo a ogni svolta la strada e andando dalla parte opposta indicata dal severo tom tom.
Poi il premio. La squisita direttrice dell’archivio in nostro onore estrae dalle segrete stanze dell’edificio la bozza della lettera che Baldassar Castiglione scrisse a Leone X. Un tesoro acquisito dallo Stato l’anno scorso e che qui è stato depositato.
Ci troviamo di fronte al documento che sancisce l’istituzione della cura delle opere d’arte.
Consolati, dopo averla accarezzata, ovviamente con i guanti bianchi, cominciamo il nostro lavoro. Culturale, mi si permetta.

Chi ha dormito nel mio letto?

Chi ha dormito nel mio letto?

Chi ha bevuto dal mio bicchiere, chi ha mangiato nella mia scodella, chi si è seduto sulla mia poltrona? Chi ha usato il mio spazzolino. Chi ha fumato la mia pipa. E soprattutto (quella cosa lo faceva veramente imbestialire) chi ha dormito nel mio letto.
Tutte le notti era la stessa storia.

Piano, ragioniamo, mi chiamo Guido Torelli e questa è la mia casa, di mia esclusiva proprietà, me l’ha lasciata mio zio. Sono figlio unico, niente moglie e niente figli. Cioè a dire che nessuno, dico nessuno, può vantare un qualche diritto sulla mia bellissima casa. Ora, date un’occhiata ai catenacci, alle chiavi (ma chiavi sul serio, non delle yale da due soldi), controllate le sbarre di ferro, le inferriate doppie, i cancelletti di maglia d’acciaio davanti alle portefinestre; insomma, credetemi, in casa mia non entra nemmeno un topino, figuratevi un ladro, un intruso, un vagabondo. Eppure non si riesce a stare in pace. Tutte le notti è la stessa storia.
Ma non era un problema solo del fu ingegner Guido Torelli. Gli altri la pensavano esattamente come lui. Anche gli altri, una trentina o qualcuno in più, gridavano, minacciavano, sbattevano i piedi. Ognuno protestava il suo sacrosanto diritto sul proprio bicchiere (e tutti il medesimo bicchiere), e sulla scodella, la poltrona, lo spazzolino da denti, il vecchio letto di noce. Al numero civico 43 di via Fondobanchetto tutte le notti c’erano discussioni. E non era la solita animata, rissosa, tipica assemblea di condominio, vi giuro, era mille volte peggio.

Fino a mezzanotte filava tutto liscio. Era una zona tranquilla della città, la più antica, il cosiddetto “castrum bizantinum”. Ma ecco, a mezzanotte in punto, l’ora canonica dei fantasmi, iniziava la baraonda. Che durava per ore. Le voci si spegnevano, di colpo, solo con il primo raggio dell’aurora.
Se pensate che tutti i fantasmi, tutte le anime dei trapassati, siano presenze diafane, timide e discrete, malinconiche e amanti del silenzio, siete fuori strada. Questo non era comunque il caso dei proprietari della casa di via Fondobanchetto 43. La quale casa, dall’anno di costruzione ad oggi, era stata ripetutamente oggetto di atti di successione, e donazioni, compravendite, addirittura di un paio d’aste giudiziarie a seguito del fallimento del proprietario.
Non si scappa, de jure tutti i fantasmi inquilini erano titolari del medesimo titolo di proprietà. Il punto era fargli capire che tale titolo, esclusivo fin che si vuole, poteva e doveva essere esercitato in comunione con tutti gli altri aventi diritto. Macché, abituati in vita a disporre di quel bene – dico la casa e tutto ciò in essa contenuto – in modo totale, senza restrizioni di sorta, non gli entrava in testa che il loro nuovo status imponeva un diverso comportamento.

Io, vivo e vegeto se dio vuole, visitando per conto di una stimata agenzia immobiliare la casa infestata (così era rinomata per quel fastidioso baccano notturno e per questo preciso motivo non trovava punto un acquirente) mi sono apposta trattenuto oltre il tramonto, per tutta la notte, fino all’alba. Per spiegare la situazione. Per farli ragionare. Sono un buon parlatore, un ottimo agente, ma non c’è stato verso. Allo scoccare della mezzanotte, non un minuto più tardi, una donna dalla voce stridula si è messa a gridare come un’ossessa: Chi ha mangiato nel mio piatto? Alla sua, si è sovrapposta la voce per me irriconoscibile dell’ingegner Torelli (da vivo ci frequentavamo, era persona mite e dai modi cortesi) sbraitando: Chi ha bevuto dal mio bicchiere? E una terzo, totalmente fuori di sé: E chi ha dormito nel mio letto?
Niente. Non mi hanno fatto nemmeno parlare.

 

Cover: via Fondobanchetto Ferrara – foto dell’autore

Gemellaggio Ferrara – Riace
La lettera aperta della società civile e del mondo del volontariato sociale

A Ferrara – lo scrivevo qualche giorno fa –  continuano i contatti sottotraccia, i messaggi incrociati, le proposte di alleanze elettorali. Qualcuno comincia già a fare il nome del “candidato ideale”: chissà se per lanciarlo o per bruciarlo. Ma è proprio questa la politica? Forse la politica vera, quella fatta di contenuti, di idee, di proposte, magari anche di provocazioni, abita altrove: sempre a Ferrara, ma nel vivo della società, lontano dalle piccole strategie dei partiti e degli schieramenti politici. Basta guardarsi intorno; la città è tutt’altro che addormentata, anzi, è una città che si interroga sul nuovo, si riunisce in assemblea, parla, discute, chiede, propone. Gli esempi virtuosi sono davvero tanti.

Un bell’esempio, molto significativo – nuovo nel merito ma anche nel metodo –  andrà in scena tra un paio di giorni. Lunedi 22 ottobre il Consiglio Comunale di Ferrara, per la prima volta nella sua storia, si troverà a discutere una proposta di delibera di iniziativa popolare. Il testo, che reca la firma di 955 cittadini, chiede di istituire un tavolo partecipato per produrre uno studio di fattibilità finalizzato alla ripubblicizzazione del Servizio di Raccolta dei Rifiuti. Vedremo come andrà a finire.

C’è però un’altra iniziativa, direi clamorosa, che circola in queste ore nelle vene della società ferrarese. Simbolica? Certo, ma tutta politica, che chiede a Ferrara di compiere una precisa scelta di campo. Un gran numero di gruppi, associazioni di volontariato, sindacati, movimenti ed  enti laici e di ispirazione cattolica, sindacati, ong, cooperative sociali (l’elenco, già nutritissimo, è destinato ad allungarsi nelle prossime ore) ha sottoscritto una lettera aperta  indirizzata al Sindaco di Ferrara, alla Giunta e al Consiglio Comunale.  Chiedono di fare qualcosa  per salvare “il modello Riace”: dare la cittadinanza onoraria al Sindaco Mimmo Lucano e di gemellare la Città di Ferrara con il Comune di Riace.

In cosa consista il “modello Riace” si può dire in poche righe. Ed è un racconto che assomiglia a una favola. C’era una volta un sindaco, una persona normale – non un intellettuale, o un politico di rango, o un capopopolo –  a cui viene un’idea normale, tutt’altro che “rivoluzionaria”. Ha visto che anche a Riace arrivavano profughi, disperati, richiedenti asilo. E ha visto diminuire anno dopo anno gli abitanti del paese, le tante case vuote, i campi lasciati andare alla gramigna. Nasce così, dal riempire di vita il vuoto di un paese morente, dall’inversione del circuito tra una (secolare) emigrazione e una dolente (nuova) immigrazione, un modello di accoglienza e integrazione che ha fatto il giro del mondo, ricevendo premi e riconoscimenti internazionali.

Ora la favola si è spezzata. Qualcuno ha deciso di “rompere la favola” –   non è un reato previsto dal codice penale ma se vi è capitato di essere stati bambini sapete bene che si tratta di un peccato mortale. Mimmo Lucano, indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per abuso d’ufficio, è stato sottoposto prima agli arresti domiciliari e quindi allontanato (ma perché?) dal suo paese. Intanto con una circolare il Ministro dell’Interno (di cui ora non ricordo il nome) ha deciso di smontare pezzo per pezzo il modello Riace, tagliando tutti i fondi al Comune e sloggiando i “clandestini”. Siamo così al colpo mortale. Se l’esperienza di Riace era un modello riuscito di umanità e convivenza, il suo azzeramento suona come un monito (e una minaccia) per tutti gli immigrati e per coloro – Chiesa compresa – che in tutta Italia si adoperano per l’accoglienza, il dialogo, l’integrazione.

Forse Domenico Lucano è colpevole di “disubbidienza civile”. Seguendo la sua coscienza ha disobbedito a norme ingiuste in nome di leggi superiori: il dettato della nostra Costituzione, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, le leggi non scritte del diritto naturale. Solo per questo merita la Cittadinanza Onoraria di Ferrara. Ma in gioco c’è molto di più, salvare cioè quella straordinaria esperienza di umanità e solidarietà, salvare un paese come Riace che era tornato a vivere e che ora rischia di morire del tutto, tendere la mano ai nuovi arrivati come ai vecchi abitanti di Riace. Decidere di gemellare Ferrara con Riace non è quindi un semplice segno di vicinanza, ma comporta l’impegno a sostenere concretamente le tante iniziative – economiche, sociali, culturali –  che in questi anni erano fiorite a Riace. Se il governo italiano ha azzerato i fondi, quell’esperienza potrà continuare grazie al sostegno di Ferrara, delle sue istituzioni come della sua cittadinanza. Ferrara e tutte le città che vorranno seguire questa strada.

Il Sindaco, la Giunta, il Consiglio Comunale di Ferrara riceveranno a breve la Lettera Aperta. C’è da sperare che ne facciano motivo di attenta riflessione. Questa volta il gemellaggio non sarà l’occasione di piacevoli e spensierati viaggi in comitiva, ma qualcosa di molto impegnativo. Un impegno che tanti ferraresi sono pronti ad assumersi in prima persona: “Per favore, non rompeteci la favola”.

 

Continuano ad arrivare le adesioni alla Lettera Aperta. Dal GAD-Gruppo Anti Discriminazioni (che ha lanciato la proposta) alla Cgil, dalla Rete per la Pace ad Arci a Unicef,  da Pax Christi al Arcigay, dal CISV alla Coop. Meeting Point. Tantissime le associazioni:  Viale K, Cittadini del Mondo, Ferraraincomune, Orto condiviso, Filippo Franceschi. Papa Giovanni XXIII …

 

Sessantotto, le pagine dell’anno che ci ha cambiato la vita

Il titolo del libro allude alle favole, ma la storia che Maura Franchi e Augusto Schianchi ci raccontano ha molto a che fare con le nostre vite e la realtà dell’Italia di ieri e di oggi: con “C’era una volta il ’68, prima e dopo” (Rubbettino editore) gli autori (entrambi docenti all’Università di Parma) conducono una ricerca – e coerentemente sviluppano una riflessione di alto profilo – sui presupposti che hanno originato il movimento che ha squassato tutto il mondo occidentale, e ne valutano gli effetti attuali.

A base della rivolta indicano “un vago senso della giustizia sociale” saldato a “un forte desiderio di libertà”. Ricordano le gesta di una generazione “che pensava davvero di fare storia”, e che in parte, nel bene nel male, c’è riuscita. “Non era una domanda di sicurezza né tantomeno di benessere a guidare le attese future, ma un generale bisogno di una verità diversa che consentisse di descrivere il mondo con un linguaggio originale”.
Ecco perché anche semplici marcatori di stile, come il vestiario e gli atteggiamenti, risultavano fondanti dell’identità di quella generazione. La giovinezza era un valore in sé perché si contrapponeva all’obsolescenza della tradizione. E così la contestazione del principio di autorità significava il rifiuto di accogliere la lezione e i valori dei padri. Lo stesso impulso si traduceva nel respingimento del nozionismo scolastico, nell’esaltazione della democrazia diretta priva di capi e fondata su ascolto, partecipazione ed egualitarismo…
La strenua difesa dei diritti civili e l’insofferenza verso qualsiasi forma di gerarchia sono il collante che tiene insieme un movimento in sé variegato, al punto da esplodere negli anni seguenti in tanti rivoli orientati verso differenti approdi. Ma, appunto, quella che si può definire spinta alla libertà è il legame forte che tiene salda l’unione fra le giovani generazioni protagoniste della fase nascente di un movimento che, già agli albori del ’68, comincerà ad essere percorso da aneliti contraddittori, come la simultanea esaltazione del collettivo e insieme della soggettività; la domanda di partecipazione e la strenua difesa della libertà individuale, il noi e l’io.

A consentire l’affermazione del protagonismo di quella generazione, e il tentativo di compiere un salto in avanti, è il potente sviluppo economico che l’Italia conosce nel decennio precedente. Giovani e donne sono i principali protagonisti della fase nascente della nuova stagione, che lascerà tracce incancellabili nei decenni seguenti.
Il cinema, la musica, la narrativa non solo accompagnano ma spesso trascinano, con la loro forza evocativa e suggestiva, la marcia verso il cambiamento. Le avanguardie intellettuali, che si esprimono attraverso le poliedriche forme dell’arte, accendono la luce che rischiara il movimento, di cui il libro traccia i più significativi passaggi.

Tra le positive eredità che il ’68 ci consegna, Franchi e Schianchi indicano l’universalizzazione dei diritti, l’autodeterminazione degli individui (in particolare in riferimento agli stili e alle condotte di vita), la trasformazione dei modelli familiari e dei rapporti di coppia, la liberazione dai tabù sessuali, la spinta verso modelli inclusivi (specie nell’ambito del sistema scolastico ed educativo), la tutela di diritti fondamentali quali la salute e la parità di genere, la ricerca e la creazione di canali di controinformazione, il rifiuto dell’autoritarismo.
Fra le negative ricadute, gli autori indicano anche l’attuale deriva populista, intesa come moderna e deviata riproposizione dell mito della democrazia diretta. In ogni caso, affermano, “il 68 segna un prima e un dopo, per cui niente resta più com’era”.

Il volume di Maura Franchi e Augusto Schianchi “C’era una volta il ’68. Prima e dopo” sarà presentato domani alle 17 all’Istituto di Storia contemporanea di Ferrara, in vicolo Santo Spirito 11. Interverranno l’autrice Maura Franchi, Fiorenzo Baratelli direttore dell’istituto Gramsci di Ferrara. Introduce Sergio Gessi direttore di Ferraraitalia

APPUNTI SUI POLSINI
Il nuovo sindaco di Ferrara? Speriamo che sia femmina

Mancano ormai meno di sette mesi alle elezioni, in Europa, ma anche a Ferrara. In un clima sempre più confuso, e che presto diverrà rovente, c’è per ora una sola cosa certa: non saranno elezioni normali. C’è un terremoto in atto e in tanti prevedono un cataclisma.
A Ferrara significa che, per la prima volta in settanta e più anni di storia repubblicana, il governo della città appare contendibile. Di più: per la prima volta il Centrodestra, e segnatamente la Lega, sembra essere la grande favorita alle amministrative di maggio. Viva l’alternanza? Purtroppo non si tratta di una Destra moderata, ma di una formazione con valori e umori estremi, decisa a ‘ruspare’ via le molte buone cose che una città civile e democratica ha costruito dal Dopoguerra a oggi. Per questo, quale che sia il giudizio anche critico sulla giunta uscente, la vittoria di Alan Fabbri e di Naomo Lodi segnerebbe per Ferrara un drammatico passo indietro. Quanto indietro lo lascio alla fantasia dei lettori.

Mentre ascolto la preoccupazione di tante persone impegnate nel sociale, incominciano ad arrivare le voci (ancora sommesse) di alcuni che, nel frastagliato campo della Sinistra, stanno pensando a nomi, liste, alleanze per arrivare a maggio con le carte in regola per contendere alla Lega e ai suoi alleati il futuro governo della città. Va bene, siamo ancora all’inizio, la campagna elettorale non è ancora incominciata, ma posso confessare tutta la mia delusione?
Pare che il problema, l’unico problema – fuori e dentro il Pd – sia individuare un ‘nome buono’, il personaggio ‘attrattivo’, il capolista potenzialmente vincente. Anche sui media locali si rincorrono nomi e profili, candidature offerte o rifiutate. Come se tutti avessimo introiettato la medesima filosofia: che in politica si vince solo con ‘un uomo solo al comando’.
Non sento invece parlare, discutere, proporre contenuti concreti, un cambio di passo nelle scelte politiche locali, una idea nuova (di Sinistra) per la Ferrara futura. Come se per vincere bastasse la strenua difesa dell’esistente e lo spauracchio di una Ferrara in mano alla Destra. Invece, oggi più che mai, “far quadrato” attorno a un leader non basterà. Dentro quel “quadrato” bisogna metterci qualcosa.

Ma vogliamo parlare del candidato possibile per l’area progressista? Non mi va di partecipare al giochino del totonomi, registro però anche in questo campo il conservatorismo, una specie di senescenza della classe politica locale. Di tutti i nomi proposti o ventilati, politici o esterni, nessuno si è sognato di fare il nome di una donna.
Servirà allora un ripasso di storia patria. Andando indietro negli anni – nei decenni, anzi, nei secoli – Ferrara ha avuto solo una volta un Primo Cittadino donna. Se volete levarvi una curiosità, cercate “Sindaci di Ferrara” su Wikipedia e date un’occhiata a quel lunghissimo elenco di personaggi illustri: da un certo Guido (Console di Ferrara dal 1105) a Antonio Montecatini (Giudice dei Savi 1598), da Giovanni Roverella (Confaloniere 1831) a Anton Francesco Trotti (Sindaco dal 1867 al 1870), da Michele Rinaldi (Regio Commissario 1919-20) a Renzo Ravenna, Podestà di Ferrara dal 1926 e allontanato nel 1938 dopo le ignobili leggi razziali.
Nel dopoguerra la lista degli uomini reggitori della città continua, da Giovanni Buzzoni (1946-48) fino al sindaco in carica Tiziano Tagliani. Con un’unica eccezione, e non di poco conto, perché Luisa Gallotti Balboni, sindaca dal 1950 al 1958, antifascista e in seguito Senatrice della Repubblica, non fu solo l’unica sindaco donna di Ferrara, ma anche la prima sindaca di una città capoluogo di provincia in tutta Italia.
Se per vincere la Destra non serve sostenere le vecchie politiche ma occorre pensare e proporre il nuovo, cominciare da una candidata sindaca sarebbe finalmente un buon segno.

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DENTRO E FUORI: LA CITTA’ E IL SUO CARCERE
Il Galeorto di Ferrara

di Domenico Bedin

L’ottava porta si chiude dietro di me ed entro nell’area pedagogica dove durante l’anno scolastico si tengono le lezioni delle varie scuole. C’è un assembramento di detenuti inconsueto. Cerco di capire e riconosco gli alunni della scuola di agraria. Mi vengono incontro eccitati: stanno sostenendo l’esame orale per la maturità. Sono sorridenti, tutto sta andando bene. Mi chiamano dall’aula d’esame perché il commissario vuole congratularsi per l’attività dell’orto che ha permesso agli studenti di esercitarsi praticamente tutti i giorni. Gli insegnanti si congratulano per l’impegno e i buoni risultati ottenuti dai detenuti esaminati. Mi chiedono di parlare del “famoso” Galeorto.
L’idea è nata da una richiesta degli stessi detenuti che già in passato coltivavano un pezzo di terra all’interno del grande muro di cinta. Ma mancava l’acqua e il terreno era catalogato come area di riunione per le emergenze e perciò si smise di seminarlo.
Tre anni fa invece la direzione ha individuato un nuovo grande appezzamento di circa 6.000 mq. Un gruppo di amici ha offerto la possibilità di scavare un pozzo artesiano. E’ nata così l’idea del Galeorto. La Casa Circondariale ci mette il terreno, l’Associazione di volontariato sociale Viale K lo prende in comodato e realizza il pozzo e dissoda il terreno; procura le piantine, i semi, i concimi eccetera; e soprattutto associa i detenuti che desiderano coltivare l’orto. I detenuti-ortolani vengono assicurati come soci volontari di Viale K e producono gratuitamente gli ortaggi da mettere a disposizione delle varie sezioni del carcere.

Piantine, erbe infestanti e cappelli di paglia
Così una quindicina di ortolani dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15 può dedicarsi a turno alla zappa. Subito c’è la richiesta di un secondo orto per una sezione speciale. Si parte subito e in poco tempo si ottiene una striscia coltivata con ordine e una buona professionalità. Gli ortolani-studenti scendono con il professore di agraria che indica loro metodologie e distinguono una parte di terreno che diventa sperimentale. Assisto a discussioni interessantissime sui diversi prodotti da seminare o trapiantare, sull’orientamento dei filari riguardo al sole. E sull’uso più corretto dell’acqua e dei concimi, sulle malattie e gli insetti o le erbe infestanti… procuro dei cappelli di paglia perché non si prendano un’insolazione.
Nascono contrasti tra i detenuti Rumeni e Magrebini circa le date della semina e della raccolta, gli uni vogliono le verze e i cavoli gli altri le spezie i peperoncini. I nostri meridionali supportati dagli agenti preferiscono le cime di rapa. Io opto per le fragole. Dalle discussioni nasce la consapevolezza che in ogni angolo del pianeta ci sono usi e tradizioni e tempi diversi per coltivare l’orto legati ai climi e ai gusti di ciascuno.
Alla fine ci troviamo tutti d’accordo sul piantare quello che una ditta di piante da orto ci regala! Gli insegnanti poi stabiliscono i tempi e gli usi legati al nostro territorio. Comunque è assodato che le verze, le rape e i cavoli li mangiano quelli del nordest Europa. Meno male che le patate e i pomodori mettono tutti d’accordo. L’anno passato è avvenuto un fatto strano. A grande richiesta ho procurato semi di peperoncino calabrese (anche questo amato dagli agenti). Seminati con grande attesa sono spuntate piantine strane che nessuno riconosceva, ciascuno faceva pronostici e riconosceva un tipo particolare di peperoncino. Un giorno mi chiamano e troviamo una campetto fiorito tra le zucche e le fragole; non erano peperoni ma fiori coloratissimi. Tutti hanno convenuto che ci stavano proprio bene e che i fiori sono molto belli anche in carcere.

Il Galeorto si espande, evade, e arrivano le Zucche Violine
Ma il Galeorto si estende anche oltre il muro grande di cinta. E’ avvenuto proprio così. Una mattina passeggiavo col Direttore del carcere nel corridoio che dà verso l’esterno e stavamo valutando come estendere anche ai detenuti ‘semiliberi’ (o con l’art 21) che stanno nella parte esterna della Casa Circondariale una attività che li coinvolgesse e facesse loro guadagnare qualcosa. Alcuni detenuti ‘lavoranti’ stavano sfalciando il grande prato che come un anello circonda tutto il carcere. “ Facciamone un orto grande. Saranno almeno tre ettari”. Il Direttore mi ascolta, tace e sorride, poi con aria convinta mi dice di fare domanda al Prap. Nasce così la coltivazione di Zucche Violine nel terreno “inercinta” : tra la rete di confine del carcere e il l’ultimo grande muro. La Zucca Violina, sia detto per inciso, serve ai ferraresi per fare i famosi Cappellacci di Zucca. Gli Estensi ne andavano ghiotti e ne erano fieri.

Dentro e (appena) fuori: due orti per avviarsi verso una nuova vita
I lavori di dissodamento, di allacciamento al canale di irrigazione, di ‘paciamatura’ e trapianto di 3.000 piantine di zucca ci fa arrivare praticamente a Luglio. I più ottimisti ci dicono che sarà un fallimento: – troppo tardi e troppo caldo quest’anno! Ma le piantine “si tengono” e, anche se un po’ in ritardo, a settembre riusciamo a vendere zucche a mezza città. Le zucche del Galeorto. Ci hanno lavorato tre detenuti che ormai hanno finito di scontare la pena. Hanno guadagnato anche qualche soldo tramite un tirocinio formativo e uno di loro, rimasto senza famiglia, ormai vive presso una delle comunità gestite dalla associazione Viale K. Logicamente fa l’ortolano.
Per sostenere il Galeorto ho fatto il trattorista riscoprendo la mia ancestrale vocazione contadina, ma immediatamente, si sono aggiunti alcuni volontari che danno continuità a questo progetto che sta diventando sempre più strutturato.
All’interno del carcere si coltiva gratuitamente per stare impegnati e fornire di verdura fresca un po’ tutti i detenuti che lo desiderano, all’esterno invece si lavora per dare una possibilità economica e mettere alla prova quelle persone che si preparano ad uscire a breve dal carcere.
L’associazione Viale K svolge ormai da venti anni un lavoro di accoglienza dei detenuti che usufruiscono di misure alternative al carcere e spesso li ospita anche dopo la scarcerazione. Si tratta di un lavoro fatto di relazioni che si intessono partendo da colloqui e attività che si svolgono prima di tutto in carcere e che poi si estendono nelle varie comunità di accoglienza che Viale K gestisce nel territorio ferrarese.
La maggior parte di loro, dopo un periodo di permanenza in comunità, trova la propria strada e se ne va. Alcuni invece rimangono, impegnandosi nelle varie attività dell’associazione, secondo il bisogno e le capacità di ciascuno. Alcune volte qualcuno ricade nei vecchi errori, o più semplicemente torna in carcere per scontare reati vecchi, ma la relazione ed il contatto rimangono. Ci si occupa soprattutto dei più giovani senza possibilità famigliari.

Invece di andare avanti, si sta tornando indietro
Speravamo che queste esperienze che ormai in tante parti d’Italia si stanno realizzando in una bella collaborazione tra amministrazione carceraria e terzo settore trovassero finalmente conferma e nuovo slancio nella nuova legge che doveva regolare la materia del trattamento alternativo al carcere.
Tutto si è bloccato con il nuovo governo che purtroppo ha deciso di andare in tutt’altra direzione, verso una detenzione punitiva e chiusa. Si sta però andando contro la storia e soprattutto contro l’esperienza consolidata in questi anni che dimostra che la corresponsabilità di vari soggetti nel trattamento della pena e la valorizzazione delle misure alternative produce un grande risultato sia nel recupero, sia, di conseguenza, sul piano della sicurezza sociale.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Scrivere, verbo al femminile

di Irene Lodi

Concita e le altre. Fra le molte protagoniste di Internazionale, uno spazio particolare va dedicato alle scrittrici che hanno incontrato il pubblico nella tre giorni ferrarese. Venerdì pomeriggio gli appuntamenti di letteratura al femminile, introdotti dalla psicanalista Chiara Baratelli, sono stati inaugurati da Concita de Gregorio, che ha presentato in Sala Estense “Chi sono io?”. Il filtro della macchina fotografica è stato parte integrante del lavoro della scrittrice, che ha raccontato proprio insieme a una delle fotografe, Silvia Camporesi, come mai si siano concentrate sull’autoritratto e sull’immagine. “Non sentirsi mai a proprio agio – ha detto De Gregorio – è una condizione che ti mantiene vigile. Ha dei vantaggi: non ti fa mai abituare o distrarre, ti fa mettere a fuoco meglio quello che vedi, ti fa sentire dentro e fuori dalle situazioni”. L’appartenenza e la non appartenenza alle cose, alle persone, dunque, è stato il motore del libro, che è una raccolta di storie e una riflessione sullo sguardo: quello degli altri e il proprio. Perché osservarsi ed essere viste, per le donne è una questione cruciale. Una autoanalisi, quella femminile, che parte spesso dai momenti di fragilità: “Quando siamo felici non ci facciamo caso – ha concluso la scrittrice – quando c’è qualcosa che non va, invece, pesa molto. Quando tutto è al suo posto, un momento che dura poco, non si nota: l’ordine però è un nostro tentativo di controllare ciò che succede, quando la regola è il disordine”. Caos e cosmos si contrappongono e si fondono, in un gioco di riflessi che consente di scrutarsi dentro.

Gli spunti narrativi sono continuati nella presentazione de “Le assaggiatrici”, vincitore del premio Campiello, di Rosella Postorino. “Gli esseri umani hanno questa ostinata tensione per la sopravvivenza – ha affermato l’autrice – è la loro più grande risorsa, ma è allo stesso tempo anche una condanna, e il male nasce da questo: per sopravvivere siamo disposti a qualunque compromesso, siamo disposti a giustificare qualunque azione per la volontà di sopravvivere”. Il suo è un libro di relazioni e di persone “normali”, e la sua è una penna che intriga grazie alla schiettezza:”Volevo raccontare una persona qualsiasi, una che non ha scelto di diventare nazista, non aveva neanche l’età per votare quando Hitler è salito al potere. Rosa si trova in quella situazione, non ne è causa”. Dalla vita di Rosa Sauer parte una riflessione politica: “Chiunque cresca in un sistema oppressivo, che sia un sistema totalitario, un clan mafioso, una famiglia tirannica, è vittima di quel regime, anche se ne diventa complice”, ha detto Postorino, “Questi regimi non solo hanno la colpa di coercire, ma anche di togliere l’innocenza a chi ne è parte, rendendolo sempre più parte del sistema”. Le assaggiatrici è anche un libro intrinsecamente legato al cibo, che diventa metafora del ciclo vitale, un ciclo continuo, che non si ferma davanti a niente: “La vitalità del mondo che continua nonostante tutto può contagiarci, ma ci fa sentire tutta la nostra piccolezza, tutta la nostra miseria – ha concluso – Le persone continuano anche durante l’orrore della guerra, anche nel dolore, a stringere amicizie, ad avere voglia di ridere, a fare l’amore, a essere umani”.

Un altro libro che torna a parlare di amore è quello di Daria Bignardi, Storia della mia ansia, presentato sabato pomeriggio in Sala Estense. “L’amore è una cosa semplice e banale – ha esordito l’autrice ferrarese – ma non così decodificata. Viene relegato, soprattutto in letteratura contemporanea, in spazi marginali, è difficile che si stia su temi semplici, come quello della pienezza e della totalità dell’incontro. Il tema mi interessava: è impossibile l’incontro autentico e assoluto, ma nonostante questo continuiamo a innamorarci e a parlare d’amore”. Sono poche le persone in grado di accettarne la relatività, secondo Bignardi, mentre per tutto il resto riusciamo a scendere a patti con i compromessi nella nostra lettura del mondo. Anche il tema della corporeità e della concretezza si ritrova in questo romanzo: “In tutto ciò che scrivo ci sono vita, morte, incidenti, malattie, tutto quanto riguarda il corpo – ha concluso la scrittrice – perché questi momenti rappresentano la realtà che irrompe nel quotidiano, il senso implacabile e devastante della realtà, ma a volte anche la pienezza della realtà, una sensazione che a volte perdiamo”.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Chi sono io? L’identità ai tempi dei social network

di Laura Fabbri (allieva del liceo classico Ariosto, Ferrara)
“Non mi vedo come mi vedono gli altri”. Dinanzi al pubblico della sala Estense, la scrittrice Concita De Gregorio, rivela la sua difficoltà nel farsi fotografare: “Avverto un senso di estraneità e disagio che mi fa sentire fuori posto”. Ma questa “non appartenenza” a suo avviso sottintende in realtà una libertà, un’indipendenza. L’occasione per questa confessioni in pubblico è offerta dal Festival di Internazionale. A far da contraltare, la psicanalista Chiara Baratelli – coadiuvata da alcune studentesse del Liceo Roiti – ha gestito un interessante dibattito sull’importanza delle immagini come fonte identitaria, del quale è stata coprotagonista la fotografa Silvia Camporesi, che incalza: “La fotografia è una una terapia, uno strumento di indagine volto a cogliere ed interpretare l’identità personale, vincere il disagio e accettare le imperfezioni; inoltre evidenzia come, in prima persona, sia riuscita a vincere le sue debolezze grazie ai ruoli interpretati nei suoi autoritratti”.
Anche dal pubblico arrivano sollecitazioni: “Che cos’ha il dolore che non ha la gioia?”, domanda una delle studentesse, spiazzando la scrittrice… “Tutte le forme d’arte nascono dal dolore”, risponde direttamente lei, dopo un attimo di riflessione; “quando si è felici non lo si nota, ma quando c’è qualcosa che non è in ordine ci si fa subito caso: “Lo stato di equilibro è il disordine. Quando gli uomini cercano di dare una parvenza di logica alla vita, il dolore si impone più forte”.
Un altro tema affrontato è quello dei social network e come questi abbiano modificato il ruolo della fotografia nella società. L’autrice sottolinea come questi abbiano fatto perdere importanza all’esperienza: “Prima di essere ricordato un momento va vissuto, non si può vivere per vedere cosa si conserverà di questo momento”. Inoltre, sottolinea, spesso i ‘social’ non sono altro che una storpiatura della realtà, una finzione che ha come unico scopo quello di suscitare invidia nell’osservatore, una pura esibizione dove “non è più permesso avere dei difetti”.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Vite in fondo al mare

di Ines Ammirati (allieva del liceo classico Ariosto, Ferrara)

“N.N 2 uomini più o meno 18 anni. Annegati. N.N 9 uomini. Annegati”. L’elenco dei nomi continua senza sosta, come rintocchi riecheggiano nella piazza della Cattedrale negli albori di questa prima giornata di apertura del Festival di Internazionale. “N.N uomo. N.N uomo, più o meno 25 anni. Congelato”…
Ogni anno migliaia di persone intraprendono un viaggio verso l’Europa con l’obiettivo di lasciarsi alle spalle gli orrori di una vita che non li soddisfa, alla ricerca di un posto dove ricominciare, un luogo da poter chiamare di nuovo casa. La maggioranza non sa che non raggiungeranno mai una meta nel loro peregrinare: secondo gli ultimi dati UNCHR, dei 100.000 migranti che partono ogni anno tra i 3000 e i 5000 muoiono o sono dispersi lungo la strada, altri rimangono bloccati per anni in un Paese che non fornisce loro i permessi per terminare il loro viaggio.

A molti questi numeri sembreranno solo una serie di dati statistici senza valore; non vedono che ad ogni cifra corrisponde il volto di un uomo, di una donna o di un bambino senza nome, il cui valore di essere umano unico ed inimitabile è stato dimenticato.
Gipi, pseudonimo di Gian Alfonso Pacinotti, fumettista, illustratore e regista italiano, è la prova vivente che non tutti dimenticano.

Nel corso della lettura ininterrotta dell’elenco, in continuo aggiornamento, compilato dall’ong olandese “United for intercultural action”, il fumettista ha infatti dato voce alle trentamila persone morte dal 1993 a oggi in viaggio verso l’Europa, dimostrando così al folto pubblico riunito di fronte alla Cattedrale, che, anche dall’alto di un piccolo palco in mezzo alla folla, un solo uomo può fare la differenza, ricordando che oltre i numeri ci sono persone con sogni ed aspirazioni comuni a tutti noi, la cui memoria non può, anzi, non merita di essere dimenticata.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
“La globalizzazione è il nuovo colonialismo”

di Maria Guandalini e Federico Izzi (allievi del liceo classico Ariosto, Ferrara)

Suad Amiry scrittrice e architetto palestinese è stata ospite del programma radiofonico di Radio3Mondo, Il giro del mondo in sessanta minuti, condotto dalla giornalista Anna Maria Giordano e andato in onda dal cortile del castello Estense nell’ambito del festival di Internazionale. L’incontro Palestina sconfinata, moderato dall’arabista e traduttrice Elisabetta Bartuli, ha visto coprotagonisti gli scrittori Atef Abu Seyf ed Elias Sanbar, l’autrice Selma Dabbagh e la fotografa Rula Halawani. La Amiry, attivista per i diritti palestinesi, ha introdotto brevemente il conflitto arabo-israeliano, oggetto delle sue riflessioni e dei suoi libri (tra gli altri ricordiamo Sharon e mia suocera. Diari di guerra da Ramallah, Palestina, Feltrinelli 2003). Poi ha preso la parola Marta Dillon, attivista argentina e parte attiva del movimento “Ni una menos”, che ha brevemente illustrato la lotta sua e di molte altre donne sudamericane, per la parità dei diritti e contro la “violencia machista” (violenza maschile), concentrandosi particolarmente sulla campagna per la legalizzazione dell’aborto in Argentina.
Anna Maria Giordano ha poi introdotto Raj Patel, scrittore britannico, di origine figiana e kenyota, il quale ha parlato della propria esperienza alla protesta anti-globalizzazione di Seattle del 1999. “La globalizzazione è il nuovo colonialismo”, ha sostenuto Patel, che si batte per la preservazione delle culture di tutto il mondo. Shamiso Mungwashu, protagonista del quarto intervento, ha sottolineato l’importanza di nuovi metodi di produzione agricola, nel rispetto del pianeta e del lavoro. Nel suo progetto vengono coinvolte molte donne zimbabwesi, che partecipano attivamente alla coltivazione biologica ed ecosostenibile proposta da Shamiso, contro l’uso e l’abuso di sostanze chimiche. L’imprenditrice ha inoltre rimarcato l’importanza del coinvolgimento delle nuove generazioni in un nuovo modo di produrre alimenti. Ha concluso il programma la riflessione della giornalista pachistana Rafia Zakaria, sulla troppo frequente stereotipizzazione attribuita da alcuni giornalisti occidentali ai musulmani e alle persone di diverse etnie. Troppo spesso l’informazione va contro il rispetto dei diritti umani, dice. Tra un ospite e l’altro due studenti del Conservatorio G. Frescobaldi di Ferrara hanno eseguito due brani per vibrafono e batteria.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
L’America in fermento tra rivolte e proteste

di Camilla Finotti, Giulia Pirazzini (allieve del liceo classico Ariosto, Ferrara)

Giornalisti americani a confronto sull’attuale fermento sociale negli Stati Uniti, all’arena del cinema al Apollo nell’ambito del festival di Internazionale. La giornalista Sarah Jaffe ha parlato degli scioperi dovuti alla crisi economica del 2008: gli insegnanti del Wisconsin e di altri Stati repubblicani hanno protestato per settimane davanti alle istituzioni per ottenere maggiore tutela sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, gli scioperi sono aumentati raggiungendo il picco massimo nel 2017. E’ poi intervenuto di Gary Younge che, avendo vissuto per 12 anni negli Stati Uniti, ha potuto vivere appieno il cambiamento politico; nell’agosto 2015 non si credeva possibile una futura vincita di Donald Trump, come non si pensava ad una uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Young definisce questi due avvenimenti “connessi”, sostenendo poi che l’attuale presidente degli Stati Uniti appare come un personaggio soggetto a molte critiche e segnalando come “ogni Nazione ha il proprio Trump”.
Si è poi parlato di “obamafilia”, ossia la voglia di un cambiamento di potere, come accadde ai tempi del presidente Bush, rispetto al quale Barack Obama apparve come un promesso ‘principe, in sintonia con i desideri e i pensieri della gente.

Dalla letteratura ai social l’onda lunga dell’odio

Basterebbe un’affermazione di Baudelaire per definire l’odio: “L’odio è un veleno prezioso più caro di quello dei Borgia; perché è fatto con il nostro sangue, la nostra salute, il nostro sonno e due terzi del nostro amore.” Perché l’odio è legato all’amore, separato da esso da un confine così labile da permettere a volte una sorta di scambio osmotico. Due sentimenti estremi, totalizzanti, dei quali l’uno può sfociare talvolta nell’altro con una deflagrazione altrettanto potente.

L’odio rappresenta il più elevato, definitivo impedimento allo sviluppo della compassione e della felicità, anche quando qualcuno si appella al ‘sano odio’ come tentativo di mediazione e disonesta giustificazione di questo sentimento di per sé nefasto. L’odio non patteggia attribuendosi aggettivi moderati perché, per definizione, è un sentimento eccessivo, morboso, catastrofico. Oggi, forse, non abbiamo il tempo di soffermarci sul valore delle relazioni umane, ma continuano a sopravvivere i sentimenti forti, intensi, struggenti, passionali che animano i gesti, i pensieri, le giornate. L’odio di oggi, sempre più spesso si mantiene in vita artificialmente sui social, alimentato e incrementato dal potere e dagli spazi che l’web garantisce, protetto dall’anonimato e dalla possibilità di esercitare la sua vigliacca funzione. Il popolo degli haters si nutre di risentimento estremo, calunnia, accusa, illazione, fakenews, attacchi gratuiti, nascosto sotto fantasiosi nickname avvelena le discussioni con discorsi e interferenze improntati all’odio violento, privo di fondamento, inquina iniziative, provoca ulteriore odio con il suo disprezzo. L’epidemia dell’odio sembra quasi rispondere a una necessità fisica, un istinto che trae soddisfazione e appagamento dall’attacco verbale, violento tanto quanto un’aggressione fisica, addentando la vittima di turno fino ad annientarla. Un odio travestito spesso da capacità dialettica, acutezza di argomentazioni e soprattutto dalla rivendicazione del diritto alla legittima libertà di espressione e manifestazione di pensiero.

In letteratura l’odio nasce spesso da profonde ferite che fomentano un atteggiamento di oscura incontrollabile avversione nei confronti di chi o cosa è responsabile della sofferenza. Questo sentimento viscerale devastante diventa epidemico perché l’odio non può che generare odio: diventa contagio, lievita, fermenta, si moltiplica come la peste bubbonica. Nel romanzo ‘Cecità’ del 1995 Jose Saramago lo descrive molto bene quando parla della diffusione generale della cecità che colpisce l’umanità, una condizione che rappresenta l’indifferenza che sfocia nell’odio tribale violento da parte di gruppi malvagi che esercitano prevaricazione e sopraffazione cruenta sui più deboli. “Secondo me non siamo diventati ciechi”, afferma la protagonista, unica indenne alla perdita della vista, “secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. La prima figura emblematica legata all’odio è Caino, personaggio biblico archetipo del fratricidio, diventato la quintessenza di tutti i mali oscuri.
Anche Dante, nel Canto VIII dell’Inferno ha riservato un posto particolare a coloro che in vita hanno coltivato e nutrito l’odio. Li troviamo immersi in una mefitica e densa palude, una bolgia chiassosa di disperati costretti a dilaniarsi fra loro. Tra loro c’è anche il fiorentino Filippo Argenti – così denominato perché soleva boriosamente ferrare il proprio cavallo con ferri d’argento – la cui famiglia pare avesse incamerato i beni di Alighieri, sottoposti a confisca. L’uomo, immerso nella brodaglia fangosa si morde e si lacera nella sua solitudine.
Pagine che trasudano odio sono quelle del romanzo ‘A sangue freddo’ (1966) di Truman Capote, l’atroce storia vera di due ragazzi che sterminano quattro membri della famiglia Clutter senza motivo evidente. Il primo romanzo-reportage nella storia della letteratura. Lo scrittore si trasferì a Holcomb, Kansas, la cittadina che era balzata agli onori di cronaca per quel fatto sanguinoso, e raccolse tracce e informazioni minuziose sull’accaduto: una famiglia di agricoltori benestanti che improvvisamente, senza precedenti e motivi, viene strappata dalla sua dorata e monotona realtà da due giovani in preda a un odio gratuito e devastante, Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock, che verranno arrestati proprio mentre Capote si trova a indagare sul luogo. ‘Passaggio in India’ (1924), di Edward Forster, racconta di un’India che deve fare i conti con la colonizzazione britannica. Siamo a di Chandrapore, dove gli indiani occupano la parte bassa della città e la Cittadella che domina è riservata agli Inglesi. Il giovane medico musulmano, dr. Aziz, si trova accusato ingiustamente di violenza nei confronti dell’inglese Miss Adela Quested, la quale sosteneva che il fatto fosse avvenuto in occasione di un’amichevole gita alle grotte di Marabar. Nel romanzo è costantemente presente il binomio Io-L’Altro in un’incessante contrapposizione e opposizione, una conflittualità palese che genera odio: Oriente/Occidente, Inghilterra/India, uomini/donne, cristiani/indù. La diversità sociale, culturale, politica e religiosa tra colonizzatori e colonizzati che vivono ciascuno nel proprio mondo chiuso, genera un clima di disprezzo che versa in un odio sordo, spesso sottaciuto ma molto vivo, ancora lontano dalla dottrina della non-violenza di Gandhi, che sarà successivamente il vero e autentico momento di riscatto per l’India e gli indiani.

Il grande scrittore russo Lev Tolsoj sosteneva che le uniche cose che legano gli uomini sono la lotta per l’esistenza e l’odio, quasi che fossero le uniche due grandi forze cosmiche capaci di tenere viva interiormente l’umanità. L’odio è la fucina della vendetta ma, come sosteneva tristemente e realisticamente Arthur Schnitzler, quando l’odio diventa vile, si mette in maschera, va in società e si fa chiamare giustizia.

Cose da matti

Scarse risorse, soluzione lontana. La rassegnata inerzia del presidente dell’Ausl, Claudio Vagnini, che traspare nelle dichiarazioni riportate da Estense.com in risposta a una denuncia dei sindacati, avrebbe certamente creato scandalo e magari fatto scattare una richiesta di sue immediate dimissioni se il riferimento fosse stato a una struttura sanitaria di servizio e accudimento destinato a cittadini “normali“.
Ma siccome è di San Bartolo che si tratta – residenza pubblica, ma destinata ai matti – ed è lì che, secondo l’esposto, circolano topi nei locali di cucina, bisce e scarafaggi in ogni anfratto, cimici e zanzare che non danno tregua ai degenti, ecco allora che tutto si smorza e s’attenua…
I matti e i cosiddetti sani sono ancora separati da un solido steccato di pregiudizi che relega i primi nel limbo della sostanziale indifferenza, nonostante decenni di battaglie per restituire la dignità di esseri umani a quelle donne e a quegli uomini che soffrono di disturbi psichici.
E poco conta che a San Bartolo, con i malati di mente, a patire gli effetti di una situazione da film dell’orrore ci siano anche medici, infermieri e personale di servizio: come si suol dire, chi sta con i matti tanto sano non è nemmeno lui. E dunque, pazienza.

Tutto questo proprio alla vigilia del ritorno nella civica pista ferrarese (ad opera del Centro teatro universitario) del prode Marco Cavallo, emblema in cartapesta della rivoluzione psichiatrica di Franco Basaglia che, esattamente quarant’anni fa, culminava con una legge – la 180 – che ha ribaltato la concezione di malattia mentale fino ad allora imperante e portato all’abbattimento dei muri fisici e culturali che cingevano i manicomi, e poi alla loro definitiva chiusura.

Oggi a Ferrara si compie un atto di vigliaccheria sociale. E paradossalmente avviene nella città che al dottor Antonio Slavich, stretto collaboratore di Basaglia, qualche anno fa conferì il premio Ippogrifo, a testimoniare la gratitudine della comunità verso “colui che seppe umanizzare i luoghi di cura e il rapporto con i malati e che in ogni circostanza, nella professione e nella vita, rifiutò le sbarre come soluzione ai problemi e si oppose ai ghetti come luoghi in cui rinchiudere il disagio e la sofferenza”.
Ma i tempi cambiano. E cambia il vento.

I profeti dello spread

Forza Italia (almeno quel che ne resta) e Partito Democratico (almeno quel che ne resta) a far fronte comune contro questo governo di irresponsabili e fascisti.
Allarmi! Allarmi! La democrazia è a rischio! Tutti sull’Aventino per protesta… anzi no!
“Anzi no… Perché mai tacer quando tutti i media stanno dalla nostra parte? Quando ogni santo giorno, da mattina a sera, televisioni, radio e giornali ospitano e pubblicano fior di esperti e opinionisti e politici e giornalisti a parlar male e a criticare ogni azione e ogni parola di questo infausto governo?
Anzi no… stiamo sul pezzo! Non sia mai che la gente – e pure quegli stupidotti (tanti) che questa assurda maggioranza l’han votata – finalmente si convinca. Si renda conto del tremendo rischio che sta correndo”.
Bene, di quale rischio stiamo parlando?
Rischio per la democrazia? Capirei che si parlasse di rischio per la democrazia se adesso fossimo in democrazia.
Ma è vera democrazia un paese in cui il governo non possa decidere in piena autonomia la propria politica economica e sociale perché posto sotto ricatto dai mercati finanziari internazionali?
Rischio di fallimento del paese?
Ma come può l’Italia fallire se tuttora siamo uno dei paesi più ricchi al mondo. Un paese in cui, nonostante tutto, il risparmio privato (contrariamente rispetto all’estero) è uno dei maggiori al mondo.
E allora, con queste premesse, perché l’Italia è finita nell’occhio del ciclone? Perché è diventata bersaglio dell’Unione Europea? Perché lo spread sale minacciosamente?
Ma poi, cosa diavolo è questo spread, e perché le agenzie di rating ci stanno prendendo di mira?

Esponenti illustri di Forza Italia parlano di rischio per la democrazia e di deriva sovranista. Intanto il buon Silvio va a trovare il suo caro amico russo Vladimir, che proprio democratico non è, e un po’ sovranista sì.
Quelli del Pd, renziani in testa, si augurano che questo governo mandi in malora il paese. Se lo augurano per rinfacciarlo poi al popolo ignorante e beduino, colpevole di non aver capito nulla. Se sapessero, quelli del Pd, che sono proprio loro a non aver capito nulla della gente.

Il fatto, a me pare, è che in questo marasma generale nessuno voglia sprecarsi per cercare di capirci qualcosa. È più facile fare il tifo. Prendere per buono ciò che ci fa più comodo.
Lo fanno i partiti, i politici, lo fanno le persone. Ma la cosa più grave è che lo fanno pure i giornalisti. Non dubito che molti di loro siano in buona fede, questo però non aiuta, anzi.

Tutti noi guardiamo sempre la tv e qualche volta leggiamo i giornali. Ascoltiamo con attenzione ciò che ci dicono e leggiamo ciò che scrivono. Adesso cerchiamo di ripassare le informazioni che ci arrivano e con esse proviamo a immaginare questa scena: un tizio che arringa la folla sul pericolo rappresentato da barboni e mendicanti, mentre tutto intorno la gente intenta ad ascoltare non s’accorge che distinti signori in doppio petto e scarpe firmate stanno sfilando a ognuno dei presenti il portafogli. Il paradosso è che anche quelli che se ne accorgono fanno finta di niente perché indotti a credere che, se i soldi te li porta via uno che veste elegante, certamente dietro ci deve essere un motivo ragionevole e inevitabile.
Ebbene, se i signori distinti ed eleganti fossero le banche?

Chiediamoci anche il perché, nei vari dibattiti che tutti i giorni infiammano i talk show televisivi, esperti economisti, giuristi, sociologi, e chi più ne ha più ne metta, che dissertano e pontificano su economia e finanza, non pongano mai in discussione i criteri di calcolo dei tassi d’interesse sul debito, men che meno i meccanismi reali che stanno dietro il fenomeno dello spread. Ovvero non si chiedano mai quale sia la sua vera ragion d’essere, o perché debbano esistere le agenzie di rating.
Ciò che costantemente si sente sono continue discussioni sullo spauracchio del suo innalzamento e delle conseguenze che questo comporterebbe sulla gente. Terrorismo istituzionalizzato.
Si dà per scontato che il meccanismo dello spread sia lecito e inevitabile. Che non sia invece frutto di speculazioni della finanza. Che sia normale che queste famose agenzie di rating, col potere di declassare l’economia di un intero paese e, guarda caso, appartenenti a grandi multinazionali finanziarie private, abbiano di fatto il diritto di influenzare le decisioni politiche di un governo.

Le parole sovranista e populista sono diventate bestemmie da scandire in ogni dibattito. Si pensa ai vari Le Pen, Orban, fino al Salvini nostrano. Disprezzabili esempi di politiche di chiusura e isolamento, di tendenze antidemocratiche, di ideologie razziste? Probabilmente sì, o forse non esattamente. Questi tizi non stanno simpatici neanche a chi scrive, ma dobbiamo seriamente preoccuparci? Davvero crediamo all’approssimarsi di nuovi Hitler o Mussolini? Davvero siamo così condizionati da decenni di asservimento al modello corrente da non vedere che già da tempo non godiamo più delle nostre libertà?

Ma concettualmente cosa significa il tanto temuto sovranismo? Magari riappropriarsi della sovranità del proprio paese, del proprio potere decisionale. Senza rendere conto a enti stranieri privati che tutto hanno a cuore fuorché il benessere del cittadino.
E cosa significa il tanto vituperato populismo? Magari rivendicare una politica più attenta al suo popolo, alla sua gente, quindi alla risoluzione dei suoi problemi e dei suoi bisogni. E magari non ossequiosa di banche estere e nemmeno sotto ricatto di speculatori finanziari stranieri. Cosa c’è di così sbagliato in tutto ciò?
Dall’Enciclopedia Treccani.
“Sovranismo: posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovranazionali di concertazione”.
“Populismo: movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo. Si proponeva di raggiungere, attraverso l’attività di propaganda e proselitismo svolta dagli intellettuali presso il popolo e con una diretta azione rivoluzionaria, un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate”.
Tutto questo merita davvero lo sdegno e l’insofferenza del mondo intellettuale? Non sarebbe forse meglio capirne le ragioni profonde senza preconcetti?

Nasce il sospetto che certa intellighenzia, quella con il pass d’accesso ai principali media istituzionali, si sia definitivamente appiattita all’establishment. Che il modello dominante e ormai straripante, quello dell’economia finanziaria globale, sia considerato sempre più un totem inattaccabile e imprescindibile. Che quei pochi pensatori – di fatto relegati ai margini, se non addirittura esclusi da ogni dibattito pubblico – che osano metterlo in discussione siano soltanto poveri utopisti, sognatori patetici, come tanti Don Chisciotte, o magari pericolosi sobillatori anti-sistema alla Guy Fawkes. Tutto fuorché gente con cui confrontarsi e discutere.
Così assistiamo come degli intrusi – e con un misto di fastidio e apprensione – alle performance dei primi, quelli pro-sistema, che dialogano comodamente tra loro dalle poltrone dei salotti televisivi, amabilmente accolti da giornalisti compiacenti, tutti intenti a mettere a proprio agio i loro ospiti.
Intanto, il solco tra questi autorevoli esperti, convinti portavoce del modello dominante, e la gente semplice diventa sempre più profondo e incolmabile.

Paragonano l’Italia alla Grecia, senza considerare il fatto che l’Italia è un paese ricco, mentre la Grecia era ed è rimasto un paese povero. Lo fanno senza denunciare l’assoluta ingiustizia subita dai greci, depredati da un giorno all’altro dei loro risparmi per ingrassare le casse già grasse di banche estere ‘amiche’ e dei loro azionisti (soltanto speculatori spacciati per benefattori).
Ci mettono in guardia da catastrofi imminenti, ci minacciano e ci impauriscono riempendosi la bocca con lo spettro di uno spread alle stelle e di una condanna senza appello delle agenzie di rating. Lo fanno con aria saccente e si sognano bene dal mettere in discussione l’eticità e la legittimità di codesto spread e di codeste agenzie. Lo fanno senza chiedersi assolutamente se questi meccanismi voluti e generati da una finanza speculativa in netto contrasto coi bisogni del cittadino non siano invece una forma di vera e propria aggressione all’autonomia decisionale di un paese. Tutto ciò non fa onore a questa genìa d’intellettuali, politici e giornalisti trasformati in sibille dell’Apocalisse, in profeti dello spread.

Per capirci qualcosa:
Di seguito gli approfondimenti di Guido Grossi (giurista esperto di economia e finanza), Marco Bersani (filosofo esperto di dinamiche sociali), Nando Ioppolo (avvocato ed economista).

Il furto del debito pubblico
Perché non ti fanno ripagare il debito
Cos’è lo spread?

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
La destra: donna e sovrana

Quando si parla di estrema destra spesso ci vengono in mente immagini di ragazzi ben piazzati, con capelli rasati e facce seriose. Questo è lo stereotipo che ci ha consegnato il Secolo breve. Il nuovo millennio o, per meglio dire, gli ultimi anni ci hanno fatto conoscere, invece, un lato diverso dei movimenti reazionari, sovranisti e populisti. L’immagine che sta emergendo oggi nella destra è quella di donne emancipate, divorziate, omosessuali, sicure di sé, che portano avanti dei valori legati a domande alle quali il femminismo progressista non ha saputo dare risposte e che, a ben vedere, come ha affermato Ida Dominijanni durante il festival di Internazionale 2018 a Ferrara, si scontrano con la misogenia intrinseca alla sinistra.

  • Dalle ‘donne’ di Berlusconi all’ascesa delle leader

I quattro governi Berlusconi che si sono avuti in Italia dal 1994 al 2011 hanno segnato sicuramente dei cambiamenti radicali da quella che era la politica della prima Repubblica a quella che sarà la seconda. Tra questi sicuramente il ruolo della donna e l’immagine che si dà di essa all’interno della politica cambia radicalmente nel tempo, unitamente a una ascesa del femminile all’interno di tutti i compartimenti della società. Il modus operandi dell’ex premier però è stato spesso criticato perché accusato di non badare alla capacità, ma all’aspetto fisico della candidata. Questo si innesta in un più ampio cambiamento della figura della donna sempre attuato da Berlusconi sin dagli anni Ottanta con l’avvento della tv commerciale.

Comunque sia, ecco fare la propria comparsa tra le file di Forza Italia e PdL varie donne che riescono a ritagliarsi ruoli di prestigio. Potremmo citare: Stefania Prestigiacomo, Ministro in ben tre governi Berlusconi; Mariastella Gelmini, Ministro dell’Istruzione e firmataria di una legge sulla riforma universitaria molto criticata nell’ambiente accademico; Mara Carfagna, Ministro per le Pari Oppurtunità, prima show-girl, modella e Miss Cinema 1997; fino alla più discussa Nicole Minetti. Su quest’ultima si è scritto moltissimo sul come sia arrivata in politica e sul coinvolgimento nel caso Ruby, ma una cosa è certa: la sua candidatura alle regionali del 2010 con un posto ‘blindato’, fu fortemente voluta dal cavaliere.

Tra tutte le donne dei governi Berlusconi, però, una solo si innesta nel discorso di “donne sovrane” ed è riuscita a emergere e a diventare segretaria di Fratelli d’Italia. E’ Giorgia Meloni. Ministro del quarto governo Berlusconi a soli 31 anni, oggi è la leader di un partito che si richiama ai valori della ‘fiamma tricolore’, tra le cui file è cresciuta. Incarna in sé i valori della donna moderna sovranista: difende le conquiste femminili avute nei decenni passati da un’”islamizzazione” che le metterebbe a rischio, porta avanti battaglie sulla famiglia tradizionale, pur non essendo sposata e avendo una figlia. Proprio l’essere oramai un capo carismatico le consente da un lato di partecipare ai Family day e attaccare un ‘complotto’ che vorrebbe l’imposizione della teoria gender, ma anche di difendere gli stessi omosessuali, le donne e le libertà occidentali proprio da un ‘nemico’ che la sinistra ed i progressisti non riescono a gestire secondo le femministe di destra: l’islam e la sua deriva radicale.

  • Paese che vai, sovrana che trovi

Come Giorgia Meloni in Italia, così anche nel resto d’Europa l’ondata del femminismo più o meno ‘nero’ da anni ha preso piede. Ecco solo alcuni dei nomi più famosi delle donne al potere di movimenti.

Marine Le Pen e il nuovo nazionalismo francese
Ha preso il partito del padre e lo ha quasi portato alla guida del paese. Ha divorziato per ben due volte, ha un compagno e tre figli. Il suo carisma le ha fatto guadagnare fiducia soprattutto nell’elettorato giovanile della società francese. Pur essendo alla guida di un partito reazionario, non ha mai presenziato a una manifestazione anti-Lgbt, proprio perché tra la popolazione giovanile i matrimoni tra coppie dello stesso sesso non vengono visti come un problema. Anche lei ha incarnato su di sé i valori del nuovo femminismo che nella difesa delle libertà acquisite si lega alle ideologie di destra contro il ‘nemico’ islamico.

Beata Szydło e la destra cattolica polacca
Lei è arrivata a essere Primo Ministro in Polonia, con un governo conservatore e di stampo cattolico alla guida del partito Prawo i Sprawiedliwość. Le battaglie di questa donna l’hanno portata a essere tra i firmatari della legge antiabortista da molti definita come un grandissimo passo indietro nei diritti delle donne che prevede il divieto di interrompere la gravidanza anche nel caso di gravi malformazioni del feto.

Alice Weidel, l’omosessuale filo-nazista
Dire che il suo è un caso più unico che raro sarebbe comunque poco per descrivere la posizione della leader dell’Afd, partito dichiaratamente filo-nazista, che tanto sta facendo discutere in Germania. Secondo le sue parole è di destra proprio perché omosessuale e non “nonostante”. Si è espressa in riferimento alle libertà e, oltre ad affermare che l’Afd difenderebbe i diritti degli omosessuali, accusa i partiti tradizionali di essere troppo morbidi e vieterebbe volentieri il burka perché “simbolo sessista di un’apartheid tra donne e uomini”.

Theresa May e i problemi anglosassoni
A lei è stato affidato l’arduo e durissimo compito di traghettare la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea. La Brexit le sta costando il suo posto di Primo Ministro a causa delle spaccature interne ai Tory, ma di sicuro rimane un esempio per le donne conservatrici inglesi e non solo.

Anke Van dermeersch e il belgio sovranista
È tra i leader del partito Vlaams Belang, coloro che difendono i fiamminghi all’interno dello stato belga. Il suo partito in passato è stato tacciato di essere razzista e solo ultimamente ha provveduto a cambiare parti del suo programma, passando da partito di destra radicale a una destra conservatrice. Senatrice, ex modella, di sicuro in lei si possono rivedere le donne che guardano con fascino alla destra più radicale e meno avvezza alle discussioni.

È evidente come il trait d’union che collega queste donne sia, come già detto, l’essere diventate il punto di riferimento di un movimento che non riesce a riconoscersi più in chi – sbagliando – ha interpretato il multiculturalismo come solo il parlare di diritti, senza interrogarsi sulle sfaccettature più profonde. Soprattutto per quanto riguarda quegli aspetti religiosi dell’Islam più controversi, che spesso il progressismo fa finta di non vedere in nome di quel relativismo culturale che troppo spesso si trasforma in giustificazione a oltranza verso ogni tipo di comportamento, voltandosi altrove di fronte ai problemi e alle domande più scomode delle femministe del ventunesimo secolo. La sfida è aperta e una riflessione ulteriore bisogna intraprenderla guardando nuovamente all’Italia: oltre ad avere l’unico segretario di partito donna tra i partiti in Parlamento, la destra è stata la prima ad aver portato una persona di colore nel senato italiano. Qualche domanda i progressisti dovrebbero farsela.

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Il ponte Morandi bene comune

di Roberta Trucco

A due mesi dal crollo del ponte Morandi Genova scenderà in piazza. La manifestazione si terrà il 13 ottobre alle ore 17 in piazza della Vittoria. È un’iniziativa che nasce dal basso, dai cittadini e da loro è stata chiamata ‘Riprendiamoci Genova’ (clicca QUI per scaricare la locandina dell’iniziativa).
Gli organizzatori, Camilla Ponzano di Riprendiamoci Genova, Andrea Acquarone di Che l’inse! e Filippo Biolé di EmerGente, scrivono nel manifesto: “Presi dalla vita di tutti i giorni, dai nostri fatti privati, ci siamo dimenticati di essere una città, una comunità, un popolo, che può e deve far sentire la sua voce. E pretendere di essere ascoltato […] No bandiere, no partiti, no grida e tifo da stadio, bensì: cittadini responsabili, impegno, idee, partecipazione, proposte e dialogo, sotto l’unica bandiera che ci unisce tutte/i, quella di Genova”.
Parole che mi risuonano dentro e che mi spingono a condividere ora quanto scrissi a pochi giorni dal crollo, probabilmente per elaborare il lutto. Abbiamo bisogno di noi. Non solo il ponte va ricostruito ma anche il dialogo tra diversi e all’interno delle comunità.

Agosto 2018
Sono partita per le vacanze nella dolorosa giornata del crollo del Ponte Morandi, partita con il cuore pesante per la tragedia annunciata che si è portata via tante vite giovani. Ero passata su quel maledetto ponte il giorno prima e, come molti altri genovesi, mi sento una sopravvissuta. Ho provato per giorni un misto di rabbia e di senso di colpa. Ogni volta che lo attraversavo ero inquieta. Quell’inquietudine oggi so che era autentica, non era il frutto di una fantasia un po’ paranoica, ma realmente un campanello d’allarme a cui avrei dovuto dare ascolto. Era il buon senso che bussava alla porta.
Sapevamo tutti delle continue manutenzioni. Da almeno un ventennio si parlava dell’aumento del traffico e del fatto che quel ponte non era stato progettato per sostenere un carico in continuo aumento. Negli ultimi anni nelle ore di punta quel ponte era sempre intasato, una lunga coda di tir e auto che procedevano a passo d’uomo. Se capitava di essere intrappolati lì per ore, convivere con l’ansia diventava un’impresa, credo per tutti. Un caro amico francese, che è venuto con la sua famiglia a trovarci, il giorno del crollo mi ha scritto per sapere come stavamo e mi ha raccontato che sia all’andata che al ritorno, alla fine del ponte, ha scherzato con il figlio dicendo “è andata bene, siamo dall’altra parte”. Un’amica giornalista che doveva essere intervistata dalla Bbc ha chiesto a diversi amici di dirle cosa rappresentava quel ponte per noi. Per molti era la via di casa al ritorno dalle vacanze, per molti il simbolo dell’orgoglio genovese, il nostro ponte di Brooklyn. Per me quel ponte era disagio, senso d’insicurezza, che da quando sono madre sento nel profondo. Sono una donna fortunata, ho una bella famiglia, una vita agiata e certo non mi posso lamentare, ma osservo sempre di più il declino della nostra civiltà. Abbiamo costruito ponti, ma non abbiamo educato alla convivenza tra diversi, al rispetto delle differenze, a partire da quelle di genere. Abbiamo scambiato l’omologazione per eguaglianza e con il passare del tempo ci siamo trovati immersi in un sistema capitalistico che ci alleva ‘come galline da batteria’. Le relazioni, la cura reciproca, la cura dell’ambiente, abbiamo abbandonato tutto nelle mani di Istituzioni e Servizi senza un volto, ma sappiamo bene che la cura è legata indissolubilmente al volto di chi la pratica: lo impariamo alla nascita nel primo incontro con il volto materno. Ci ritroviamo in un sistema malato, che ammorba le nostre coscienze.

Quel ponte per me rappresenta le contraddizioni del nostro sistema, un ponte necessario alla nostra comunità, un ponte che unisce la città divisa in due dalla val Polcevera, che unisce la nostra regione e l’Italia alla Francia, ma che nella furia della crescita sempre più rapida non ha tenuto conto dei tempi della cura e delle relazioni, subordinandole al profitto. Noi donne e madri lo sappiamo, il bene comune non è un progetto che si può costruire a tavolino, con formule matematiche, seguendo le logiche del profitto, ma deve tenere conto delle persone, delle relazioni e delle contingenze di ogni momento della vita. È venuto il tempo di dire che abbiamo bisogno di noi e delle nostra capacità di fare comunità.